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Nino Lavermicocca * Marino Capotorti Nicola Cortone
La Puglia, l'Adriatico, i Turchi (dai Selgiukidi agli Ottomani, 1071-1571) A cura di Nino Lavermicocca Presentazione di Giorgio Otranto
Capone Editore
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Giorgio Otranto
Presentazione Nino Lavermicocca non smette mai di stupire come studioso e come barese, che costituiscono, insieme, la sua vera identità. Cresciuto tra i vicoli e le corti di Bari vecchia, Nino s’è impadronito dei segreti e dei misteri della Città, ne ha assimilato ogni tratto distintivo, ne ha scandagliato la storia non solo minuta, popolare e popolareggiante, ma anche quella legata ai grandi eventi della Città stessa. Rampollo di una famiglia di commercianti e artigiani del Centro storico, è conosciuto da tutti, adulti, bambini, popolani. Suo padre, decano del commercio barese, gestiva un intasatissimo negozio di statuine, articoli religiosi e multicolori fiori artificiali, mentre suo cugino Gigino Lavermicocca è stato uno degli ultimi “Nicolari” di Bari. Ancora oggi può capitare di incontrarlo con la sua immancabile borsa gonfia di carte e documenti mentre scruta la facciata di un palazzo, il portale diroccato di una chiesa, un’edicola sacra o mentre assiste, quasi sempre da paciere, ad animate discussioni che esplodono all’improvviso nelle viuzze del centro medievale ed altrettanto improvvisamente si placano grazie al suo intervento: rispetto massimo per il professore, di cui tutti si fidano perché è uno di loro ed è anche un uomo di “penna”, espressione che negli strati popolari baresi, ma anche in tante aree del Mezzogiorno, esprime profonda ammirazione. Tutta meritata questa ammirazione, perché Nino aggiunge al tratto umile e signorile grande capacità di ascolto e una cultura poliedrica che spazia entro l’arco di due millenni e che interessa l’archeologia, la topografia, la storia dell’arte, le tradizioni folkloriche, l’agiografia, la storia tout-court, sempre declinata in chiave barese/pugliese e orientale/occidentale. Laureatosi nell’Università di Bari, ha completato la sua formazione in prestigiosi centri di ricerca all’estero (Francia e Stati Uniti), ha svolto indagini, lezioni e seminari nell’Istituto di Storia dell’arte e di Letteratura Cristiana Antica dell’Ateneo barese, partecipando a convegni nazionali ed internazionali. E’ stato anche Direttore archeologo presso la Soprintendenza archeologica della Puglia come responsabile del settore medievale, ambito nel quale ha dato contributi determinanti alla conoscenza di quell’epoca della storia cittadina. Esemplari rimangono i cinque volumi curati da Nino sulle edicole religiose di Bari vecchia, che, prima del suo intervento, costituivano un patrimonio pressoché inedito o sconosciuto, sia nella loro funzione storica e sociale, sia nella loro qualificazione devozionale, artistica o artigianale. La caratteristica di questi e dei tanti altri libri pubblicati da Nino (notevoli quelli sulla Bari bizantina), è da cogliere nella felice sintesi tra ricerca, fondata sempre sulle fonti, conoscenza delle tradizioni orali, talvolta incerte, ed esigenza di presentare al grande pubblico
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in un linguaggio semplice e piano le materie che tratta, finendo col fare una meritoria opera di altissima divulgazione, evitando che la storia rimanga patrimonio di pochi eruditi o serva unicamente a costruire carriere accademiche che, in verità, poco interessano il grande pubblico o l’ansia di sapere che caratterizza la società contemporanea. A parte alcuni volumi incentrati quasi esclusivamente sulla Francia, ma sempre in chiave barese (San Nicola), sono soprattutto le vicende ricchissime che hanno interessato la Puglia nel corso dei secoli a colpire la fantasia di Nino e a muoverlo a presentarle ai suoi concittadini e al mondo della ricerca: vicende ricchissime già evidenziate da Dante Alighieri, il quale, nel presentare nel 28° canto del’Inferno (7-21) la bolgia dei seminatori di scandali e di scismi, sostiene che l’orrore ed il raccapriccio davanti a quella scena erano tali da non poter essere espressi in alcun modo, neppure se si fossero radunati tutti i morti e i feriti che avevano combattuto tante guerre nella fortunata terra di Puglia: dove terra fortunata significa terra esposta alle diverse vicende della fortuna a causa della sua posizione geografica e delle contese che su di essa si erano svolte per secoli. Quella terra fortunata era stata abitata da popolazioni preromane e preelleniche (Dauni, Peuceti, Messapi); era stata raggiunta, secondo la tradizione, da Diomede che vi avrebbe fondato alcune Città, proprio da queste parti; probabilmente fu attraversata da Enea in fuga da Troia verso il Lazio; fu sottomessa ai Greci e poi conquistata dai Romani, i quali, avendone intuito l’importanza, la sottrassero ai Greci e la contesero strenuamente al Cartaginese Annibale. Dopo i Romani vi passarono diverse popolazioni ed eserciti: Goti, Bizantini, Longobardi, Saraceni, poi di nuovo Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini e Catalani, Francesi e Spagnoli, Austriaci e Tedeschi, Turchi, Ungheresi e Russi, oltre le sporadiche ma non meno rovinose presenze corsare, barbaresche ed illiriche. E ciascuna di queste popolazioni, di provenienza sia orientale che occidentale, portò in Puglia il proprio patrimonio storico e culturale, le proprie consuetudini di vita, la propria lingua e le proprie convinzioni religiose. Tutto questo connotò la Puglia come regione cerniera tra Oriente ed Occidente, come regione di frontiera, punto di incontro e di scontro e l’impronta della loro presenza negli usi, nei costumi, nelle tradizioni, nella lingua, nell’arte, in molti atteggiamenti mentali e quotidiani. Un motivo di notevole rilevanza per la connotazione internazionale della Puglia è costituito sicuramente dalla presenza musulmana nel IX secolo soprattutto a Bari e a Taranto. Tale presenza non è che un episodio dell’offensiva musulmana contro il mondo cristiano, che interessò la Sicilia e l’Italia meridionale. Come è stato puntualmente ricostruito, dopo il noto volume di Giosuè Musca, da Nino Lavermicocca, a Bari fiorì, per circa un quarto di secolo (847-871), un vero e proprio Stato musulmano che ha saccheggiato in lungo e in largo la Puglia e ha a lungo esercitato il mercato degli schiavi. I suoi tre emiri furono il berbero Khalfun, che conquistò e fortificò la
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Nino Lavermicocca
Adriatico, golfo mediterraneo: incontri e scontri di civiltà e culture Al carissimo Beppe Andreassi, in ricordo dell’amicizia lunga una vita
L’Adriatico, riconosciuto recentemente mare d’Europa per la sua centralità negli eventi storici e nello sviluppo dei rapporti fra i popoli delle sue sponde, alla luce della nuova situazione politica venutasi a creare con il crollo delle barriere ideologiche, consente oggi di riallacciare i secolari rapporti di consuetudine e frequentazione fra regioni, città, uomini e cose, stemperati i conflitti e le contrapposizioni religiose e militari, che nel passato ne avevano fatto un vero e proprio discrimine fra oriente e occidente, fin dalla battaglia di Azio (31 a.C.) a quella di Lepanto (1571), svoltesi per fatale combinazione della sorte, nello stesso braccio di mare (golfo di Ambracia) e, più a sud, all’imboccatura del golfo di Patrasso. Soprattutto la Puglia, porta dell’Adriatico, è in grado di cogliere oggi tutte le potenzialità insite in questa riscoperta, riannodando rapporti storici, economici, culturali, più che mai attuali. In questo quadro un ruolo privilegiato hanno le connessioni fra le città rivierasche pugliesi, da Vieste a Otranto, con le “consorelle” dell’opposta sponda, attive e proficue per tutta l’antichità e l’età medievale fino alle soglie del mondo contemporaneo. Prova dunque la regione a ricostruire i fondamenti di questo millenario rapporto, andando indietro nel tempo, ma pronta ad ogni sviluppo futuro, puntando su città come Trani, Bari, Brindisi, Otranto, che “aprono” alle culture adriatiche mediterranee (ebraica, musulmana, ortodossa) con iniziative e proposte che concernono in particolare la Serbia, la Croazia, il Montenegro, l’Albania, la Grecia, la Turchia, in un fermento di attività e confronti, analogo a quello di altre città dello stesso mare, quali Ancona, Ravenna, Venezia e Trieste. “L’Adriatico sintetizza il Mediterraneo”, ricorda Sergio Anselmi citando i versi di Dante che descrivono quel mare (“La maggior valle in che l’acqua si spande … fuor da quel mar che la terra inghirlanda tra discordanti lidi”). “I Mediterranei (mari fra terre) sono parecchi nel mondo, ma nessuno di essi si pone alla convergenza di tre continenti ricevendone, con le acque dei fiumi, infinite suggestioni. Africa, Asia, Europa entrano direttamente o indirettamente in Adriatico da tempo immemorabile e contribuiscono a farne un bacino peculiare, diverso da altri che hanno forma fisica simile, ma non ne hanno posseduto e non ne posseggono la ricchezza culturale: il mar Baltico, il mar Rosso, il mare o Golfo Persico” (Anselmi, 2000, p. 10).
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Secondo radicate attestazioni storico-archeologiche, il mare prende il suo nome dalla città protoveneta di “Adrias” (“Adriaticum mare ab Adria”), conquistata dai Greci nel VI sec. a.C. Per i Romani fu noto invece come mare “settentrionale” (mare Superum), a nord di Ancona, infestato da genti infide, secondo quanto ricordato da Livio : “Illyri, Liburnique et Histri, gentes ferae et magna ex parte latrociniis maritimis infames”. Dal IV secolo d.C. l’Adriatico segnò a mezzo il confine fra i due imperi: Roma e Costantinopoli (Anselmi, 2000, pp. 11-12), divenendo il mare più affollato in un via vai, non sempre pacifico in verità, fra Romani, Goti, Bizantini, Ebrei, Arabi, Veneziani, Italici, Slavi, Dalmati, Bulgari, Normanni, Albanesi. Ne emersero come protagonisti i Veneti già dal IX-X sec., cui il mare fu assoggettato col nome della loro città capitale: “Dira Banadija” (braccio di Venezia), obliterando le altre connotazioni di mar di Levante, bizantino e pugliese. Invertendo i termini dei rapporti, sostiene Matvejević che è l’Adriatico il punto di partenza per accedere al Mediterraneo, dai porti e golfi della parte costiera settentrionale, da Malaga al Bosforo, battuti da navi e mercanti con le loro merci, codici, pesi e misure: olio, grano, vino, sale, frutta, metalli, legname, oggetti preziosi, tessuti, animali e cibi dalle città più in vista: Venezia, Ragusa, Bari, Ancona, Trieste, Zara, Cattaro, Durazzo, Corfù, con le loro navi dai nomi vari e pittoreschi, ornate di maschere e polene (una galea di Traù, con polena in forma di donna, partecipò alla battaglia di Lepanto). Mentre gli Arabi (Berberi) si avventarono con prontezza e coraggio sul mare dalla loro “isola degli Arabi” (l’Arabia: Dzazirat al-Arab), i Turchi non vi furono avvezzi. Persino il vocabolo mare – deniz - fu preso a prestito dal persiano “deryasi”; a Lepanto essi furono infatti messi fuori dall’Adriatico (salvo scorrerie ed incursioni), convinti che “Allah diede la terra ai fedeli e il mare ai “giaurri” (infedeli). Per i Turchi il Mediterraneo orientale (Egeo, Jonio ed Adriatico meridionale) fu il “mare di Rumelia – Albahr al-Rum”, prima che golfo di Venezia, la tenace antagonista dei Sultani, che contese loro palmo a palmo il suo dominio su terre e città dell’Egeo e dell’Adriatico, ricevendo a volte caldi elogi per il suo buon governo dai sudditi: “Cosa c’è di più piacevole nella nostra epoca che passare la vita sotto il governo di Venezia? La loro città è sempre libera, mai sottoposta al tributo del sangue, sempre cristiana, mai infangata da falsi culti idolatrici; è la regina del mare, creatrice di tutte le ricchezze, dolcezza del mondo, permanente cultrice della giustizia e della fede” (Can. Jurje Sižgorić, cit., da Matvejević, 1993, p. 282; cfr. inoltre pp. 17-29, 74-89, 110-113, 209-213). Sull’Adriatico incombono i Balcani, le alture chiamate dai geografi antichi Haemus e Catena Mundi, dagli Slavi dette invece “montagne vecchie” (stara planina), tradotte infine nel vocabolo turco “Balcan” (monte). La penisola balcanica (in passato illirica, greca, bizantina e financo Turchia europea), lambita da più mari: Adriatico, Ionio, Egeo, mar Nero e mar di Marmara, non rappresenta una barriera visibile di fronte all’Europa occidentale (Matvejević 2000, pp. 41-42), abitata in passato da una
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Il Mediterraneo in una carta del XVI sec.
macedonia di popoli e tribù, elencate dall’erudito canonico di Sebenico Jurje Sižgorić, dianzi citato, fra cui alcune imparentate con etnie pugliesi: Peuceci, Soreti, Iasi, Norici, Ardei, Giapodi, Daisi, Istri, Liburni, Illiri, Peceneghi, Pelasgi, Valacchi, ecc. “L’Europa e il Mediterraneo - sostiene Matvejević – si sono spaccati proprio in seno ai Balcani. Nel fossato che si è scavato fra il cattolicesimo e l’ortodossia si è inserito l’Islam” (Matvejević 2000, pp. 42-43). Questo cono liquido incubatore di civiltà e culture non è vasto. Se ne vedano le cifre in F. Braudel: “Da Venezia al distretto di Otranto, l’Adriatico copre 700 km; la sua superficie è di km 140.000 quadrati; ridotta a un cerchio, avrebbe un diametro di km 492; le aree costiere continentali e insulari misurano rispettivamente 3887 km e 1980 km. Il Canale d’Otranto, fra Italia e Albania, da cui il mare fluisce nel Mediterraneo, è pari a km 72 di larghezza. È un mare dissimetrico. La costa occidentale è grosso modo rettilinea, eccetto l’escrescenza del Gargano… al di fuori di Venezia, ha porti di mediocre importanza: Ancona che fu sino alla fine del XIX sec. porto pontificio; Bari e Brindisi che furono nel medioevo porti d’imbarco per i pellegrinaggi in Terra Santa. Il corpo di san Nicola venne a toccare Bari dall’Oriente per diventare il protettore dei pellegrini e degli scolari e per trasformarsi, nell’Europa del Nord, in papà Natale – santa Klaus. In questa leggenda, come sovente, si trova un tema essenziale dell’Adriatico: le relazioni fra oriente e occidente” (Braudel, cit., in Le Goff 2001, p. 1). Anche dal punto di vista degli eventi storici e dei mutamenti, l’Adriatico costituisce un ambito limitato, con forti elementi di continuità in uno spazio geografico esi-
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guo. Ad es. Orikos, la città fondata dagli Eubei nelle baia di Vlora nell’VIII sec a.C., ha percorso gli stadi di tutte le dominazioni successive, con stupefacente stabilità di centro abitato e base navale: Oricum romana, Aulona bizantina, Pashă Limani turca, Valona-Vlora contemporanea. E così la corona delle città rivierasche delle due sponde più volte citate dianzi: Ragusa, Spalato, Cattaro, Durazzo, Venezia, Ancona, Bari, Brindisi, Otranto, ecc. Mare di contraddizioni e tuttavia omogeneo per geografia, politica, economia, religione e storia, sia che questa proceda da nord a sud, dall’alto in basso, in riferimento all’azione di Venezia prima, dell’Impero austro-ungarico poi, e infine degli Ottomani (ai quali si deve la rottura degli Stati balcanici e la successiva fuga di Slavi, Albanesi e Greci verso l’Italia ); sia che, andando a ritroso nel tempo remoto, sia stata invece la colonizzazione greca dal VII sec. a.C. ad agitare le acque della storia nel basso Adriatico con la fondazione delle colonie eubee e corinzie di: Corcyra (Corfù), Apollonia, Dyrrachium (Durazzo) e di quelle laconiche ed attiche sulle coste della Magna Grecia (Le Goff 2001, pp. 2-3; Cabanes 2001, pp. 25-37). Una Mostra documentaria (luglio-agosto 2003), organizzata a Ravenna dal “Centro Studi per l’Archeologia dell’Adriatico”, ha messo in luce la disseminazione dei luoghi di interesse culturale, nell’arco cronologico compreso fra preistoria e medioevo, lungo le sue sponde, dal Friuli alla Puglia, in un bacino che ha svolto di continuo “il ruolo di intermediazione tra i grandi movimenti culturali che solcavano le acque del mare e i rispettivi entroterra” (Sassatelli, in Adriatica 2003, p. 3). Fra i siti di maggior interesse, si segnalano in compendio: la laguna di Marano (Friuli, popolamento preistorico); Campomarino (Molise, villaggio protostorico); Gargano meridionale (Puglia, grotta Paglicci, paleolitico superiore); Trinitapoli (Puglia, ipogei funerari); Adria (Veneto, necropoli VI-V sec.a.C.); Vaste (Puglia, sito messapico); Ravenna e Classe (Emilia Romagna, la “domus” e le tombe di I-II sec. d.C.); Rimini (Emilia Romagna, la “domus del chirurgo”, II sec. d. C.); Ancona (Marche, la cattedrale paleocristiana e i suoi mosaici); Lucera (Puglia, chiese paleocristiane di San Giusto); Bitonto (Puglia, basilica paleocristiana sotto la cattedrale romanica) (Adriatica 2003, schede, pp. 5, 9, 10-11, 13, 20, 24-25, 27, 31, 39, 42, 45-46). Con la caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476, l’Adriatico ridiventò frontiera fra le due sponde. Roma e Bisanzio si allontanarono, pur lasciando all’Adriatico l’eredità di una concezione imperiale e continentale del mare, rivolta cioè a conservare il dominio sulle terre confinanti più che sul mare stesso (Ducellier 2001, p. 109). Da questo momento anche la religione, il diritto, le leggi, la lingua, evoluzione politica ed economica accentuarono la differenza fra le due capitali. Ma le funzioni delle città portuali non sembrarono interrompersi e anche le celebri strade romane AppiaTraiana ed Egnazia mantennero ruolo e funzione di connessione fra le due parti dell’Impero: l’una l’Appia, scendendo sulle rive dell’Adriatico a Brindisi; l’altra,
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rio. Qui il Doge discusse i piani per liberare la città dalle sofferenze inflitte dai pagani saraceni. Per primo dunque concesse sussidi ai cittadini bisognosi, per alleviarne la fame. Poi invitò tutti a combattere virilmente contro quel popolo nefandissimo; preceduto quindi dal suo vessillo in segno di vittoria, dispose i soldati parte fuori delle mura, parte portandoli con sé sulle navi, pronto ad attaccare i saraceni sul mare. Per tre giorni il doge infierì su di loro con spade, lance e frecce infuocate, sin quando essi si ritirarono in silenzio, di notte. Per i cittadini allora divenne degno di fama e di ogni onore il nome del Doge Pietro che senza alcun timore e con l’aiuto del cielo li aveva liberati dal flagello dei nemici. Ritengo di non passare sotto silenzio un fatto prodigioso, accaduto ad un saraceno nel giorno in cui i cristiani festeggiano l’Assunzione della Vergine. Mentre costui infatti era di guardia su una imprendibile torre del monastero di San Benedetto nei pressi della città, vide una stella dal vivo splendore che dall’occidente venne a cadere con velocissimo corso nel porto antistante. Riferito il fatto a Gerolamo, allora padre ed abate del monastero, costui comprese che di lì a poco sarebbe giunto per i cittadini il soccorso di santa Maria, invocata come “stella maris”. Il che la Vergine intemerata confermò con l’arrivo del doge Pietro, al quale, venuto infatti dall’occidente, concesse il trionfo sul nemico il giorno della festa della sua nascita. Il Doge inviò da Bari messaggeri a Costantinopoli e colmato di doni dal Catapano, tornò sano e salvo a Venezia” (Monticolo 1890, pp. 165-167; Lavermicocca 2003, p. 118). La seconda vivida testimonianza dell’evento è rappresentata dalla epigrafe incisa nella roccia della chiesa rupestre di Santa Eufemia nell’isola del faro di Vieste. La grotta marina nel periodo greco-romano era stata un santuario consacrato a Venere “Sosandra” (salvatrice dei naviganti che solcavano le acque dell’Adriatico), come attestato dalle centinaia di epigrafi votive greche e latine incise nella roccia. Nel porto di Vieste la flotta di Orseolo approdò il 3 settembre del 1003, secondo quanto attestato dalla iscrizione commemoratrice dell’evento: “Nel nome di Cristo Salvatore, nell’anno 1003 della sua incarnazione, nel giorno 3 settembre indizione prima, entrò in questo porto Pietro doge dei Veneziani e dei Dalmati, con cento navi, pronto alla guerra contro i Saraceni che assediavano Bari e combattè con loro, uccidendone molti e mettendo in fuga gli altri. Pietro Doge” (Lavermicocca 2003, p. 119; Corsi 1989,pp. 337-343; Russi 1989, pp. 299-309). Adriatico dunque mare di guerra? Oltre che arena di scontro tra “Res publica Christiana” (Manselli) e Islam, latinità occidentale contro ortodossia orientale, fu anche mare di pace, aperto alle relazioni economiche fra le due sponde, agli intrecci delle culture e dei costumi, alla conoscenza fra genti diverse, all’interscambio di forme e prodotti d’arte (architettura, pittura, scultura, miniatura, oreficeria, ecc.). La Puglia fu epicentro di tutti gli eventi sviluppatisi nel “suo” mare: politici, militari, culturali e religiosi. “Ebraismo, Cristianesimo e Islam, le tre grandi religioni monoteistiche del Medi-
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terraneo, sorte e consolidatesi sul ceppo abramitico, hanno fatto registrare in Puglia, nel corso dei secoli una presenza sicuramente ineguale nel tempo e nello spazio, ma molto incisiva per gli esiti prodotti, anch’essi ineguali per spessore e consistenza… Regione cerniera, dunque, in quel gran mare che è il Mediterraneo, il mare degli uliveti e delle vigne, il mare dei mercanti e dei pellegrini; il mare che ha costituito un mondo sempre in fermento, in cui tracce di antiche civiltà si sono fuse con energie sempre fresche e vitali, dando vita a forme d’arte che hanno esaltato la creatività e l’ingegno dell’uomo, dalla musica alla poesia, alla pittura, alla scultura” (Otranto 2000, pp. 88-89, 98-99). In questo immenso palcoscenico, l’Adriatico potè ritagliarsi uno spazio ben preciso, che ne costituisce tuttora l’orizzonte geografico e culturale secondo Braudel: “Tra tutti i piccoli Mediterranei, giardini di un solo o più padroni, l’Adriatico è l’esempio più vistoso. Tra tutte le riduzioni del Mare interno, è la più riuscita, la meglio avvolta di terre e forse la regione marittima più coerente, per la sua storia […] verso sud l’Adriatico sbocca nel Mar Ionio attraverso il Canale d’Otranto, tra il capo omonimo in Italia e quello di Linguetta in Albania. Canale stretto: le carte marine indicano che misura soltanto 72 chilometri. Già nel secolo III a.C. i “lèmboi” a vele spiegate e con vento favorevole lo attraversavano in un giorno. Altrettanto fanno nel secolo XVI le fregate incaricate di portare notizie da Corfù e Cefalonia fino alle coste napoletane e viceversa per conto del Vicerè di Napoli. Una ‘memoria’ spagnola del 1598, tra le altre cose dice che da ‘Capo d’Otranto’ si scorgono le luci di Valona”.
Mar di Bisanzio: la Puglia e Costantinopoli fra IX e XI sec. Si dice che il “fuoco greco”, la micidiale miscela incendiaria messa a punto dall’architetto siriano Callinico, abbia salvato Costantinopoli dal primo prolungato assedio da parte degli Arabi guidati dal califfo Mu’awiya fra 674 e 678. Respinti dalle mura, essi finirono miseramente travolti da una tempesta che inabissò la loro flotta di centinaia di navi davanti alle coste della Pamphilia (Ostrogorsky 1968, pp. 108109). Stornato il pericolo musulmano, gli imperatori Costantino IV (668-685) e Giustiniano II (685-695; 705-711) decisero allora di potenziare e raggruppare la flotta imperiale nel “tema” marittimo dei “Karabisianoi” (da Karabos = caracca), contro lo sciame della pirateria araba nell’Egeo, con a capo un Drungario “toū ploímou” o “Strategós tón Karábon” (e delle galee, chelandie, dromoni, triremi, ecc.). Per fronteggiare la minaccia di Creta, presa dagli Arabi nell’826-827, furono creati arsenali (neória, nome di una porta delle mura di Costantinopoli, prossima al quartiere dei Baresi), basi navali e flotte dei “temi” del Dodecanneso, di Cefalonia, di Tessalonica, Abydo, Cizico, Peloponneso, Sicilia, Cipro, Dalmazia, Durazzo, comandati da drungari, catapani, arconti, strateghi, centarchi, protokáraboi, nauclerii, turmarchi. Nel IX secolo la flotta bizantina (basilikós ploìmos), era composta da circa 150- 200 dro-
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Istanbul (da Matrakci Nasuh, XVI sec.).
moni, più galee, chelandie, triremi e navi da trasporto (kamaterá karábia) (Ahrweiler 1966, pp. 22-25; 34-55, 91-98). La talassocrazia araba cominciò a cedere già intorno all’843-844, anni in cui i Bizantini riuscirono a riconquistare, anche se per un breve periodo, Creta. La flotta imperiale fu in grado anche di espugnare nell’853 la roccaforte di Damietta, sulle coste egiziane nei pressi della foce del Nilo e anche per terra l’esercito bizantino, comandato dagli esperti generali di Michele III (842-867), ottenne una serie di folgoranti vittorie contro il califfo abbaside di Baghdad al- Wāthiq e nell’863 contro l’emiro turco di Melitene Omar (Ostrogorsky 1968, pp. 201-208). La guerra continuò sul mare con alterne fortune: nel 910 la flotta bizantina occupò Cipro; nel 911 veniva invece distrutta nelle acque di Creta. Ma nell’estate del 960 la flotta, guidata dal “domestikós” Niceforo Foca, pose di nuovo l’assedio alla grande isola che venne finalmente riconquistata nel 961 e sottratta agli Arabi dopo un dominio di circa un secolo e mezzo. Per terra l’esercito di Foca ottenne ugualmente grandi successi, fra cui, nel 962, la caduta di Aleppo, capitale dell’emiro di Mosul e Aleppo, Saif ad-Dawla (Ostrogorsky 1968, pp. 243-245; 249-250). La conquista di Creta sancì un lungo periodo di pace marittima (al di là delle effimere incursioni barbaresche, - sacco di Mira nel 1039), sguarnendo il Mediterraneo e l’Adriatico della flotta, limitata ad una squadra navale di stanza a Costantinopoli, quasi possesso personale dell’imperatore (basilikón dromónion”). Al tempo dell’invasione normanna dell’Italia meridionale non si trovavano navi bizantine nelle basi deserte di Cefalonia, Corfù, Durazzo, ad eccezione di qualche bastimento al comando dello stratega Maurizio di Paflagonia e di qualche flottiglia per il controllo del Canale d’Otranto (Ahrweiler 1966, pp. 130 sgg., 156-162, 175-180).
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esse turpem, nefariam et abominevolem et contra omnem humanitatem” (Verlinden 1973, pp. 105-108, 117-122, 132-136).
Selgiukidi, flagello di Dio: santuari in fiamme, reliquie in fuga I primi contatti fra Bizantini e Turchi si ebbero intorno al 568, quando fu stipulata un’alleanza fra l’imperatore bizantino Giustino II e il khan turco Silzibul, in funzione antipersiana e un trattato per il commercio della seta, disdetti ambedue nel 576, per ripicca contro la politica bizantina verso gli Avari e per l’ostilità del nuovo khan Tourxath, il quale minacciò di occupare la Crimea e la sua capitale Cherson. A distanza di secoli, oltre gli Avari, dalla Balcania, minacciarono Costantinopoli i Peceneghi fra 1034 e 1047, guidati dal Khan Tyrach e gli Uzi nel 1064 (Ostrogorsky 1974, pp. 238 sgg., 301 sgg.). Alla fine del X secolo le tribù turche Orghuz si mossero dalle rive del mar Caspio verso l’occidente, guidate dal sultano Rukn al-Dunya wa’l-din Tughril e raggiunsero Baghdad nel 1055. Da un ramo degli Orghuz discendevano le tribù dei Grandi Selgiukidi (1038-1280) (Grube 1993, p. 213). La sarabanda degli attacchi arabi all’Italia meridionale, come visto in precedenza (Canard 1965, pp 38-62, Rizzitano 1965, pp. 96-103), fu determinata dal celebre califfo abbaside di Baghdad Harun ar-Raschīd (786-809), che nell’800 cedette i territori dell’Africa del nord (Ifrīqīyya) al governatore Ibrahīm ibn al-Aghlab (dinastia degli Aglabiti), da cui partirono gli attacchi all’occidente. L’emiro aglabita di Tunisi si rivolse nel 1060 a Roberto Guiscardo per ottenere l’aiuto nella conquista della Sicilia per suo conto (Sarnelli Cerqua 1998, pp. 271-276). Secondo la testimonianza di Matteo di Edessa, i Turchi Orghuz apparvero per la prima volta nel 1016-1017 in Armenia, nel distretto di Vaspuracan, gettandovi il terrore. Matteo ne paragona l’assalto a quello di un dragone sputafuoco: “… il dragone seminatore di morte apparve accompagnato da fiamme voraci, che distrussero i credenti della Santa Trinità. I libri degli Apostoli e dei Profeti tremarono per il terrore dei serpenti alati sopraggiunti per vomitare fuoco contro i fedeli di Cristo. Tento di descrivere con queste parole il sorgere improvviso di quelle bestie feroci assetate di sangue, che si radunarono tutte insieme nella regione selvaggia dei Turchi. Sbucando da lì, essi entrarono nella provincia di Vespuracan, passando a fil di spada tutti i cristiani. A fronte del nemico, gli Armeni osservavano questi uomini strani, armati di frecce e con i capelli lunghi come quelli delle donne”. Probabilmente non si trattava ancora di Turchi Selgiukidi, ma Turcomanni delle tribù dei Rawawadi di Tabriz e dei Shaddadi di Ghazna. Secondo le loro tradizioni, un certo Dudak e suo figlio Selgiuk, della tribù Kǐnǐk Orghuz, erano assoggettati ad un Khan kazaro delle steppe asiatiche. Selgiuk fuggì dalla corte del khan con un piccolo seguito, insediandosi sulle rive del fiume Jaxartes, dove si convertì all’Islam, divenendo così un guerriero della fede (ghazi), difensore dei
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In senso orario da sinistra: Berat (Albania), ingresso alla cittadella fortificata; Giannina (Grecia), la cittadella; Ohrid (Macedonia), fortificazioni della cittadella
tura!”. La morte sopraggiunse dopo sei giorni di malattia; Roberto si spense il 17 luglio del 1085; la punizione divina, invocata da Alessio Comneno per la sacrilega guerra, lo aveva finalmente raggiunto. Una improvvisa tempesta, scoppiata in piena estate, per poco non inghiottì nelle profondità del mare, anche il suo corpo, trasportato su una galea verso la Puglia. L’Imperatore poteva finalmente emettere un grande respiro di sollievo! (Anne Comnène 1967, t. II, ll. V-X, pp. 50-55). Anche a Bari la notizia del funesto evento fu accolta con qualche soddisfazione, almeno negli ambienti filo bizantini della città. L’annalista Lupo Protospata sembra adombrare anch’egli nella morte del duca l’intervento della Divina Provvidenza: “Nel mese di luglio … il duca morì di dissenteria per volere del misericordiosissimo e onnipotente Dio, che dissipa e riprova i pensieri e i progetti dei principi che non sono in armonia con i suoi” (Cioffari, Lupoli Tateo 1991, p. 80, ma anche 77-79 per la campagna militare balcanica). Una stupefacente identità di vedute!
Boemondo: martello dei Turchi La morte del Guiscardo, spegnendo la minaccia dall’occidente, offriva ad Alessio Comneno l’occasione per impiegare risorse e uomini in Anatolia, ormai occupata per intero dai Selgiukidi. A Nicea, abbandonata dal sultano Sulayman I, regnava ora l’emiro Abū l-Qāsim; Sinope sul mar Nero era stata conquistata dall’emiro Karatekin, che si era impadronito anche di un deposito cospicuo di monete d’oro apparte-
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noi e conducendo con voi quanti potrete condurre … venite dunque ad aiutarci a concludere questa guerra che è la vostra. Noi abbiamo vinto i Turchi e i pagani; non possiamo combattere anche gli eretici, i greci, gli armeni, i siriani, i giacobiti. Ve ne scongiuriamo dunque, santissimo Padre, venite fra i vostri figli. Voi che siete il Vicario di Pietro, venite a prendere il vostro posto nella sua Chiesa, venite a formare i nostri cuori alla sottomissione e all’obbedienza, venite a distruggere con la vostra suprema autorità tutte le eresie. Venite a guidarci nel cammino che ci avete tracciato, ad aprirci le porte dell’una e dell’altra Gerusalemme, venite a liberare con noi la tomba di Gesù Cristo e a far prevalere il nome cristiano su tutti gli altri nomi” (Richard 1999, p. 108).
L’Adriatico: da lago veneziano a mare degli Ottomani Il secolo XII fu, com’è noto, esiziale per Costantinopoli. Stretto fra i leoni normanni ad occidente e le iene turche ad oriente, l’onagro bizantino finì per soccombere. Nel 1204 i “fratelli” latini, prima dei Turchi, devastarono la Capitale della cristianità orientale, spogliandola di ogni bene. Ancora una volta si rivelarono più pericolosi dei musulmani (Lilie 1991, p. 36). Le ostilità furono aperte da Boemondo con la II campagna militare contro l’imperatore bizantino Alessio Comneno fra 1105 (19 ottobre partenza da Brindisi della flotta e dell’esercito) e 1106, anno della resa del normanno, firmata a Kastorià a pie’ di un trattato di ventotto clausole molto restrittive ed umilianti. I Bizantini erano riusciti ad armare contro i Normanni una flotta di un centinaio di navi, tra cui molte di “tecnologia avanzata”, dotate di sifoni per il lancio del fuoco greco, salutate con entusiasmo da Anna Comnena: “… alla prua di ogni nave furono fissate teste di leone o di altri animali terrestri in bronzo o ferro, con le fauci spalancate, dorate affinchè il loro aspetto fosse più temibile; il fuoco doveva essere lanciato contro il nemico per mezzo di tubi, passando attraverso la bocca degli animali, come se lo vomitassero”. Il primo scontro si ebbe contro la flotta pisana, giunta in soccorso di Boemondo ad Antiochia, battuta nel tratto di mare fra Patara e Rodi; anche i Genovesi furono chiamati in aiuto dal Principe normanno, colmati di privilegi nel 1104 (mentre non v’è traccia di aiuti di navi provenienti da Bari, certamente attive in quel periodo). La flotta bizantina fu impiegata con successo nel corso della campagna balcanica di Boemondo, affidata al comando del “megadux” Isacco Kontostephanos, che fu in grado di sferrare qualche attacco a Brindisi e Otranto (Anne Comnène 1967, t. III, ll. XI-XV, pp. 42-46, 53-54, 64-67, 77-78, 81-85, 91-94, 104-110, 114-120, 125-139; Ahrweiler 1966, pp. 185-194; Lavermicocca 2006, pp. 40-42, 88-94). Anche al III dei grandi imperatori Comneni, Manuele (1143-1180), toccò in sorte di subire un proditorio assalto da parte di Ruggero II, definito da Teodoro Prodromo “insensato e folle tiranno di una piccola Toparchia di scimmie, che osa levare la sua
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nigione e dagli abitanti (anche le donne sui bastioni), animati dalle allocuzioni vibranti del domenicano Bartolomeo d’Epiro, un secondo Giovanni da Capestrano e dall’esempio di Nicolò Moneta, comandante della cavalleria. Gedik Ahmed, che partecipava all’azione, consigliò il Sultano di sospendere il bombardamento della città, prolungare l’assedio e distruggere i dintorni per impedire ogni soccorso. Fra i villaggi, i castelli e le città vicine, soltanto Drivasto, a 10 km ad est di Scutari, oppose per 16 giorni la più tenace resistenza, punita per questa colpa con un eccidio miserando. Cinquecento abitanti furono trascinati davanti alle mura della città e sulla cima di un colle, ben in vista di Scutari, furono tutti decapitati, “martiri” di Drivasto, come, più tardi, quelli Otranto. Il Sultano, dopo aver profanato, in quella occasione, i resti mortali di Skanderbeg, come accennato dianzi, abbandonò fra il 17 e 18 settembre 1478, irritato ed umiliato, il teatro di guerra, ingiungendo al visir e flambulario di Valona Gedik Ahmed pashā, di continuare l’assedio con circa quarantamila uomini. Ma ciò che non potè la spada, fu ottenuto con la parola: un trattato di pace fu stipulato fra Maometto II e Venezia il 25 gennaio 1479, che restituiva, fra l’altro, l’eroica città di Scutari al Sultano. Alla notizia della cessione, gli abitanti superstiti decisero tutti insieme di emigrare, quattrocentocinquanta uomini e centocinquanta donne, alla volta di Venezia, Napoli, la Puglia, con le suppellettili, armi, beni personali, arredi sacri ecc. Poco dopo la guerra di Scutari, Gedik Ahmed, sempre nella veste di “Kapudan pashā” della flotta e Flambulario di Valona, ebbe l’ordine di impossessarsi delle isole ionie (Cefalonia, Leucade, Zante) nell’estate del 1479. L’anno successivo le sue navi avrebbero veleggiato verso Otranto : “l’ora di tutti” era arrivata! (Babinger 1967, pp. 391-395, 401-403, 415-417).
Oltre l’Adriatico: il giardino della mela rossa Giorgio Skanderbeg, con la sua mirabile azione militare, non aveva soltanto difeso, finchè ebbe forza, la sua terra, l’Albania, contro la cupidigia del Sultano, ma protetto anche, oltre Adriatico, la Puglia, al riparo del suo braccio. L’eroe albanese era stato a lungo connesso con le vicende politiche del Regno di Napoli, soprattutto dopo la morte di Alfonso d’Aragona (27 giugno 1458), accorso in aiuto del suo successore e figlio Ferdinando I (Ferrante ,1458-1494). Nel Trattato del 26 marzo 1451 egli si era dichiarato vassallo di Alfonso, per ottenere protezione e aiuto contro i Turchi e in effetti il re di Napoli gli aveva inviato nel 1454 uomini e viveri nel presidio di Kruja. Skanderbeg, per contraccambio, era intervenuto a favore di Ferdinando nella guerra che lo aveva opposto al principe Giovanni Antonio del Balzo Orsini, con il quale ebbe qualche scambio di battute polemiche. All’Orsini, che gli aveva rinfacciato di combattere gli Italiani piuttosto che i Turchi, egli rispose orgogliosamente che egli aveva già debellato i Turchi a Kruja e che forse sarebbe stato meglio che proprio l’Or-
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La Puglia, l'Adriatico, i Turchi (dai Selgiukidi agli Ottomani, 1071-1571)
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marcire! (Babinger 1967, pp. 439-441, 443-445; Mansel 1997, pp, 25-35; Djyarberkikli 1986, pp. 23-27; Rovighi 1986, pp. 101-109; Cardini 2011, pp. 9-12). La morte di Maometto II interruppe provvidenzialmente i progetti di conquista dell’Italia e consigliarono i Turchi ad abbandonare la città di Otranto. Gedik Ahmed era già partito per Costantinopoli per seguire da vicino le vicende della successione al trono e accaparrarsi il favore del nuovo sultano Bayazid. Sotto la pressione delle milizie napoletane (diciottomila armati e centotrentadue navi), coadiuvate dalle truppe di rinforzo ungheresi capitanate da Biagio Magyar (cinquecento fanti e trecento cavalieri), il presidio degli Ottomani si arrese il 10 settembre 1481, imbarcandosi per Valona e ritirandosi precipitosamente da quel mare Adriatico che avevano attraversato l’anno precedente con tanta orgogliosa sicurezza. Ecco come lo storico Ibn Kemàl descrive il ritorno di Otranto nelle mani degli infedeli: “Quando il Signore del Regno di Napoli ricevette la notizia del trapasso del sultano Maometto II nell’al di là, nel Serraglio della gioia, e venne a sapere che pure Ahmed pashā se ne era andato via da Otranto, rimasta così incustodita, … si sforzò di scacciare da quel luogo la gente musulmana. … Assediato il castello per sei mesi di continuo, quei maledetti combatterono di giorno e di notte senza esito e senza dare troppa paura. Era il tempo della debolezza; non c’era possibilità di aiuto con l’invio di soldati dalla madrepatria … poiché da questa parte si tolse la speranza di aiuto, finirono i viveri nell’interno del castello e si esaurirono le munizioni. Alla fine, trovandosi nella impossibilità, non lasciarono né cani, né gatti nel castello, se li mangiarono ed infine, costretti, consegnarono il castello, a patto di vita. Preferirono la vita alla morte” (Salierno 2012, p. 80).
Verso Lepanto La scomparsa del “terrore del mondo” non dissipò comunque l’ossessione e la paura del Turco in Adriatico e in Italia. Nel 1499 gli irregolari “akinci” (saccomanni), guidati dal sangjakbey di Bosnia, Iskander, un rinnegato genovese di Pera, assaltarono i dintorni di Gorizia e Udine, distruggendo villaggi, chiese, masserie; centinaia di miserevoli teste furono issate sulle picche dei predatori, per incutere ovunque il terrore! Il Turco non demordeva, nonostante l’opinione di taluni storici, fra cui il Guicciardini, che addossava al panico e alle false promesse le “chiacchiere sul diluvio che debbe venire, e sul Turco che debbe passare, et se fosse bene fare la crociata, et simili novelle da pancaccie!”. Verso la metà del Cinquecento, il Mediterraneo, il Tirreno e l’Adriatico furono percorsi dalle navi corsare del più famoso fra i pirati: il rinnegato greco: Khair ed-Din detto “Barbarossa”, nato intorno al 1476 a Lesbo, figlio di un vasaio, nominato nel 1519 dal sultano Selim I (1512-1520) beylerbey di Algeri, covo della sua flotta, con cui terrorizzò le coste del Mediterraneo, da Gibilterra alla Sicilia e all’Italia meri-
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Marino Capotorti
La battaglia di Lepanto e la fine dell’egemonia turca sul mare. La partecipazione dei pugliesi Nel XVI secolo lo scacchiere dello scontro tra Cristianità ed Islam raggiunse confini estesissimi: dal Volga al Danubio ai Balcani alla frontiera «liquida » del Mediterraneo occidentale. Nel corso del secolo si andò via via definendo tra le potenze europee una sorta di divisione di compiti in virtù della distribuzione territoriale, che vedeva i sovrani polacchi ed ungheresi ed il ramo austriaco degli Asburgo impegnati sul fronte nord orientale, tedeschi e veneziani su quello balcanico ed adriatico-egeo, la Spagna, che comprendeva all’epoca anche il vicereame di Napoli, e l’Ordine di San Giovanni (dal 1530 chiamato anche dei Cavalieri di Malta) su quello meridionale, vale a dire su tutte le coste comprese tra lo stretto di Gibilterra ed il canale di Sicilia ed oltre. Il livello di tensione o di scontro aperto variava nei diversi periodi e nelle differenti aree, mentre al concentrarsi delle ostilità su uno dei tre fronti corrispondeva sempre un più o meno marcato allentamento della pressione sugli altri. Nello sviluppo generale del conflitto una punta estrema fu raggiunta nel decennio compreso tra il 1560 ed il 1571, caratterizzato dalla morte di Solimano il Magnifico e da uno spostamento del fulcro delle attività belliche dal fronte continentale-danubiano a quello mediterraneo. Nel 1560 i turchi strappavano alla Spagna l’isola di Gerba sulla costa tunisina, infliggendo un duro smacco alla flotta cristiana; nel 1565 assediavano l’isola di Malta, che però resistette ai lunghi attacchi grazie alla strenua ed eroica difesa dei Cavalieri di S. Giovanni; sempre nello stesso anno, l’isola di Chio, possedimento genovese, e l’importante piazzaforte ungherese di Sziget caddero in mano ottomana; nel 1566 Solimano morì, sul campo di battaglia di Szigetvàr in Ungheria; nel 1568 il nuovo sultano Selim II sottoscrisse la pace di Adrianopoli con l’Impero asburgico d’Austria per poter concentrare gli sforzi sul versante mediterraneo; nel 1569 il corsaro governatore di Algeri Uluch-Ali riconquistò, a spese della Spagna, la città di Tunisi; nel luglio 1570 ebbe inizio l’assedio turco di Cipro, possedimento veneziano dal 1474, che si concluse con la conquista ottomana dell’isola solo nell’agosto del 1571, quando si arrese l’ultimo baluardo della resistenza veneta, la piazzaforte di Famagosta; sempre nel 1571, il 7 ottobre, ebbe luogo la famosa battaglia di Lepanto 1. L’assommarsi di tutti questi eventi, prima della battaglia del 7 ottobre, accrebbe notevolmente le preoccupazioni che andavano a sovrapporsi all’endemico terrore dei turchi, soprattutto presso le popolazioni rivierasche, causato dalle mai sopite incursioni e razzie dei corsari ottomani e nordafricani.
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Lepanto (da Matrakci Nasuh, XVI sec.)
In particolare l’assedio di Malta e la presa di Cipro, per l’estrema crudeltà ed il carattere sanguinario delle azioni belliche ed in special modo delle rappresaglie, ebbero una larghissima eco in tutta Europa, scuotendo larghi strati dell’opinione pubblica. Nella vicenda di Cipro, inoltre, tutto contribuì a far mutare la tradizionale politica veneziana di compromesso con i turchi, volta ad evitare il più possibile situazioni di attrito o addirittura di conflitto con il sultano, che potevano sortire effetti dannosi sui traffici nel Levante e sugli equilibri economici della Serenissima. Insieme ai fatti di Cipro, la pressione di un’opinione pubblica incline ad accogliere il progetto del rilancio dell’Europa cattolica in pieno clima controriformistico finì col provocare e favorire l’alleanza tra le due principali potenze navali europee, ossia Venezia e la Spagna, nonostante la proverbiale reciproca inimicizia. Nel frattempo, quasi a dimostrare la sua volontà di conquista dell’Adriatico, il Sultano aveva stabilito la sua base navale più avanzata verso occidente a Lepanto, sita all’imboccatura del golfo di Corinto, a ridosso dello stretto di Patrasso. Una flotta turca poteva partire da Lepanto e, coadiuvata anche dalle basi corsare di Valona e Durazzo, sbarcare a piacimento un esercito sulla costa orientale dell’Italia, ormai vero e proprio fronte di una guerra tra due imperi. Nella primavera del 1571 il capitano corsaro Kara Ogia aveva compiuto scorrerie e razzie addirittura nel golfo di Venezia, poco distante dalla città lagunare, comprovando che nemmeno la barriera protettiva della laguna era più si-
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La Puglia, l'Adriatico, i Turchi (dai Selgiukidi agli Ottomani, 1071-1571)
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A sinistra: S. Vito dei Normanni, chiesa di S. Maria della Vittoria, Autore ignoto, Madonna della Vittoria
A destra: Barletta, chiesa di S. Maria della Vittoria, P. De Matteis (attr.), Madonna della Vittoria
porto di Taranto12. Inoltre, in deroga al perentorio editto emanato dal viceré di Napoli, il duca di Alcalà, e ratificato anche dal suo successore, il cardinale Granvelle, con il quale si proibiva ai regnicoli di arruolarsi al servizio di potenze straniere13, a causa della preoccupante penuria di uomini venne eccezionalmente consentito ai veneziani di assoldare un numero predefinito di fanti in Puglia. Dai dispacci del residente veneto a Napoli Alvise Bonrizzo, sappiamo che il 9 luglio 1571 il viceré concesse che Antonio Tuttavilla raccogliesse in Terra d’Otranto, per conto di Venezia, fino a seicento uomini. Su consiglio del duca d’Atri, il Bonrizzo si rivolse, sia per l’arruolamento sia per un supporto logistico, al duca di Nardò14. Meno di un mese dopo, il 4 agosto, il diplomatico rassicurava il Consiglio dei Dieci informandolo che i seicento fanti raccolti a Otranto e a Bari (in terra d’Otranto ed in terra di Bari) erano già “all’ordine” e, per imbarcarli, si attendeva solo che Venezia inviasse il danaro, aggiungendo che il viceré aveva autorizzato anche il duca d’Atri ad arruolare altri seicento fanti per Venezia in terra d’Otranto. Questi ultimi vennero imbarcati su dodici galee venete a Brindisi, mentre una parte cospicua di soldati veneti, grazie ad una speciale patente di transito concessa dal cardinale Granvella, venne radunata nelle campagne di Taranto, dal cui porto sarebbe poi partita per il Levante15. Tra i fanti pugliesi reclutati dalla Serenissima in Terra d’Otranto, un folto gruppo doveva certamente provenire da
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San Vito dei Normanni, dove la costruzione di una nuova chiesa Matrice, decisa prima dell’avvenimento di Lepanto16, subì un decisivo incentivo ed una notevole accelerazione all’indomani della storica battaglia, sotto l’impulso sia della generale euforia creata dalla vittoria sui turchi sia, soprattutto, dell’entusiasmo particolare dei reduci sanvitesi che avevano preso parte allo scontro ed erano tornati tutti incolumi. L’originaria intitolazione alla Beata Vergine Assunta, in continuità con la precedente chiesa Madre, venne sostituita con quella a S. Maria della Vittoria, che implicava un richiamo diretto a Lepanto, come dimostra anche l’iscrizione CÆLITUS VICTORIA posta sul fregio della trabeazione sovrastante il portale. Senza dubbio, un ruolo fondamentale nell’ambito della flotta alleata cristiana la Puglia lo svolse per quel che concerne le provviste alimentari: infatti, gran parte del biscotto17 destinato alla Lega Santa venne fabbricato in questa regione, autentico granaio del regno, tanto che il viceré noleggiò due navi per trasportarlo a Napoli dai porti di Brindisi e Taranto18. Per migliorare la qualità del prodotto, il consigliere Morcat fece addirittura inviare in Puglia, da Napoli, 120 panettieri: 80 per Brindisi e 40 per Taranto. La Puglia, dunque, ebbe un ruolo tutt’altro che marginale nelle dinamiche della missione che culminò con lo scontro navale nelle acque prospicienti il porto di Lepanto. A riprova di ciò possono valere i provvedimenti adottati o tentati dal viceré di Napoli, proprio nel 1571, per cercare di “avvicinare” quanto più possibile alla capitale questa importante regione: a marzo di quell’anno, venne inviata una squadra di tre consiglieri ed altri deputati per cercare di individuare luoghi propizi alla costruzione di una strada che consentisse di raggiungere la Puglia da Napoli via terra; purtroppo il responso fu negativo e, come commenta il residente veneto, si dovette continuare a trasportare, soprattutto il grano, via mare19. L’intensificarsi delle comunicazioni determinò poi l’esigenza di un loro miglioramento, per cui ad aprile di quello stesso anno il viceré decise di istituire un servizio regolare di posta tra Napoli e Otranto20, poiché, evidentemente, in questa fase concitata di preparativi i tempi impiegati dai dispacci per raggiungere questo importante lembo orientale del regno erano considerati troppo lunghi.
La vittoria fra storia, mito e devozione Come si è accennato, nel clima di generale apprensione causato in Europa dall’inarrestabile dilagare della potenza ottomana, la vittoria della Lega Santa contro la flotta turca nelle acque antistanti il porto di Lepanto nel 1571 venne percepita e considerata dai contemporanei come una svolta (o l’inizio di una svolta) epocale nei destini della cristianità. Man mano che la notizia della vittoria cristiana si diffondeva in Europa, sia nei paesi cattolici che in quelli a maggioranza protestante, dava costantemente luogo a varie forme di celebrazione, alcune spontanee ed improvvisate sul-
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in forme letterarie come le canzoni popolari, i poemi epici, i lamenti, le invettive, ci fu la tendenza a rendere un’immagine della battaglia senza mezzi toni, insistendo sulla presenza di poteri soprannaturali intervenuti a sostegno dei cristiani e sottolineando la bestialità dei turchi; in non pochi tra questi scritti, poi, veniva descritta la partecipazione miracolosa di angeli alati allo scontro contro gli infedeli. Gli artisti, a loro volta, nella progettazione o composizione delle loro opere, attinsero spesso a frammenti di questo eterogeneo materiale, mischiandoli ad elementi desunti da scritti storici o resoconti orali, ai quali andavano ovviamente ad aggiungersi i suggerimenti o le richieste dei committenti. In molte di queste immagini, soprattutto quelle rappresentanti la Madonna della Vittoria, alla consueta ed alquanto stereotipata caratterizzazione negativa del turco vennero accostati motivi trionfalistici che ribaltavano il tradizionale gioco delle parti: da impavido e crudele devastatore e carnefice, il nemico musulmano diventava lo sconfitto, annientato e schiacciato. Lepanto dunque come la risposta all’oltraggio di Otranto, come l’antidoto contro l’accumularsi di paure e tensioni che la storia degli ultimi secoli aveva radicato negli animi di molte popolazioni europee: un felice passaggio dal prima al dopo, dall’ansia al trionfo, all’euforia, che traspare in maniera palpabile in tanta produzione delle arti visive. L’immagine della Madonna con la spada sguainata che calpesta due pashà turchi, o di Don Giovanni d’Austria che brandendo il bastone del comando poggia un piede sulla testa mozzata del comandante della flotta ottomana Alì Pascià, o delle chiavi pontificie, sorrette da angioletti e sovrastate dalla tiara papale, che sparano come cannoni dall’alto del cielo sulla flotta ottomana, oltre ad essere lo specchio emblematico del tipo di sensibilità diffusa nei confronti del secolare scontro con l’Islam, sono il corrispettivo inverso delle tante immagini di umiliazioni e disfatte, di eccidi di cristiani, tra i quali emerge particolarmente l’esecrando eccidio di Otranto, che per la portata e per la sistematicità con cui era stato condotto, aveva lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva.
L’iconografia e le Confraternite del rosario in Puglia Sebbene quella di Lepanto fosse stata eminentemente una vittoria militare delle armi veneziane, spagnole e pontificie, cioè di tre Stati legati da un’atipica alleanza determinata dalla tenacia ed dalle insistenze del papa inquisitore Pio V e dalle crescenti preoccupazioni comuni di fronte alla continua espansione territoriale dell’impero ottomano e alle incursioni della pirateria turca e barbaresca, la parte più considerevole della produzione artistica dedicata all’evento, o semplicemente corredata di allusioni e richiami, è profondamente segnata da un carattere devoto. Se il potere politico e l’orgoglio aristocratico, coinvolti nell’impresa di Lepanto, avevano esaltato e celebrato in varie forme sovrani, capitani e combattenti che si erano distinti nella battaglia, il merito principale di quel successo delle armi cristiane venne assegnato alla
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La Puglia, l'Adriatico, i Turchi (dai Selgiukidi agli Ottomani, 1071-1571)
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A sinistra: Castrì di Lecce, chiesa di S. Vito, D. A. D’Orlando, Madonna del Rosario
A destra Casarano, chiesa parrocchiale, G. Catalano, Madonna del Rosario
Sempre nel Salento, vale qui la pena citare altre tre Madonne del Rosario, del pittore gallipolino Giandomenico Catalano, contemporaneo del d’Orlando, tutte di notevole pregio artistico, una nella chiesa Matrice di Casarano, una nella chiesa Parrocchiale di Felline e l’altra nella chiesa del Rosario di Copertino. Mentre la disposizione dei personaggi non si discosta molto dai dipinti del d’Orlando sinora esaminati, la collocazione dei Misteri appare invece profondamente diversa. Se i dipinti di Casarano e di Felline sono molto simili tra loro, quasi sovrapponibili, quello di Copertino appare ben più complesso e articolato sia dal punto di vista compositivo (specie per quanto riguarda la parte superiore con i Misteri) che cromatico, tanto da indurre il Galante a connotare quest’opera come il risultato più alto dell’impegno e delle capacità creative dell’artista salentino58. In effetti, l’artista dimostra una certa autonomia ed inventiva nel trattamento di un soggetto iconografico ormai consolidato e quasi “codificato”, realizzando una eccellente sintesi tra sontuosità decorativa, «fantasmagoria delle luci e dei colori»59 ed aspetti devozionali. In ognuno dei tre dipinti la Vergine con il Bambino è seduta su un sontuoso trono di marmo sormontato da un baldacchino; ai suoi piedi, oltre a S. Domenico e S. Caterina da Siena, sono distinguibili, sulla sinistra, Pio V, Filippo II e Don Giovanni d’Austria, protagonisti dell’episodio Lepanto, S. Carlo Borromeo, campione della spiritualità e pastoralità controriformate e, sul lato opposto, Anna ed Eleonora d’Austria. Unica variante degna di menzione, sia tra i tre dipinti che rispetto all’ormai canonica iconografia del Rosario, è l’aggiunta, nel quadro di Copertino, della domenicana Santa Agnese di Montepulciano e, in quello di Felline, degli attributi dei due santi dome-
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Nicola Cortone
La paura del “Turco” e la sua rappresentazione: tradizioni popolari, narrazioni letterarie e folklore In memoria di Giovanni Montrone, amico ritrovato e, presto, perduto
La paura del “Turco”, ma anche di Arabi ed Islam, affonda in Puglia le radici fin nel IX-XI secolo, quando le orde di berberi, provenienti sopratutto dalla Tunisia e dalla Sicilia, effettuarono una serie ininterrotta di incursioni nella regione che li portarono a fondare infine due Emirati musulmani a Bari e Taranto. Scacciati dopo aspre battaglie dalla azione congiunta dell’imperatore bizantino Basilio I, i berberi o bande irregolari di saraceni assaltarono ancora una volta Bari nel 1002-03 sottoponendola a un duro assedio, dal quale fu liberata dall’intervento della flotta veneziana, al comando del doge Pietro Orseolo II. L’evento militare e prodigioso ebbe vasta risonanza nella psicologia collettiva dei baresi, che da allora ne celebravano la memoria con una festa popolare (oggi purtroppo scomparsa) detta “Vidua Vidue”. Una descrizione della festa si trova nella “Storia di Bari” di Giulio Petroni: “ Il dì dell’Ascensione è notevole per un costume che tuttora si serba. I due Capitoli del Duomo e della Basilica in sacri e ricchi paramenti, preceduti dagli ordini religiosi, e dalle confraternite laicali, escono in processione per la città, e quindi vanno sul porto a benedire il mare. Bello è vedere tutta la distesa del molo e li scogli gremiti di gente, di gente coronato il muro, che si piega in gran seno dal Capo di Santa Scolastica a quello di Sant’Antonio, di gente strapieni i balconi ed i terrazzi al muro sovrapposti; pavesato a festa il mercantile naviglio. Allorchè l’Arcivescovo alza il Santissimo e benedice, dal sovrastante bastione di Sant’Antonio s’ode il fragor del cannone e, tra i glomeri di fumo, lo scroscio di una palla di grosso calibro, che va a dare il tonfo nel mare, presso a non lontano segno, cui mira (un bersaglio posto su una secca a 500 metri dal Fortino di Sant’Antonio). Al levarsi di una piramide di acqua, a cui tante altre succedono decrescenti, come al rimbalzo perde la sua palla, vedi da quell’immenso anfiteatro un levar di mani, un gridar a piene gole: vedila-vedila (la vedi, la vedi o - “la vì, la vì”- espressione deformata in seguito con vidua vidue); ciò si rinnova tre volte, perchè tre volte tira il cannone. È antica tradizione che con questi tre tiri la città salutasse un tempo la repubblica di Venezia, in segno di amicizia e gratitudine, ché il tal giorno appunto il veneto Doge uscendo dal porto sul nobilissimo bucintoro gittava l’anello in mare...”
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spose da giovani non residenti nel rione”Turchia”, debbano ottenere il permesso del Sultano per potersene allontanare. Durante la festa egli attende all’ingresso del rione lo sposo, che viene scortato da un gruppo di soldati fino alla casa della sposa. Qui viene redarguito, poiché porta via la giovine sposa dal rione e gli viene imposta una parcella da pagare al popolo turco. Una solenne bevuta di vino sancisce il momento in cui la festa per i due sposi può avere inizio. Teste di turco si trovano anche nella vicina Austria, come la scultura posta su un camino di una casa nel paese di Purbach (non lontano da Vienna), che raffigura un turco con turbante, baffi a punta e barba folta. Anche a Pistoia, sulla facciata del Palazzo degli Anziani fu posta nel 1305 una “testa di Moro” in bronzo, a ricordo della vittoria ottenuta quasi due secoli prima da un leggendario pistoiese, Grandonio de’Ghislieri sui saraceni delle Baleari. Nel secolo successivo a Firenze la famiglia nobile dei Pucci adottò “la testa del Moro” nelle sue insegne. Le “teste di Moro” che campeggiano sulle armi araldiche evocano i nemici vinti, della cui potenza ci si è voluti appropriare, come ad es. nei vessilli comunali della Corsica o della Sardegna, derivati da modelli aragonesi della fine del duecento. L’uso di tali trofei è connessa inoltre alle Crociate in Terrasanta e alla riconquista della penisola iberica, in occidente, quando i belligeranti esponevano su picche o mura cittadine teste di Turchi o Crociati, a seconda dei vincitori!
I “Turchi alla marina” Le azioni corsare ai danni dei vascelli in navigazione nel Mediterraneo lungo le località rivierasche fecero del “turco” un incubo permanente. Episodi luttuosi, di cui fu vittima soprattutto la gente di mare, diedero origine a numerose leggende popolari, soprattutto nel Salento, fondate su avvenimenti storici o immaginari, come ad es. l’intervento prodigioso della Madonna detta in alcune località “Madonna del Turco”. I Turchi spesso assalivano i santuari per depredarli di ori e argenti e anche il santuario di Santa Maria di Leuca o “de finibus terrae” fu più volte attaccato. La “Madonna del Turco” nella iconografia è rappresentata con un Turco incatenato ai piedi. La vita rischiosa dei pescatori si prestava molto a racconti fantasiosi. Si racconta ad es. che un pescatore nojano pelosino (abitante della provincia di Bari tra Noicattaro e Torre a Mare), verso la metà del XIX secolo fu preso dai Turchi mentre pescava lontano dalla riva e condotto a forza su un battello battente bandiera con mezzaluna. Sequestrato per una ventina di giorni e sottoposto a interrogatorio sulle postazioni militari della costa, poichè non rispondeva alle domande, fu buttato a mare. Le popolazioni rivierasche terrorizzate erano continuamente in allerta, come dimostra il ritornello di un antico canto popolare siciliano: “All’armi! all’armi! la campana sona; li Turchi sunnu junti a la marina, cù avi scarpi rutti si li sola, ca io mi li sulavi stamatina...”, o il grido di panico lanciato all’avvistamento delle vele nemiche
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Bellafronte e Costanza: un amore contrastato! Nelle chiese affacciate sul mare si conservano molti ex voto di pescatori scampati al pericolo di tempeste marinare o al rapimento da parte di corsari barbareschi che imperversavano sulle coste della Puglia. Un ex voto che si trova a Molfetta nella chiesa della Madonna dei Martiri (“V.F.G.A. L’ardito perseguitato dai corsari nell’anno 1812. Giuseppe Domenico Panunzio di Tommaso”) raffigura un vascello assalito da pirati e il provvido intervento di santi e madonne in suo favore. La Sorsa raccolse nei primi anni del novecento una serie di racconti legati alla nostra terra, tra cui numerosi quelli marinareschi,tramandati oralmente negli anni. Uno dei più celebri è il racconto di Bellafronte, canzone di duecentotredici versi,che si trova nel poemetto più volte stampato col titolo di “Avventure di Stellante Costantina, figlia del Gran Sultano, la quale fu rapita dai Cristiani a suo padre e poscia venduta al giovine Bellafronte di Vicenza”. La Sorsa, non sapendo spiegarsi il toponimo veneto in una fiaba pugliese, lo trasformò in “Viscegghie”, affermando che la canzone riguardava un personaggio di Bisceglie, città, che nella bocca del narratore, si era mutata in Vicenza. Il testo tratta delle avventure di un giovane mercante, Bellafronte, e di Costanza, divenuta sua sposa, ch’era figlia del Gran Sultano. Le vicende si svolgono nel periodo in cui la Puglia rappresentava per i mercanti veneziani uno scalo importante nei viaggi da e per l’oriente, aperto all’importazione di panni di Vicenza, Verona e Padova, accanto alle seterie e alle spezie (La Sorsa 1936). La Sorsa ascoltò il racconto di Bellafronte da un marinaio di Molfetta,quasi ottantenne , “cieco di un occhio e analfabeta, che aveva viaggiato per sessantanni su paranze e trabaccoli e che aveva appreso dai compagni più anziani di lui fiabe, racconti, novelle e canti, fra cui proprio la fiaba di “Bellafronte” in dialetto molfettese: (“Ng’ere nu ricche mercande,ca teneve nu sole figgghie, e pe ttala raggione se redecie alla mala vite. U patre u velì levà da la mala vite, e u ‘mbarche nella sua varche c-he marcanzie. Bellafronte a bburde s’è ‘mbarcate, che totte la marcanzia preparate. Assalpe l’anghere che nu sùene de trombe, amolle le vèele che d’amorosa fronde...”). C’era un ricco mercante che aveva un solo figlio, che per tale ragione si ridusse alla malavita. Il padre, volendo sottrarlo alla malavita, lo imbarcò nella sua barca da mercanzia: “Bellafronte a bordo si è imbarcato con tutta la mercanzia preparata. Salpa l’ancora con un suono di tromba, spiega le vele con belle speranze... Durante la na-
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In alto: Immaginetta devozionale dei Martiri d’Otranto
In alto a destra: la cappella dei Martiri
A lato: il castello
“Prodi campioni della fede”: i martiri d’Otranto “Correva l’anno di nostra salute 1480” quando la flotta della mezzaluna pose sotto assedio la città di Otranto. Qualche mese prima, dall’eremo di Paternò, san Francesco di Paola aveva previsto la grave sciagura incombente, che cioè i Turchi avrebbero assalito Otranto e che, distruggendola dalle fondamenta, ne avrebbero massacrati i cittadini. Scrisse al re Ferdinando predicendo l’imminente massacro, ma non fu creduto. Volgendo lo sguardo verso la Puglia, allora esclamò piangendo: “Ah,infelice città; di quanti cadaveri ti veggo piena! quanto sangue cristiano si ha da spargere sopra di te! ”Due secoli prima, anche l’abate Verdino da Otranto, dal monastero di Cosenza, aveva predetto: “la mia patria Otranto sarà distrutta dal dragone musulmano”. I particolari dell’assedio e del martirio sono raccontati da Saverio De Marco, sacerdote gesuita della città di Otranto, nella “Compendiosa istoria del Martirio che nel 1480 incontrarono per la Santa Religione Cattolica Ottocento e più naturali della città di Otranto..” (De Marco 1853). Per dodici terribili giorni Otranto venne bombardata da terra e da mare; all’alba del 12 agosto, i Turchi concentrarono il loro fuoco contro uno dei punti più deboli delle mura: “che quando dette palle sparavano, era tanto il terremoto, che pareva che il
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La Puglia, l'Adriatico, i Turchi (dai Selgiukidi agli Ottomani, 1071-1571)
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V P
In alto: Dragut
In alto a destra: Vieste, veduta del Pacichelli
A lato: la “chianca amara” dove furono decapitati i Viestani
Bensì volendo andare sopra alcune torre di vigne, ne morirono cinque Turchi ammazzati et sette ne furono feriti, ma uno solo corpo restò in terra, l’altri li portarono nelle fuste, onde per disperatione posero fuoco di sotto a dette torre, le quali rimasero bruggiate, ma salve le persone di dentro per l’aggiuto che vi fu da Monte S. Angelo. Bruggiarono anco quattro pignoni di grano et una buona quantità di legno lavorato che stava alla marina per portarsi nella provincia di Bari. Et volendo mandar’uno Schiavone, loro amico, per pattuire il recatto del figliolo, lo pigliarono et lo posero legato nella fusta per la disperatione et se partirono alla volta di Gevenazzo, dove pigliarono dieci donne et una persona ricca, huomo nobile della città,ne lo volsero dare per il recatto di 700 zicchini, bensì restò ammazzato il comandante principale di tutte tre le fuste et se ripartirono alla volta di Santa Maura.. Dette tre fuste, mentre un mese dopo andavano alla loro patria, due di queste furono prese nella Sciavonia dalla galere di Venetia, ma senza Turchi, i quali fuggirono....” (Pisani 1985).
Da Manfredonia al Serraglio: la storia meravigliosa della Gran Sultana Beccarini Il 16 agosto del 1620 Manfredonia fu attaccata da oltre cinquanta navi al comando del Kapudàn Alì pashā, rinnegato maltese. Cristianziano Serricchio e Pompeo Sarnelli
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La Puglia, l'Adriatico, i Turchi (dai Selgiukidi agli Ottomani, 1071-1571)
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