La viabilità minore nei dintorni di Firenze Le stradine fra muri con il loro arredo
e strade che si dipartivano dalla viabilità principale che s’irradiava da Firenze, e che si inerpicavano per le colline intorno la città, o si snodavano per la pianura lungo l’Arno, onde raggiungere gli insediamenti minori e le case isolate, col tempo andarono assumendo una caratteristica loro propria, che ancor oggi molte di esse conservano: alti muri ne delimitano il piano stradale, accompagnandone il percorso. Sono le tipiche stradine incassate tra muri, immortalate dai macchiaioli e dalla pittura toscana del primo Novecento. La loro conformazione era nata per l’esigenza di recintare le proprietà fondiarie nei dintorni della città, in quella campagna dove sin dal medioevo si addensavano le “case da lavoratore” e le “case da padrone” (sostituite poi dalle ville signorili), allo scopo di proteggere le terre dei poderi periurbani, con i loro vigneti e con quelle coltivazioni di pregio (ortaggi, frutta) richieste dal mercato cittadino. Realizzate a sasso semplicemente accapezzato con le pietre tolte dai campi, i muri denunciano la diversa composizione litologica dei terreni su cui insistono, di volta in volta mostrando nella loro struttura informi bozze di arenaria, o di pietraforte, o di alberese, se si è in collina; rotondeggianti ciottoli fluviali nelle aree pianeggianti di fondo valle.
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Tabernacolo sulla via di Diacceto
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Firenze dalla via dell’erta Canina
Più vicino alla città spesso i muri venivano intonacati, specie se delimitavano terreni facenti capo a una villa. Si arrivava addirittura a decorare gli intonaci con una semplice ornamentazione a graffito, realizzata dagli stessi muratori al momento dell’edificazione o dell’intonacatura. Si trattava di ingenui arabeschi che venivano eseguiti con una tavoletta nella quale erano infissi tre chiodi, un poco sporgenti con la punta, che veniva arrotondata perché non risultasse troppo graffiante. I motivi dei disegni erano lasciati all’estro del muratore e venivano eseguiti sull’intonaco “a buon fresco”, vale a dire quando l’intonaco non era né troppo fresco, né troppo secco. La decorazione degli intonaci “a graffito” aveva illustri precedenti a Firenze, essendo stata usata nei palazzi cittadini sin dall’età rinascimentale. Quella dei mu-
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Due immagini della via San Leonardo
ri delle stradine di campagna era però una forma artigianale, senza grandi pretese, nata forse per estensione della decorazione degli intonaci delle ville, che servirono da modello, liberamente interpretata dal muratore. Talvolta è possibile sia intervenuto il “committente”, come denunziava un graffito, ormai quasi del tutto scomparso, che decorava un muro sulla via che dalla Porta San Miniato conduce al Forte di Belvedere. Entro un medaglione erano rappresentati due personaggi (Vittorio Emanuele I e Napoleone III), con sotto la scritta “Cada per sempre la monarchia austriaca”. Evidente che il proprietario della terra recintata, oltre ad essere di idee liberali, doveva aver commissionato il disegno, e che la decorazione venne eseguita intorno al 1859-1860, all’epoca della seconda guerra di indipendenza. L’Ottocento è infatti il periodo a cui per lo più risalgono i graffiti superstiti, anche se vi sono degli esemplari più antichi, riferibili al XVIII secolo, almeno se si presta fede alle date che in taluni casi troviamo incise sull’opera conclusa. Oltre che nella pittura, le stradine tra muri della campagna fiorentina hanno costituito un tema ricorrente nella letteratura, specie in quella del Novecento. Giovanni Papini, ne “La Muretti di recinzione sulla via San Leonardo mia Campagna”, ce ne offre questa
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Graffiti sulla via San Leonardo
bella descrizione ricca di poesia: “Di sopra ai muri in cui la strada era incassata si spenzolavano i rami convulsionari de’ bigi olivi o sfilavano i rosai nani, poveri, non curati, i rosai colle rose fradice e sbiancate che cascavano foglia a foglia giù nella zanella a marcire. Quante miglia rasente a quei muri! Muri che vedo ancora; muri bassi, quasi muriccioli che invitavano la gente a sedere; muri umi-
Due tabernacoli inseriti sui muri di recinzione. Il secondo è con abbeveratoio
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La fonte di Colombaia sulla via di San Gaggio
di, toppati di licheni bigi, e di fungaie verdi, colle scolature nere e luccicanti delle feritoie; muri altissimi, con alberi grossi, neri e fronzuti in alto, quasi a sostenere giardini pensili; muri nuovi, appena fuori di porta, incalcinati da poco e dorati di rustici graffiti da manovale. Ogni tanto un cancello di villa – cancelli chiusi e scuri, contro i quali saltava e rintronava di dentro, il cane abbaiante; cancelli spalancati, con un cipresso per parte, come per guardia, e un viale che andava
Il tabernacolo stradale cinquecentesco del Boldrone
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Tabernacolo stradale dedicato alla Madonna
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in su, in pendìo, fra siepi di mortella e di alloro.” Tra gli elementi di arredo delle piccole strade, comuni del resto alla viabilità maggiore, erano le fonti e i tabernacoli con le immagini sacre. Le fonti interrompevano la continuità dei muri, nei quali si inserivano, e potevano utilizzare l’acqua di una sorgente o di un pozzo. Talvolta erano anche dotate di abbeveratoio per gli animali, come ancora mostra una fonte sulla strada per Vicchio di Rimaggio (Comune di Bagno a Ripoli) ove, entro un’edicola, è stato sistemato un invaso in pietra serena per abbeveratoio, sovrastato da una targhetta votiva rappresentante Sant’Antonio abate, il protettore degli animali. Le fonti potevano anche dar luogo Targhetta votiva di Sant’Antonio Abate (ma solo se si trovavano su una delle “strate et vie mastre”) a dei piccoli edifici coperti: vedi, sulla via romana, poco fuori la Porta di San Pier Gattolini, la fonte a Colombaia, con la sua struttura duecentesca ad arcate su pilastri che immettono nel locale ove era l’abbeveratoio. I tabernacoli stradali, chiamati nella campagna fiorentina “madonnini” poiché più frequentemente in essi era raffigurata la Vergine, di norma erano collocati in corrispondenza degli incroci stradali e sempre costituivano comunque dei punti di riferimento in rapporto con la viabilità, un po’ come nell’antichità venivano erette ai trivi edicole dedicate a Mercurio, o venivano innalzati i “sacella compitalia”, tempietti votivi che accoglievano i simulacri delle divinità campestri. Di norma i nostri tabernacoli posseggono un impianto architettonico che, nelle vie più prossime alla città, ospitano affreschi e si arricchiscono di membrature che denunziano, con la loro eleganza formale, rapporti con l’arte “aulica”, così come l’esistenza di un committente, rappresentato, presumibilmente, dal proprietario della villa signorile i cui terreni i muretti lungo la strada recingevano. Addirittura, se in corrispondenza delle principali vie di comunicazione, i tabernacoli assumevano aspetti monumentali: basti pensare alla grande edicola trecentesca, in prossimità di San Salvi, sulla “strata per quam itur ad Pontem ad Sievem”, che sarà significativamente chiamata “il Madonnone”. In più aperta campagna i tabernacoli si riducono a rudimentali nicchie ricavate entro lo spessore dei muri e sono chiaramente ascrivibili all’opera di un maestro muratore. In questi casi non ospitano più affreschi, ma sette-ottocentesche targhette votive in terracotta invetriata che risplendono nei loro gustosissimi colori. Prodotte da quelle vere e proprie “capitali della ceramica” che furono Impruneta, Montelupo e Doccia, le targhette, pur differenziandosi per in-
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Tabernacolo stradale trecentesco a Sesto
Tabernacolo a Diacceto
confondibili particolarità di stile e di forma, dimostrano sempre di essere il frutto di una intelligente e raffinata attività artigianale, che non di rado denunzia l’esistenza di collegamenti con l’arte colta, riconducendoci a delle protoimmagini (spesso opere di grandi maestri), da cui discendono iconograficamente. Come si è detto la Madonna è il soggetto religioso più rappresentato, spesso secondo iconografie che riflettono antiche e famose rappresentazioni (la Madonna della Misericordia, la Madonna dei Sette Dolori, la Madonna del Rosario, ecc.). Ma non mancano rappresentazioni di altri temi e soggetti sacri: dalla Sacra Famiglia, alla Crocefissione; da Sant’Antonio abate (cui ci si rivolgeva per impetrare la protezione degli animali), a San Martino (il protettore dei pellegrini e dei viandanti), a San Gherardo da Villamagna (il Santo contadino, oggetto di venerazione locale). Tipica espressione di religiosità popolare, i tabernacoli con le loro immagini entravano a far parte dell’universo culturale della popolazione e diventavano i segni immediati e autentici che scandivano, quotidianamente, le speranze e le gioie, le preoccupazioni e le sofferenze di chi percorreva le strade.
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