Viaggio in Valdarno

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Pedinando il Granduca L’itinerario seguito da Pietro Leopoldo nella sua visita in Valdarno nel 1777

Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana 94

IL VALDARNO SUPERIORE. Territorio, storia e viaggi


Primo itinerario Pedinando il Granduca

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urante gli anni in cui governò il Granducato di Toscana, Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena viaggiò molto per il suo stato, in una sorta di “vagabondaggio politico” volto a sollecitare, con la sua presenza, l’attuazione di quelle riforme civili da lui propugnate in vista della modernizzazione del Granducato. Una delle sue ricognizioni riguardò il Valdarno, che il sovrano attraversò nell’autunno del 1769 per effettuare una lunga e accurata visita in Valdichiana. Per disporre di una capillare ricognizione della realtà valdarnese occorre tuttavia attendere i mesi di luglio-agosto del 1777, quando Pietro Leopoldo toccò le principali località della nostra regione (prima di dirigersi verso il Chianti per Levane e Bucine e la Val d’Ambra), lasciando un ampio resoconto della visita nelle “Relazioni sul governo di Toscana”, un documento di fondamentale importanza per la comprensione della figura del principe (Diana, 1994, pp. 67La torre di Arnolfo a Castelfranco di Sopra 75; Fornasari, 2007, pp. 134-140). A quel tempo, la lunga crisi economica e demografica degli anni ’60, che certamente ebbe ripercussioni anche sull’assetto delle comunità valdarnesi, era stata superata, tanto che il sovrano scrive che “il Valdarno di Sopra è una delle più fertili province della Toscana, popolatissima e piena di gente industriosa” (Pietro Leopoldo, 1974, vol. III, p. 29). Seguiamo Pietro Leopoldo nel suo viaggio, che comincia naturalmente da Firenze, per l’antica via Aretina di Bagno a Ripoli e di San Donato in Collina (Pietro Leopoldo, 1970, vol. Il, pp. 324-333). Dopo avere superato il crinale tra la conca fiorentina e quella valdarnese, anziché proseguire per Incisa per la strada maestra, il granduca deviò a sinistra per Le Corti e Rignano, per avere modo di visitare la parte settentrionale della nostra regione, vale a dire il territorio compreso fra l’Arno e il Pratomagno. Qui, infatti, al vecchio ponte, “si passa l’Arno e si vede tutte quelle colline ben coltivate. A San Mezzano sopra in un poggio si vede la villa del Ximenes e giù tutti i suoi poderi ben tenuti e molto ben coltivati, come anche le case […]. I due piani di Scò e le colline come anche le sue vallate sono su-

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perbamente e ben popolate. In specie il piano di Cascia è pieno di gente comoda e di contadini proprietari e ricchi; quei monti poi sono coperti d’ulivi ottimamente tenuti”. Tenendosi sempre a nord del fiume, sull’antica strada dei Sette Ponti (raggiunta a Cancelli per Pietrapiana, Reggello, Cascia, ecc.), Pietro Leopoldo non manca di ricordare “la cattiva strada” che saliva lungo il torrente Resco per scavalcare il crinale del Pratomagno per i casentinesi centri di Castel San Niccolò e di Strada. Ma soprattutto egli continua a descrivere l’assetto agricolo locale, con suo allargamento a tutta la valle. “Nella comunità di Terranuova sono 7 in 8 fattorie grandi e ville di Cavalieri Fiorentini, Medici, Inghirami, Ricasoli, Bartolini […]. Fuori di Montevarchi a 3 miglia vi hanno le ville il Viviani, Firidolfi, etc. […]. La Val d’Ambra è stretta ma piana e tutta coltivata assai bene. L’Ambra vi serpeggia e sopra i poggi vi sono molte boscaglie”. Dopo Castelfranco di Sopra, salendo verso Loro Ciuffenna, “dalla diritta si vede le più belle coltivazioni tanto nei piani che nelle colline di viti e olivi, vi è in queste coltivazioni una somma industria e benché vicine alla montagna sono superbe; il terreno non vi riposa mai: due anni fa a grano e due anni a segale, poi si vanga e si mette a fagioli, allora arriva nell’anno seguente a fare di grano anco le 20. Tutto è coltivato e pieno di case fino in cima al monte che confina col Casentino; poi vi sono i faggi […]. Vi sono molte frane e dilamature delle acque che formano gran borri e portando via ad ogni pioggia gran terre fanno rialzare il letto del fiume Arno […]. Tutto quel paese è montuoso e quelle strade sono scoscese […] ma la comunità è assai vasta e popolata e ben coltivata”. Dunque, belle e fitte coltivazioni, grandi ville signorili ed estese fattorie, case coloniche comode, mezzadri agiati che “non si lamentano”. Un quadro seducente, ma certamente parziale. Lo stesso sovrano non manca di ricordare – insieme ai primi, vistosi fenomeni di erosione che colpiscono le alte terre del Pratomagno per i disboscamenti e i dissodamenti operati dai proprietari delle foreste, in seguito proprio alle leggi liberistiche leopoldine – la povertà degli abitanti dell’alta montagna di Loro, costretti ad intraprendere faticose migrazioni stagionali nella malarica Maremma. “Nella montagna alta sono tutta gente la quale non semina, non hanno altro che bestie e vanno in Maremma, sono poverissimi” (Pietro Leopoldo, 1970, vol. Il, p. 327). Il granduca sottolinea pure la presenza in tutta la valle, nonostante la vendita o l’allivellazione di estesi beni delle comunità o del demanio granducale, di un numeroso e turbolento ceto di poveri e miserabili (i così detti “pigionali” per l’abitare in quartieri presi in affitto nei vari centri), che normalmente prestavano lavori saltuari di bracciantato e si arrangiavano con furti campestri ed altri espedienti. Nel 1777 erano già stati allivellati i beni del Comune di Montevarchi e i “comunisti” di Reggello stavano procedendo “alla divisione dei beni comunali delle 4 comunità d’Arfoli che abbracciavano da 12 miglia di paese. Per

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Francesco Fontani (1748-1818), veduta di San Giovanni dal Viaggio pittorico della Toscana (1801)

i boschi ed i castagneti si sono già accordati, ma non va tutto facile per le pasture”. Invece, la grossa fattoria di Montevarchi e San Giovanni dello Scrittoio delle Possessioni fu “parte allivellata e parte venduta spezzatamente” solo nel 1783. Questa azienda venne descritta nel 1777: “La fattoria ha belli poderi che s’estendono per 6 miglia lungo l’Arno da Levane a S. Giovanni tutti uniti”. Lo stesso sovrano trovò “fertili ed ottimi i terreni […], le coltivazioni ben tenute ed i contadini contenti e senza lamentarsi, fuor che qualcheduno che hanno bisogno di risarcimento per esser basse mentre i terreni si sono rialzati per le colmate d’Arno. Vi sono famiglie grosse di contadini e si vede che sono comodi, ben tenuti e non vessati, sono ben tenute le stalle e piene di bestiami” (Pietro Leopoldo, 1970, vol. II, pp. 325 e 331-332 e 1974, vol. III, p. 30). In tal modo, Pietro Leopoldo poteva contrapporre i mezzadri ed i coltivatori diretti – cioè, “il popolo di campagna, ugualmente dolce, buono e quieto” – alla massa inquieta dei giornalieri, residenti nei “castelli, in specie di S. Giovanni e Montevarchi”, che definiva a più riprese “i danneggiatori di campagna”. Passato nuovamente l’Arno (pare alla barca di Terranuova Bracciolini e Montevarchi), il granduca tornò sulla via Aretina, e così ebbe la possibilità di caratterizzare i tanti centri abitati disposti soprattutto lungo questa importante arteria tra Incisa e Levane. “Montevarchi fa da 1300 anime, ma quasi tutte oziose fuor che dei vetturali o gente che campa su qualche piccolo mestiere; gli altri campano sul traffico e lavoro del mercato […]. Fanno i calzolari e vetturali e non vi è altri me-

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Francesco Fontani (1748-1818), veduta di Terranuova, dal Viaggio pittorico della Toscana (1801)

stieri […]. In S. Giovanni non v’è traffico né arte, molta miseria e grand’ozio; vi sono gran danneggiatori di campagna, essendovi più di 300 anime che non campano di altro e che vanno in truppe: nessuno viene al Tribunale dei dannificati per ricorrere contro di loro perché non ne possono essere soddisfatti: insultano i contadini e resistono anche alle guardie” (Pietro Leopoldo, 1970, vol. II, pp. 328-331 e 1974, vol. III, p. 29). Simile era la realtà di Figline e Terranuova. Contro i tanti “danneggiatori e discoli” residenti nei centri valdarnesi era impotente “la squadra di Valdarno composta di 10 uomini”. Non che mancassero del tutto le famiglie benestanti (le “case comode”) residenti nella valle, che anzi Pietro Leopoldo ne ricorda diverse, per quanto poco dotate di spirito imprenditoriale, un po’ in tutte le comunità, salvo Reggello e la “povera” Val d’Ambra. La piccola borghesia campagnola infatti era abbastanza numerosa a Montevarchi: “paese ricco e molto popolato, vi sono delle case molto benestanti e comode, ché vi è molta industria nel popolo, atteso il grosso mercato di grani e di bestiami che si fa in quella Terra ed il trasporto di generi frumentari che vi è conseguente […]. Le case forti sono Peri, Del Nobolo, Soldani e 8 o 10 altre, ma tutti sono oziosi e non badano a niente”. Tanto che “non vi sono spezierie altro che due cattive, né traffico di panni”, e “manca una locanda comoda per i forestieri giacché si trova a mezza strada tra Firenze e Arezzo”. Era però molto meno rappresentata in tutti gli altri centri, come a San Giovanni: “di case buone non vi è che quella dei Mannozzi”; a Castelfranco: “vi

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Ricostruzione del castello di Ancisa (oggi Incisa) nel Medioevo

è la casa Luigi Rossi a Piantravigne che è ricca ed un poco prepotente; le due case Restoni e Samuelli sono ricche ma sempre in lite”; e a Loro: “le case Bindi e Tanucci sono le migliori e più comode del paese” (Pietro Leopoldo, 1970, vol. II, pp. 326-329 e 1974, vol. III, p. 30). In altri termini, la maggior parte del territorio della valle era monopolizzato da quei grandi proprietari fiorentini che si segnalavano più per la loro natura di ‘redditieri’ che di intraprendenti imprenditori agrari. Così, il Valdarno era del tutto privo di industrie manifatturiere ed estremamente carenti apparivano le strutture assistenziali e culturali. Soltanto nei principali “castelli” della valle “vi sono i respettivi maestri” e solo “in Montevarchi hanno scuola di teologia e filosofia i minori conventuali che vi sono”; in San Giovanni, poi, “vi è un conservatorio stato rifabbricato a spese del governo, che serve per educazione e scuola” alle sole femmine (Pietro Leopoldo, 1970, vol. III, pp. 29-30). Le poche scuole esistenti, per lo più gestite dagli enti ecclesiastici, erano chiaramente insufficienti, tanto che lo stesso granduca annotava che: “sarebbe desiderabile che le monache di Montevarchi e quelle di Terranuova [e di Figline] si inducessero a fare conservatorio di educazione e scuola per la gioventù che ne ha bisogno” (Pietro Leopoldo, 1974, vol. III, p. 30). In più, “vi mancherebbe nel Valdarno un buon spedale per malati e trovatelli”, in quanto quello dei Serristori esistente a Figline, sebbene “molto ben tenuto”, era di dimensioni troppo modeste per soddisfare le esigenze di un’intera

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Provincia (Pietro Leopoldo, 1974, vol. III, p. 29 e 1970, vol. II, p. 331). In compenso, risultava davvero sovrabbondante il numero degli ecclesiastici regolari e secolari, che si mantenevano più che sulle consuete elemosine, sulle rendite di ricchi patrimoni immobiliari. Oltre alla celebre abbazia di Vallombrosa, e alle sue dipendenze (da poco soppresse) di Montescalari e di Castelfranco di Sopra, esistevano ancora “la badia del Ponte Rosso dei vallombrosani vicino a Figline, i conventi dei Cappuccini di Figline e Montevarchi” (definiti “inutili e da sopprimersi a suo tempo”), un convento con 20 monache benedettine a Castelfranco (nel paese c’erano altresì “8 preti con cappelle”), ben 32 monache a Terranuova (“e per quel popolo che non è che di 800 anime vi sono 7 cure che veramente sono inutili”). Inoltre, a San Giovanni “vi sono due conventi di monache e fuori di porta a un mezzo miglio vi è il convento di Torre a Terranuova Bracciolini Montecarlo dei francescani riformati, che sono da 30 soggetti”. A Montevarchi, poi “vi è un convento di monache dette del Latte”; fuori ve n’è uno di benedettini. “Nella propositura vi è un preposto Conti e 14 canonici, vi è inoltre una altra piccola cura e fuori un convento di cappuccini, dentro ve n’è uno di francescani neri” (Pietro Leopoldo, 1974, vol. III, p. 30 e 1970, vol. II, pp. 326329). Riguardo alla ricchezza di tali enti religiosi, basti dire che, sempre nel 1777, la pieve di Cascia aveva rendite annue per quasi 1000 scudi e quella di Pian di Scò per 400-500 scudi (Pietro Leopoldo, 1970, vol. II, p. 325).

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