PAOLA SORIGA
LA GUERRA di Martina Illustrazioni di
Lorenzo Terranera
EDITORI
LATERZA
«Sono nata una notte di marzo di tanti anni fa; mi hanno sempre raccontato che faceva freddo e che la levatrice, tutta imbacuccata in un vecchio cappotto e un cappello di lana, aveva fatto una corsa per andare ad aiutare mia madre. C’era ancora la neve e la collina odorava di caminetti spenti. Nel silenzio della notte si sentiva soltanto il mio pianto di neonata e i passi indaffarati delle donne, quelli nervosi di mio padre, dei miei fratelli e delle mie sorelle. Già dalla mattina presto erano arrivati i parenti a salutare ed era stato servito il caffè mentre io dormivo. In casa eravamo sette: la mamma, il papà, il Giovanni, la Gina, Cristiano, la Santina e io; la Teresa sarebbe nata dopo. Fra i fratelli da subito sono andata d’accordo soprattutto con Giovanni, che era il più grande eppure passava con me tutto il tempo che gli rimaneva dopo la scuola e il lavoro nella vigna. Giovanni mi costruiva omini e animali di legno, capanne di canne negli angoli nascosti del podere oppure fra i rami degli alberi più grossi. Passavo le lunghe ore del pomeriggio a giocare con quei mondi in miniatura che lui creava per me. 18
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Giovanni poi mi aveva insegnato a leggere, così quando anche io ero entrata a scuola mi ero sentita orgogliosa di conoscere già le lettere dell’alfabeto e di saperle riconoscere. La strada per andare a scuola, giù in paese, la facevo assieme a Simone, che abitava nella cascina il cui terreno confinava con il nostro. A poco a poco eravamo diventati amici e così qualche volta gli permettevo di venire nel nostro cortile e di entrare nelle mie capanne.
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In quegli anni si viveva sotto la dittatura fascista, anche se dalle nostre parti non le si dava granché retta, certamente non a casa nostra. Io e Simone ci mettevamo ad ascoltare mio fratello Giovanni e Beppe, suo fratello più grande, che discutevano di cose difficili come la libertà, il lavoro, le cose che accadevano nelle grandi città, Torino, Milano, Roma. Io ero ammirata dai ragionamenti di mio fratello, mi sembrava intelligente come e più degli adulti. Sia io che Simone odiavamo la divisa da Balilla, i piccoli fascisti, che dovevamo portare: giocavamo a fingere di essere a scuola e di togliercela con un gesto plateale, diventando gli eroi degli altri bambini. 21
Poi era arrivato un tempo in cui Giovanni aveva smesso di giocare con me e io mi intristivo perchÊ lui preferiva un libro o gli amici, da incontrare nella piazza del paese il pomeriggio. Da allora fui ancora piÚ felice che ci fosse il mio amico Simone. Insieme andavamo in giro per le colline, fra le vigne e i boschi di querce e di frassini, nel caldo di maggio, tra i piccoli iris viola che spuntavano dalla terra umida. Andavamo a caccia di rane e lucertole, costruivamo sentieri fra l’erba alta, oppure stavamo seduti a guardare il fondo valle dove i muli passavano carichi di sale. 23
Arrivavamo fino al vecchio castello, imparavamo a conoscere i sentieri dei boschi e, se era autunno, raccoglievamo le foglie più belle che poi mettevo in mezzo ai quaderni di scuola. Vicino al castello c’era una vecchia casa di legno, abbandonata e diroccata: mancava una parte del tetto e un’edera ne aveva ricoperto una facciata. Ci faceva paura, perché tutti sapevamo che dentro e intorno al castello era pieno di fantasmi, eppure andavamo a esplorare. A volte andavamo fino al fiume e lì lanciavamo i sassi piatti per farli rimbalzare sull’acqua e, se faceva caldo, ci buttavamo dentro e nuotavamo. Certe volte al fiume incontravamo anche i ragazzini che vivevano lì intorno; certe volte facevamo delle battaglie con i sassi, specie quando c’erano anche quelli delle cascine dell’altra sponda, che erano dei prepotenti e non avevano paura neanche dei grandi. Li chiamavamo “quelli del Torre”, perché li comandava un ragazzino che di cognome faceva Torresani, e in più era davvero alto come una torre. Si vantavano di essere fascisti, dicevano che presto ce l’avrebbero fatta vedere loro. 24
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