Fiabe e Leggende di Puglia, di Antonio Errico

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Antonio Errico

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1 La terra e le storie

Collana diretta da Antonio Errico e Maurizio Nocera


Capone Editore Via Provinciale Lecce – Cavallino 73100 Lecce Tel. 0832 611877 (anche fax) online: www. caponeditore. blogspot. com – www. caponeditore. it mail to: caponeeditore@libero. it – info@caponeditore. it Copyright 2013 Stampa: Tiemme, Manduria (Italia) Finito di stampare nel mese di febbraio ISBN: 978 - 88 - 8349 - 170 - 2


Antonio Errico

Fiabe e Leggende di Puglia

Capone Editore


A Lei, che mi ha sempre raccontato e mi racconta. Come se tutto quello che ha inventato fosse vero. Come se tutto quello che è vero l’avesse inventato.

Tutti ripetevano quello che lui aveva raccontato, ognuno ci metteva la sua parte di memoria e le storie crescevano, diventavano vive. Bruna Dal Lago


Introduzione In una delle fiabe di Hermann Hesse c’è un nano che racconta. Quando la sua signora gli comanda di narrarle delle storie, rimane un po’ a pensarci perché le belle storie, dice, sono come la selvaggina più nobile, restano nascoste e, alle volte, accade di dover aspettare a lungo, e fare loro la posta nei punti di passo e al margine dei boschi. Poi, dopo aver pensato, il nano comincia a raccontare, e nulla più lo ferma finché non giunge alla fine della storia, e mentre racconta, lui, alto anche meno di tre spanne, storto, rugoso, buffo, con la testa grossa, con due gobbe, con i piedi larghi e rivolti all’interno, mentre racconta, lui diventa mago e re, spegne il sole e conduce la sua padrona dentro neri boschi pieni di spavento, o sul fondo del mare azzurro e fresco, o per strade favolose e sconosciute. Racconta e trascina la sua signora dove vuole lui, e la storia scende dalla terrazza del palazzo e si adagia sui barconi dei mercanti e dai barconi al porto e sulle navi dirette alle più lontane regioni del mondo. Chi lo ascolta ha l’impressione di viaggiare in luoghi fantastici e su mari lontani e misteriosi. Perché il nano è un narratore da strabilio, che ha imparato l’arte nella Terra del Mattino, dove i narratori sono tenuti in gran conto, perché, come dice Walter Benjamin, il narratore è persona di saggezza e di consiglio. “Che se oggi questa espressione ci sembra antiquata, ciò dipende dal fatto che diminuisce la comunicabilità dell’esperienza. Per cui non abbiamo consiglio né per noi né per gli altri”. Così dice Benjamin nel saggio sull’opera di Nicola Leskov contenuto in Angelus novus. 5


Molte volte ho invidiato la padrona del nano di Hesse mentre cercavo fiabe e leggende per fare questo libro, mentre scandagliavo la memoria per rintracciare racconti ascoltati anni e anni fa, mentre me li facevo raccontare un’altra volta. Invidiavo quella sua esperienza di smarrimento nel racconto dalla quale io non mi sentivo più coinvolto. C’è un tempo anche per i racconti, come per tutto. Ci sono racconti che appartengono ad un’età e racconti che appartengono ad un’altra. Oppure: ci sono modi diversi di vivere un racconto, di leggerlo o di ascoltarlo. Spesso mi ha insidiato l’idea della rinuncia. Finché non mi è venuto in mente quel che dice Roland Barthes ne Il brusio della lingua (Einaudi, Torino, 1988, pp. 34-35). Barthes individua tre tipologie di lettura. La prima è quella di una lettura metaforica o poetica; la seconda è quella in cui si attiva una sorta di trascinamento del lettore; la terza viene sintetizzata con un’affermazione di Roger Laporte: “Una pura lettura che non faccia sorgere un’altra scrittura è per me una cosa incomprensibile”. In tale prospettiva, la lettura provoca un desiderio di scrittura, dipanando una catena di desideri, perché ogni lettura vale per la scrittura che genera, all’infinito. A quel punto ho sentito l’impulso di metterci le mani, come dice Italo Calvino nell’Introduzione alle Fiabe italiane (Einaudi, 1956). Intanto, resistendo all’impulso, leggevo le Fiabe pugliesi scelte da Giovanni Battista Bronzini e tradotte da Giuseppe Cassieri (Mondadori, Milano, 1983), le Fiabe calabresi e lucane scelte da Luigi M. Lombardi Satriani e tradotte da Saverio Strati (Mondadori, 1982), le Fiabe campane di Roberto De Simone (Einaudi, 1994), Gherardo Nerucci, Sessanta novelle popolari montalesi (Rizzoli, Milano, 1977), Vittorio Imbriani, La novellaja fiorentina (Rizzoli, 1976), il fantasmagorico Cunto de li cunti di Giambattista Basile. Alcuni saggi, tra cui quello di Beatrice Solinas Don6


Il più bel fiore che sia mai fiorito Lontananza d’amore reca mal pensiero, inganno e infedeltà, insano desiderio, garbuglio di ragione, fuoco d’ogni senso. Questo lei sentì: un sentimento di passione subitanea allor che vide il giovane signore forestiero, bello di fattezza e di ventura, mentre lo sposo suo ignaro navigava per l’alto mare aperto e sconosciuto. Per una notte intera si smemorò di tutto. Fu un sogno mai sognato. Fu felicità. Ebbrezza. Delirio. Godimento. Piacere. Stordimento. Voluttà. Poi la notte passò e il pentimento le azzannò il cuore come lupo che scende dalla macchia quando è gelo. Il giorno che lo sposo ritornò dal mare, lei si prostrò ai suoi piedi, disperata. Confessò la colpa vergognosa, supplicò perdono, implorò pietà, giurò che mai più avrebbe ripetuto quell’oltraggio, tradito il sacramento. Mai più. Lui provava più amore per lei che per se stesso. Ma non la perdonò. Ché troppo gli bruciava l’animo il rovello della sua donna insieme con un altro. Così le disse: – Preparati a morire. Lei domandò indulgenza ancora, scongiurando. Pianse, si tormentò, ma a niente valse ogni promessa, a niente valse la grave sofferenza che gli dimostrava. Lui non sapeva perdonarla. Non poteva. Così quel giorno stesso sciolse la vela della sua nave e partì, con lei. Non lungamente durò il navigare. Quando giunsero dov’è profondo il mare, lui strinse la moglie ai fianchi e con un gesto rapido, furioso, la gettò fra l’onde ingorde e scure. Poi, mestamente, indirizzò la nave verso il porto, pensando che 11


Il frate di Avetrana Che venisse estate o inverno, autunno o primavera, che fosse aria di fuoco o che bruciasse il gelo, quando chiariva il giorno lui lasciava il monastero e andava casa casa nei paesi a questuare. Monaco cercantino lo incaricò il priore, perché non era ancora vecchio e poteva camminare, perché non sapeva scrivere numeri e parole, perché nell’orto e alla cucina non ci sapeva stare. Un giorno che l’aprile appena cominciava, girando nel paese di Avetrana, bussò ad una porta e la porta si dischiuse, e allora lui la vide, bella come la mattina, con gli occhi rilucenti com’è la luce chiara, con la bocca che pareva matura melagrana, il seno fresco e tenero com’è il mandorlo in fiore. La vide e si stranì. Sentì un rossore che gli avvampava il volto, un tremore nelle gambe, le labbra secche com’è zolla riarsa, fece per dire – la pace in questa casa – come diceva sempre ad ogni casa, e la lingua s’impietrì. – Fratello – disse lei – ho messo per te da parte l’olio nuovo. Ti aspettavo già lo scorso mese. Forse nemmeno l’ascoltò. Lo incantò il suono di quella voce sua, come grazia del canto di una liturgia. Prese tremante l’olio e non benedisse. Non pronunciò parola. Abbassò il capo. Si allontanò in fretta, come se quell’olio lo avesse rubato alla lampada che arde ai piedi di Maria, lì, nella cappella al monastero. Così quel giorno smise di questuare. All’uscita del paese si sedette all’ombra di un quercia. Sentiva come una nausea. Lo prese il capogiro. L’inferno gli bruciava nella testa. 18


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L’incanto Un re e una regina avevano una figlia sola, che era bella più di ogni altra bella, che davvero pareva la figlia d’una fata. Come la fanciulla giunse ai suoi vent’anni, la regina madre considerò di maritarla. Così, pensando ora a un principe, ora a un altro, un giorno decise di parlarne con il re. Che s’infuriò, e accusò la regina moglie di voler destinare una figlia così giovane a quello ch’è il più triste dei castighi. A questo pensiero che aveva il re del matrimonio, la regina si adombrò, rimase sbigottita. Poi umilmente chiese: – Ma dunque, vostra maestà ha già deciso di far rimanere sempre fanciulla la sua erede al trono? – No, – rispose il re – certo non questo, però desidero che lo sposo di mia figlia debba essere il più valoroso e il più istruito cavaliere che si conosca al mondo. E siccome non molto facilmente ci è dato di trovarlo, è necessario che aspettiamo fin tanto che la nostra buona sorte ce lo faccia capitare qui. Queste parole lasciarono assai mortificata la regina, la quale, non dandosi per vinta, non appena che fu passato un mese, nuovamente parlò con il regale sposo del matrimonio della figlia. Allora il re disse alla regina: – Ebbene, giacché vuoi assolutamente dare un marito a nostra figlia, io acconsento solo a condizione che venga rinchiusa in un misterioso palazzo, e ne avrà la mano colui che saprà rintracciarla. Chi fallisce alla prova sarà per sempre incantato. Così disse il re, e la regina in fondo fu soddisfatta della risoluzione. Allora sotto il palazzo reale il re fece costruire un altro palazzo non meno grande e non meno bello. Per entrarci c’era un solo passaggio, nascosto da una piccola lastra di marmo, sulla quale poggiava un piede del letto del re. 22


Il campanile dei diavoli Il cielo divampò di folgori e da quel notturno fulgore si generarono creature della tenebra, demoni, spiriti infernali, per compiere il prodigio di una guglia meravigliosa, in una notte sola. In quella notte. Discesero lì, nella terra di Soleto, richiamati da un desiderio folle, un comando bizzarro di messer Matteo Tafuri, filosofo e mago, astrologo, alchimista, medico, veggente. Uomini e donne, i vecchi e i bambini, i saggi e gli stolti del luogo e dei paesi vicini, avevano di lui venerazione e paura. Messer Matteo guariva le febbri, sanava le piaghe, placava gli affanni, ma con lo sguardo poteva rabbrividire le carni, con un gesto poteva seccare i raccolti, con le parole sapeva ammaliare e stordire. Sulla porta di casa a caratteri di pietra aveva scritto così: humile so et umiltà me basta. Dragon diventerò se alcun me tasta. Pensò, Matteo Tafuri, che la sua vita meritasse un’opera maestosa che sovrastasse ogni altra opera di uomo, che superasse il tempo suo, che tramandasse la memoria nei secoli a venire. Così convocò i demoni, quella notte. Con la magia appresa sopra i libri delle scuole di Napoli, Parigi e Salamanca, con l’arte che aveva allevato in ogni suo giorno, in tutte le notti d’insonnia e di esercizio. Richiamò i demoni, dunque, e i demoni risposero al richiamo di quell’ingegno misterioso. Misero mano alla torre nel preciso istante che il giorno si consegna a un altro giorno, nell’ora del tempo che trapassa, allorquando il buio è più profondo, e l’innalzarono e scolpirono meraviglie di intagli, di arabeschi, di figure d’uomini e di bestie. Dalla soglia della sua casa, messer Matteo guardava il compimento e solo quello adesso gli importava. Non gli onori avuti, non le maldicenze del volgo idiota, non il 27


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La rupe della dannata Il giorno delle nozze già s’approssimava, e marzo si volgeva ormai alla fine. Non s’era neanche fatto l’imbrunire che all’arco grande della masseria si avvicinarono uomini a cavallo. Due erano, con la lama al fianco. Il massaro si fece avanti e disse: – Che vulite. Uno dei due voltò lo sguardo verso le stalle, poi verso il granaio, poi ancora alle stalle. Voltò uno sguardo torvo, minacciante. L’altro carezzava la criniera del cavallo e guardava il massaro come a sfida. Quello che carezzava la criniera del cavallo parlò. Disse: – A giorni vostra figlia si marita. – Con la benedizione di Maria – rispose il massaro. – E del signore Gian Girolamo Acquaviva – disse lo sgherro. Allora il massaro ebbe la dimostrazione di quello che aveva prestamente intuito. Poi parlò l’altro continuando a guardare le stalle e il granaio e le stalle: – La sera che vostra figlia si marita, quando si sarà fatto tutto scuro, qui verrà una carrozza con gli sfarzi e la porterà al palazzo di Nardò, che il conte vuole tributare il giusto omaggio che spetta alla bellezza della sposa. Il massaro impallidì. Tese la mano verso i due uomini per dire di aspettare, per chiedere parola. Uno tirò le redini al cavallo e gridò: – ahhh. L’altro tirò le redini al cavallo e gridò: – ahhh. Sparirono al bivio del sentiero. Quando il massaro arrivò vicino al pozzo, la moglie lo guardò, e abbassò gli occhi. Lui abbassò gli occhi. 31


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I fratelli invidiosi Un padre aveva tre figlioli. I due maggiori avvezzi ad ogni gioco d’azzardo, all’avventura incauta, a sfidare la fortuna, fino a commettere azioni vili e infami, per soddisfare la loro passione scriteriata. Il piccolo, invece, era onesto e bello. Un giorno mentre i due fratelli giocavano alla morra, per la via passò la processione del santo del paese. Non se ne curarono, i due, non s’inginocchiarono, continuarono nel gioco, nel travaglio losco, e anzi pronunciarono bestemmie al santo e alle sue grazie. Tornati che furono a casa, ormai a tarda sera, trovarono il padre morto. Allora si divisero quel poco che l’uomo aveva lasciato, ma il piccolo per salvare in qualche modo i suoi fratelli dai debiti di gioco, diede loro anche la sua parte. Alcuni giorni dopo passò per quel paese un ricco mercante. Il giovane si presentò e disse: – Prendetemi con voi, mio buon signore, che non so come vivere. Sarò onesto e guarderò gli interessi vostri con ogni scrupolo, con ogni attenzione. Il mercante rassicurato dagli occhi leali e dalle sincere parole del giovane, lo prese con sé e insieme continuarono il viaggio. Il giovane camminò per lunga strada, gonfiandosi le gambe, insanguinandosi i piedi. Ma nulla chiese. Allora il padrone gli promise che alla prossima posta gli avrebbe procurato una cavalcatura. Quando ebbero fatto ancora strada e strada, incontrarono un vecchio con una giumenta bianca. – Volete vendere questa bestia? – chiese il mercante al vecchio. – La vendo – rispose l’uomo – per cento ducati d’oro. – È troppo – disse il mercante. – Cento ducati – disse ancora l’uomo. 35


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Dom Placido Il padre lo voleva mercatante di tessuti lavorati nell’Oriente, o notaro, o cerusico. Ma lui appena poteva se ne andava nella campagna dietro la sua casa e costruiva altari con le pietre e poi in ginocchio davanti a quegli altari pregava Iddio e i Santi, ore intere. Un giorno il padre se ne accorse. Lo chiamò nell’orto e disse: – Figlio, io vagheggio per te un futuro risplendente di ricchezze e di onori. Ma ti vedo coi pensieri divaganti, distratto, a volte sperso, frastornato, come se il cuore tuo inseguisse il niente. – Non il niente ma il tutto il mio cuore insegue – rispose il ragazzo. – La mia volontà e il mio destino è servire il Signore, padre mio, ora e sempre. Tu benedicimi e io pregherò per te, per ciascun giorno di tutta la mia vita. Il padre sospettava la risposta e non si oppose per non mortificare l’innocente vocazione di quel figlio. Un mattino poco dopo l’alba, il padre fece approntare la carrozza e partì con il figlio per la città di Lecce. La madre salutò il figlio dal balcone, con una pacata tristezza. A Otranto quel mattino il mare sfolgorava. Placido aveva compiuto i sedici anni il giorno prima. Giunsero a Lecce che il sole era già alto. Il portone del convento degli Olivetani si aprì e Placido e il padre si rivolsero uno sguardo. Solo uno sguardo profondo. Per saluto. Placido entrò. Il portone si richiuse. Passò nella penombra dei lunghi corridoi seguendo un monaco silenzioso e vecchio. Il monaco a un certo punto si fermò. Gli fece un cenno. Placido capì che era la sua cella. 41


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Greguro e Margherita Là, dove la gravina è misteriosa, dove la grotta, l’anfratto, celano segreti, nel paese chiamato Massafra, perché roccia spaccata, ferita della terra, là, dove Annibale passò con la sua armata, una volta vissero Greguro e Margherita. Padre e figlia. Vissero una volta, quand’era l’anno Mille, quando la paura della fine del mondo sconvolgeva i pensieri, i sentimenti. Lei nottetempo se ne andava per dirupi, costeggiava i cigli dei burroni, per raccogliere le erbe che poi lui, mago, stregone, guaritore, trasformava in pozioni e unguenti per medicamento delle genti del suo villaggio. Così andava, per Greguro e Margherita, la vita, di giorno in giorno, finché invidia non cominciò a tessere le trame, e Margherita fu sospettata di stregoneria, per il suo notturno vagare, di aver stretto patti col demonio, perché sapeva distinguere i fiori e le erbe anche nell’oscurità della gravina. Voce su voce, maldicenza e maldicenza, calunnia con calunnia, riempirono il villaggio, aizzarono i suoi abitanti, gli tolsero memoria di ogni guarigione di Greguro, di ogni bene fatto, di ogni sanamento. Allora gli abitanti del villaggio raccolsero legna di bosco, frasche, fascine, prepararono un rogo perché sul rogo ardesse Margherita, perché il fuoco cancellasse ogni peccato. Poi tutto il villaggio si accalcò intorno al rogo. Greguro fu legato e lasciato nell’antro, tremante, disperato. Margherita aveva una veste dell’identico colore che hanno la purezza e l’innocenza. Le strapparono la veste, l’esposero a seno nudo all’insulto, allo sputo, alla bramosia malata. Il fuoco cominciava già a rodere la carne, quando l’igumeno Anselmo giunto lì dal monastero vicino, urlò con la forza della 45


La fortuna di Gasparotto – Fortuna, fortuna – chiamò dal punto più alto della Montagna Spaccata, da dove si genera una vertigine di sconfinamento, una vaga illusione d’infinito. – Fortuna, fortuna – chiamò, in una notte d’estate sul finire, che profumava d’alghe, di menta, di mirto, con una luna che pareva sorgere dall’onda. – Fortuna, fortuna – chiamava Gasparotto, il più povero dei servitori di don Gregorio, danaroso commerciante con bottega di grano, vino e olio nella parte più antica del paese. Fortuna s’inginocchiava ai piedi di don Gregorio. Quanta più merce usciva dalla bottega, tanta e di più ne entrava, miracolosamente. Ricolmava scansie, depositi, ripostigli, e il commerciante accumulava denari, accostava ricchezze e possedimenti. Finché da questa ricchezza non si sentì perseguitato, assediato, oppresso. Finché questa ricchezza non gli venne in uggia, finché non lo stancò. Allora mandò il fedele e povero servo Gasparotto a dire alla fortuna di non fare più doni a don Gregorio, che lui non sapeva più che farsene della roba, che per carità si scordasse di lui almeno per un poco. Due carlini promise don Gregorio per la ricompensa di questa ambasciata. Gasparotto andò. Pensò che fortuna si trovasse lontana, forse al di là del mare, tra le genti di una sponda sconosciuta, e che per farsi sentire da lei avrebbe dovuto gridare, attraversare la distanza con la voce, lasciare che il vento la portasse, la spandesse come polline di fiore. Così si inerpicò sulla Montagna Spaccata. 56


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La statua di neve Quell’inverno venne neve, neve e neve, tanta neve che mai se n’era vista tanta, tanta neve che arrivò ai davanzali, ricoprì la scalinata della chiesa, spaccò i rami agli alberi della piazza. Venne neve, neve e neve, in un paese di vigne e di uliveti, in un paese di Puglia di cui la leggenda si è scordato il nome, perché la leggenda così fa: dimentica e ricorda, dimentica ancora e poi ricorda ancora, inventa. Ma era un paese devoto di San Rocco. Forse era Ruvo o era Ruffano, forse era Noci, Ceglie, Bitonto. Forse nessuno di questi ma un altro ancora. In quel paese dai tanti e nessun nome, venne neve, neve e neve, in un inverno che la guerra era finita da poco, la guerra del ’15 – ’18. Venne neve per due settimane. Senza smettere mai. La gente rimase chiusa nelle case. Finì la farina, la lenticchia, le fave. Finì la legna. Ghiacciarono le fontane. Veniva la neve e la gente pregava. Allora qualcuno disse: – Portiamo il Santo Rocco in processione, che faccia smettere questo nevicare, che faccia splendere un raggio di sole. Così sette, otto, dieci valorosi, reduci dal fronte, dalle trincee, si dissero che se avevano sfidato la morte, certo potevano sfidare la neve. Uscirono di casa, si trascinarono fino alla piazza, arrivarono alla soglia della chiesa. Ma la neve aveva ricoperto la porta. Allora pensarono: – Se neve abbiamo di neve lo facciamo. Identico a quello che sta in chiesa. Dissero così, e cominciarono a impastare la statua di San Rocco con la neve. Gli fecero il tabarro, il cappello a larga tesa, il bastone, la bisaccia, la fiaschetta, ai piedi gli fecero il cane con il tozzo di pane 60


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L’asino sopra il campanile Che sia sulla pianura del Salento o che sia sopra i monti del Gargano, in ogni paese da secoli si narra che il fatto accadde nel paese vicino. Per cui accadde in ogni paese oppure non accadde in nessuno mai. Per quell’ambiguità che pretende la leggenda, per il chiaroscuro di finzione e verità, per la mistione di storia e d’invenzione, possibile e impossibile, fantastico e realtà. Allora. C’era una volta un paese vicino a un altro paese, e nel paese c’era chiesa e campanile, e sul campanile spuntò un filo d’erba, forse tarassaco, cicoria agreste, che cresceva a vista d’occhio, si muoveva ad ogni vento. Nel paese c’erano due fratelli che avevano un asino sardignolo di tre anni. C’erano anche altri fratelli nel paese che avevano un asino. Ma questi erano due, come si può dire?, d’intelligenza vivida. Un fulgore. Un pomeriggio che volgeva all’imbrunire, uno dei due guardò il campanile, restò a lungo a guardare il campanile, poi sempre guardando il campanile e quell’erba verde rigogliosa sulla cima, disse così: – Frate’, guarda com’è bella. Che ne pensi se la facciamo mangiare al ciuccio nostro? Il fratello lo guardò soprappensiero. Poi guardò l’erba sopra il campanile. Poi ancora il fratello, riflettendo. Poi chiese: – E come facciamo a far salire l’asino, frate’. L’altro guardò di nuovo il campanile, l’asino, il fratello, l’erba, il campanile, e come se la domanda l’avesse sorpreso, ché non si aspettava una domanda così scema, rispose: – Frate’ma ragiona poco poco. La corda per legarlo ce l’abbiamo, la forza per tirarlo, 62


Regina per imbroglio Diciott’anni aveva ed era bella, con gli occhi del colore che ha il mare, i capelli del colore che ha il sole, la bocca ch’era frutto saporito. L’altra pure aveva quell’età, ed era storpia e brutta, con gli occhi bianchi come fossero di gatto, e i capelli come quelli di una strega, foschi, arruffati, sudici. Ma le madri dell’una e dell’altra fanciulla, strette da vincolo di onesto vicinato, s’erano giurate la solenne promessa che venendo a morte una di loro, l’altra avrebbe accolto l’orfanella nella propria casa, tenendola al modo che si tiene una figliuola. Accadde dunque che la malasorte bussò all’uscio della giovane bella, sicché la madre le morì e lei fu accolta dall’altra donna, per onorare la promessa. A quel tempo un re grande e potente vagheggiò l’idea di prender moglie e cominciò il giro di tutte le sue terre ch’erano vaste assai e di diverse genti, per trovare una sposa degna d’un sovrano. Giunse al villaggio, dunque, e vide lei. Vide l’orfana dalla bellezza tralucente, e gli occhi affogarono nei suoi, e se ne innamorò perdutamente. Fortuna porta invidia, si sa bene. Invidia portò alla fanciulla bella, che la madre dell’altra fu presa da dolore perché il re aveva scelto lei e non la sua figliola. Vendetta, giurò a se stessa, allora, aspra e cocente. Per campagne, per città, per i villaggi, per contrade, per i borghi, per le corti, gli araldi annunciarono le nozze, celebrate poi da lì a breve tempo, con sfarzo d’oro e di gioielli rari, di ornamenti, diamanti preziosi, pezze d’argento. Vennero principi e principesse, dame, scudieri, cavalieri; vennero cantori, paggi, maghi, saltimbanchi, buffoni, giullari, giocolieri. Fu festa in ogni dove di quel regno. 65


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Le tre sorelle C’era una volta una madre e con la madre c’erano tre figlie che per guadagnarsi di che vivere passavano tutto il giorno a ricamare. Una sera ch’era di carnevale, mentre intorno al fuoco ricamavano com’era il loro solito fare, una delle tre disse alla madre: – Madre, ora ch’è il tempo d’allegria, narraci qualcosa che fu degli ani tuoi, per rallegrarci un poco. Ma la madre disse: – Non è tempo per me, figlie, adesso, d’essere allegra nè di rallegrare. Intanto si scatenava il temporale. Grandine e vento infuriavano alla porta, i tuoni rintronavano nell’aria, i lampi mettevano a fuoco il cielo nero. Allora, forse per distrarre la paura, la più grande delle tre disse: – Va bene, racconterò qualcosa io, dunque. Vi confesserò qual è la fantasia che mi fa essere felice, a volte. – Racconta – dissero le altre. – Ecco, vi dico che per sentirmi felice immagino di sposare il servitore del re. – Ehhhhhh, – esclamarono la madre e le altre due figlie. Ridendo esclamarono ehhhhh. Qualche minuto passò e l’altra figlia disse: – Voglio raccontarvi un desiderio anch’io. – Racconta anche tu, – dissero le altre – racconta anche tu. – Ecco, nei sogni che faccio tenendo gli occhi aperti, io mi figuro stretta tra le braccia del cocchiere del re. Ancora una volta la madre e una figlia dissero ehhhhh. La più piccola intanto taceva. – E tu – le chiesero allora – quali sono i pensieri che hai? Raccontaci i tuoi pensieri, dai, dai. – Voi siete sciocche, disse la fanciulla. Che cosa potrebbero 75


Pizzomunno Una volta che non si sa di quale tempo, viveva in un villaggio Pizzomunno, giovane bello e forte, pescatore, come tutti gli altri uomini di là. Il nome suo diceva vetta del mondo, vertice, culmine, sommità, saetta, bagliore, araldo di bellezza, suscitava meraviglia e voluttà. In quello stesso tempo, nello stesso luogo, viveva una fanciulla bella e pura, con gli occhi del colore quando è chiaro il cielo, con i capelli come il grano a giugno pieno. Cristalda si chiamava, e il nome risuonava quasi fosse magnifico cristallo tra le povere capanne del villaggio. Bellezza con bellezza a volte infiamma amore, e amore infiammò per Cristalda e Pizzomunno, che si giurarono fedeltà eterna, con il cuore e la ragione. Ogni giorno, quando s’alzava il sole, Pizzomunno affrontava il mare e nel mare lo aspettavano le Sirene innamorate per intonare canti teneri alla sua bellezza. Perché non erano loro ad ammaliare Pizzomunno ma era lui che ammaliava le sirene, con i suoi occhi tralucenti come stelle. Gli offrivano il trono del loro immenso regno, gli agi dei palazzi che si alzavano nel mare, gli offrivano il loro amore fino al punto da rinunciare al canto, se avesse accettato. Gli promettevano la vita senza affanno, diletti infiniti, estasi, sapienza, sanità. Gli promettevano l’immortalità. Ma l’amore di Pizzomunno resisteva a ogni tentazione, ad ogni insidia, ad ogni seduzione, perfino a quella di fermare il tempo, di vivere in eterno. Cristalda era la sua donna, il suo destino. Cristalda contemplava vita e morte, felicità e dolore se dolore fosse giunto, le ferite del tempo, ebbrezza, nostalgia. Così pensava e voleva, Pizzomunno. 88


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Tumulo e Kalimera Al tempo che l’esercito di Roma minacciava le mura della città di Taranto, una storia d’amore attraversò la guerra. A volte l’amore riesce anche a fermare la guerra. A volte invece no, non riesce a fermarla. A quel tempo, dunque, nella città di Taranto viveva una ragazza che si chiamava Kalimera. Bella come il giorno racchiuso nel suo nome, come l’aria della mattina quand’è fresca, come raggio di sole che fiorisce da una nube, come albero fiorito a primavera, come rugiada che brilla sulle foglie d’oleandro. Tumulo era il comandante dell’esercito nemico. Bello anche lui. Giovane. Spavaldo. Un giorno che tutt’intorno alla città si spandeva una calma strana, che non si credeva, Kalimera si affacciò alla cinta e da lì guardò oltre il muro innalzato davanti al fossato con zolle di terra, massi, tronchi, rovi, pali di legno a punta. Vide le tende, le catapulte, le baliste. Poi lo sguardo si fermò su una delle torri innalzate nell’accampamento a intervalli regolari. Lo sguardo si posò sopra una delle torri, e lo vide. Lui vide lei. A volte solo uno sguardo cambia le strade della vita. Quello sguardo cambiò le strade della vita di Tumulo e Kalimera. Per più volte, in ogni modo, cercarono d’incontrarsi. Per più volte, in ogni modo, inutilmente. Perché Taranto aveva mura salde e sentinelle all’erta, che non consentivano a Kalimera di uscire né a Tumulo di entrare. Ma l’amore sa aprirsi varchi tra le difese più sicure, ingannare la veglia della più scaltra sentinella, così una sera, quasi notte, l’amore di Kalimera aprì il varco nelle mura, ingannò gli occhi delle sentinelle. 90


Antonio Errico

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Idomeneo Come le onde del mare che solcava erano i ricordi nella mente del figlio di Deucalione, nipote di Minosse, re di Creta. Profondi come il mare. Quieti a volte. A volte turbinosi. Rivedeva il giorno che arrivò a Troia, con le ottanta navi. Rivedeva i suoi compagni. Le furie della guerra. Enea, che aveva ammirato, temuto. Poi i ricordi andavano più in fondo, sempre più in fondo, arrivavano fino a Elena, che forse aveva amato, che forse aveva soltanto desiderato. Come gli altri, tanti altri. Era anziano Idomeneo, quando ritornava. La guerra era finita, Troia ormai distrutta. Ritornava alla sua città, da sua moglie Meda. Sciabordavano i ricordi come le onde alle fiancate della nave. La notte che entrò a Troia nascosto nella pancia del cavallo di legno era come un’ombra gigantesca che si spandeva nel pensiero. Poi si domandava che cosa ne avrebbe fatto del bottino di cui erano cariche tutte le sue navi, e quante volte e quante avrebbe barattato quel bottino per riavere indietro soltanto uno dei suoi anni, soltanto un giorno di gioventù. Uno soltanto. La tempesta che si annunciava lo distrasse. Il mare s’ingrossò, si fece come mai aveva visto il mare. Il vento squarciò le vele, schiantò gli alberi. I compagni gli chiedevano che cosa fare. Doveva essere lui a decidere. Era lui che comandava. Ma Idomeneo sapeva combattere gli uomini. Non gli dei. Sapeva schivare le lance dei nemici non i fulmini del cielo. A volte anche gli eroi hanno paura. Come ogni altro uomo. Hanno paura. Come ogni altro uomo Idomeneo ebbe paura della violenza del mare, del furore del cielo. 94


Il menestrello E ogni giorno s’improvvisava una caccia, un torneo, una giostra, una festa, un teatro di funamboli e acrobati per uno svago della principessa che soffriva di malinconia. Inutilmente, però. Giorno dopo giorno lei smagriva e si serrava nel silenzio come una prigione. Molti e molti principi avevano chiesto la sua mano e a tutti aveva opposto uno sdegnoso rifiuto dicendo che sarebbe andata sposa a colui che con ogni sacrificio avesse dimostrato per lei il più grande amore. Una sera, mentre nella stanza più grande del castello le fiaccole illuminavano una festa favolosa, all’improvviso apparve un menestrello, che al re domandò licenza di mostrare ai presenti il suo talento. Il re acconsentì. Era vestito come un cavaliere. Un largo cappello con una piuma bianca. Un lungo mantello che gli avvolgeva le spalle. Salutò con un inchino. Poi cominciò a cantare. Tutti lo ascoltavano rapiti e dicevano e giuravano che mai avevano conosciuto menestrello o giullare che a questo potesse minimamente assomigliare. Per tutta notte cantò, finche fu l’alba. Quando la prima luce cominciò ad accarezzare le grandi vetrate della sala, il menestrello fece per congedarsi, ma ciascuno voleva mostrargli il proprio compiacimento con denari e doni. Compresa la figlia del re. Lei gli porse una spilla che fino a quel momento aveva ornato il suo seno. Ma il menestrello, con timore e pudore, abbassando gli occhi, disse: – Dame, cavalieri, nobili signori, io cantai per allietarvi solamente, o per commuovervi, non per ricompensa. 99


Le procellarie Volano alte le procellarie per sorvegliare la tomba e la leggenda del loro compagno antico. Volano alte e lo piangono con il loro strido, o seguono le navi mestamente, per memoria di un altro viaggio in quello stesso mare, in un altro tempo, lontano. Quando furono uomini, compagni di battaglia e d’avventura del figlio di Tideo e di Deipile, del guerriero valoroso che portava il nome di Diomede. Simile alla piena di tumido torrente, era Diomede in battaglia, dice Omero. Con Enea si confrontò in terribile duello frantumandogli il ginocchio con una pietra, e il figlio d’Anchise sarebbe certo morto sotto i suoi colpi se Afrodite non fosse accorsa a proteggerlo. Allora Diomede ferì anche lei, la dea bella e leggiadra, ad una mano. E la dea si vendicò condannando Diomede a non essere riconosciuto dai suoi stessi figli al ritorno ad Argo e a trovare la sua sposa Egialea amante d’altri, di Comete, figlio di Stenelo. Così accadde quando ritornò. Allora Diomede riprese ancora il mare con i suoi compagni più fedeli, Acmone, Lico, Ida, Nitteo, Abante, Ressenore. A lungo vagò per l’Adriatico, fermandosi in più porti, insegnando alle popolazioni l’arte di domare i cavalli e di navigare. Fondò Vasto, Andria, Brindisi, Benevento, Siponto, Canosa, Manfredonia, San Severo, Venosa. Sposò Evippe, figlia di Dauno. Una caverna delle Tremiti, sull’isola di San Nicola, fu il luogo della sua sepoltura. Afrodite trasformò i suoi compagni in diomedee, perché ogni giorno bagnassero la tomba dell’eroe con l’acqua del mare. Volano alte le procellarie, Acmone, Lico, Ida, Nitteo, Abante, Ressenore. Volano alte per sorvegliare la tomba e la leggenda del loro compagno antico. Volano alte e lo piangono con il loro strido. O seguono le navi. Mestamente. 106


Il Laùro C’erano due re, una volta. Uno governava un paese su una sponda. L’altro un paese sopra l’altra sponda. Uno aveva una figlia, ch’era meraviglia. L’altro aveva due figli. Un mattino la figlia del re navigava in compagnia delle dame di corte e dalla prua del vascello regale scrutava il punto dove il cielo e il mare si fanno una sola linea, un solo colore. Un altro vascello intanto navigava, andando incontro a quello della graziosa, un altro vascello anch’esso regale, e sulla prua c’era un giovane principe con gli occhi che perlustravano il mare. I due vascelli quasi si sfiorarono e gli occhi dei due giovani s’incrociarono e i loro cuori ebbero un sussulto. Per più volte dopo quella volta il principe e la principessa s’incontrarono sul mare, e ogni volta provavano una gioia, e ogni volta si scambiavano un saluto tenero, affettuoso, appassionato. Poi un mattino i vascelli s’accostarono, il principe e la principessa si sfiorarono la mano, lui domandò se lo voleva sposare, lei gli rispose che lo voleva sposare. Ma il re padre dei due figli aveva deciso di lasciare regno e fortune al primogenito che era l’altro figlio e non quello che la principessa amava. Il giorno che il primogenito decise di prendere moglie, espresse il desiderio di sposare la figlia del re che regnava sulla sponda al di là del mare. Così il padre mandò un’ambasceria. Il re padre della principessa manifestò tutta la sua letizia e non contò il disaccordo della bella fanciulla, e non contò la sua disperazione, né l’intercessione della regina alla quale la figlia aveva rivelato la passione. Si celebrarono le nozze, dunque. 109


I garofani del Bey innamorato Dalla spiaggia giungeva una voce alta, soave. Il Bey si fermò ad ascoltarla, rapito. Sembrava che la voce affiorasse dal mare e che come una brezza leggera oltrepassasse le dune, attraversasse la boscaglia, si sciogliesse nell’aria. Era il tempo che i veneziani tenevano Otranto. Il Bey abitava un grande palazzo in città. Era giovane e bello e gentile, il Bey. Sul balcone cresceva garofani bianchi con un profumo che si confondeva con quello degli oleandri e del mare. Udì quella voce, dunque, e poi vide lei. Vide i suoi capelli lunghi, le sue labbra rosse, gli occhi suoi neri. Correva sulla sabbia di Alimini, poi si faceva onda tra le onde, poi usciva dall’acqua e correva. Come una puledra. Cantava e correva. Il Bey restò lì a guardarla incantato. Poi carezzò la criniera del cavallo e si sospinse verso di lei. Lei lo vide e corse ancora di più, forse per gioco, forse per paura. Il Bey lanciò al galoppo il suo stallone arabo e infine la raggiunse, sulla vetta di una duna. Allora la ragazza si fermò. Lo guardò fisso, quasi per sfidarlo. Poi respirò forte e si gettò per un pendio, stretto, tra i rovi, dove non poteva seguirla neanche il cavallo. Il Bey tornò in città, soprappensiero e felice. Aveva negli occhi quel volto. Sentiva nel suo cuore quello sguardo. Ai suoi uomini comandò di scoprire chi fosse mai quella divinità che aveva figura di donna. Nulla ci volle a scoprirlo, che ciascuno in Otranto conosceva la figlia dello speziale. 112


Il tradimento del frate di Otranto Così pensò che avrebbe potuto avere un altro Dio. Come il suo Dio compassionevole e misericordioso, creatore, sapiente, plasmatore. Un Dio che tutto vede e tutto ascolta. Un Dio che condanna e che perdona. Altissimo, sublime, maestoso, che dona il tempo e del tempo chiede il conto, un Dio saggio, Dio d’amore, generoso, che protegge o che abbandona ad un destino, un Dio di verità e di giustizia, che è principio e fine di ogni cosa, padrone della vita e della morte, eterno, impenetrabile, glorioso, onnipotente e misericordioso, colmo di maestà e magnificenza, che procura abbondanza e carestia, un Dio che è luce e buio, l’eterno e l’infinito, l’inferno e il paradiso. L’assoluto. Così pensò che avrebbe potuto avere un altro Dio, e uscì dall’abbazia, soffocato di colpa e di terrore, come se dal tabernacolo avesse rubato il corpo del Risorto, attraversò la sera afosa, madida, rappresa, scese verso il porto, segnandosi ad ogni passo con la croce, come per scampare a una condanna, come per placarsi da un delirio. Da lontano vide una luce di petrolio. Appena arrivò nei pressi di San Pietro. Appena prese la strada delle case senza porte. I battiti alle tempie gli facevano dolore. Non pensò nulla. Non indugiò un istante. Non pronunciò una sillaba sola di preghiera. Quella sera separava la sua vita e la sua morte. Quella sera era la sua salvezza e il suo martirio. Quella sera era il morso feroce di un demonio. Ahi. Si sfilò la croce di legno che portavo al collo, come per proteggerla dal Male. La ripose in fondo al saio. Poi entrò nel lupanare. Senza vergogna varcò la soglia della malabolgia. Un tanfo acre. Un odore di vinaccia. Marinai ubriachi e malati di bordello. Parole oscene e sguardi dentro il vuoto. Gemiti d’or117


Antonio Errico

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Indice Introduzione Il piÚ bel fiore che sia mai fiorito Il frate di Avetrana L’incanto Il campanile dei diavoli Il fantasma di Bianca La rupe della dannata I fratelli invidiosi Dom Placido Greguro e Margherita La figlia di re Fierarmata La fortuna di Gasparotto La statua di neve L’asino sopra il campanile I Lestrigoni a Santa Cesarea Regina per imbroglio Il principe vecchio Il crocefisso del disertore Le tre sorelle Coraggio e morte di Giulio Antonio Acquaviva Quando venne tempo di malaria Pizzomunno Tumulo e Kalimera Il miracolo dei fanciulli Idomeneo

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San Giuseppe e il cappello Il menestrello Il carnevale del conte Le procellarie Il tesoro di Diomede Il La첫ro I garofani del Bey innamorato Il tradimento del frate di Otranto

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