NOMI COMUNI DI MONTAGNA A cura di Bruno Tecci e Franco Tosolini Illustrazioni di Luca Pettarelli
8 – Penitente Normali parole che tra le vette assumono significati speciali. Come sella, terrazzo, camino – e molte altre – che nella prima definizione d’un dizionario hanno un certo senso, mentre in una relazione, guida o mappa di montagna ne acquistano un altro. Molto più pieno per chi le vette le ama e le frequenta. Tutto da scoprire per chi si sta avvicinando a esse. Questo processo, quando ci si trova lì nelle Terre alte, è per tutti istantaneo: da semplici vocaboli su carta i termini mutano in sensazioni ed esperienze vive. E a quel punto le altre comuni accezioni svaniscono.
Bruno Tecci, narratore per passione, comunicatore di mestiere. Istruttore sezionale del Cai di Corsico (MI). Autore di Patagonio e la Compagnia dei Randagi del Sud (Rrose Sélavy) e di Montagne da favola (Einaudi Ragazzi). Franco Tosolini, ricercatore e divulgatore storico. Istruttore regionale di alpinismo del Cai della Lombardia. È autore e coautore di saggi e libri tra cui La strategia del gatto (Eclettica). Luca Pettarelli, illustratore e allenatore di karate. Con le sue pitture a olio ha collaborato al volume Montagna (Rizzoli). Nel 2016 è stato selezionato alla Bologna Children’s Book Fair.
82 / Montagne360 / aprile 2021
on dovevo entrare lì dentro. Sapevo che era un vero e proprio labirinto, ma mi sembrava l’unica alternativa per evitare quel brutto e pericoloso pendio di sfasciumi e massi instabili, dove si dipanava una labilissima traccia di sentiero. L’unica soluzione, quindi, era quella di deviare verso l’immenso campo di penitentes che mi si schiudeva sulla destra. E poi, lo ammetto, i penitentes sono un canto delle sirene. Ti ammaliano e ti attraggono verso di loro: un invito a perdersi. Sì, perché i penitentes – o penitenti in italiano – sono delle particolari conformazioni di neve compatta, tipiche delle alte quote delle cordigliere andine. Si tratta di veri e propri pinnacoli nevosi, modellati dal vento e dal sole, che s’ergono ritti e appuntiti, l’uno di fianco all’altro, che possono ricoprire superfici anche di diverse centinaia di metri quadri. Il singolo penitente può avere un’altezza che varia da pochi centimetri a qualche metro. Ma perché si chiamano penitenti? Qui ci aiuta il vocabolario che definisce il penitente colui che si pente delle proprie colpe. In ambito religioso, sono note le processioni di penitenti incappucciati che chiedono redenzione per i loro peccati. Ebbene, i campi di penitenti andini richiamano, appunto, le figure incappucciate di queste comunità religiose. Tornando quindi a quando decisi di entrare nel campo di penitenti, ricordo che, dopo pochi metri, mi pentii (appunto) della scelta fatta. Più che un campo si trattava di una foresta. I penitenti erano più alti di me e non solo mi coprivano la visuale, ma anche mi sbarravano l’incedere, mi costringevano a fare deviazioni, ad allungare il cammino, a scavalcare le strutture più piccole. Uscire da quel labirinto fu davvero faticoso. Era il 2006 e mi trovavo nel Parco Nazionale dell’Aconcagua, la montagna che, con i suoi 6962 metri, è la più alta delle Americhe. La sua cima è stata vinta per la prima volta, nel 1896, da Mattia Zurbriggen di Macugnaga, definita una delle guide più geniali, più temerarie e più coronate da successo di tutti
N
i tempi. Era stato il primo uomo al mondo non solo a conquistare la più alta cima d’America, ma colui che, a quei tempi, aveva raggiunto la massima quota mai toccata da essere umano. Un primato da guinness. Eppure, nonostante le sue conquiste alpinistiche, benché fosse poliglotta, intelligente, impavido e meticoloso nell’organizzare le spedizioni, quantunque fosse una guida contesa e blasonata, il suo nome difficilmente compare nel gotha dell’alpinismo. Di lui si cita che ha conquistato l’Aconcagua, ma spesso si trascura il non insignificante dettaglio che lo ha fatto in solitaria. È spesso ricordato con l’epiteto di diavolo, per il suo carattere ruvido e caustico. Era temuto (e se ne compiaceva) per le sue iraconde sfuriate. Uomo ricco di contraddizioni, venne osannato dalle autorità svizzere (ove era nato) ma ignorato dal suo Paese d’adozione, l’Italia. Preferiva farsi chiamare Mattia (in italiano) e non col tedesco Matthias. Scriverà un memoriale in italiano, che però verrà edito solo in Inghilterra. Quando, oltre cento anni dopo, l’Italia vorrà riscoprirne le gesta, il suo manoscritto non si troverà più. Una vera e propria damnatio memorie. Il libro, che verrà comunque pubblicato in Italia tradotto dall’inglese, è molto piacevole. Mattia si dimostra abile anche con la penna. Scrive un libro agile, di poche pagine, descrive le sue imprese senza quella greve retorica, densa di profluvi autocelebrativi, tipica dell’ottocento. Quello che manca, però, in quel libro, è la descrizione dei penitentes. Mattia Zurbriggen, il diavolo, non poteva certo curarsi dei penitenti. Racconterà della caccia ai guanachi, dell’abbattimento di un condor, dell’avventura per la conquista dell’Aconcagua, ma non una parola sui penitenti. Morirà suicida a Ginevra, nel 1917, solo, in miseria e incline al bere. Lo aveva scritto, qualche anno prima, infatti, che l’alcol è veleno. L’ennesima contraddizione dell’impenitente Mattia Zurbriggen. Ÿ F.T