Sesto itinerario
Il Casentino. Territorio, storia e viaggi
Casentino romanico: “melting pot” della cultura architettonica dei secoli xi-xiii
ei secoli centrali del medioevo il Casentino svolse appieno la sua funzione di comunicazione interregionale, in quanto passaggio naturale da Arezzo verso settentrione. I percorsi casentinesi e i valichi appenninici cui essi facevano capo accrebbero notevolmente i loro transiti, anche perché vennero a trovarsi inseriti nel sistema sovraregionale delle vie di pellegrinaggio. Con gli uomini e le merci le strade veicolavano anche le idee, e le popolazioni del Casentino ebbero modo di ampliare i propri orizzonti, trovandosi a essere fecondate da influssi culturali provenienti dalle regioni di tutto l’Occidente cristiano. Il fenomeno è particolarmente avvertibile nelle espressioni artistiche dei secoli XI-XIII, e in special modo nell’architettura e nella scultura romaniche, che non di rado riecheggiano stilemi riconducili ad alcuni tra i principali centri di produzione artistica dell’epoca. In Casentino è dato così imbattersi in alcune pievi nelle quali sono rilevabili motivi che richiamano l’ambiente artistico di Ravenna, centro normativo di esperienze per tutta la prima arte romanica dell’Italia centrale. Sui rapporti di Arezzo con Ravenna basterà ricordare come nel 1014 Maginardo, “arte architectonica optime erudito”, fosse inviato a Ravenna dal vescovo aretino Adalberto, allo scopo di ispirarsi al San Vitale, nella ricostruzione della cattedrale di San Donato sul colle di Pionta. L’irradiazione della cultura artistica dell’antico Esarcato a sud degli Appennini seguì i percorsi più orientali degli itinerari per Roma e
N
Renato Stopani
Pieve di Buiano
Pieve di Montemignaio
interessò quindi il Casentino, dove non a caso troviamo nella pieve di Pàrtina le tre navate di cui l’edificio constava divise da una successione di archeggiature nascenti da colonne dall’entasi accentuata, sormontate da capitelli imbutiformi di chiara ascendenza ravennate. Della pieve, riferibile all’inizio dell’XI secolo, rimangono solo alcuni elementi, sufficienti però a ricostruirne l’impianto icnografico, che era di tipo basilicale ed aveva forme grandiose, constando di tre lunghe navate divise da sei ampie archeggiature. Anche la diffusione delle torri campanarie di foggia cilindrica, altro motivo di incontestabile tradizione ravennate e presente in più chiese della vasta diocesi aretina, è assai probabile si sia verificata per il tramite del Casentino: sembra dimostrarlo la base cilindrica del campanile della pieve di Socana, superiormente continuato a pianta poligonale. Voci innovative dell’arte, dall’architettura monastico-borgognona a quella cistercense, dal romanico padano alla scultura alverniate, giunsero in Casentino grazie agli itinerari seguiti dai pellegrini che percorrevano la vallata. Presentano ad esempio evidenti riflessi dell’arte francese le strutture architettoniche delle pievi di Romena, Stia, Montemignaio e Vado, oltre alle imponenti rovine della Badia di Santa Trinita a Talla. Le quattro pievi casentinesi sopra menzionate sono tutte caratterizzate dall’adozione dello schema basilicale, con le tre navate divise da monolitiche colonne in arenaria dall’entasi pronunziatissima e dai capitelli riccamente scolpiti. Quelli di Romena sono prevalentemente a imitazione del classico composito (ma in due casi sono scolpiti con episodi della vita del Redentore); nei capitelli di Montemignaio appaiono immagini di angeli telamoni; a Stia e a San Martino a Vado bizzarre figure umane e bestiali si alternano a motivi vegetali riflettenti la flora locale. E proprio nelle sculture dei capitelli, per l’ornamentazione di tipo geometrizzante, si può supporre l’attività di lapicidi lombardi, che in taluni casi, come a Stia e a Romena, dovettero essere in un qualche rapporto con la scultura alverniate. Il Casentino. Territorio, storia e viaggi
I primi parametri estetici cistercensi fecero una precoce apparizione in Casentino: li troviamo ad esempio nella pieve di Romena, già a metà del XII secolo, nelle piccole cappelle quadrate coperte con volte a botte, poste ai lati dell’abside centrale e ottenute mediante la creazione di due corte campate terminali che danno luogo nelle navatelle laterali a due brevi vani. La pieve nella sua versione romanica risale infatti al 1152, come recita la data incisa in un capitello assieme alla scritta “ALBERICuS PLEBANuS fECIT ANC OP(ram) TEMPORE fAMIS”. Altri elementi di provenienza oltralpina sono rilevabili nella pieve di Montemignaio, nell’arco trionfale nascente da mensole pensili e nelle profilature che sottolineano le cappelle della tribuna, ed ancora nella pieve di Romena, nella doppia serie di colonnine che scandiscono la rotondità dell’abside e le ali laterali, motivo che ritroviamo in chiese romaniche della Provenza, dell’Alvernia e del versante spagnolo dei Pirenei. Tutte le pievi sinora ricordate si caratterizzavano per la loro monumentalità, l’impianto basilicale a triplice spartizione che le caratterizza constando, originariamente, di ben otto valichi (San Pietro a Romena), di sette valichi (San Martino a Vado e Santa Maria a Stia) e di sei valichi (Santa Maria a Montemignaio). Nei casi di Romena e di Stia, come è noto, distruzioni o rimaneggiamenti intervenuti hanno privato le due chiese delle prime campate delle tre navate, il che ha parzialmente ridimensionato gli edifici ma non ne ha scalfito la solenne grandiosità. In altre pievi casentinesi (Buiano, Sòcana) la successione dei grossi pilastri che impostano le archeggiature senza interruzione dei ritmi e l’uso della copertura lignea a capriate, denunziano una concezione architettonica che risente ancora della tradizione antica, un po’ come avviene nella maggior parte delle pievi rurali del contermine contado fiorentino. un’assoluta mancanza di elementi decorativi caratterizza queste pievi rinnovate nel XII secolo, nelle quali viene soltanto esaltata la bellezza del materiale lapideo, regolarmente squadrato. una ancora più accentuata semplicità icnografica, stilistica e strutturale caratterizzerà le piccole chiese suffraganee delle pievi: lo si può constatare
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Pieve di Romena
in alcuni esempi superstiti, come le chiesette di Lonnano, di Ama o di Ristonchi, che constano tutte di una navatella rettangolare absidata e si distinguono anch’esse unicamente per l’accuratezza dei rivestimenti murari a filaretti di pietre ben scalpellinate. Le trasformazioni e gli “ammodernamenti” succedutisi nel corso dei secoli hanno cancellato le originarie strutture romaniche della maggiori chiese monastiche casentinesi: caso emblematico quello di Camaldoli, che della più antica versione architettonica del complesso ha conservato soltanto il chiostro cosiddetto di Maldolo. Solo nella Badia di Prataglia e in quella di Poppiena si possono ancora rilevare i caratteri dell’architettura camaldolese delle origini, improntati a una grande sobrietà di forme e caratterizzati da semplicissimi impianti icnografici ad aula rettangolare absidata. Trasformatissima è anche la chiesa vallombrosana di San fedele a Strumi che, come tutti gli edifici dell’ordine coevo della Congregazione di Camaldoli, sorto anch’esso a riforma del monachesimo benedettino, era ad un’unica navata con pianta a croce latina. Già alla fine del XII secolo il monastero, ricco e famoso per la signoria dei conti Guidi, venne trasferito entro le mura di Poppi. Doveva invece denunziare anche nella sua veste architettonica l’appartenenza all’ordine benedettino cluniacense l’abbazia di Santa Trinita dell’Alpe, più comunemente chiamata “Badia di Talla”. fondata sulle pendici casentinesi del Pratomagno da due monaci d’oltralpe, Pietro ed Eriprando che, “cum aliis fratribus Teutonicis”, tra il 983 e il 996 fondarono un piccolo cenobio che conoscerà in seguito grande fortuna. Ricostruito ed ampliato in forme romaniche verso la metà del XII secolo, probabilmente per supplire alle necessità dei monaci sempre più numerosi, il monastero restò all’ordine Teutonico sino al 1425, anno in cui fu affidato alla congregazione vallombrosana, che l’ebbe in custodia per i successivi tre secoli. A partire dal 1708 cessò ogni forma di vita cenobitica, e dopo il 1810 l’abbazia fu abbandona-
Pieve di San Martino a Vado
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ta anche dall’unico eremita che vi viveva; di conseguenza il complesso, già pericolante nel 1873, andò in rovina. Grazie a un recente restauro “a cielo aperto”, che ha rimesso in luce e consolidato le superstiti strutture, possiamo leggerne i caratteri architettonici. La chiesa era con pianta a croce latina, a navata unica absidata, con transetto sporgente e robusti pilastri addossati alle pareti e torre campanaria a lato della fiancata sinistra. La navata era divisa in due ambienti da un recinto a semicolonne con cornice sovrapposta: l’area presbiteriale, con il coro monastico, e il vano plebano. Le profilature della tribuna, di particolare finezza, ci riportano a un tipo architettonico monastico-borgognone e denunziano l’intenzione dei costruttori di realizzare un’opera di spoglia grandezza, la cui “nobile semplicità” doveva riflettere la spiritualità dell’ordine oltramontano cui faceva capo.
Capitello della Pieve di Romena Capitello di Pieve di San Martino a Vado
Capitello della Pieve di Stia
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