Nino Lavermicocca, "Puglia bizantina"

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Nino Lavermicocca

Puglia bizantina Storia e cultura di una regione mediterranea (876-1071)

Capone Editore


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Tutte le foto appartengono all’archivio della Capone Editore tranne quelle delle pagine 113, 117, 121, 124, 129 in alto a sx © Copyright 2012 ISBN: 978-88-8349-163-4 Stampa: Servizi Grafici by Arti Grafiche Picene - Tuglie Maggio 2012

A Greta e Gloria mie nipotine carissime, volo di rondini dall’Adriatico al Danubio


Parte prima

Una storia avvincente: dall’Esarcato di Ravenna al Catapanato di Bari


Il regno di Giustiniano I verso il 565 (da Georg Ostrogorsky, Storia dell’Impero Bizantino, Torino 1968)

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Puglia presagio d’Oriente

Lecce in una carta dell’ammiraglio turco Piri Re’is

Come lucente specchio, la Puglia riflette tuttora gli orizzonti mediterranei ed orientali: dalla Balcania e Grecia alle rive del Bosforo; dall’Adriatico allo Ionio, all’Egeo, mari tutti ben noti alla marineria pugliese medievale fra IX e XII sec. Sentori d’oriente e occidente si colgono tuttora nella Puglia, porta dell’Adriatico, ponte fra oriente e occidente, regione frontiera di incontri di civiltà, culture, popoli e religioni. Fortemente caratterizzata da una “orientalità diffusa”, che non sfuggì all’immaginario barocco ed illuminista dei viaggiatori di riscoperta del settecento-ottocento, francesi, inglesi, germanici del Grand Tour, che spesso saggiarono qui segni ed ammiccamenti dell’oriente greco ed anatolico, prima di immergersi completamente nei fascinosi paesaggi urbani dell’Impero ottomano, nei vicoli e fra i ruderi della magnificenza antica di Costantinopoli bizantina e Istanbul turca. Antichità e rovine greche e romane, chiese, monasteri, città e fortificazioni bizantine lungo le vie Appia e Traiana già percorse da Orazio e Virgilio! Mi-

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rabilia, “Diarium” e “descriptio deliciae “, cose già rivisitate con ghiotta curiosità da Leandro Alberti (1550), Montaigne (1580), George Berkeley (1713), Charles-Nicolas Cochin (1758), uno dei primi disegnatori e incisori delle tappe del Tour, fino a Jean Baptiste-Claude Richard, abate di Saint-Non che raccolse nel suo Journal (1781-1786) testi, impressioni, riflessioni e disegni di Dominique Vivant-Denon, Chatelet, Fragonard, Louis-Jean Deprez, ecc., il più felice momento di sintesi illustrata di paesaggio e archeologia (De Seta, 1996, p. 76 sgg.; p. 164 sgg.). Nell’Italia meridionale gli esploratori delle rovine vedevano un asilo deserto e vasto, solitario e libero da tutti “les embarasses de la vie” (Diderot); un paesaggio e ambiente riconciliato con la natura attraverso i monumenti antichi e non ancora contaminato dalla civiltà; un territorio che appariva al gusto estetico raffinato dei viaggiatori l’ultima sponda contro la barbarie della “civilisation” (S. Rosa, N. Poussin, Cl. Lorrain, ecc.). Costumi, gente, paesaggi scorrevano veloci nella lingua di terra orientale salentina con le città di Gallipoli, Leuca, Otranto, Lecce, ecc.; a Bari, come in un emporio orientale, “si lavora il vetro e vi si fabbricano molte tele di lino e di cotone” (von Riedesel, in De Seta 1996, pp. 199-203); a Lecce “la più bella città d’Italia” (G. Berkeley): “la pietra si lavora con facilità”. L’imprinting orientale endemico affiorava persino in particolari curiosi come il buffet della stazione ferroviaria di Metaponto che forniva “pane, vino, formaggio e soprattutto piatti e posate per mangiare altrimenti che alla turca…” (F. Lenormant), mito e seduzione della terra di Pitagora infranti sulle rotaie di un paese obsoleto. O come nelle navi dalmate e greche ancorate nel vecchio porto di Bari e soprattutto nella giovane e bella padrona di casa che ospitò nel 1873 Gregorovius : “sarebbe stato il modello ideale per una Sceherazade; dato che era di Lucera, poteva darsi che i suoi antenati fossero veramente stati dei saraceni” (Memorie 1985, pp. 99-10; p. 106). Ma soprattutto l’oriente colorava le città, come ad es. la vecchia Canosa: “distesa sui fianchi di un cono irregolare, attira da lontano la visita e le sue case, bianche di calce, le conferiscono un aspetto del tutto particolare. La si direbbe una città orientale trasportata in terra italiana e alla sua visita il pensiero va istintivamente verso la pittoresca Sira” (Palustre di Montifaut, in Dotoli, Fiorino, 1985, I, p. 47). Anche la città vecchia di Bari non sfuggiva al contesto levantino, arabo o spagnolo: “La città vecchia, repressa nella sua penisola offre più che in qualsiasi altro posto un inestricabile labirinto di stradine strette e di vicoli bui… le case che racchiudono queste strade mi rammentano Cadice o Tangeri nella loro intensa bianchezza … imbiancate di calce” (Bourget, in Dotoli, Fiorino 1985. I, pp. 50-519). “Pensavo ad una città tanto celebre nei giorni del Basso Impero, una fisio-

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nomia tutta bizantina … Bari non ha nulla di greco se non la sua storia. I suoi monumenti non hanno nulla di greco” (Didier, in Dotoli, Fiorino 1985, I, p. 276). E’ la viaggiatrice francese Juliette Figuier a vivere con angoscia l’orientalità della Puglia nelle città percorse in ferrovia o diligenza: Tra pascoli, cavalli, campi di grano, distese di terreno verde smeraldo, “l’orizzonte, reso blu dalle montagne e il cielo di porpora come un mantello di sangue”, prefigurano un oriente immaginato a fosche tinte (Figuier, in Dotoli, Fiorino 1985, I, p. 373): “A Barletta il quadro cambia bruscamente. Siccome ci si ferma alcuni minuti in questa stazione, ne approfittiamo per dare uno sguardo alla città, in cui ci sono terrazze, moschee e minareti che le conferiscono un carattere del tutto moresco. Donne accoccolate lungo i muri bianchi, col viso per metà coperto da manti grossolani, hanno l’aria di musulmane che si riscaldano al sole. Del resto è abbastanza naturale che questo paese rifletta l’aspetto e i costumi della Turchia poiché ne rimane separato solo dall’Adriatico” (Figuier, in Dotoli, Fiorino 1985, I, p. 373). Sanno di mare Adriatico, Dalmazia e Grecia le maremme di Terra d’Otranto intorno a Brindisi dove Ch. Didier rileva forse il più antico episodio di contrabbando documentato (1827) di una “peota” dalmata clandestina. Il paesaggio, invece, ricco di olivi sacri, carrubi, lecci, fra Otranto, Gallipoli, Leuca, ricorda nelle grotte della costa la Grecia lontana. Vi è apprezzato il vino, l’olio, il tabacco, coltivato di nascosto. I paesi vi appaiono “d’una pulizia e di un’eleganza che non mi stancavo mai di ammirare. La maggior parte dei campanili hanno foggia di moschea, e vedendoli brillare al tramonto, in un cielo limpido ed azzurro, mi accadeva molte volte di credermi molto lontano dall’Europa, nelle campagne di Bagdad o di Isfahan”. L’oriente e la Grecia a portata d’occhio, subito dietro il mare: “Salito sulla torre di Leuca e seduto su un cannone, abbracciavo il mare Ionio in tutta la sua bellezza; era di un azzurro incantevole, il vento lo sollevava con lentezza ed esso andava ad infrangersi sugli scogli della riva coprendoli di schiuma. La Grecia era là; l’onda arrivava di là; questa idea mi faceva battere il cuore. L’occhio fisso ai flutti, spiavo all’orizzonte i monti di Corfù. Ma, benché il tempo fosse splendido, una leggera bruma sollevava il suo geloso sipario tra la Grecia e me” (Didier, in Dotoli, Fiorino 1985, I, pp. 255-264). A sud di Napoli si apriva dunque per i viaggiatori del Grand Tour una nuova terra marcata da culture ancestrali: magnogreca, araba, bizantina, tanto diverse dalla civiltà del rinascimento dell’Italia centro settentrionale e segnata da cupi presagi di dissoluzione: “Les idées que le ruines réveillent en moi sont grandes. Tout s’anéantit, tout périt, tout passe; il n’ya que le temps qui dure… je vois le marbre des tombeaux tomber en poussière et je ne veux pas

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Il regno di Basilio II verso il 1025 (da Georg Ostrogorsky, Storia dell’Impero Bizantino, Torino 1968)

mourir…” (Diderot, in De Seta 1996, p.166). “Come un antico spirito, l’architettura sorge dalla tomba, mi comanda di studiare le sue dottrine al pari di regole di una lingua morta, non per applicarne e per goderne come di cosa viva, ma solo per onorare in tacita meditazione l’esistenza veneranda di antiche età tramontate per sempre!” (Goethe, in De Seta 1996, p. 205). Oggi non è più tempo di compianto. La Puglia ha recuperato pienamente, grazie anche ad avvenimenti storici eccezionali, la sua funzione internodale fra il nord e il sud d’Europa, riscoperto le sue radici mediterranee e la sua vocazione orientale. Protesa fra due mari, Adriatico e Ionio, è il balcone privilegiato sul Mediterraneo, da cui attrae nuovamente con forza popoli e culture. Primo fra tutti quell’”orientale Lumen” che sa di ecumenismo, storia, arte, traffici ed incontri con tutto il mondo oltremare e soprattutto riattiva, dopo secoli di obsolescenza, le faville di quel fuoco greco, il fuoco di Bisanzio, per secoli sepolto nelle sue viscere dall’uno all’altro promontorio, da Leuca al Gargano.

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Fragmenta: le tracce sparse di Bisanzio nelle città e nelle campagne

Casarano, Santa Maria della Croce, navata centrale e affresco di Santa Barbara

Salento: fuoco greco L’itinerario bizantino nel Salento, terra fra i due mari (Messapia), possiede il fascino del ritorno alle proprie radici, alla ricerca dell’antica madre, un po’ come il viaggio-mito (nostós) degli eroi omerici scampati alla guerra di Troia ed approdati in Puglia: Diomede, Calcante e Podalirio nella Daunia, Idomeneo re dei Cretesi a Lecce, Filottete a Brindisi (ma già prima Teseo, fondatore presunto della città) (De Juliis 1998, pp. 17-22). Ultima provincia d’oriente ai confini dell’occidente, il “fuoco greco” (i colori di Bisanzio) cova tuttora in chiese, monasteri e soprattutto nella lunga serie di santuari rupestri (in tutti i paesi) dando vita alle innumerevoli icone e figure di santi e sante, tutti in abbigliamento rigorosamente bizantino, serrati intorno a Madonne e Pantokratori assisi in trono, con qualche voce eva-

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nida (le iscrizioni votive e di committenza) degli uomini e donne che vi si assiepavano durante le lunghe liturgie. L’archeologia oggi ne riscopre le tracce e ne studia i messaggi nella fascia cronologica compresa fra VI e XI secolo: da Casaranello, “vicus” al centro della massa Gallipolitana di proprietà pontificia, a Cutrofiano (rinvenimenti di ceramiche bizantine dell’VIII-IX sec.), Otranto, Brindisi, ecc. Oltre novanta casali e villaggi furono abbandonati in Terra d’Otranto dopo il VI sec., rinnovatisi o rifondati a partire già dal tempo dell’imperatore Teofilo (829-842) e nel periodo della bizantinocrazia (es. il villaggio di Quattro Macine nei dintorni di Otranto) (Arthur 2005, pp. 183-194; Lavermicocca 1994, pp. 407-408). Nonostante l’imprinting bizantino attestato dalle vicende storiche e culturali, forte fu la pressione della Chiesa romana per la latinizzazione del Salento mediante gli insediamenti benedettini o in monasteri propri o in chiese rupestri, già appartenuti al clero greco. Molte furono sottratte all’originario culto bizantino o acquisite in proprietà, soprattutto in età normanna: da Lecce (Sant’Andrea, donata nel 1075 all’abbazia di Banzi in Lucania), a Taranto (primo monastero latino accertato 1028), Brindisi (Sant’Andrea dell’isola fondata nel 1059), Oria (cinque monasteri greci donati all’abbazia di Sant’Eufemia in Calabria) e infine a Casole, il monastero di San Nicola, fondato da Boemondo d’Antiochia nel 1098-1099 (Houben 1990, pp. 73-89; ID., 1993, pp. 395-417; Dalli Regoli 1993, pp. 575-615).

Otranto “fidelis” Se la Puglia è la porta riconosciuta dell’oriente, Otranto può esserne considerata la chiave, fra Mediterraneo e terre occidentali, punto d’incontro di tutte le correnti di cultura e civiltà da nord a sud, baluardo di Bisanzio (“fidelis”) dal VI all’XI secolo. Le mura, costruite probabilmente al tempo di Basilio I insieme a quelle di Gallipoli, dopo i danni arrecati alle due città dall’emiro Sawdan (Guillou 1977, pp. 26 sgg.), chiudevano la città sul mare e sulla terraferma come un’isola (al pari ad es. della città bizantina di Mesembria-Nesebar, sul Mar Nero in Bulgaria). Il suo porto era uno degli approdi più frequentati dalle navi imperiali per il trasporto di funzionari e truppe. Dal VI al X secolo Otranto fu centro politico, amministrativo e religioso di vitale importanza nei rapporti con Bisanzio (Falkenhausen 1975, pp. 45-49; Pertusi 1964, pp. 106 sgg) e punto di partenza per la riconquista della Puglia al tempo dell’imperatore bizantino Basilio I. Piccola capitale adriatica, era inserita nel “Thema” di Calabria (esteso dall’antico Brutium alla penisola salentina – “Calabria”), governato, secondo la testimonianza del “De administrando imperio” di Costantino Por-

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firogenito (913-959), da un Patrizio inviato da Costantinopoli; ma già da tempi remoti (VII-VIII sec.) la regione costituiva un Ducato del Thema di Sicilia (Corrao, Gallina, Villa, 2001, pp. 22-23, 28, 32-35). L’esistenza del Thema nella metà del IX secolo (842-843) è attestata dalla presenza al 128° posto dell’ordine di precedenza ai banchetti imperiali del “Doux Kalabrías”. Un Ducato di Otranto, propriamente detto, separato cioè da quello di Calabria, fu istituito, secondo la Falkenhausen, dopo il 758, anno in cui la città fu restituita ai Bizantini dal re dei Longobardi Desiderio che l’aveva occupata per qualche anno. La carica di doux è attestata dal sigillo “Iohannou doukós Ydroūntos” datato fra 857 e 892, mentre i confini si estendevano dal basso Salento a Gallipoli fino alla fascia di territorio compresa a sud di Oria (Falkenhausen 1978a, pp. 6-10). Poiché i Bizantini tendevano, com’è noto, a ravvisare nel centro politico preminente del distretto anche il luogo del primato religioso, in concomitanza con la istituzione del Catapanato d’Italia (970c.) e al fine di rafforzare i legami degli Episcopati locali con il Patriarcato di Costantinopoli, Otranto negli anni 967-968, al tempo del patriarca Polieuto e dell’imperatore Niceforo Foca, fu elevata al rango di “metropolia”, sede dell’arcivescovo greco, a capo di cinque vescovati suffraganei: Acerenza, Tursi, Gravina, Matera e Tricarico, una diocesi vastissima proiettata verso le terre latine del Ducato di Benevento (Pertusi 1964, pp. 106-109; Falkenhausen 1975, pp. 56-59; EAD., 1978a, pp. 810; EAD., 1982, pp. 79-80; Corrao, Gallina, Villa 2001, pp. 52,71,81-82). Le relazioni fra Patriarcato ortodosso e Chiesa locale bizantina continuarono intensamente fino all’XI secolo. Nel 1027-1028 il metropolita Nicola o Niceta di Otranto firmò due “hypomnemata” del patriarca Alessio e nel 1054, l’anno dello scisma, il metropolita Ipazio partecipò al Sinodo convocato dal patriarca Michele Cerulario a Costantinopoli (Falkenhausen 1978a, pp. 163-164). Fulcro e sigillo della bizantinità di Otranto, riflesso delle vicende politiche e religiose dianzi accennate, è San Pietro, scrigno d’arte, l’unica chiesa bizantina conservata integralmente in Puglia, analoga per peculiarità di forme e modelli a quelle di San Marco a Rossano Calabro e alla Cattolica di Stilo, memorie pietrificate dell’antico Ducato di Calabria. Con esse, San Pietro condivide il disegno cruciforme inscritto in un quadrato, con una sola cupola all’incrocio dei bracci, celata da un alto tamburo, sostenuta nel naos da quattro colonne e conclusa da tre absidi, di cui quella principale estroflessa maggiormente all’esterno. Lo schema planimetrico, anche nelle dimensioni ridotte (9,50 x 9,50) è direttamente ispirato ai pochi edifici di modesta architettura religiosa costruiti a Costantinopoli nel X sec. (Fenari Isa Cami – 907; Bodrum Cami – 920, ecc. dianzi citati) e diffusi nelle province dell’Impero: nella peni-

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Otranto, chiesetta di San Pietro

Nella pagina successiva: Stilo, La Cattolica e, sotto, Rossano Calabro, San Marco

sola del Mani (Peloponneso), ad es. le chiese di “Aghios Strategós” e San Pantaleimon nel villaggio di Boulariou; San Teodoro e i Tassiarchi presso Pyrgos Dirou; la chiesa della Theotókos e degli “Asómatoi” (Incorporei) ad Episcopí, datati al X-XI sec., compresi i loro affreschi frammentari. Oppure di diversa tipologia architetturale: triconco, tetraconco, ecc. a Cipro (Karpasia), Creta (Paftes), Citera, Cicladi, Nasso, Kastoria, Mesembria (San Giovanni), lago di Prespa (San Germano), Arta (San Demetrio), ecc. (Drandakis 1964, passim; Vocotopoulos 1967-1968, pp. 66-74; Mango 1976, pp. 352-358; Farioli Campanati 1982, pp. 239-249; Bertelli 1990a, pp. 223-226; Lavermicocca 2008, pp. 61-64). San Pietro è l’unico edificio di culto che conservi tuttora il programma iconografico proprio di una chiesa bizantina, che occupa nella stesura degli affreschi, purtroppo frammentari, pareti, volte, cupola e ogni spazio disponibile. Due soprattutto le scene di maggior interesse tratte dal ciclo della passione di Cristo: Lavanda dei piedi e Ultima Cena, che hanno consentito al Guillou, mediante l’analisi paleografica delle didascalie e le affinità iconografiche, la loro datazione alla fine del IX, inizi X sec. contemporanei cioè agli affreschi delle chiese rupestri Ayvali Kilise datata al 913-920 e Tokale Kilise in Cappadocia, più o meno dello stesso periodo (Guillou 1977, pp. 51-56; Belting

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1974, pp. 12-20: esempio di arte della “rinascenza macedone”, analoga agli affreschi della cupola di Santa Sofia a Salonicco e del monastero di Hosios Loukas, del X sec.). Tale datazione è concordemente accettata dalla critica, pur se con qualche avanzamento verso la metà o la fine del X sec. per la finezza di esecuzione dei volti, forme anatomiche e panneggi, comunque successiva alla elezione della sede episcopale idruntina a metropolia greca nel 968 (Falla Castelfranchi 1991, pp. 45-53; Pace 1982, pp. 458 sgg.). L’involucro degli affreschi, non tutti “bizantini”, ma succedutisi nel tempo, comprende due figure di Evangelisti (superstiti) nei pennacchi di sostegno alla cupola (perduto il Pantokratore al centro), le scene del ciclo della Vita di Cristo

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(Annunciazione, Natività, Presentazione al Tempio, Battesimo di Cristo, Apostoli assisi, Lavanda dei piedi, Ultima Cena, Deposizione dalla croce, Anastasi e frammenti vari); scene del Vecchio Testamento (Creazione di Eva, Espulsione di Adamo ed Eva dal paradiso), Vergini e santi (Guillou 1973, pp. 737-753); l’illustrazione compendiaria del percorso della fede, secondo l’Ortodossia.

San Nicola di Casole: il monastero scomparso Sintesi dei valori condivisi delle culture d’oriente e d’occidente può essere considerato il vicino monastero greco di San Nicola di Casole, fondato dal normanno Boemondo, principe di Bari e Antiochia, nel 1098, ma dedicato al più bizantino dei santi, Nicola, traslato dieci anni prima a Bari. Casole fu il più importante centro di cultura del Salento; da Costantinopoli proveniva il suo stesso nome (un omonimo monastero “ton Kasúlon”); la regola monastica (il “Tipikón”, modellato su quello del monastero di San Giovanni Studion); taluni abati (Giuseppe, Nicola, Nicodemo, Nettario); pittori e miniaturisti (Teofilatto, Galaktios, Ieroteo, ecc.), tutta la cultura trasmessa dalle biblioteche di Bisanzio a quella del monastero e di qui, attraverso la lettura consentita e il prestito dei libri, all’intero Salento. La gestione della biblioteca e dello “scriptorium” era oggetto di severe, minute regole di comportamento e di pene congrue, in caso di infrazione: “Se uno ha preso un libro e non lo tiene con cura o lo lascia aperto o prende un altro volume senza il permesso del bibliotecario preposto… faccia 24 metanie (penitenze); se non tiene convenientemente il quaderno … e non osserva gli accenti e la punteggiatura, faccia 130 metanie; se per collera spezza una penna, faccia 30 metanie; se sciupa il quaderno di un altro … 50 metanie; se non si attiene alle disposizioni del protocalligrafo, sia allontanato o almeno rinchiuso per due giorni”. I codici miniati di Casole, dopo la drammatica distruzione della città e del cenobio, per mano dei Turchi di Ackmet Pasha nel 1480, andarono dispersi come naufraghi nelle biblioteche di mezzo mondo: Città del Vaticano (28 codici); Firenze (11); Torino (1); Milano (57); Parigi (16); Vienna (8); Madrid (4); Oxford (2); Mosca (1); una diaspora di pagine e mani! Al monastero otrantino si deve dunque il merito di aver trasmesso all’occidente una parte non piccola della tradizione classica greco-ellenistica (Cavallo 1978, pp. 193-233; Borsari 1978, pp. 235-250). Persino il pavimento musivo della Cattedrale di Otranto, con il suo romanzo epico figurato (opera del prete Pantaleone, 11631165) fu ispirato al “Physiologus” greco ed al Romanzo di Alessandro Magno dello pseudo-Callistene (trascritto nel Cod. Parigino greco 1685). Di grande rilievo le personalità degli abati, dallo ieromonaco fondatore Giuseppe (1098-

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99: la sua Vita nel cod. C. III, 17 di Torino), ai ben noti Nicola di Otranto (121920) e Nettario (m. 1235) (Cavallo 1982, pp. 495-601; Corsi 1994, pp. 98-102), che dà notizia del pittore Paolo di Otranto attivo a Costantinopoli nel monastero di Cristo Evergete nel XII sec. (Falla Castelfranchi 1990, pp. 153-160; Bertelli 1990a, pp. 227-232). Il Tipikón” di Casole (la regola del monastero) è tramandato dal Codice Torinese greco C III 17, con le norme di comportamento per i monaci, i rituali, le feste, il lavoro, i digiuni, le preghiere, i pasti, i cibi consentiti e quelli proibiti, il silenzio e l’ascesi contemplativa. Di tutto il fervore di opere del monastero, oggi non rimane che silenzio e rovina, esili fasci di colonnette, accenni di arcate, i resti di una parete in muratura; neppure l’archeologia ha avanzato progetti di riscoperta e restauro. Riflesso del perduto splendore, la legatura in rame dorato e smalti con figura di Cristo in trono entro una mandorla di luce, del XIII sec.,proveniente da Casole, conservata nel Museo Provinciale di Lecce, ultima scintilla del faro culturale e religioso del Salento bizantino (Daquino s.d., pp. 8-10, 13-15, 33-37) La fondazione del monastero, oltre che all’igoumeno Giuseppe, è attribuita anche al principe Boemondo d’Antiochia nel 1098-1099. Il foglio 182 del Codice torinese contiene i versi dedicatigli da Nettario: “A Giuseppe il fondatore. Hai gloria senza fine nei cieli, o padre, che costruisti questo sacro tempio, anche se le tue reliquie sono racchiuse in questo sepolcro, donde, Giuseppe, a tutti distribuisci la guarigione”, mentre il foglio 181 ne riporta il necrologio e la memoria al giorno 4 settembre del 1124: “Il quattro del mese di settembre, la morte del santo nostro padre Giuseppe fondatore del monastero di San Nicola di Casole, nell’anno 6633 (1124), indizione III, nei giorni di Boemondo, principe di Antiochia e di Costanza sua madre. E lo stesso igoumeno governò questo santo monastero nell’anno 6607 (1098-99), nei giorni di Boemondo, padre di detto Boemondo, principe di Antiochia” (Daquino s.d., pp. 82-83). Negli anni della fondazione, Boemondo padre si trovava in Siria, dove il 28 giugno del 1098 aveva sbaragliato, in una battaglia capolavoro di strategia militare, l’esercito di gran lunga superiore per numero dell’Emiro di Mosul Kerbogha, predando anche la sua tenda preziosissima da mille e una notte, inviata per dono votivo alla basilica di San Nicola di Bari, eletto probabilmente a patrono delle sue imprese guerresche oltremare. Restò ad Antiochia fino al gennaio 1105, quando potè sbarcare a Bari, sfuggendo con l’ingammo al blocco navale dei Bizantini. Otranto era stata per il principe guerriero una sorta di retrovia, porto di imbarco e sbarco da e per Valona-Durazzo durante e soprattutto le due campagne militari condotte in Balcania contro l’imperatore Alessio Comneno, la prima guidata dal padre Roberto Guiscardo; la se-

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conda, da lui stesso nell’ottobre del 1107. A Durazzo, città-porto contrapposta ad Otranto, teatro di assedi e battaglie, c’era una chiesa dedicata a san Nicola (“de petra”), nei pressi dell’accampamento dell’Imperatore bizantino, che ebbe un ruolo importante nello svolgimento degli eventi militari. Considerata dunque l’assidua presenza del vescovo di Mira – basilica, reliquie e culto crociato – nelle imprese di Terrasanta e soprattutto in quelle balcaniche, non è escluso che Boemondo abbia contribuito alla fondazione del monastero di San Nicola di Casole, retroterra di Otranto, per una sorta di ex voto, ringraziamento o auspicio per il buon esito dei suoi progetti di conquista (Anne Comnène, I, pp. 139-154; II, pp. 15-32, 215-235; III, pp. 30-52, 104-123). L’importanza del porto di Otranto come base militare è ben attestata in età normanna dal poema di Guglielmo Apulo: “La geste de Robert Guiscard”; dallo sbarco del catapano Maniace con la sua flotta ivi ancorata e i cittadini sottomessi; dall’imbarco di Roberto Guiscardo per Durazzo nel 1081 e nel 1084, allorchè le navi normanne, preparate a salpare e attraversare l’Adriatico nel tratto più breve, furono invece trasferite in un porto sicuro (ignoto) per il sopraggiungere dell’autunno (Guillaume de Pouille 1961, pp. 122, 128, 148, 210, 242, 244). Ad Otranto sfuggì a stento al naufragio la nave che trasportava nel 1085

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Monaco su manoscritto casulano e scorcio della cripta della Cattedrale Nella pagina precedente: Otranto, San Nicola di Casole, resti della chiesa

il feretro di Roberto Guiscardo; recuperata non senza difficoltà la salma, le viscere e il cuore del normanno furono sepolte forse nella cripta della cattedrale. Nei dintorni di Otranto, là dove la natura si manifesta in anfratti, lame e vallicole, si trovano tuttora insediamenti rupestri, chiese scavate nel tufo secondo empiriche planimetrie ispirate a chiese costruite in muratura: San Nicola, nella Valle delle memorie, a tre navate appena riconoscibili, con frustoli di affreschi alle pareti (leggibile qualche nome: ad es. “Leontos”); Sant’Angelo, a mezza costa del “monte” omonimo, di cui sopravvive il bema chiuso da tre absidi, con resti di affreschi nel naos, fra cui l’arcangelo Michele in abbigliamento imperiale (tunica e loros) e la figura di un vescovo anonimo, molto frammentata; San Giovanni, in località omonima, un ipogeo funerario composto da una grande sala e da un ambulacro scavato con una fila di nicchie su entrambi i lati, di incerta datazione fra tardo antico e alto medioevo (Fonseca, Bruno, Ingrosso, Marotta 1979, pp. 135-148). Nella Valle dell’Idro si trova il più enigmatico speco, a metà scavato, ma con lucernario-cupola ipetrale, detto ipogeo ellenistico o “spezieria”, con planimetria cruciforme e due bracci ortogonali, con le pareti tutte scavate da minuscole nicchiette sovrapposte su più file, un vero rompicapo!

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Parte prima Una storia avvincente: dall’Esarcato di Ravenna al Catapanato di Bari

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Puglia presagio d’Oriente Ai confini dell’Occidente: la Puglia bizantina Segni di gloria, il profilo storico L’organizzazione politico-militare Il Pretorio bizantino di Bari Una società multietnica L’oro di Bisanzio: gusto e cultura artistica Mar di Levante: città, strade, porti, rotte marittime Le navi dei santi: culti venuti dal mare

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Parte seconda Fragmenta: le tracce sparse di Bisanzio nelle città e nelle campagne

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Fragmenta: le tracce sparse di Bisanzio nelle città e nelle campagne 65 Grotte dipinte, grotte scavate: Carpignano e Giurdignano 74 I santi delle rocce: le chiese rupestri 90 Verso Bari: “Le rocche della romana Maestà” 110 La terra dei catapani (catapanata) La montagna dell’Angelo 140 Puglia bizantina: le voci di dentro 153

Bibliografia, a c. di Stefano Lavermicocca

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