Portico d'Ottavia, Anna Foa

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celacanto

Parole da leggere, in silenzio o ad alta voce, storie da vedere, mondi da esplorare © 2015, GIUS. LATERZA & FIGLI

www.laterza.it PRIMA EDIZIONE GENNAIO 2015 EDIZIONE I II III IV V VI ANNO 2015 2016 2017 2018 2019

2020

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA GIUS. LATERZA & FIGLI SPA, ROMA-BARI

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste STAMPATO DA SEDIT - BARI (ITALY) PER CONTO DELLA

GIUS. LATERZA & FIGLI SPA ISBN 978-88-581-1723-1

Testo adattato da CAROLA SUSANI e pubblicato in accordo con Lotto 49

PROGETTO GRAFICO EMANUELE RAGNISCO MEKKANOGRAFICI ASSOCIATI


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ANNA FOA

PORTICO D’OTTAVIA Illustrazioni di

Matteo Berton

EDITORI

LATERZA


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La storia che sto per raccontare mi è capitata l’inverno scorso, mi ero da poco trasferita nella Casa. Sedevo sul tappeto del salotto, pensierosa. Non doveva essere una giornata fredda perché tenevo la finestra aperta, ma c’era vento. La Casa è un palazzetto in via del Portico d’Ottavia, fra le rovine antiche e la chiesa di Sant’Ambrogio. Era nata nei primi secoli del Medioevo su resti che risalivano all’età dell’imperatore Augusto. Nel Cinquecento, la Casa era un palazzetto rinascimentale con il colonnato, le colonne erano probabilmente colonne antiche prese al Portico d’Ottavia. Finché c’è stato il ghetto, l’isolato era appena fuori dal suo confine. Poi, quando il ghetto venne abolito, nel 1870, e gli ebrei poterono finalmente vivere dove volevano, diventarono loro i proprietari della Casa. Dal portoncino si entra in un cortile, quello è il centro ideale della Casa; là si aprono porte, appartamenti e cantine, di là partono le scale e si schiude il passaggio per altre piccole corti. Salendo le scale, due piani si dividono luce e ombra. All’ultimo piano, c’è casa mia. Se cercate di esplorare il palazzetto, vi ritroverete di fronte corridoi inaspettati, cortili, deviazioni, porticine; fra logge soleggiate e scalette in ombra avrete l’impressione vi accompagni, discreta, una presenza vegetale: muschi, vasi alle finestre, alberelli. Se siete a Roma e vi capita di passare da lì, facilmente potrete riconoscere il portone, nell’isolato c’è anche un gelataio, perciò se la giornata è calda vi potrete rinfrescare. Io faccio la storica, mi piace avere attorno mura spesse, scale consumate, resti antichi, anche per questo ero così contenta di aver trovato un appartamento nella Casa. Ma c’era qualcosa nell’aria o forse era in me. Quel giorno le finestre sbattevano per il vento, le imposte s’impigliavano di continuo nella tenda. Non potevo fare a meno di pensare: Cos’è successo qui il 16 di ottobre del 1943, quando a Roma i nazisti deportarono più di mille ebrei? Chi abitava allora nel mio appartamento? Sono vivi o morti? Quanti sono stati deportati? Già da un po’ raccoglievo documenti.

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Quella mattina mi ero seduta per terra, stavo spargendo sul tappeto un mazzetto di fotografie. Non tutte riguardavano la Casa, c’erano foto della piazza, c’erano foto di famiglia, quelle che si trovano in tutte le case: signore in posa, scalette di figli, bambini in braccio ad altri bambini al mare. Fu in quel momento che sentii sbattere la porta, si sollevò la tenda per il soffio del vento e la vidi entrare. Era una ragazzetta magra, indossava una gonnellina al ginocchio, una camicetta di un tessuto artificiale che rifletteva la luce e un bolerino di lana. Mi sorrideva.


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“Anna”, mi disse, “se vuoi sapere com’è andata, te lo racconto io: io c’ero”. Aveva l’incarnato fresco di una bambina di dodici anni, gli occhi intelligenti e miti, un’aria antica. “Com’è possibile?”, le chiesi, “Sei un fantasma?” Lei rise, una risata cristallina. Si presentò: “Sono Costanza, a casa tua ci abitavo. Ma era tutta diversa. Vedi: lì dove c’è il tappeto c’era il tavolo rotondo di legno scuro, e su quella parete che ora è vuota, c’era il comò con le foto dei parenti. Ma ora vieni con me. Alzati”. Lei è scattante sulle gambe agili. Io la seguo. Usciamo lasciando la porta aperta. Da casa mia si raggiunge una loggia, sulla loggia si aprono varie porte. “Vedi”, mi mostra: “qui si mettevano le nostre mamme, tutte insieme ognuna con la sua macchina da cucire. Era bello guardarle, con i capelli ricci oppure a onde, a volte le sentivi ridacchiare. Quando in casa era caldo, il ballatoio invece era fresco e lavorando si poteva chiacchierare, le mamme se la raccontavano: ‘lo sai cosa è successo al Tafano in piazza, l’avete sentita l’ultima che ha fatto Il Professore?’ Perché le persone le chiamavamo così, col soprannome. C’era mio papà, L’Aquilano, c’era La Cornacchia. Io non ce l’avevo ancora il soprannome, perché ero troppo giovane. La radio non l’aveva nessuno, a noi ebrei era stata vietata con le leggi razziali del ’38: per rompere il silenzio, per dare ritmo al lavoro, le donne intonavano canzoni. Dal parapetto si sporgevano per chiamarci a pranzo. Noi giocavamo sotto, nel cortile. Ci chiamavano, ci chiamavano. Ma noi facevamo finta di non sentire”. Costanza sembra per un momento distrarsi, guarda al centro della loggia: “Il 15 di ottobre, dopo il tramonto, proprio lì c’era papà che recitava arvit, la preghiera della sera. Era festa, era l’ultimo giorno di Sukkot, la ‘festa delle capanne’, quella con cui noi ebrei ricordiamo il viaggio nel deserto verso la Terra promessa. Ed era sabato. Insieme a noi, erano saliti molti vicini, alcuni erano del piano, altri venivano dalle case dabbasso. Papà era molto religioso e nel palazzo ci si faceva compagnia. Ho ancora davanti agli occhi molte delle loro facce, erano preoccupati, sì, qualcuno corrugava la fronte, qualcuno guardava lontano, ma proprio in quel momento sembravano un po’ più sereni”. 10


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Costanza mi afferra con la sua mano tiepida e magrolina, non ha niente del fantasma. Va di corsa. Mi trascina giù per la scala consumata. Le dico: attenta che caschi. Lei ride: “Ma io la scala la conosco”. Il cortile è vuoto, è bianco, c’è un passero che becca qualcosa con fatica, dev’essere un pezzo di pane troppo grande. “Le famiglie qui erano tutte povere, le leggi razziali del ’38 avevano tolto le licenze di commercio ai nostri vicini e anche a mio padre, perciò si lavorava male, in nero. Ma i nostri genitori s’erano industriati. Insieme ai panni, nei cortili si stendevano i pezzetti di carne ad essiccare. Noi bambini giocavamo a campana, con la corda, con i dadi, con la palla. Appoggiati alla colonna, contavamo per giocare a nascondino. Rosa, Lisa, Angelo, Ester, e tutti gli altri. Eravamo tantissimi. Non andavamo tutti d’accordo. Tra noi c’erano le bande. A nascondino Lisa ci fregava sempre, si cercava i posti che a noialtri facevano paura, si nascondeva nella cantina dove c’era il fantasma, un fantasma di donna velata che si sentiva mormorare al tramonto”. Sorrido: “Davvero, Costanza, già si parlava di un fantasma? Lo sai: qualcuno dice che c’è ancora”.


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Costanza non mi risponde, si è incupita. “Il cancello”, scuote la testa, “quello non c’era. C’era il portone, ma era sfondato. Perciò la Casa aveva quel soprannome: Il Portonaccio. I nazisti entrarono senza bisogno di bussare, era sempre aperto. Erano le cinque e mezza del mattino. Quella notte non ero riuscita a prendere sonno. C’erano stati degli spari nel silenzio del coprifuoco (era vietato uscire dopo il tramonto, questo vuol dire ‘coprifuoco’). I nazisti sparavano, sparavano nel vuoto e io mi ero agitata. Pioveva, era una pioggia sottile. Dagli appartamenti già si sentiva qualche rumore. Qualcuno dei vicini era già uscito per mettersi in fila per le sigarette. Le sigarette non si trovavano sempre, c’era la guerra, c’era l’occupazione tedesca, ma si sapeva che quella mattina sarebbero arrivate al tabaccaio dell’Isola Tiberina”.


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Che strano: Costanza è per un momento in silenzio e di colpo il cortile non è più come lo conosco, bianco e luminoso. Sembra più vecchio, più vissuto, le tubature ora si snodano sui muri, umide e polverose. Sta piovendo, una pioggia sottile. Un momento fa c’era un bel cielo chiaro e pulito. Adesso non c’è neanche vento, l’aria è ferma, umida. Se alzo la testa, le luci alle finestre sono accese. Sento risuonare i tacchi degli stivali. Costanza mi prende la mano, me la stringe: è lei che mi rassicura. “Prima che arrivassero i nazisti, qualcuno ha visto il fantasma camminare per il cortile scuotendo la testa. Non era mai successo: la donna velata si vedeva qualche volta sull’uscio della sua cantina, al tramonto, non si allontanava da lì. Quella, vedi”, mi indica un portoncino, “quella, sulla sinistra, era la casa della portinaia, la signora Rosa, ma lei era già scappata a Fossa in Abruzzo e il nuovo portiere non era ancora arrivato. I nazisti colpirono la porta con il calcio del fucile, ma non si mosse nulla, nessun rumore, nessun mormorio”. Eppure io sento delle voci concitate. Sembra che vengano da fuori il portone, ed è da lì che arrivano. Ma so che vengono da molto più lontano, lontano nel tempo, vengono da quel giorno d’ottobre in cui Costanza aveva ancora dodici anni. “Quella, invece”, Costanza mi indica la prima porta sulla destra, “era la casa di Angelo lo sfasciacarrozze, ci abitava con sua moglie Ines e le figlie. Ma Ines era riuscita a convincere il marito a scappare. Erano anche loro a Fossa. Di sicuro facevano comunella con la portinaia e con i contadini, si sedevano in cerchio la sera e si raccontavano le storie del tempo che fu. Tanta gente scappava nei paesi, in Abruzzo, ma anche in altre regioni. Nei paesini e in campagna a volte si incontravano brave persone, che accoglievano chi fuggiva, che avevano rispetto, che sapevano che noi ebrei non mangiamo maiale e cucinavano a parte per noi. Ma io non sono mai andata a Fossa”.

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