Il piccolo Cesare

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GIUSTO TRAINA

il piccolo

CESARE Illustrazioni di

Mariachiara Di Giorgio EDITORI

LATERZA


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Parole da leggere, in silenzio o ad alta voce, storie da vedere, mondi da esplorare

© 2014, GIUS. LATERZA & FIGLI

www.laterza.it PRIMA EDIZIONE SETTEMBRE 2014 EDIZIONE I II III IV V VI ANNO 2014 2015 2016 2017 2018 2019

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA GIUS. LATERZA & FIGLI SPA, ROMA-BARI

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste STAMPATO DA SEDIT - BARI (ITALY) PER CONTO DELLA

GIUS. LATERZA & FIGLI SPA ISBN 978-88-581-1168-0 TESTO CURATO E RIVISTO DA GIORDANO MEACCI E FRANCESCA SERAFINI PROGETTO GRAFICO EMANUELE RAGNISCO MEKKANOGRAFICI ASSOCIATI


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IL PICCOLO GIUSTO TRAINA

Cesare Illustrazioni di

Mariachiara Di Giorgio

EDITORI

LATERZA


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È una tiepida mattina d’inizio primavera. Il riflesso del sole sulla città è come una chiazza di luce su una montagna di cocci. Roma – perché la città è Roma – è tutta un vociare di persone indaffarate. Sono tutti là, i cittadini romani, gli schiavi, i forestieri di passaggio: mercanti che trattano sul prezzo, artigiani che lavorano al tornio o rifiniscono un’asse o battono un chiodo. E soldati, dappertutto: militi che camminano marziali facendo risuonare il selciato con i loro calzari di cuoio. Quand’ecco – mentre siete ancora distratti da un mercante che cerca di vendere una stoffa porporina a una ricca matrona sdraiata sulla sua lettiga – un ruggito! Un ruggito vi fa sobbalzare e vi porta di corsa lungo il fiume.


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Ed è qui che vi trovate davanti il piĂš incredibile degli spettacoli: sopra i carri che si muovono lenti, gabbie di legno in fila, unite tra loro. E dentro pantere nerissime e leoni dalla criniera cespugliosa. Un altro ruggito. E poi un altro, e un altro ancora. Sono i carri scortati dai soldati addetti alle belve imprigionate che arrivano dall’altra parte del mare, dalla lontanissima Africa!


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Roma è Roma, però! Circa novant’anni prima della nascita di Gesù, il tempo della nostra storia, era già la città più grande del mondo. E mentre siete ancora lì che vi chiedete “ma cosa ci fanno dei leoni in gabbia in gita sui carri?” (si tratta in effetti dei doni dei popoli alleati per i giochi gladiatori di Roma) ecco che, di rione in rione, verso il Campo Marzio, i ruggiti non si sentono più, sostituiti dalle grida di bambini che corrono, si destreggiano nella lotta o, più semplicemente, si dedicano agli esercizi di ginnastica.


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Perché questo fanno la mattina i giovani dell’alta società romana. … Anche se… non proprio tutti!


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A guardar bene, infatti, i capelli corti e le tuniche bianche sporcate dalla sabbia smossa, ci sono quattro ragazzini in disparte. Uno, Lucio Fabio, è a cavalcioni sulle spalle di un altro (Marco Valerio): si muove goffamente proteggendosi dagli assalti di un terzo bambino che gli gira intorno (Tito Flavio), costringendo così Marco a una fatica immane. Davanti a loro, con un drappo rosso sulle spalle come una toga virile, il mantello che portano gli adulti, un altro coetaneo dagli occhi neri neri e dal naso dritto e aguzzo li guida nel gioco. Ha una coroncina d’alloro sulla fronte e in mano un finto gladio: una spada di legno con cui dà ordini che i compagni eseguono senza protestare. A un tratto però, tutto sudato per il peso che porta sulle spalle, Marco accenna una reazione: “Ma insomma, Cesare! Che gioco è? Sempre così: tu che comandi e io che non posso correre mai, con questo in collo…” Cesare sbuffa e scuote la testa, come un maestrino che debba ripetere la lezione per l’ennesima volta. “Allora… Io sono Alessandro Magno, imperatore del mondo. Quindi do gli ordini. Mi serve un generale, e lo fa Tito. E Polifemo, che è un gigante, dovete per forza mettervi in due a farlo. È così chiaro”. E mentre Marco lo guarda, confuso dalla parlantina ma poco convinto, arriva una voce alle loro spalle, talmente improvvisa da spiazzare anche voi! “Che per fare Polifemo te ne servono due, d’accordo… quello che non ho angora capito è perché Marco deve stare sotto per forza”. Cesare e gli altri si voltano di scatto attratti da quel modo strano di parlare: e vedono un ragazzo un po’ più grande di loro (ha infatti quattordici anni rispetto ai loro otto). È riccetto, ha un naso largo e guance già un po’ cosparse di una barba lieve. Con un risolino beffardo dice: “Mi sembra un comportamento da prepotente, no? E che se fa cusì?” Certo, Cesare è di buona famiglia ma è pur sempre cresciuto nel quartiere della Suburra, il cuore popolare della città, e sa come rispondere a tono: “Ma chi sei, te? Che t’impicci degli affari degli altri e parli pure come un rustico…” 12


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