Al di là di Itaca

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AL DI LA’ DI ITACA e altre storie

Claudio Ursella


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Le palme del Mare del Nord................................................ pag. 3 Finale................................................................................... pag. 5 Wi-Juh-Jon-Jon.................................................................... pag. 10 Kane King............................................................................ pag. 14 My Generation..................................................................... pag. 19 Al di lĂ di Itaca..................................................................... pag. 29


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LE PALME DEL MARE DEL NORD ... aveva venduto la sua merce per pochi soldi e intriso di sudore la camicia solo per qualcosa in più... aveva contato le monete davanti all’oste, ma non erano abbastanza per riempire la pancia, quindi cercò di addormentarla con una buona bevuta e per un po’ ci riuscì. Quando l’oste gli tolse il bicchiere e la bottiglia dal tavolo, pensò che era il momento di andar via per evitare storie; si appoggiò la giacca sulle spalle e buttò li un “buonanotte” freddo ma cortese. Avrebbe voluto camminare un po, ma temeva di svegliare quell’animale terribile che i ricchi chiamano appetito e che i poveri evitano di chiamare perchè se lo portano sempre dietro...andò dritto alla spiaggia... si sarebbe seduto e avrebbe aspettato. Camminò quel tanto che bastava a riempirsi le scarpe di sabbia, poi si sedette, si strinse nella giacca per ripararsi dal freddo e cercò nelle tasche un mozzicone messo da parte...lo trovò e lo accese, riparando con le mani il fiammifero dal vento. Sperava che sarebbe arrivato presto, perchè aveva solo quel mozzicone e non amava aspettare senza aver nulla da fumare. Quando sentì il suono del vento tra le palme, capì che non avrebbe atteso ancora per molto... non c’erano mai state palme su quelle spiagge fredde. Un ultima boccata e spense la cicca nella sabbia; si prese le ginocchia fra le braccia e vi appoggiò sopra la testa, chiudendo gli occhi ma con l’orecchio ben teso ad ascoltare il vento e le onde del mare. Pensò alla luna, piena e luminosa come un sole malinconico che si riflette sul mare senza scaldarlo... pensò che se la luna fosse caduta in mare avrebbe fatto abbastanza rumore da svegliarlo e questo lo tranquillizzò... poi pensò che per fortuna la luna non può cadere in acqua e questo lo rallegrò... infine si sentì un po’ coglione, ma si scusò pensando che non era colpa sua: ogni volta che lo aspettava si sentiva un po’ coglione. Si scosse per cercare un’altro mozzicone, ma come sapeva non lo trovò. Guardò verso ovest (pensò che doveva essere ovest) e finalmente vide un puntino nero; si alzò in piedi e si scrollò la sabbia dai vestiti, guardò di nuovo e il puntino era ora una sagoma nera che avanzava veloce sulla striscia di sabbia tra le palme e il mare. Stette così in piedi a guardarla avanzare, mentre la sua ombra si attaccava a quel po’ di luce lunare per continuare a sopravvivere. La sagoma nera galoppava veloce ed era ormai vicina: si preparò cercando a fatica la concentrazione e al momento giusto scattò, le mani aggrappate alla criniera, le ginocchia strette al costato, il corpo teso nella fatica quotidiana. Le palme da un lato le onde dall’altro apparivano e scomparivano in linee frenetiche, il vento che gli soffiava in faccia aumentò di intensità, la sabbia gli entrò in bocca, nel naso, tra i capelli. Chiuse ancora gli occhi mentre il cavallo correva su quella striscia di eternità mentre sogni intollerabili lo sfiancavano di lusinghe; sentì le sirene chiamarlo dal mare cantando strofette pubblicitarie, ma non mollò


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la presa, scese a 20.000 leghe sotto i mari dove Capitan Nemo mangiava uova con il bacon, ma non si fermò per il breakfast, tirò dritto tra stand di coralli in offerta speciale e stock di pesci impossibili prodotti in serie e continuò a correre a occhi chiusi e nervi tesi tra le immagini dei sogni, quelli suoi e quelli di tutti, li passò in rassegna e puntò su di loro il suo dito accusatore, ne uccise mille, ne ferì altri mille e finalmente dormì. Dormì il suo sonno contratto con le unghie nella pelle dell’animale e le braccia annodate al suo collo, mentre il cavallo incurante galoppava veloce, lasciando dietro di se infiniti granelli di sabbia, tracce del suo passare che nessuno avrebbe raccolto. Sognò finalmente, sognò il suo Sogno immortale, ne ebbe paura e provò a svegliarsi, ma il Sogno lo prese e con esso la calma lucida e rassegnata dell’inutile attesa, quando solo una sigaretta da senso al tempo; si frugò nelle tasche e si stupì di trovarne una intera, l’accese con piacere mentre il cavallo trottava, leggero ed elegante... aspirò una boccata, annusò l’aria, sentì l’impossibile profumo delle noci di cocco dei mari del nord e pensò al loro sapore mai gustato... chissà che nell’attesa non fosse riuscito ad aprirne una. L’alba lo trovò sulla spiaggia, mentre si scuoteva la sabbia dai pantaloni camminando verso la strada alla ricerca di qualcuno a cui chiedere una sigaretta. Vivere non sarebbe poi male se ci fosse qualcuno con cui fare due chiacchiere.


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FINALE Mostrava la maschera estiva che anche tu indossavi prima di vestirti del grigiore della banalità; un accenno d‘abbronzatura testimoniava della partecipazione al grande effetto “vacanze d’agosto” e sotto il braccio portava un pacco di fogli che certo non ti stupirai di scoprire bianchi. Bussò alla porta dell’ufficio, dove un impiegato sudaticcio lo accolse con la stanca disponibilità di chi lavora nell’agosto romano; l’impiegato gli indicò una sedia e tornato alla sua scrivania lo guardò con una espressione che non tradiva interrogativi: lui rimase in piedi, in silenzio. Dietro la scrivania l’impiegato accese una sigaretta, aspirò una boccata, reclinò il capo all’indietro e parlò con voce comprensiva, paterna: -Lei dovrebbe essere al mare...io comprendo il suo stato d’animo, anch’io alla sua età, forse un po’ prima...Ma pensa che servano a qualcosa questi pellegrinaggi settimanali? Come ha gia avuto modo di dirle il nostro direttore, non siamo attualmente interessati alla sua collaborazione e ciò a prescindere da qualsiasi giudizio di merito...Non ebbe modo di andare oltre perchè l’uomo dei fogli bianchi lo interruppe in modo perentorio: -Mi faccia parlare con il direttore.L’impiegato, offeso da quella durezza che arrivava proprio mentre offriva il lato comprensivo di se stesso, rispose con altrettanta perentoriet…: -Il direttore è al momento occupato.Poi con la crudeltà che l’assurdità della situazione generava e il caldo liberava, aggiunse: -E se anche più tardi sarà libero, dubito che spenderà un minuto per gli aborti letterari che nemmeno lei ha il coraggio di portare a termine. E con questo la prego di lasciarmi al mio lavoro.Se tu avessi voluto guardarlo, non l’avresti visto offeso o adirato, ma solo distante, della ridicola distanza dei martiri. Parlò scandendo le parole, contratto, davanti all’impiegato che aveva preso a leggere un giornale: -Mi faccia parlare con il direttore e sarà l’ultima volta che mi vede in questo ufficio. Mi faccia parlare con il direttore o non uscirò da questa stanza nemmeno con la forza.L’impiegato lo guardò con una espressione che non riusciva a nascondere i suoi interrogativi, poi d’improvviso buttò da un lato il giornale, spense la sigaretta nel posacenere con violenza e si alzò bruscamente dalla poltrona: -Al diavolo fa troppo caldo per discutere con i pazzi, che ci pensi il direttore.- e scomparì nel corridoio. Tu che non avevi mai voluto ascoltarlo prima, forse non avresti avuto il coraggio di deriderlo in quel momento, quando con l’ansia fredda di chi gioca la sua ultima mano, attendeva in piedi davanti al lungo corridoio. Forse non avresti avuto il


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coraggio di deriderlo, eppure era solo una pagliacciata. L’impiegato rientrò nella stanza e gli indicò con la mano il corridoio senza neanche degnarlo di uno sguardo. Il direttore lo attendeva dietro la sua scrivania con aria benevola, la lucida calvizie che troneggiava sulla moderata pinguedine, gli occhi piccoli e sorridenti, risaltanti su un viso che si allungava oltre il collo senza soluzione di continuità. Lui gli si fece incontro camminando come un soldatino, si sedette senza essere invitato a farlo e parlò di getto, col timore che qualcuno potesse fermarlo. -Lo so che lei è furbo, molto più furbo di me...io so che lei la sa lunga, molto più lunga di qualsiasi altro. Lei conosce la fine di tutti i romanzi, anche di quelli che io non ho avuto il coraggio di terminare. Lei è il più forte lo ammetto...Fece una pausa, quasi a misurare gli effetti di quella sua entrata teatrale, ma sentì solo il rumore delle pale del ventilatore: il direttore lo guardava tranquillo, con ironica serenità. Riprese a parlare, lento, scandendo ogni parola: -Le ho portato il mio prossimo lavoro, un lavoro che voglio iniziare con la sicurezza che sarà pubblicato... e so che questa volta lei me lo pubblicherà.Finì la frase gettando sulla scrivania mezza risma di fogli bianchi. Il direttore non li degnò nemmeno di uno sguardo, si alzò con aria indifferente e si portò alle spalle dell’interlocutore, fingendo di cercare qualcosa nel cassetto di uno scaffale: -Potrebbe sembrare uno scherzo, ma lei sembra il tipo di persona che non ha sufficiente senso dell’umorismo per scherzare dei propri fallimenti... quindi eviterò di ridere e cercherò di parlarle con la sincerità che lei probabilmente richiede. Lei sa che la mia piccola casa editrice è specializzata nel proporre “giovani promesse” della letteratura, cioè in altri termini a offrire un’opportunità a persone come lei: individui troppo deboli per vivere la loro vita, ma abbastanza presuntuosi da pensare di poterne scrivere, giovani gia in odor di fallimento il cui unico riscatto alla frustrazione sta nel desiderio di veder il proprio nome su una copertina, di modo che l’eterna gloria del futuro possa riscattarli dal presente miserabile. Me li immagino, con sottobraccio qualche copia fresca di stampa della loro opera, da lasciare casualmente ad amici e parenti. Ogni tanto qualcuno si trasforma in un buon affare, ma sono casi rari e in ogni caso non è per soldi che faccio questo mestiere.Si terse la fronte con un fazzoletto, cambiò un poco l’angolazione del ventilatore, poi tornò a sedersi: -D’altra parte nessun denaro sarebbe sufficiente a pagare la mia pazienza con questo caldo.Se tu gli avessi letto il sorriso impudente di chi si sa svelato e il volto rigido d’un animale trafitto, l’avresti disprezzato, com’eri usa fare a ogni suo sguardo innamorato. -Non è il denaro che mi interessa, sono troppo vecchio e ormai ci ho rinunciato. No, ho altre soddisfazioni: il piccolo piacere di vedervi entrare, colmi di artistica sofferenza e poi uscire, placati e soddisfatti, in attesa di recensioni e magari interviste, la partecipazione a un premio letterario e chissà l’invito in qualche salotto.


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Basta così poco. In cambio chiedo poco, solo il piacere di conoscervi, scrutare fra le righe le vostre pene e i desideri, essere il vostro miglior critico e proporre magari un consiglio, un’indicazione...-Magari un tradimento.Alla secca interruzione l’editore rispose con una espressione ferita, ma subito si riprese e cambiando tono riprese a parlare: -Ho provato a parlarle con il cuore in mano, ma vedo che con lei è impossibile ragionare. Allora veniamo al dunque e cerchiamo di chiudere in fretta questa faccenda: lei viene qui a chiedermi un impegno a scatola chiusa su un’opera che non è ancora cominciata, di cui non so nulla e che probabilmente rimarrà incompiuta come tutte le altre che ha concepito. Potrei buttarla fuori a calci come si fa con gli impudenti o dirle “si stia tranquillo”, come si fa con i pazzi, ma prima di fare l’una o l’altra cosa voglio sapere: cosa la fa essere così sicuro che questa volta riuscirà a portare a termine il romanzo?-Il romanzo terminerà con me.La frase ad effetto raggiunse il suo obbiettivo: gli occhietti del direttore ebbero un guizzo, mentre con la mano si lisciava il mento: -Ah, credo di capire...- poi con un risolino aggiunse- Per la sua gloria letteraria e i miei interessi, non posso che augurarle vita breve.-Sarà abbastanza lunga da raggiungere la fine.-La prego riservi queste funeree tautologie per le sue composizioni e cerchi di trattar la cosa con un po’ più di serenità. L’idea potrebbe essere interessante, ma c’è un seconda problema di estrema importanza e riguarda le sue capacità letterarie che, ad esser sinceri, definirei risibili. Non nego che lei sia un vero artista, tutto nella sua esistenza denota un temperamento artistico, purtroppo però dalle sue pagine non riesce a trasmettere che stanchezza, abbattimento... noia in ultima analisi. Mi dica, francamente, perchè dovrei investire unicamente sulla sua “esistenza” artistica?-Lei investirà sulla fine della mia esistenza... artisticaSe tu avessi visto l’esitazione su quel volto raffreddato dalla paura, mentre diceva quell’ultima parola, forse ne avresti avuto pietà, ma non l’avresti mostrata per la pietà ancor più grande verso il suo orgoglio. L’editore non badò alle sue parole, ma continuò a seguire il filo del suo ragionamento: -Non posso certo negare che la morte di una giovane promessa della letteratura possa avere la sua importanza nella campagna di lancio pubblicitario... Immagino che non ci sia nessuno che possa ereditare la sua parte di diritti, vero?-Nessuno infatti.-Perfetto.Ora l’editore si era nuovamente alzato e gli parlava con voce grave, voltandogli le spalle: -Immagino che lei sappia che spetta a me “consigliare” il finale di qualsiasi romanzo, anche dei suoi.-


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-Lo so- rispose secco con l’odio degli sconfitti, poi quasi meditando aggiunse - i suoi consigli, il buon senso, il realismo, il senso pratico, tutti finali mediocri. Penso che la mia proposta mi dia diritto di evitare tutto ciò.-Forse la sto sopravvalutando, ma penso che ci sia del vero in ciò che dice: e sia, finisca lei il suo romanzo e la sua vita, io attenderò fiducioso. Solo...- e adesso si era voltato irridente e aveva preso in mano la mezza risma di fogli- la mia casa editrice predilige le opere brevi e lei mi sembra voglia scrivere un poema; credo che questi fogli siano troppi. - Mentre diceva le ultime parole aveva preso un mazzetto di fogli bianchi, li aveva accartocciati e gettati nel cestino. Il giovane rabbrividì calcolando quanto gli era stato tolto da vivere, prese i fogli rimasti e uscì quasi correndo. Se tu l’avessi visto uscire livido del suo terrore, forse ne avresti avuto orrore e saresti fuggita come mai avevi osato fare. Se tu lo avessi seguito mentre cercava frammenti nell’archivio freddo della sua memoria, se avessi compreso l’ansia febbrile con cui li lucidava e li dorava, per dar loro quella dignità che sempre aveva visto e mai saputo mostrare, se tu ci fossi stata quando seguiva la tua immagine evanescente per farla così bella come lui non l’aveva mai vista e tu nemmeno immaginata. Dovevi esserci nell’attimo di gloria in cui scoprì l’inutile pietra filosofale con cui trasformare l’ottone in oro e il tempo dell’amarezza in cui vide l’oro per ciò che era, merce di scambio per trafficanti d’armi, uomini e dolore. E dov’eri il mattino di rabbia in cui bruciò la speranza, lasciando agonizzanti le braci dell’’illusione, dov’eri mentre la miseria che lo circondava esaltava il suo dolore, dando al sacrificio la presunzione d’onnipotenza; dov’eri mentre il profumo e l’energia che un’esistenza non aveva mai conosciuto, nascevano come fiori nel prato della sintassi libera dal quotidiano. Perchè non c’eri mentre la memoria e la speranza bruciavano per liberare la sua poesia, perchè non c’eri mentre si riscattava scomparendo, parola dopo parola, riga dopo riga, pagina dopo pagina, perchè non c’eri? Forse l’avresti fermato. Il telefono squillava gia da parecchio ma nessuno rispondeva; il segretario attese ancora pochi secondi, poi posò la cornetta e si diresse nell’ufficio del direttore: -Mi di spiace direttore ma non risponde nessuno, vuole che riprovi più tardi?-No grazie, basta così, puoi andare. Dopo che il segretario fu uscito, il direttore cercò una chiave in un cassetto, si alzò, indossò il soprabito, prese una borsa e uscì a sua volta. Giunse con l’auto sotto una palazzina di un quartiere periferico, salì al secondo piano, guardò il nome vicino al campanello, poi senza suonare, aprì la porta con la chiave presa nel cassetto; senza alcuna meraviglia guardò alla casa vuota, l’armadio aperto in cui pendevano alcune stampelle, il letto senza lenzuola, i resti di una cena sul tavolo e un sorriso gli illuminò il viso solo davanti agli scaffali con i libri ben allineati. Su un tavolo dei fogli sparsi attirarono la sua attenzione, li riordinò con cura li mise nella borsa, quindi uscì chiudendo dietro di se la porta. Quando fu finalmente a casa, seduto in poltrona, sigaro e giacca da camera, trasse


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dalla borsa il manoscritto e corse all’ultima pagina con una specie di curiosità: lesse una frase lasciata in sospeso, poi mise da parte il manoscritto e accese la televisione. Se tu l’avessi chiamato con il nome che gia conoscevi, forse non ti avrebbe risposto nel bar affollato di impiegati e commessi in cui sorseggiava il suo cappuccino leggendo il giornale; ma forse neanche tu l’avresti riconosciuto mentre sfogliava le pagine, la cronaca, lo sport, la politica, poi si alzava e pagava alla cassa, rispamiandosi la cultura e le recensioni letterarie, con l’ultima novità di un giovane scrittore misteriosamente scomparso, un romanzo dal sorprendente finale.


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WI-JUH-JON-JON La storia del guerriero Assiniboin Wi-ju-jon-jon, il cui nome significa Testa a Uovo di Piccione, è narrata dal pittore George Catlin, che negli anni ’30 dell’800, visitò a più riprese l’ovest americano, lasciandoci un’immensa raccolta di ritratti e scene di vita quotidiana degli indiani con cui ebbe contatti. Gli Assiniboin, la tribù di Wi-ju-jon-jon, vivevano a quel tempo nelle vaste praterie a nord del Missouri, spostandosi al seguito delle mandrie dei bisonti e visitando periodicamente i loro vicini Mandan, nei cui villaggi agricoli lungo il fiume Missouri, potevano incontrare i mercanti bianchi e vendere loro pelli in cambio di manufatti. Catlin incontrò per la prima volta Wi-ju-jon-jon a St.Louis, dove l’indiano era giunto dopo aver disceso il fiume Missouri sul barcone di una comitiva di mercanti e cacciatori di pellicce; da St. Louis Wi-ju-jon-jon, avrebbe poi proseguito fino a Washington, per incontrare il presidente degli Stati Uniti, primo membro della sua tribù, a cui fosse concesso un simile onore. Al tempo in cui Catlin lo conobbe e lo ritrasse, Wi-ju-jon-jon, era un giovane uomo proveniente da una delle più autorevoli e rispettabili famiglie della sua tribù, aveva da poco preso moglie, e si era già guadagnato la stima della sua gente compiendo atti di valore contro i nemici Sioux e Piedi Neri; l’immagine che ce ne ha lasciato Catlin, fa pensare ad un uomo pago e soddisfatto di se, pronto a svolgere il ruolo che gli competeva nella sua comunità, così come si attendevano da lui i suoi famigliari e amici. Eppure già al tempo del ritratto qualcosa doveva aver scosso le sue certezze: infatti, pensando di far cosa gradita alla sua gente, Wi-ju-jon-jon, aveva deciso di raccogliere informazioni sugli uomini bianchi, sui luoghi da cui essi provenivano, su quale Medicina permettesse loro di avere le meraviglie che scambiavano con le pelli cacciate dagli Assiniboin e soprattutto su quanti essi fossero; perché di questo Wi-ju-jon-jon era certo, la loro tribù doveva essere ben più numerosa dei pochi bianchi che ogni anno visitavano i villaggi Mandan. A tale scopo egli aveva accettato l’offerta dei mercanti, di imbarcarsi con loro in lungo e pericoloso viaggio verso terre lontane e fra genti sconosciute, mettendo così a repentaglio un avvenire sicuro e sereno, spinto certamente dal desiderio di svelare il mistero di quel popolo sconosciuto e meraviglioso. Sapere quanti fossero gli uomini bianchi era la cosa più importante, perché se un pugno di mercanti, benché bene armati, non poteva preoccupare i valorosi Assiniboin, altra cosa era un’intera tribù di uomini bianchi. I mercanti con cui viaggiava, raccontarono a Catlin che fin dalla partenza dal villaggio Mandan, Wi-ju-jon-jon, prese a fare una piccola incisione sul lungo cannello della propria pipa, ad ogni casa dell’uomo bianco incontrata: la prima alla stazione commerciale subito a valle del villaggio, poi altre due ai villaggi Arikaree, quindi altre ancora nelle terre dei Sioux, e poi ancora altre, sempre di più, finchè poco oltre la confluenza del fiume Platte, Wi-ju-jon-jon era stato costretto a scendere a terra e a dotarsi di un lungo ramo di betulla, su cui riportare i suoi conteggi; giunto che fu a St.Louis, che all’epoca era popolata da circa 15.000 abitanti, perplesso e un po’ preoccupato, decise di rinunciare. A St.Louis Wi-ju-jon-jon fu presentato al pittore George Catlin, noto fra la gente della Frontiera per la sua passione nei confronti degli usi e dei costumi degli indiani; i due pur


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comunicando con difficoltà, fecero la reciproca conoscenza e alla fine il grande rispetto e la sincera simpatia che Catlin provava per gli indiani, fecero si che Wi-ju-jon-jon, accettasse di farsi ritrarre, operazione questa non scevra da rischi, dato che l’immagine di un uomo è cosa personale, che non è bene affidare a sconosciuti o peggio lasciar vagare in giro per il mondo. Dopo di ciò nulla sappiamo del viaggio di Wi-ju-jon-jon, anche se immaginiamo che egli dovette essere aggregato a una delle comitive che periodicamente l’Indian Bureau organizzava per portare i capi indiani in visita a Washington, visite il cui unico scopo era ovviamente impressionare e porre in stato di soggezione l’indiano nei confronti del bianco. Certamente l’uomo giunto dall’ovest lontano. salì sulla più recente delle meraviglie dell’uomo bianco, il cavallo di ferro, visitò le città dell’est, fu trattato con cortesia e ricevette regali, poi espletata la pratica, fu rimesso sul treno e rispedito all’ovest. Fu così che avvenne il secondo incontro tra Catlin e Wi-ju-jon-jon, quando pochi mesi dopo, al ritornò dell’Assiniboin da Washington, i due si unirono ad una compagnia di mercanti che risaliva il Missouri per raggiungere gli avamposti dell’American Fur Company, la compagnia commerciale che era l’unica rappresentanza del mondo dei bianchi nelle lontane praterie del nord. Ancora una volta Catlin ritrasse Wi-ju-jon-jon, questa volta col suo corredo di regali avuti dagli uomini bianchi: un cappello a cilindro con piuma, una divisa di gala con ampia fascia, degli scomodissimi stivali, una terribile e ingombrante sciabola, ombrello, ventaglio e ovviamente un barilotto di whisky. Penso risulti chiaro a tutti che il viaggio a Washington aveva lasciato il suo segno, almeno sull’immagine di Wi-jujon-jon. L’incontro tra Wi-ju-jon-jon e la sua tribù dopo un anno di assenza, avvenne sulle rive del Missouri, dove la sua gente era giunta per commerciare con i bianchi; la mancanza di chiare manifestazioni d’affetto o di gioia, da parte dei suoi parenti, fu da Catlin spiegata con la “naturale imperturbabilità dell’indiano”, ma è difficile escludere che la nuova immagine di Wi-ju-jon-jon abbia potuto suscitare stupore, se non addirittura timore o riprovazione. Comunque, anche la “naturale imperturbabilità dell’indiano”, poteva essere scossa dalla curiosità per i racconti di terre e genti sconosciute, specialmente se i racconti erano bagnati dal whisky: gli indiani non erano particolarmente ubriaconi, ma certo il loro fisico reagiva diversamente all’alcool, e la loro cultura dava grande valore ad ogni stato di alterazione della coscienza, considerati momenti in cui più facile era il manifestarsi del soprannaturale. Durante la breve permanenza di Catlin al villaggio Assiniboin, Wi-ju-jon-jon passò da un banchetto all’altro, raccontò ogni meraviglia vista nel paese dell’Uomo Bianco, fu accolto da tutti con stupore e divertimento e tutti riconobbero che un uomo che sapeva narrare simili storie, doveva avere una grande Medicina. Come era uso presso la sua gente Wi-jujon-jon fece doni ai propri parenti, così la sua divisa di gala, tagliata in più pezzi fornì gambali e perizoma, e analoga fine fecero altre parti del suo corredo, di cui Wi-ju-jon-jon mantenne solo il ventaglio e l’ombrello. Dopo la sua partenza dal villaggio Assiniboin, Catlin non vide più Wi-ju-jon-jon e solo molto tempo dopo venne a sapere della sua morte, le cui circostanze furono narrate con più precisione che non le cause.


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Certamente la grande Medicina di Wi-ju-jon-jon fu la sua rovina. Agli Assiniboin piacevano le storie, ne narravano tante e ne ascoltavano di più, amavano stupirsi e certo non mancavano le ragioni per farlo: il mondo era pieno di cose misteriose e sacre, il Sole che tutti i giorni sorge in un punto e scompare in un altro, dove va mentre noi non lo vediamo? E perchè la luna cresce e poi si consuma fino a scomparire, per poi ricominciare? C’erano storie che narravano di queste cose, c’erano Mostri, Spiriti, Potenze, e il Carro che Cammina sul Ferro Facendo Fuoco e Fumo, su cui Wi-ju-jon-jon aveva viaggiato, era certo un potere che qualche Uomo di Medicina degli Uomini Bianchi sapeva dominare; anche tra gli Assiniboin c’erano stati Uomini di Medicina potenti. E’ vero che nessuno aveva mai visto fino ad allora case alte più degli alberi più alti, ma certo non sarebbero state più stupefacenti di Unktehi, il Mostro dell’Acqua le cui ossa si possono vedere nelle terre dei Sioux, e che era più grande di ogni cosa grande mai vista. Ogni “visione” insegna all’uomo, quanto la realtà sia varia e mutevole, ed egli se è saggio, l’accetta con stupore ma anche serenità. Ma Wi-ju-jon-jon, no! Egli girava da un tepee all’altro per raccontare quanto aveva visto e quando qualcuno gli diceva che “si, va bene, ma ora o altro da fare”, lui si infuriava e lo trattava da stupido e lo offendeva; era sempre agitato e preoccupato per il grande Potere dell’Uomo Bianco, e nessuno capiva se questo Potere era buono o cattivo; continuava a dire a tutti che gli Uomini Bianchi sono tantissimi, hanno tante cose, vivono in grandi case, hanno begli abiti, e grandi canne tonanti, e i guerrieri più giovani si sentivano offesi: “Anche noi non siamo da meno, e non li temiamo se verranno”, ma gli Anziani rispondevano “Perché mai dovrebbero venire? Se già hanno tutto cosa potranno trovare qua? Le pelli che vogliono le hanno da noi, cos’altro possono volere; i Sioux o i Piedi Neri, vogliono i nostri bisonti, li mangiano e ne prendono la pelle come facciamo noi, ma l’Uomo Bianco che se ne fa?”. Wi-ju-jon-jon non sapeva cosa rispondere, ma continuava a importunare tutti con le sue storie dell’Uomo Bianco, e più la gente si stancava di ascoltarlo, più le sue storie si facevano paurose e la sua voce aspra. Alla fine neanche i bambini vollero più ascoltarlo e allora fu chiaro a tutti che Wi-ju-jon-jon era stato vittima di una Cattiva Visione. Wi-ju-jon-jon era stato un membro rispettato della sua tribù, ma ora tutti lo evitavano e i suoi stessi parenti provavano grande imbarazzo; qualcuno disse addirittura che Wi-ju-jonjon aveva ottenuto dalla Cattiva Visione un Cattivo Potere, e cominciò a temerlo; qualcun altro provò per lui un tale timore che cominciò a odiarlo; alla fine un giovane ansioso di farsi un nome si offrì di sfidare il Potere di Wi-ju-jon-jon. Preoccupati che una palla di fucile non bastasse ad ucciderlo, i congiurati affilarono come una lama il manico di una padella, poi la lavorarono in modo tale da infilarla in una canna di fucile; infine una sera il giovane guerriero si avvicinò a Wi-ju-jon-jon e davanti a tutti, a bruciapelo, gli sparò il manico di padella nell’addome. Il giovane guerriero non si fece alcun nome e pochi apprezzarono il suo gesto, ma nessuno, nemmeno i familiari di Wi-ju-jon-jon chiesero vendetta o riparazione. Il Potere dell’Uomo Bianco non aveva protetto Wi-ju-jon-jon, e ora non avrebbe più turbato la vita degli Assiniboin. Meno di 50 anni dopo nel 1878, l’ultima mandria di bisonti scompariva dalle pianure del nord, massacrata dai cacciatori bianchi; qualche anno dopo il Carro che Cammina su Ferro


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Facendo Fuoco e Fumo, fece la sua comparsa nelle terre Assiniboin, e con lui arrivarono intere tribĂš di Uomini Bianchi; a quell’epoca Wi-ju-jon-jon era stato dimenticato, ma dubito che se anche fosse vissuto, egli avrebbe compreso il motivo per cui tutto ciò accadeva.


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JANE KING Jane King aveva un passato, un presente e nessun problema di futuro: e non solo perché aveva 78 anni; nella baia di Kemachak, Alaska, il futuro è solo un cambiamento di colore tra l’azzurro del mare e quello del cielo: bianco per nove mesi l’anno, verde cupo per il resto del tempo; quando c’è il sole e ci si vede. Nel silenzio della fredda baia, il rumore dell’ascia che cala sui tranci di pesce ghiacciato, non è lo stesso di quello che sentivo da bambina, nel Minnesota, quando alla festa del paese i boscaioli si sfidavano alla vecchia maniera, a tirar giù tronchi a forza d’ascia. Il rumore era la cosa che ricordavo meglio, quando da bambina mi infilavo tra le gambe degli adulti per vedere chi la spuntava tra Joe e il maggiore dei Davidson. Vorrei vederli adesso: 4 ore al giorno a meno –30 sotto zero, a tranciare pesce ghiacciato: e loro lì che gracchiano e aspettano, affamate. Dopo la guerra nessuno aveva più voglia di feste di paese, e fare le gare con la sega elettrica non è la stessa cosa; neanche il rumore delle seghe elettriche è la stessa cosa. Fortuna che c’era la radio: alzavi il volume e lo stridente ronzio in lontananza scompariva, scacciato via dai suoni curiosi di musiche curiose, di voci curiose, di discorsi curiosi, di un mondo curioso, curioso e lontano, ma in cui, di questo ero certa, avrei potuto far di meglio che non al mio paese. Oggi so che avevo solo le misure giuste, ma a quel tempo pensavo di avere talento, di valere qualcosa, o qualcos’altro del genere. Ce n’è abbastanza per cominciare; bisogna farne almeno mezzo quintale per cominciare, che se si comincia con poco, possono azzuffarsi tra loro e farsi male; le aquile sono animali che si eccitano facilmente. Se parti dal Minnesota andar via non è facile, e non per nostalgia; quando sali sulla Greyhound con un biglietto per la California, sai già che ad ogni fermata puoi scendere e trovare qualcosa che ti ferma. Io arrivai nel Dakota e cominciai la mia carriera nei rodei: avevo le misure giuste. Avevo le ossa rotte dopo ore di viaggio e quel tipo mi disse che aveva fatto dei film, anzi a un certo punto ero sicura di ricordarmelo in un western: vero, ho fatto solo film western! Ero anche sicura che sarei riuscita a farmi rimborsare il biglietto: sicuro, ci andiamo insieme domani! Non gli dissi che ero sicura che saremmo andati a letto, così lui mi conquistò con una cena e grandi prospettive. Ecco che mangiano tranquille, senza litigare: ce n’è per tutti, finchè ce n’è. Se fai il cow-boy nei rodei, e hai una rossa per le mani, la fai conoscere agli amici, ma che sia chiaro è caccia riservata. Comunque il biglietto non me l’avevano rimborsato, ero a corto di soldi, e sentirlo parlare del suo “prossimo film” mi dava la nausea; dovevo trovarmi un lavoro e fare la cameriera a Bismarck non mi sembrava un buon inizio di carriera:


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meglio il rodeo. Il tipo non la prese bene, non gli andava giù che la sua ragazza se ne andasse in giro con tutte le sue cose in mostra, davanti a una platea di contadini e vaccari ubriachi; gli risposi che non ero la sua ragazza e che dovevo pensare alla mia carriera. Seppi che mi aveva mollata da un suo amico, lo stesso che mi aveva procurato il lavoro. Si deve lanciare il pesce ben distanziato, che ognuna mangi il suo pezzo, in pace; sono aquile non avvoltoi, non amano spartire. Se si esclude il puzzo di letame, il sudore degli uomini, il fango della pista, lavorare in un rodeo è come lavorare in qualsiasi altro spettacolo: se si esclude. Comunque il rodeo andava a ovest, la California era a ovest, e non c’era da pagare il biglietto. Le altre ragazze venivano da qualche fattoria del Nebraska o del Colorado, conoscevano la puzza di stabbio e le sbronze dei loro fratelli il sabato sera; anche loro volevano andare in California, anche loro avevano sempre qualcuno per le mani con gli agganci giusti, anche loro avevano le misure giuste: l’unica differenza era che loro erano bionde o more, io ero rossa, l’unica rossa. Il rumore del camioncino della fabbrica del pesce che mi porta gli avanzi, è tempo di preparare un po’ di caffè caldo per Jed, e anche per me. A Holliwood fanno i western, ma non credo che li vedano: troppo sofisticati. Lo Spettacolo Americano per eccellenza non fece mai tappa a Holliwood, e John Wayne non se ne ebbe a male. In compenso girai tutto l’ovest, da Helena a Phoenix, ma a quel tempo trovare un produttore cinematografico nell’Idaho non era impresa facile; mentre giravo feci in tempo a sposarmi e divorziare, perdere un figlio nella pancia e comprarmi una roulotte tutta per me, imparare a reggere la birra e fare tutto ciò che probabilmente avrei potuto fare anche se fossi rimasta nel Minnesota. A parte muovermi. Spero che Jed non si sia portato qualche turista: lui ci rimedia qualche dollaro e si rifà del disturbo, ma a me non piace avere tra i piedi due o tre tipi sovraeccitati che fanno domande stupide e scattano foto. Alle aquile non importa, purchè mantengano la distanza. In un rodeo gli uomini si dividono in due tipi: quelli con la pancia e il sigaro in bocca, che fanno girare i soldi e i bei ragazzoni allegri e spiantati che di soldi fanno girare i tuoi: il problema è solo trovare il giusto equilibrio tra gli uni e gli altri. Quelli del pubblico non contano. A 36 anni pance e sigari avevano smesso di girarmi intorno da un pezzo e, tra il Vietnam e la moda hippy, i bei ragazzoni da rodeo erano un genere un po’ in crisi; quando l’ultimo della serie sparì dopo avermi vuotato la borsa di 40 dollari, non ne feci una tragedia, ma pensai che qualcosa doveva cambiare. Anche il mio boss pensò la stessa cosa e mi sostituì con una più giovane. Guardano le aquile planare e scattano, guardano le aquile alzarsi in volo e scattano, non scattano mai la distesa di neve punteggiata da avanzi di pesce, le aquile a terra, 50, 100


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per volta, l’una a poca distanza dall’altra, il collo e la testa bianche macchiate di sangue scuro, l’occhio attento a badare che nessuno le soffi il boccone: una mensa dei poveri tutta particolare. In un rodeo non si impara a fare l’estetista, ne la segretaria, ne qualsiasi altro mestiere da femmina che non sia sculettare e far saltare le tette; sapevo andare a cavallo e me la sarei anche potuta cavare con il bestiame, ma nessuno assume una donna come cow-boy. Neanche fare la camionista è facile, ma un camion costa meno di un ranch e soprattutto non sta fermo: vendetti la roulotte e versai l’anticipo per il mezzo, poi un amico mi procurò i trasporti di mangime e balle di fieno. C’era ancora da muoversi, ma adesso alla fine del viaggio non c’erano fuochi d’artificio, sfilate e bande di paese: solo un letto, la TV che concilia il sonno, e qualche volta la voglia di qualcuno dentro il letto. Porto il caffè a Jed mentre lui si cura i due turisti che si è portato dietro; vuole vedere quanto sganciano, prima di decidere se scaricare il pesce e ripartire subito, oppure continuare un po’ la manfrina dell’Aquila Testa Bianca, simbolo della Libertà Americana. I camionisti li conoscono tutti ed è inutile parlarne; comunque sono gentili, se sai farti rispettare. Guardare il mondo dalla cabina di un bolide di venti tonnellate, che viaggia a 80 miglia all’ora, da una certa sicurezza; ma gli uomini non vivono sempre in una cabina e alle volte si fermano. I bar lungo la strada sono la vera casa del camionista e le donne del bar sono le loro mogli; sanno come strapazzarti le uova e mettere la giusta quantità di salsa sull’hamburg, e non stanno li a contarti le birre: forse anche meglio delle mogli. Nei bar l’unico uomo che ci lavora è il padrone ma abitualmente bada solo ai suoi conti e a non farsi fregare; il bar offre servizi agli uomini, alle donne può solo offrire occasioni. Fu un occasione l’incontro con “l’uomo della mia vita”, lo stesso che mi aveva fermato a Bismarck vent’anni prima: non aveva messo su pancia e non fumava il sigaro, ma era comunque un “uomo d’affari”. Non era cambiato molto e soprattutto non era cambiato quel suo modo di trattare, come se fossi sempre la sua donna: era il suo stile con tutte, credo, e credo gli funzionasse. Con me quella sera funzionò ancora una volta, e non dovette nemmeno pagare la cena e raccontarmi delle enormi prospettive dei suoi affari; questo sinceramente non l’avrei retto. Stranieri, inglesi, di certo vengono dal Canada e Jed continua la sua tiritera sull’uccello che campeggia in ogni ufficio pubblico americano; bevesse il suo caffè e iniziasse a scaricare il pesce piuttosto. La mattina dopo il secondo incontro con “l’uomo della mia vita”, mi resi conto che erano passati vent’anni e l’unica differenza era che invece che a Bismarck North Dakota ero a Brooking South Dakota: lo lasciai a russare e mi rimisi in viaggio. Fu qualche tempo dopo che incontrai Bart, che a parte il fatto che veniva da un paese vicino al mio, non aveva niente di particolare; separato, due figli da qualche parte all’est, il camion, i ricordi di quando era nei marine e ogni tanto una partita di caccia. Ci si dava


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appuntamento in un bar lungo la strada per fare colazione insieme, qualche sera al cinema o a ballare, una cosa che m’è sempre piaciuta. Non avevo voglia di un uomo ed evitavo di andare a letto con i colleghi, così non facemmo mai nulla; non ne parlammo mai, ma a lui sembrava andare bene così, ed è durata anni; poi un incidente lo ridusse su una sedia a rotelle e le cose cambiarono. Io dovevo girare con il camion e le mie visite non erano frequenti; lui stava sulla sedia ed era sempre sorridente quando mi vedeva, ma smise di cercarmi. Se ne andò due anni dopo e io riuscii appena a tornare in tempo per i funerali. I turisti sono saliti sulla loro auto e tornano indietro, Jed scarica il pesce dal camion, le aquile mangiano, io prendo la mia tazza di caffè nel camper, prima di riprendere a lavorare d’ascia: ne avrò fino alle 2, poi quando il sole scompare c’è solo da rientrare al caldo. A ripensarci sono sempre stata sola, ma solo dopo che Bart se ne fu andato me ne accorsi; forse fu per quello, forse fu perché quando entravo in un bar, non ero più la rossa con le misure giuste, forse gli acciacchi non so, ma ero stanca di girare. Vendetti il camion e comprai una roulotte, mi fermai in un parcheggio e quando qualche ex collega passava, si fermava per una tazza di caffè. Non ho mai avuto una grande memoria, ma di quei giorni non ricordo proprio nulla; ero ferma, non dovevo andare da nessuna parte e quando mi guardavo allo specchio vedevo 54 anni di rughe sotto una cascata di capelli rossi. Una volta alla settimana mi recavo all’ufficio postale come avevo sempre fatto da una vita: qualche notizia da casa, l’annuncio di un matrimonio o di un funerale, una cartolina da qualche vecchia amica dei tempi del rodeo. Fu così che arrivai in Alaska, per il matrimonio di un’amica. Le aquile mangiano fino a riempirsi, poi prendono il volo e scompaiono; torneranno domani e poi ancora dopodomani, fino alla fine dell’inverno, quando il disgelo libera le coste e il corso dei fiumi e il pesce torna ad abbondare. Non sono domestiche, sono affamate. In Alaska ci giunsi d’estate al tempo delle zanzare; quando pensi all’Alaska ti vengono in mente orsi bianchi e cani da slitta, ma sono le zanzare ad accoglierti. Milioni di animaletti voraci che volano in nugoli fitti succhiando la vita dalla vita; e questa è la bella stagione. La mia amica aveva sposato un tecnico minerario, vedovo e in prossimità della pensione; ancora qualche anno e sarebbero tornati a sud, dove lui aveva una casetta e dove vivevano i figli. Io invece ci rimasi. All’inizio dissi che era per l’estate: una roulotte infiammata dal sole in un parcheggio del Nebraska, non è una metà per cui valga la pena di tornare in fretta. Quando giunse l’inverno capii di cosa si trattava veramente; il ghiaccio che ferma tutto e io che non avevo più voglia di girare a vuoto: una coppia perfetta. L’inverno in Alaska è tutto lo spazio che vuoi, cielo, terra, mare, infiniti, immobili, tersi, sinceri, com’è sincera la certezza che oltre tutto quell’infinito, c’è solo altro infinito, uguale, come è uguale ogni passo nella neve, come è uguale il suono di ogni respiro, come è uguale ogni giorno di inverno. Un buon posto per fermarsi. Il pesce è terminato, e ce ne è sempre qualcuna che non ne ha avuto abbastanza e continua


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ad aggirarsi tra gli avanzi; sono le più vecchie e le più deboli e non hanno nemmeno la forza di azzuffarsi; rimarranno nei paraggi e domani saranno le prime a tornare, se il freddo, la fame o qualche accidente non le ammazza. Così è per tutti. Quando vidi la prima volta un’aquila scomparire lentamente all’orizzonte, mi fece tristezza; volava, volava, in un panorama di bianco e di vuoto, senza un senso ne una meta apparente; il giorno dopo lei, o un’altra non so, comparì volteggiando in ampi cerchi, un girare a vuoto nell’atmosfera rarefatta e intirizzita, una condanna al movimento e alla ricerca di una preda, mentre tutto intorno è fermo, indifferente, intangibile e inarrivabile. Ed era solo fame. Il sole è calato e la baia comincia scomparire; il freddo si acuisce ed è tempo di rientrare. Cucinare qualcosa, un po’ di TV, e soprattutto il riposo che non mi sento più le braccia. Quando buttai per la prima volta un po’ di pesce sulla spiaggia ghiacciata davanti alla mia roulotte, dovetti nascondermi prima che osassero avvicinarsi: la paura è forte quasi quanto la fame. Poi giorno dopo giorno, inverno dopo inverno, fecero l’abitudine al fatto che io ero lì, insieme al pesce. Una volta un tipo mi ha detto che non era bene che le aquile si abituassero a prendere cibo dagli esseri umani. Era uno scienziato ecologista portato lì da Jed e si deliziava a guardarle in volo con il suo binocolo; io non gli risposi nulla, non ne valeva la pena. Non credo sapesse sul serio cosa significhi girare a vuoto.


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MY GENERATION I “Nigro Francesco” “Presente” “Novello Marco” “Presente” “Oliva Gianluca” “Presente” “Parrucca Massimo” “Presente” “Petracchi Giovanni” “…” “Petracchi Giovanni” “…” “Petracchi Giovanni c’è o non c’è?” “Io mi chiamo Gianni Petracchi.” La voce leggermente nasale, nel silenzio un po’ timoroso del primo giorno di scuola della classe prima media, della scuola statale Vincenzo Caldarelli, anno scolastico 1971-72, interrompe il rito sacro dell’appello e sembra irriderlo, come è chiaro a tutta la scolaresca il cui mormorio divertito fa da coro al disappunto dell’anziano professore. “Sul registro c’è scritto Giovanni e Gianni è solo un diminuitivo, dovresti saperlo, così come dovresti sapere che all’appello ci si alza in piedi e si risponde presente. Allora vediamo se hai capito: Petracchi Giovanni” La voce nasale adesso risuona in uno squillante “Presente”, mentre il bambino si alza di scatto sull’attenti, suscitando l’ilarità collettiva, evocatrice di temibili anarchie scolastiche, su cui cala imperioso il “Silenzio”, imposto dalla Cattedra. Gianni Petracchi non era un bambino simpatico, o quanto meno nulla faceva per rendersi tale; isolato dall’arcipelago di combriccole che fanno la geografia di una scolaresca, non partecipava alle enfatiche discussioni su calcio e motociclette in cui ognuno cercava di spararla più grossa degli altri, infarcendo i discorsi di espressioni colorite e pesanti, vietate incursione nel mondo degli adulti; ne tantomeno raccoglieva capannelli raccontando barzellette sporche, o vantando i primi improbabili successi amorosi con le ragazzine della classe femminile del nostro stesso corridoio; nessuno sapeva per quale squadra facesse il tifo, e anzi sembrava non interessarsi di calcio (cosa questa piuttosto clamorosa). Ovviamente ciò lo teneva fuori dai riti e dai luoghi in cui si riconoscevano i bambini più “svegli”, prima di tutto la squadra di calcio della classe, periodicamente impegnata in sfide con altre classi della scuola, poi a partire dal secondo anno delle medie, le prime feste da ballo organizzate in casa di qualcuno, in cui i balli da mattonella erano l’occasione di prime impacciate pomiciate. D’altra parte, nella crudele gerarchia che i bambini tendono a produrre,


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non sembrava trovare posto neanche nei ranghi più bassi, laddove venivano emarginati i timidi, i paurosi, gli imbranati o peggio quel povero disgraziato la cui voce e le cui movenze, suscitavano battutacce e la infamante qualifica di “recchione”. Neanche nella gerarchia ufficiale, quella determinata dai voti sul registro e dalle note disciplinari, Gianni Petracchi aveva un posto particolare: mai una nota, voti appena sopra la sufficienza, nessuna eccellenza. Che fosse un bambino un po’ particolare risultava chiaro all’uscita di scuola, quando l’insofferenza a cinque ore di banchi e disciplina, esplodeva fuori dai cancelli, in quello spazio di libertà tra gli obblighi scolastici e quelli famigliari. Le vie del quartiere attraversate a piedi per tornare a casa, erano il luogo per le avventure quotidiane, dal semplice suonare ai citofoni, alle sfide di lotta e cazzotti, ai tentativi di approccio alla ragazzina che ti piaceva, puntualmente accompagnata da una amica antipatica, poi le prime sigarette, fino alle canzoni sguaiate e volgari cantate a squarciagola, per godere dello scandalo degli adulti. Se invece si sceglieva di tornare con l’autobus, il 96 barrato che faceva il giro delle scuole, tali attività ludiche erano concentrate e intensificante nella formicolante calca che si pressava sul mezzo pubblico, vanamente difeso dal fattorino dell’ATAC, unico garante della sicurezza e della pace, di pensionati e casalinghe che per sbaglio, ivi si trovavano. Gianni Petracchi no. Lui tutti i giorni era atteso da un adulto, intuibilmente suo padre, a bordo di una macchina appariscente, una imponente Citroen di quelle che chiamavamo “ferro da stiro”, un auto che certo denotava supponenza e spregiudicatezza e che mio padre mai avrebbe comprato. Particolare da tutti notato: dal lunotto posteriore dell’auto era possibile individuare un oggetto peculiare, una racchetta da tennis, che gettava una luce inquietante sull’inspiegabile disinteresse di Gianni Petracchi per il calcio, rendendo palese un segreto di cui mai ci fu fatta menzione, e cioè la sua frequentazione di luoghi disprezzati, quali gli elitari circoli di tennis, in cui l’anglosassone aristocratica effeminatezza, si difendeva dalla popolana e latina mascolinità. A 12 anni la propria curiosità ha tali e tanti soggetti a cui applicarsi, che certo non era Petracchi Giovanni o Gianni a interessarmi particolarmente: giocavo da terzino destro nella squadra della classe, un ruolo che mi ero conquistato anche perché pochi bambini vogliono fare i difensori; le prime lacrime “d’amore” giunsero a quell’età, ovviamente accompagnate da più prosaici stimoli e solitarie pratiche; frequentavo la scuola con risultati decenti, particolarmente buoni in Italiano, Storia e Geografia, ma soprattutto con il piacere di stare in un ambiente più libero e disordinato, quello delle scuole pubbliche, dopo aver fatto le elementari nella rigorosa disciplina di una scuola privata tenuta dai Gesuiti. Penso che si potesse dire di me, che ero un bambino ben inserito nel proprio ambiente, e la soddisfazione gregaria che costituisce la norma per ogni adolescente, non offriva alcuna occasione d’approccio a quel personaggio, che a quel tempo non mi sarei neanche curato di definire uno “snob”. Solo una cosa mi incuriosiva, il suo banco, sui cui mai mancavano misteriosi oggetti, strane penne nere dalle punte di varie dimensioni e poi abbozzi di disegno di uno stile strano e bello, tutti vergati con inchiostro nero di china; io a quel tempo esercitavo una insufficiente abilità nel disegno, ispirandomi ai disegnatori dei fumetti western di cui ero appassionato, Ticci e Galeppini di Tex Willer, D’Antonio per la Storia del West, e ca-


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pivo che Gianni aveva interessi simili ai miei, capacità superiori e mezzi (le penne nere a punta variabile) a me totalmente ignoti. Nel suo banco lo vedevo fare brevi schizzi e piccoli disegni, ma non mostrava mai nulla a nessuno e credo nemmeno l’insegnante di disegno fosse a conoscenza delle sue capacità. Prima di raccontare del giorno in cui Gianni Petracchi fu finalmente conosciuto dalla sua classe, penso sia opportuna una breve digressione, per descrivere un personaggio che di quella vicenda fu suo malgrado partecipe. Lo chiamavamo Zapata per via dei poderosi baffi spioventi, e certo se qualcuno riscattò l’immagine di vittima benevola e predestinata delle angherie delle scolaresche indisciplinate, che accompagna tanti onesti bidelli, quell’uomo fu lui. Fisico da culturista, quando il culturismo nemmeno si sapeva cosa fosse, sguardo arcigno, mani immense, Zapata arrivò alla scuola Caldarelli quando ormai ero già in terza media, con un impegno preciso: dimostrare una volta per tutte, che uno stipendio pubblico non è ragione sufficiente per divenire lo zimbello di giovinastri indisciplinati. In breve i corridoi da lui presidiati durante la ricreazione divennero luoghi silenziosi e timorosi, mentre la sua immagine al fianco dell’anziano preside, rese chiaro a tutti che il Potere poteva avere strumenti ben più dissuasivi della semplice nota disciplinare. Ho ancora il ricordo di quando, a causa della lingua lunga e della risposta pronta, sentii con chiarezza lo spostamento d’aria della sua terribile mano che si fermò ad un millimetro dalla mia guancia. Nemmeno Garacci Marco, centravanti della squadra, record delle note disciplinari, fumatore accanito, fidanzato con la più popputa e formosa della scuola, e soprattutto frequentatore della temuta banda del cinema Leblon, osava tenergli testa. Ma torniamo a noi. Si era ormai a pochi mesi dalla fine del terzo anno scolastico, con la prospettiva di quell’esame di terza media, dopo il quale in qualche modo si sarebbe conclusa un’infanzia che già in molti consideravamo durata troppo a lungo. Dopo quell’esame, finito l’obbligo scolastico, qualcuno avrebbe finalmente potuto abbandonare uno studio che non lo interessava e magari impegnarsi in una officina o in qualche laboratorio, guadagnare i primi soldi e finalmente a 14 anni, comprarsi l’agognato motorino, anzi che dico motorino, uno scintillante Caballero sei marce da cross; per altri si trattava di fare la prima scelta della propria vita, quale indirizzo prendere, un liceo o un istituto professionale. Personalmente volevo una scuola con tante ragazze e classi miste, mentre già da mia cugina, più grande di un anno, mi giungevano gli avventurosi racconti di occupazioni e assemblee non autorizzate. C’era solo l’esame di mezzo, un esame che “quasi” tutti passavano, ma che doveva essere passato, era la via d’accesso al mondo degli adulti; e prima dell’esame lo scrutinio finale, e quindi le decisive interrogazioni dell’ultimo trimestre. La cosa accadde in una quelle belle giornate di fine aprile quando il primo sole e il caldo rendono lo star seduti ad un banco particolarmente deprimente; già da una settimana l’insegnante di Inglese mancava e ci apprestavamo serenamente a cogliere l’opportunità di prolungare la ricreazione, approfittando della giovane supplente, che come al solito avrebbe scritto esercizi alla lavagna, senza osar guardare la baldoria che si svolgeva alle sue spalle. Invece quel giorno la supplente entrò in classe determinata a ristabilire l’ordine


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o comunque a punire chi quell’ordine turbava; in realtà più che di punizione si trattava di rappresaglia. Nel brusio disinteressato della classe, la supplente annunciò che avrebbe interrogato uno di noi a caso, che il voto avrebbe avuto valore per lo scrutinio di fine anno, e che se l’intera classe non si fosse adattata ad un religioso silenzio, la valutazione della vittima predestinata avrebbe subito una decurtazione di due voti. Minacce simili non erano nuove, ma mai si erano realizzate e nessuno la prese sul serio. In ogni caso il sentimento di solidarietà collettiva non era tale da indurre nessuno a cambiare di una virgola i propri comportamenti; disgraziatamente il nome scelto a caso fu proprio quello di Gianni Petracchi, che non era neanche particolarmente popolare. L’interrogazione andò avanti penosamente tra il disinteresse e la caciara, fin quasi alla fine dell’ora di lezione, quando finalmente la supplente si alzò in piedi e ad alta voce e stabilì il suo verdetto: “Il vostro compagno non è andato male e meriterebbe un 6, ma dato che voi siete stati indisciplinati, come vi avevo avvertito gli abbasserò il voto a 4, così vedremo se la prossima volta imparerete come si sta in classe.” La notizia produsse un silenzio immediato, la minaccia si era realizzata, un’ingiustizia palese si stava compiendo e tutti in qualche modo ne venivamo coinvolti e ritenuti responsabili; non so se ebbi il tempo di pensare qualcosa, perché subito Gianni riempì il silenzio con la sua voce solo appena un po’ nasale: “Lei professoressa non può fare questo, lei deve giudicare me per quello che ho studiato, e non può punirmi per i comportamenti di altri” Se nella voce c’era un tremore, ancor più tremante risultò la voce della supplente, mentre in preda al panico, minacciava l’estremo provvedimento: l’invio davanti al Preside. Neanche questo bastò. “No, dal Preside a questo punto ci voglio andare io” La classe era allibita, stava accadendo qualcosa di inconcepibile, la lamentela per aver subito un’ingiustizia, di cui anche un bambino ha esperienza, si trasformava in protesta palese, senza alcun timore neanche dell’Autorità Suprema. Come da procedura fu chiamato un bidello perché accompagnasse lo studente dal Preside e sulla porta apparve Zapata; penso che si rese conto che fosse accaduto qualcosa di insolito, che non si trattava del normale procedimento per uno studente particolarmente indisciplinato, ma come era solito fare, prese per il braccio Gianni e fece per spingerlo fuori dall’aula. La reazione fu secca, immediata e soprattutto imprevista: con uno strattone Gianni si liberò dalla presa e guardò in faccia Zapata: “Ho chiesto di andare dal Preside e ci vado da solo”. Zapata guardò la supplente, poi con aria esterrefatta la classe e infine senza dire nulla, si accodò a Gianni che era già uscito dall’aula. Non so cosa accadde dal Preside e se la storia ebbe un seguito, ma all’uscita di scuola, tutti, acclamammo un eroe. Nei giorni a seguire Gianni visse di una breve popolarità, e fu addirittura invitato ad una partitella di allenamento della squadra della classe; francamente con un pallone tra i piedi era veramente imbranato, e poi la sua candida tenuta da tennista era quasi imbarazzante sui campi polverosi di pozzolana dove noi giocavamo. Per me comunque quella fu l’occasione di conoscerlo e soddisfare la mia curiosità, specialmente su quelle strane penne a


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punta variabile; si trattava di rapidograf, strumenti professionali costosissimi, quasi 3.000 lire l’uno, con pennini smontabili che variavano da quelli finissimi, 0,01 o 0,02, fino a quelli più grossi 1 o 1,2, caricati con cartucce di inchiostro di china, gli strumenti usati dai disegnatori di fumetti che io mi affannavo a copiare. Gianni disegnava benissimo, e non copiava i fumetti western popolari che leggevo io, ma mi parlò di un disegnatore a me sconosciuto, Hugo Pratt, del cui tratto mi innamorai immediatamente. Fu Gianni a farmi conoscere il Sergente Kirk, Anna della Jungla e soprattutto Corto Maltese; erano fumetti diversi da quelli a cui ero abituato, Tex, Zagor, il Comandante Mark, in quelle storie a volte era difficile capire chi fossero davvero i buoni e i cattivi, gli eroi non stavano sempre dalla parte della legge, gli eroi, specialmente Corto Maltese, sembravano ambigui e individualisti e solo dopo avrei capito che erano romantici; era un modo di fare fumetti curioso e stimolante. Con Gianni non eravamo propriamente amici, lui aveva sempre quel suo modo di tenere le distanze, ma avevamo interessi comuni e per un breve periodo li condividemmo; io guardavo con avida ammirazione ai suoi costosi volumi di fumetti, alle sue rapidograf che io non mi sognavo nemmeno di comprare (in quel periodo mio padre aveva perso il lavoro e ce la passavamo male), e lui aveva uno strano modo di condividerli: si offriva di vendermeli, sapendo perfettamente che non avrei mai potuto pagarli. Fu così che ebbi tre rapidograf, e due volumi di fumetti, Anna della Jungla e la prima raccolta del Sergente Kirk, di Hugo Pratt. Solo una volta mi fece un regalo in modo esplicito, quando gli raccontai della mia curiosità per la storia e la cultura degli indiani d’America; si presentò in classe con un grande libro costosamente rilegato, con grandi e belle fotografie, che raccontava a volo d’uccello la storia delle guerre indiane e gli usi delle tribù più famose: mi disse che a lui l’avevano regalato ma non ne era interessato. Quel libro, che ancora conservo, fu il primo di una raccolta di testi sugli indiani che oggi occupa quattro scaffali della mia libreria. Come ho già detto non eravamo propriamente amici e dopo gli esami di terza media, ci perdemmo di vista, senza neanche dirci a quale scuola avevamo intenzione di iscriverci. Pochi mesi dopo ci rincontrammo, ma le cose avevano preso una diversa piega. II Il liceo scientifico di Monteverde a cui mi ero iscritto era il più politicizzato della mia zona, e io solo un mese dopo l’inizio della scuola, partecipavo per la prima volta alle riunioni del collettivo politico studentesco; iniziava in quel novembre del ’74 un percorso di militanza che ancora dura. Nel giro di poche settimane il mondo dei coattelli di quartiere, delle partite di calcio, dei jeans a campana e delle scarpe a punta con il tacco alto, delle festicciole da ballo, era totalmente dimenticato ed io ero completamente preso da un mondo nuovo, un mondo in cui si aveva l’impressione di poter essere protagonisti di grandi avvenimenti: cosa può esserci di più bello, affascinante e coinvolgente di una Rivoluzione? E quello era il tema del momento, o almeno, noi credevamo quello fosse il tema del momento. In un attimo anche il tempo dei fumetti e delle rapidograf era finito o almeno messo da


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parte: quando incontrai Gianni davanti ai cancelli, al suo solito atteggiamento di distaccato snobismo reagii con la determinazione di chi sa qualcosa di più, di chi guarda più lontano, di chi è convinto di aver scoperto qualcosa. Non ricordo di cosa parlammo ma ho in mente il suo sorriso, ironico e beffardo, altezzoso e solitario. Da allora io evitai di incrociarlo e credo lo stesso fece lui, perché pur frequentando classi vicine cessammo ogni rapporto; fu nella primavera dell’anno successivo che un compagno del quinto mi chiese informazioni su Gianni, che era stato visto in compagnia di alcuni noti fascisti del quartiere (oggi direi fascistelli, dato che si trattava di ragazzi di 17-18 anni, ma a quell’epoca ci sentivamo adulti, e adulti erano i nostri nemici; d’altra parte nel nostro quartiere quei fascistelli si chiamavano Alibrandi e Fioravanti). Temevo che qualcosa del genere sarebbe accaduto prima o poi, e dissi al compagno che in fondo si trattava di un ragazzino del primo e che comunque se avessi notato comportamenti espliciti, avrei riferito. Nei giorni successivi feci un mezzo tentativo di mettere Gianni sull’avviso, ma come immaginavo la risposta fu sprezzante, e tutto si risolse con un mio minaccioso avvertimento, e sguardi in cagnesco. Comunque a scuola non c’era spazio per i fascisti e Gianni non ebbe alcuna occasione di mettersi in mostra, fino alla fine dell’anno scolastico. Il nuovo anno scolastico iniziò con il clamore suscitato dal massacro del Circeo, uno stupro di gruppo, con sevizie nei confronti di due ragazze, di cui una uccisa e l’altra salva per puro miracolo; si trattava di una odiosa vicenda di cronaca criminale, ma con pesanti risvolti politici, sia per la responsabilità di pariolini militanti nella estrema destra, sia perché coincideva con l’improvvisa comparsa di un forte movimento di donne che di lì a poco sarebbe divenuto protagonista della scena politica. La vicenda ci toccava da vicino perché la ragazza che si era salvata era della nostra zona, e alcune mie compagne di classe la conoscevano personalmente. Fu così che pochi giorni dopo l’inizio della scuola, entrando in classe dopo la ricreazione vidi una mia compagna di classe seduta al banco che piangeva: vicino a lei, in piedi, Gianni sembrava divertito. La ragazza non era una mia amica, anzi frequentava il giro di quelli che chiamavamo pariolini, in più era la classica secchiona prima delle classe, e a me stava anche antipatica, ma c’era Gianni di mezzo e temevo che la questione non fosse un problema privato; in effetti in quei giorni invitare una ragazza a passare un week-end al Circeo, non era una questione privata. Gianni fu buttato fuori dall’aula e costretto a tornare nella sua classe e a chiudersi dentro. Ancora oggi mi chiedo come Gianni, anche se quindicenne, possa aver fatto una cosa tanto miserabile e imbecille, e l’unica ragione che riesco ad immaginare è che, effettivamente, fosse un fascista. Comunque la vicenda si riseppe e fece precipitare la situazione; provvedimenti andavano presi, in quegli anni la presenza di un fascista a scuola era considerata intollerabile, e Gianni fu sottoposto al trattamento che veniva usato per mantenere pulito l’ambiente. Tutte le mattine a turno, quattro o cinque compagni attendevano il fascista in questione e gli impedivano l’accesso alla scuola; l’anno prima che io mi iscrivessi era accaduto che dopo una settimana di trattamento, un fascista si era presentato insieme ai suoi camerati: la cosa era finita come si può immaginare, ma alla fine il risultato era stato lo stesso e il giorno dopo il fascista non si era più presentato. Abitualmente dopo una settimana o due di trat-


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tamento, senza necessità di violenze, a parte qualche spintone, il fascista era costretto ad abbandonare. Con Gianni il trattamento durò poco, ma prima che finisse ebbi anche io il mio turno, e devo dire sinceramente che non fu piacevole; Gianni non fece alcun tentativo di forzare il picchetto, ma rimase lì a lungo, a distanza di sicurezza, facendo battute sarcastiche sul nostro coraggio; ebbi netta l’impressione che lo spettacolo fosse a mio personale consumo, e temetti che qualcuno passasse a vie di fatto. In effetti nei giorni prima, quando io non c’ero, la questione si era risolta più in fretta. Poco dopo di Gianni, fu la volta di un altro fascista ad essere cacciato, Sandro R., un ragazzetto della mia età che all’inizio si presentava come iscritto alla FGCI, poi aveva preso a vantarsi di essere dell’Autonomia, e che infine vedemmo durante un presidio antifascista mentre entrava insieme ad altri camerati nella sezione del MSI. Non ricordo se fui presente in qualche picchetto per cacciarlo, ma certamente lui si ricordava di me. I fascisti cacciati dalle scuole pubbliche, finivano quasi tutti per iscriversi in un istituto privato della zona, dove sicuramente potevano fare meno danni e dove eventualmente era possibile trovarli. Fu così che per circa un paio di anni non ebbi più modo di incontrare Gianni, ne mi giunsero notizie della sua attività almeno fino al ’78; quell’anno dopo la grande, rabbiosa ed effimera esplosione del movimento del ’77, in tutti i quartieri nascevano decine di collettivi giovanili, in cui la militanza politica e l’antifascismo, si coniugavano con una voglia di cambiamento che investiva ogni ambito della vita quotidiana, e cercava i propri spazi per affermarsi. E’ di quel tempo l’elaborazione che dieci anni dopo portò alla nascita dei centri sociali, il primo dei quali fu a Roma in quel periodo, il Calpurnio Fiamma a Cinecittà, più volte occupato e sgomberato; ma è anche di quel tempo la dimensione quasi di massa della lotta armata, con la nascita di una quantità di formazioni effimere che si affiancavano alle BR, a Prima Linea, ai NAP, alle UCC; e di quel tempo è la repressione dura, lo stato di polizia, le migliaia di compagni incarcerati anche solo per un sospetto. E poi di quegli anni è la radicale e drammatica frattura fra sinistra storica e mondo giovanile, con il PCI impegnato a sostenere con l’astensione i governi dei padroni, pur di difendere quelle istituzioni in cui noi giovani non avevamo alcuna fiducia. E infine era l’anno di Moro: “Si muore di eroina, si muore di lavoro, che cazzo ce ne frega, se muore Aldo Moro”. L’aria della sconfitta già si sentiva, ma alla sera nella piazzetta del mio quartiere, al Portuense, si incontravano decine di giovani, si suonava la chitarra fino a tardi, giravano le canne e i fascisti si tenevano alla larga. In quartiere, quel quartiere in cui eravamo cresciuti entrambi, il nome di Gianni ricominciò a farsi sentire, ed era un nome che aveva un peso, spesso accompagnato a quello di altri che più tardi sarebbero entrati nella cronaca della criminalità politica della destra romana, con gli attentati dei NAR, le rapine alle armerie, fino alle complicità con la banda della Magliana, il quartiere a un tiro di schioppo dal mio. Di Gianni si diceva che fosse il capo dei fascisti di Villa Bonelli, la parte signorile del nostro quartiere, un ghetto per ricchi, un dedalo di viuzze alberate e villini di lusso, in cui evitavamo di addentrarci e da cui i fascisti raramente osavano uscire. Alla notte periodiche scaramucce durante un attacchinaggio, e una sere quattro compagni feriti a colpi di pistola, e il nome di Gianni che rispuntava sempre. Ma sempre a quel tempo, di Gianni seppi un’altra cosa, una notizia che si aggiunse a comporre l’inquietante mosaico di quell’unico fa-


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scista a cui non potevo fare a meno di dare una dimensione umana: suo padre, il signore del ferro da stiro, colui che probabilmente lo accompagnava ai campi di tennis, era, o quantomeno era stato, un comunista, o almeno un iscritto al PCI, cose che per me a quell’epoca non necessariamente coincidevano. E poi Gianni non abitava a Villa Bonelli, ma proprio a pochi metri dalla piazzetta dove si incontravano i compagni, e chissà quante volte avrà avuto un problema a tornare a casa. Solo ora mi rendo conto, che questa notizia, certo di una qualche utilità, non mi venne mai in mente di comunicarla a nessuno… solo ora me ne accorgo. Proprio davanti alla sua casa rincontrai Gianni, una sera mentre mi dirigevo in piazzetta, ma prima di lui mi si parò davanti Sandro R., che si ricordava di me, insieme ad altri due, tutti con giacche paramilitari e un’aria pericolosa. Sandro R. era un tipo sgradevole, dal sorriso sgradevole, e proprio il sorriso notai, mentre in un attimo s’era sfilato la cinta con la pesante fibbia; Gianni comparì dietro di loro e capita la situazione diede un ordine secco, forse “lasciate perdere”, forse “andiamo via”, e i due che non conoscevo si voltarono e lo seguirono, mentre solo Sandro si attardava in una rabbiosa minaccia. Certo a pensarci adesso, un’aggressione alle otto di sera, davanti al portone della propria casa, non è cosa saggia neanche per il più incallito degli squadristi, ma in quel momento l’impressione fu un’altra e non potei fare a meno di pensare che mi aveva salvato da una brutta situazione. III Un giorno qualcuno, qualcuno più bravo di me, dovrebbe provare a raccontare cosa significa essere sconfitti a vent’anni. Io posso solo mescolare i ricordi di quell’autunno del 1980, il mio percorso scolastico prolungato per un anno grazie ad una bocciatura ed ora finalmente concluso, la vigilia dell’ingresso nel mondo reale, le naturali attese di un ventenne, e intorno il clamore della rovinosa sconfitta della FIAT, il silenzio codardo dei 40.000 in marcia, le prime voci strascinate e arrochite degli amici che all’epoca ancora non chiamavo tossici, la colpevole dimenticanza dei mille luoghi murati in cui la Rivoluzione si era derubricata a procedimento penale, i compagni in “fuga nel privato” o peggio (quattro suicidi e tre ricoveri psichiatrici nel giro di pochi anni tra persone di mia conoscenza: passare dall’assalto al cielo, a ritrovarsi con il culo per terra, può fare molto male). E tra questi ricordi ancora una volta, rispunta fuori Gianni, un incontro fugace al bar della piazzetta, io entravo lui usciva, la voce sempre irridente, ma artificialmente enfatica e una luce negli occhi, quella luce che ancora non sapevo riconoscere, una luce sinistra. “Guarda quello che fa il comunista, perché lo fai ancora no…” “Certo che so’ comunista, te piuttosto…” “Io co’ ste cazzate ho smesso, c’è solo er nazirock…” Va via frettolosamente insieme a un tipo che di tutto ha l’aria, meno che di un fascio. A pensarci adesso, qualcosa deve essere accaduto anche a lui all’epoca; c’era stata la strage di Bologna in agosto, i fascisti sparavano ai poliziotti, si facevano sparare e si sparavano fra di loro; le vecchie connivenze tra stato e fascisti, avevano preso una piega nuova, noi ancora non lo sapevamo, ma entravano in scena nuovi protagonisti, la P2 e la banda della Magliana, che in quei mesi stava riempiendo Roma di eroina, e quelli della banda della


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Magliana, non abitavano certo alla Magliana, le loro case erano nel lusso di Villa Bonelli. Qualcosa doveva essere successo anche a lui. Non so se fu una faccenda di poche settimane o di pochi mesi ma successe in fretta, la piazzetta, il centro rosso del quartiere, divenne il luogo deputato dello spaccio; l’abitudine era ancora quella di incontrarsi lì, ma non c’erano più le chitarre fino a tarda sera e il fumo non era più una canna da far girare, ma una merce da vendere e da comprare, magari dalle mani tremanti di un tossico in crisi di astinenza, un tossico che fino a due mesi prima era un amico, un compagno e adesso era solo uno che poteva fotterti per uno schizzo. L’aria si stava facendo pesante, troppo, e quando la ragazza che amavo si mise con il mio migliore amico, la cartolina della naya arrivò quasi come una liberazione. Al bar dello spaccio militare il telegiornale passa la notizia: Alessandro Alibrandi è stato ammazzato in un conflitto a fuoco con la polizia; un bastardo di meno, commento ad alta voce. La sera stessa un commilitone mi dice che il sergente Fichera mi aspetta allo spaccio perché vuole parlarmi. Lo conosco, è un fascista, costretto dal padre ad arruolarsi per evitare guai peggiori, che cazzo può volere? Al collo porta in bella mostra una celtica d’argento e sembra affranto; mi dice che ha saputo che conoscevo Alessandro, così lo chiama, per nome, e voleva incontrarmi. Con parole prudenti chiarisco che la mia conoscenza non era amichevole, tutt’altro, mi dice che lo sa, ma che in quel momento voleva comunque incontrare qualcuno che lo conosceva… Solo oggi, nella piena maturità, ho compreso veramente, che al di là di ogni umana considerazione, il fascismo, e con esso i fascisti, sono comunque, l’estraneità totale; allora rimasi perplesso e delle domande rimasero inespresse. Al ritorno dalla naya il mondo era un altro. Nelle rutilanti luminarie dei magnifici anni ’80, non c’era spazio per la puzza di sconfitta; in piazzetta i compagni erano spariti da un pezzo e i tossici si aggiravano furtivi e vergognosi. Il piazzaletto dove avevo passato l’adolescenza era sempre più spesso occupato da auto parcheggiate, il vecchio aveva venduto il bar e il nuovo gestore, un panzone con tre figli panzoni, teneva alla larga i tossici. Ma in piazzetta si passa comunque, è al centro del quartiere, e un caffè al bar è un’abitudine che non si perde; e adesso in piazzetta ci trovo Gianni. La robba va oltre ogni ideologia e spesso lo vedo trafficare con i compagni di un tempo, impegnati nel comune sbattimento per lo schizzo quotidiano. Lui comunque ci tiene sempre al suo stile, si capisce che è fatto ma non lo vedo mai disfatto; ne mi chiede mai soldi; è sempre un po’ ironico ma non più sprezzante. Mi accorgo che vorrebbe parlare, ma di cosa possiamo parlare? Del presente da tossico, del passato fascista, di Corto Maltese, di cosa? Eppure continuo a incontrarlo in piazzetta, c’è sempre e non sembra sia lì solo per la roba, ma è come se in quel posto, in quel pezzo di quartiere, sotto la casa in cui è nato e cresciuto, quel posto che gli era negato, lui non lo volesse più perdere. Per me invece la piazzetta è solo un luogo di passaggio una sosta veloce e poi in centro, a Trastevere, dove con un amico ho aperto un cocktail bar… anni ’80. Lui una sera passa a trovarmi con un tipo piuttosto agitato; in un locale i tossici sono un problema, penso che mi capisca perchè bevono una birra al volo e vanno via. Ho offerto io e lui ha ringraziato.


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Un giorno mi racconta della sua ragazza, che lavorava al giornale Lotta Continua e che oggi si occupa di biologico; io non so se credergli, i tossici sono bugiardi, ma qualche sera dopo viene al locale con una donna, un bel prodotto degli anni ’70, con tutti i segni in faccia di una vita vissuta, bella come sono belle le donne forti. Anche su di lei i segni della robba, ma solo a cercarli. Si fermano tutta la sera e chiacchierando lei fa spesso riferimento a storie comuni, vecchie vicende di movimento, assemblee o manifestazioni… io glisso con un po’ di imbarazzo. Alla fine degli anni ’80 i tossici sono spariti dalla piazzetta, la robba ha fatto il suo sporco lavoro ormai è l’ora di altre sostanze, più dinamiche e produttive. Gianni c’è ancora e mi viene anche il dubbio che forse ha smesso di farsi, ma con lui è difficile capire, perché è uno che sa tenersi; prendiamo un caffè e parliamo di politica, un argomento che da qualche tempo ci capita di toccare. Craxi e i socialisti sono un suo chiodo fisso, e mi chiedo se nella critica, che non manca di lucidità, alle miserie e alle arroganze di questa classe politica, non ci sia ancora il vezzo aristocratico e antiborghese del fascista. Da qualche tempo, forse da quando ha smesso, se ha smesso, di farsi, gli accade di fare qualche vago accenno al suo passato fascista, accenni autocritici, ma io non lo incoraggio; penso che tra uomini adulti sia bene mantenere un certo pudore e un certo riserbo, sarebbe imbarazzante sentirlo scusarsi o peggio vergognarsi, e non oso nemmeno pensare se così non fosse. La robba e il fascismo sono argomenti che è meglio non toccare, per quanto è triste che forse sono stati molta parte della sua vita. Una volta, in occasione di non ricordo quale manifestazione nazionale, mi disse che gli sarebbe piaciuto partecipare, ma temeva che qualcuno potesse ancora ricordarsi di lui, e mi chiese di accompagnarlo; gli dissi di si, ma poi non se ne fece nulla. Gli anni ‘90 mi trovarono impegnato nella cooperativa che ancora oggi mi dà da mangiare, e alla vigilia di un rinnovato impegno politico con Rifondazione Comunista. Anche da Gianni giunse una sorpresa, quando ci incontrammo al solito bar, e lui vestiva una tuta dell’ACEA; non so come fosse accaduto e quali santi avesse in paradiso, ma aveva trovato un posto, era un operaio dell’ACEA, ed era chiaro che la cosa gli dava un certo orgoglio. Da allora quando ci incontravamo, gli ultimi residui imbarazzi scomparirono, e ricordo con quanta passione mi raccontava delle conseguenze della ventilata privatizzazione dell’azienda, di come oggi lui effettuasse interventi di manutenzione anche in luoghi sperduti e antieconomici, pur di garantire il diritto ad un servizio, e di come invece una gestione privata avrebbe sacrificato ogni diritto al profitto. Sono ormai molti anni che non incontro più Gianni in piazzetta; purtroppo il fascismo e la robba, non erano gli unici argomenti che evitavamo: c’era anche l’AIDS e neanche di questo mi disse mai nulla.


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AL DI LA’ DI ITACA ESTATE ULISSE Il sentiero, sassoso e ombreggiato, si snodava in alto sulla piccola insenatura in cui declinavano le pendici rocciose, decorate di piccoli pini, ginepri e rosmarini; i piedi esperti e silenziosi, evitavano le rocce taglienti, scendendo veloci verso l’azzurra lente incastonata tra le rocce, attraverso cui traspariva il fondo marino. Quando le prime gocce di sudore già gli rigavano la fronte, l’uomo era giunto a bagnarsi, offrendo il corpo al fresco e salato sapore del mare. Poche bracciate per portarsi al di la degli scogli aguzzi e dei ricci spinosi, poi la culla del mare ad accoglierlo, sospeso in un vuoto sopore, le braccia distese, gli occhi socchiusi e l’immenso azzurro del cielo alla cui vista ogni domanda è vana. Quanto tempo era trascorso dal giorno in cui il sangue dei proci era stato lavato con acqua di mare dalle pareti della sua casa? Ulisse non se lo chiedeva, come se il tempo si fosse fermato al giorno preciso in cui, tra pianti di donne e urla di dolore, il suo destino si era finalmente compiuto. Poi il tempo cominciò a perdersi, fuggendo via con l’immagine di un vecchio dal volto famigliare, che seppe suo padre, in cui specchiò la propria vittoriosa stanchezza, solo per scoprirla uguale all’altra, sconfitta nell’attesa di un ritorno; poi il tempo confuso e lontano di volti ignoti di parenti offesi, a cui offrir riparazione per interrompere finalmente il viaggio di dolore, lungo ormai vent’anni. La pace infine, la pace e l’ordine ristabilito e il re nel suo regno. Mille e mille anni dopo Ulisse sarebbe stato ancora fermo in quell’epilogo di un sanguinoso orgasmo, alla fine del viaggio che l’aveva costruito eroe, quando ogni isola svelava virtute e conoscenza, mentre i compagni si perdevano e l’amore di una donna e di una terra non erano più un ricordo ma solo una meta. Pure Ulisse viveva ancora, oltre le proprie mete e il proprio destino, viveva per il fluire del sangue nelle membra forti della maturità, un fluire cieco e senza orizzonte, come il fluire delle acque che lo cullavano nella lente azzurra, lontano dalla casa di cui era lo straniero signore. PENELOPE Nella casa silenziosa Penelope tesseva la tela; a notte l’avrebbe disfatta come ormai accadeva da un tempo infinito. Sul telaio le trame avevano disegnato le attese con cui riempire il vuoto del talamo piantato sulla quercia; ora le stesse trame fermavano il tempo in una ripetizione senza attese. Tutto era accaduto, nulla più da attendere, il destino si era compiuto, guerre, saccheggi, tempeste, ire divine e umane arroganze e infine l’acqua salata


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che lavava il sangue in cui si perdeva quell’unica lacrima che lei aveva atteso. Ora finalmente ogni passione si era placata e una donna semplice poteva tornare a una semplice vita: non più pretendenti ambiziosi o innamorati a lordare dei loro vizi le sale della casa, non più passioni represse sul punto di esplodere, non più eroi giustizieri da attendere, solo la tela, con le sue eterne geometrie e la loro rassicurante ripetizione. L’uomo era tornato, aveva versato un unica lacrima, una goccia d’acqua salata a consacrarla moglie e quindi madre e regina. Ora un sorriso sereno finalmente le rischiarava il viso, il sorriso di chi contempla un ordine finalmente ristabilito. Solo in quell’ordine c’era lui, l’ormai straniero padre di suo figlio, l’uomo piangente dopo il silenzioso amplesso atteso vent’anni, quando il corpo contratto l’aveva riconquistata senza trovarla e forse nemmeno vederla. Quell’uomo piangente la lasciò sgomenta e subito dopo estranea. Ulisse, uno sconosciuto atteso vent’anni, come il tassello di un mosaico incompleto, perso per ambizione, follia, curiosità e finalmente tornato al suo posto, come tutti gli altri tasselli, come la casa finalmente silenziosa, come le capre al pascolo sulle colline e le giare colme di olio, come tutte le semplici cose che fanno la vita e fluiscono senza meta ne ragione, rassicuranti e autentiche. Nel talamo sulla quercia le lacrime dell’uomo erano lontane come l’uomo stesso, portavano con se il sapore di viaggi e battaglie, di sconfitte e vittorie che lei non conosceva. Quelle lacrime furono le ultime, poi finalmente il mosaico fu completo e una donna semplice poté condurre una semplice vita. Fuori il crepuscolo annunciava la fine del giorno e Penelope iniziava a disfare la tela. ULISSE Il ritorno di Ulisse non aveva cambiato la vita di Itaca: pescatori e pastori continuavano nelle loro quotidiane fatiche, regolate da tempi e necessità sulle quali l’assenza di un re o la sua presenza avevano ben poca influenza; Ulisse stanco e desideroso di pace, poco si interessava di amministrare legge e giustizia e Telemaco, ristabilito nel suo diritto, si incaricava di aggiungere quel po’ d’ordine formale, senza il quale l’ordine naturale appare incompleto. Le gozzoviglie dei Proci e delle loro prostitute, erano state sostituite, nella curiosità della gente di Itaca, dai racconti, che giungevano dalla reggia, dei paesi visitati da Ulisse: così i Lestrigoni, mangiatori di carne umana, l’ormai cieco Polifemo e Calipso che dona l’eternità agli uomini che ama, popolavano le chiacchiere e i racconti serali intorno al focolare, tra lo scetticismo affascinato degli uomini, lo stupore dei bambini e il timore delle donne. Ciò accadeva comunque nell’esiguo spazio di libertà tra i doveri del lavoro e le necessità del sonno, in quell’intervallo di piacere in cui la narrazione si arricchisce di leggenda e l’uomo si perde nell’eroe. Itaca aveva vissuto per vent’anni senza Ulisse e certo ne avrebbe potuti vivere ancora centoventi. Per qualche tempo l’isola fu visitata da vecchi compagni d’arme, sapienti o mercanti, tutti in cerca di Ulisse, vuoi per aver notizie di volti scomparsi il cui ricordo riapriva ferite,


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vuoi per avere conferme a teorie e verità tali da dar lustro e gloria a chi le aveva formulate, oppure per cercare consigli su rotte di mare in cui portare traffici fraudolenti di vacche sacre ad Apollo o di loto donatore di felicità. Nella sala grande della casa, Ulisse accoglieva ogni ospite, offriva il suo vino e il suo cibo, parlando senza guardare chi con ostentato rispetto o irridente umiltà, gli poneva domande. L’uomo per cui l’ira degli dei era stata vana parlava lentamente in tono quasi sommesso, gli occhi bassi di chi sente la colpa di troppo sapere, e nulla che lo accomuni ai mercanti, ai sapienti, ai guerrieri, il cui viaggio doveva ancora cominciare e della cui meta non si interessava. Parlava seguendo le sue parole come un rassicurante sentiero, in cui a ogni bivio di dolore ritrovava se stesso, altrimenti perso nel vuoto di un ritorno agognato e impossibile. In quelle parole Ulisse viveva, ignaro degli occhi scettici o ammirati, delle mire meschine o dei giusti ideali, ignaro di ogni umana motivazione, solo pago dei nomi e delle immagini, di orrore o di fatica, di illusione o di piacere, in cui aveva speso gli anni migliori. A volte un commento, un’interruzione, lo portavano al presente e allora si fermava, cogliendo la lontananza tra se e ciò che lo circondava, gli stranieri che lo esaminavano, i dignitari rispettosamente annoiati, il figlio Telemaco, estasiato nella contemplazione della meraviglia più grande di quello che sarebbe divenuto il suo regno. Allora le parole perdevano ogni concretezza e gli apparivano come vuoti simulacri di esperienze incomunicabili. Spesso d’un tratto lo sguardo si volgeva a Penelope e allora le parole morivano e i ricordi di battaglie e di viaggi annegavano nelle lacrime di quella notte disperata, quando ancora eroe e guerriero, dominatore e null’altro, aveva compreso quanto lontano era giunto nel suo viaggio, tanto lontano da non poter tornare indietro. Infine anche i racconti e le meraviglie di Ulisse, narrate dagli aedi in tutte le isole, amplificate e abbellite in porti lontani, furono noti più di Ulisse stesso e mentre in ogni luogo, millantatori e ciarlatani vantavano imprese per il misero prezzo di una bevuta, Ulisse cominciò ad essere dimenticato da tutti e non fosse stato per un poeta cieco, del suo viaggio ai limiti del conosciuto non sarebbe rimasta che l’ira inestinguibile di Poseidone. Le serate nella sala grande non echeggiarono più dei nomi di terre lontane e popoli sconosciuti, a Ulisse non fu più concesso di vivere nelle illusioni del passato e obbligato a guardare il presente, lo vide pieno di colei a cui non era ancora tornato. Lei era in ogni dove, una placida ossessione che riempiva ogni sala, muoveva al vento i rami degli ulivi, si scaldava al sole in ogni pietra di Itaca e viveva in ogni spazio al di la del cristallo di virtute e conoscenza in cui Ulisse era prigioniero, paga di lui come di tutto, sorridente e lontana nell’ordine semplice il cui mistero nessun viaggio avrebbe svelato. I sensi allertati e le astuzie leggendarie che avevano guidato Ulisse tra gli orrori della guerra e i pericoli dell’ignoto, ora non gli impedivano di perdersi nelle sale della casa, inseguendo la sua voce fra quella delle ancelle, nelle raccomandazioni al figlio o nelle cure domestiche, per ritrovarsi sempre di fronte al muto mistero di quella tela a cui l’aveva trovata al mattino di una notte di impeto e lacrime.


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PENELOPE C’era stato un tempo in cui il fiorire del corpo di Penelope, si era specchiato nello sguardo di un uomo e nel vedersi donna aveva amato l’uomo che la riconosceva e della cui complicità si beava quando le mani la toccavano la dove nemmeno lei osava e lo sguardo la guidava oltre i cancelli in cui l’infanzia è rinchiusa. Era l’amore o così le fu detto, un sogno del corpo al cui risveglio si trovò madre senza più esser moglie, quando gli sgambettii della vita nell’ampio ventre, risuonavano più forti dei lontani clamori di una guerra ladra di uomini. Nei lunghi anni di solitudine, l’uomo che era stato complice sorridente del suo fiorire, svanì nelle narrazioni occasionali degli eccessi e degli eroismi Achei sotto le mura di Troia, mentre nel suo cuore svaniva la breve stagione in cui era stata solo donna. Quando finalmente le navi tornarono, vuote di uomini e ricche di bottino e solo Itaca attese inutilmente una vela all’orizzonte, lei finalmente vide come il tempo era passato e i giorni come pietre avevano murato il desiderio, rinchiuso nel cortile angusto e rassicurante dei riti quotidiani, dove nessuno sguardo l’avrebbe più turbata, ne mani giocose avrebbero risvegliato gli assopiti recessi del suo corpo. Nella solitudine appena venata di delusione, Ulisse era solo un frammento di quel mondo di passioni, che gioca con i corpi tra i fiori, così come li sventra tra le fiamme di un assedio vittorioso e tra i fiori del ricordo e le fiamme dei racconti, lui si perdeva, una parte tra le tante di un gioco insensato, a cui gli uomini si adattano per imitar gli dei da loro stessi inventati. Pronta ad assumere i malinconici onori che al suo sesso da la virtù vedovile, Penelope fu invece assediata dal misero agitarsi delle ambizioni meschine, di chi non le riconosceva il diritto di esser sola e avanzava pretese come fossero doni. Fu tra i canti e le arroganze dei Proci, irridenti e minacciosi, nella loro lussuria scatenata e nello sguardo perso del figlio Telemaco, che Penelope rivide il volto di Ulisse, colui il cui unico torto era di averla lasciata sola, inseguendo i doveri di un re, garantendo la pace a una regina, l’unico uomo conosciuto in tutta la sua lontananza. Quindi la tela, le cui trame disegnavano il volto atteso, evocato dai segni tangibili di forza da lui lasciati, il poderoso arco di corno, che nessuno osò toccare, il letto inviolato tra i rami della quercia e dentro di se il desiderio parco della vita di Itaca così com’era stata, mentre il corpo placato si riposava nelle morbide rotondità che il tempo dona alla bellezza. Infine lui era giunto, il re, l’eroe, l’uomo, ma anche il bambino, che la cercava nel buio, stringendola, rapace e incapace, ansimandogli addosso il disperato desiderio che lo condusse a morire dentro di lei, che l’accoglieva come l’ospite a lungo atteso a cui ogni cosa si offre per saperlo appagato. Poi il pianto incomprensibile da cui lei, stanca di lacrime e di dolore, seppe solo ritrarsi. Al mattino l’uomo finalmente dormiva, ma quel pianto la svegliò risuonando nella sua mente, come l’ultimo frammento di passione che ancora si attardava a turbare l’attesa pace e alla famigliare tela naturalmente si pose, escludendo


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colui il cui ignoto temeva. ULISSE

I giorni di Itaca scorrevano nel vuoto di fatti e avventure che Ulisse riempiva con l’esperienza di sensazioni dimenticate o forse mai conosciute: tutto nell’isola gli parlava di lei, tanto era stato il tempo in cui la terra e la donna si erano identificati in un unico desiderio e ora che poteva disporre di ogni pietra e di ogni frutto, ora che era re e padrone, capiva come Penelope fosse l’altro che informava di se il tutto e che l’avere tutto non era ancora comprendere l’altro. Gli incanti di Circe e l’amore di Calipso gli avevano irretito i sensi ma non la mente, ma ora astuzia, conoscenza e saggezza erano solo futili orpelli che si ponevano fra lui e un gesto semplice per significare l’amore, che in nessun viaggio aveva mai incontrato e il cui ricordo aveva perso. La mente, usa a valutare e riflettere, su ogni fatto o avvenimento, ogni impressione o intuizione, per ricavarne auspici e speranze, indicazioni e norme, per scansare i rischi e superare gli ostacoli, ancora lavorava meccanicamente a interpretare ogni gesto e ogni parola, furtivamente rubati a Penelope, per comporre un quadro che ne svelasse il mistero e sedasse l’angoscia dell’ignoto che aveva scoperto nel suo cuore. Pure le astuzie che avevano ingannato gli dei, apparivano meschine in quel mondo circolare di cui lei era il centro e in cui lui si muoveva goffo, attardata dal peso di se e delle sue attese. Nella sua mente i pensieri si frangevano come onde sul mare in tempesta e l’uno si perdeva nell’altro prima di diventare parola e di essi rimaneva solo l’impressione di una cresta bianca di spuma, in cui moriva la speranza di un attimo. Le parole stesse, come lapilli di vulcano, frammenti della lava di cui ardeva, si spegnevano nel mare placido dei suoi silenzi, quando non richieste e forse inopportune, cercavano di interrompere le trame quotidiane in cui lui non era previsto. Seppe cos’era la paura quando scoprì che i suoi occhi sempre l’avrebbero cercata, svelando l’ansia e l’angoscia con cui l’attendeva e sempre, nel loro vagare, sarebbero approdati alla silenziosa baia del suo sorriso, da cui solo appariva l’enigma di terre ignote. Provò confusione e stordimento quando si vide svelato eppur inespresso, e l’ultimo orgoglio lo trafisse quando una notte lei gli si offrì a placarne le passioni e condurlo al sonno. Dopo quella notte di condiscendenza e umiliazione, Ulisse prese a fuggire le fresche stanze della casa, dove ogni corridoio pareva condurlo a lei, dove ogni parete scrutava il suo desiderio e il ridere e il vociare dei servi al lavoro offendeva il silenzio a cui era relegato. Camminava sotto il sole, fermandosi a tratti all’ombra di un albero, bagnandosi in mare, cercando di placare nel corpo l’arsura della mente. Incontrava i pastori, i contadini, le donne che lavavano alla fonte, tutti lo guardavano in silenzio e tutti erano re di se stessi, della loro vita e lui, re di tutti loro, taceva la vergogna di non aver pace ne rifugio, fuori dal porto negato del suo amore.


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PENELOPE Uno sguardo come una carezza, scivolava dalla nuca fino a cingergli i fianchi, per perdersi al suo voltarsi in una domanda inespressa. Il suo nome che emerge, da un sonno agitato da incubi di guerra, che nel suo grembo si placano. Una presenza vagante che ovunque la raggiunge, col peso dei suoi pensieri, forte e timorosa, implacabile e sfuggente. L’imbarazzo di gesti gentili e parole delicate, che nascondono il furore di tempeste che nel viso lasciano segni. Neanche l’orda tumultuante dei pretendenti riempiva a tal punto la casa, inseguendola fino al suo telaio, dove le mani indugiano mentre l’orecchio ascolta i passi insonni del re, marito e padrone, finalmente tornato. Questo era dunque l’essere amata? Sentirsi penetrata fin nei più nascosti recessi, dall’attesa indagatrice a cui non si sa rispondere; sapersi circondata da ragnatele di timori che soffocano ogni gesto e crescono e si espandono a ogni tentativo di fuggirne. Prigioniera senza attese, nell’orizzonte violato della sua quotidianità, a contemplare la pena di uomo condannato a inseguire mete, che il suo stesso agire allontana. Quella pena assediava le mura della città senza domande, in cui i fatti usuali del vivere concreto, l’avevano difesa dalle passioni vane di un mondo di uomini, lontano e incomprensibile. Cosa voleva da lei quell’uomo? Non le bastava averla al suo fianco nell’ombra del giardino, quando i figli dei servi riempivano di risa e di giochi infantili il torpore pomeridiano? Perché non era pago di quel sorriso in cui lei lo ringraziava di esserci finalmente a lenire le ansie di una solitudine travagliata? E dove era mentre lei si riempiva il cuore della giovinezza che fioriva, nel frutto dei loro corpi, nel figlio ormai uomo, preservato dall’ira della guerra e dall’inganno dell’ignoto? Forse inseguiva ancora i sogni vani che la terra tradisce e a cui il cielo è muto e che solo negli dei hanno forma, simulacri di passioni a cui l’uomo non sa sottrarsi e che immagina divine per poterle cantare, ammantando di parole il deserto quotidiano che nessun cippo di vittoria renderà meno solitario. Perché era tornato se neanche le moltitudini doloranti dell’Ate avevano placato la sua vanità? Perché era tornato a obbligarla a domande cui solo i corpi rispondono, nell’oblio che segue al tumulto dei sensi giovanili, quando l’uomo muore nella donna perché da essa nasca la vita. Quel tempo era passato e con esso il desiderio, sacrificato ai doveri di regina e madre, che nelle notti insonni passate alla tela, le avevano fatto scudo alla lussuria urlante, in cui pure le accadde di incontrar gli occhi di un uomo. Ora la vana follia che aveva sfidato gli dei, era solo l’oggetto delle parole irridenti, bisbigliate all’orecchio tra servi ed ancelle, che negli occhi ansiosi di un uomo, leggevano solamente il ritrarsi di una moglie dai doveri della notte. La notte in cui Penelope stanca, cercò in un abbraccio l’oblio, non pronunciò alcun nome d’uomo, mentre stringeva a se colui che la chiamava, accompagnandola al vuoto a ogni spasimo dei corpi, finché la spossatezza lasciò al sonno le domande, che mute erano rimaste all’incontro dei corpi. Quella disperazione che nell’abbraccio di un uomo cercava


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conforto e pace, trovò al mattino solo lo sguardo offeso e vergognoso, di colui il cui nome non era stato pronunciato e il cui desiderio appagato non placava l’orgoglio ferito. ULISSE Era lontano il giorno in cui Ulisse aveva conosciuto l’aspro abbraccio dei canapi che lo legavano, mentre il canto delle sirene, che nessun vivente ha mai narrato, lo invitava all’abisso. Solo, di fronte al mare, ora rimpiangeva quel canto pietoso, che rende ciechi di fronte all’orrore, lasciando l’uomo libero di morire di illusioni. Ora nessuna corda lo tratteneva dall’abisso della lontananza di lei, ne illusione lo accompagnava nella caduta a dargli il coraggio di ciò in cui non si crede. Sarebbe mai riuscito ad ingannare se stesso per trovare forza e pace? Rise di se, sommamente astuto, ma incapace dell’inganno più semplice, quello che fa bere ogni giorno il vino forte che inebria e ci guida in sogni rassicuranti: Penelope era li, al suo fianco e il profumo del suo corpo era più forte della brezza che il mare gli alitava in viso, l’aveva atteso vent’anni fedele, per lui aveva difeso un regno, per lui aveva cresciuto un figlio, per lui il suo corpo s’era conservato accogliente e da lui solo aspettava un gesto d’amore che lui non conosceva. Disteso sui ciottoli della spiaggia, il mare che gli lambiva le membra, il volto d’Ulisse finalmente si rasserenò, sentendo i vent’anni passati come un solo unico giorno d’errore, al cui riscatto un uomo nuovo s’accingeva e un’energia nuova gli attraversò il corpo, mentre contemplava il sogno di pace in cui il suo amore nuovo, leggero, lo accompagnava... Eccolo il canto delle sirene e l’unico vivente che ne serbava il ricordo, lo riconobbe, lo temette e si ritrasse dalle acque ignote in cui la cieca fede fa sorridere all’abisso. Abbandonarsi nella fiducia del proprio amore, contemplare ogni suo gesto come una promessa, ogni parola come un invito e nel quieto labirinto di giorni uguali di cui lei è regina, perdere la stella dubbiosa che aveva guidato le sue rotte. Chi gli avrebbe dato questo coraggio? Ahtena l’altera protettrice che l’aveva reso eroe? O forse Afrodite la cui passione bruciava di vendetta per il sangue troiano? Il fato ostile gli giocava il più atroce degli inganni e l’astuto che celò il suo nome a colei che da vent’anni in attesa finalmente lo riconosceva, ora pregava il coraggio di aver fede nella donna del cui amore dubitava. Ma quel coraggio Ahtena non può dispensare e Afrodite, che pur avrebbe potuto, riconobbe il nemico la cui acutezza svela i prati di illusione in cui la dea s’abbandona. Il canto delle sirene era svanito e i canapi che laceravano le membra, lo legavano saldamente al suo destino, lungo la rotta nebbiosa, in cui svelata ogni meraviglia, solo alle secche misere è vigile il timoniere. PENELOPE La prima immagine che ne ebbe al suo ritorno, fu di un uomo che nascondeva il volto, ce-


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lava il suo nome e dall’ombra del passato la scrutava. Un sogno premonitore le permise di riconoscerlo, senza cercare nel suo volto i ricordi della giovinezza. Quando l’arco di corno si tese nelle sue mani, lo vide così come l’aveva atteso, epilogo di forza che si impone sul caos. La casa che l’aveva vista reclusa, fu l’ara che accolse il sacrificio di sangue in cui la dea vendetta placa il dolore umano. Nel dramma Penelope svolse la sua parte, quando riconosciutolo e ormai svelato a Itaca, lo interrogò su ciò che solo Ulisse sapeva, su una quercia antica che accoglie il giaciglio di due giovani sposi. Alla prudenza crudele che l’aveva nascosto al primo incontro, al suo svelarsi al secco sibilo di una freccia, al suo affermarsi nel furore implacabile di una strage, lei aveva risposto altera e ineffabile chiedendo una prova, perché vent’anni di attesa non si appagano di sangue. Davanti all’eroe era stata regina, avrebbe dovuto esser donna davanti all‘uomo? Quella passione che l’aveva esclusa, seguendo imperativi che sono sacri all’uomo, mentre lei reclusa, nel gelo dei sensi solo aveva conforto, ora riappariva e le chiedeva, chiedeva a lei, di essere ciò a cui s’era negata. Lacrime e ansie, silenzi e infine fughe, cavalli di legno nel cui ventre si cela la vanità dell’uomo appagata dalle sue passioni. Ma Penelope non era Troia a cui offrire sacrifici ingannatori, Penelope era stanca di attendere un uomo che insegue le favole che egli stesso narra. Nell’attesa di un re aveva perso un uomo, per accogliere infine le orgogliose attese, di chi ama il proprio amore oltre il volto in cui si incarna e il desiderio complice di pace e di oblio, disprezza come offesa, offerta da poco all’amore tornato. Nel nome di una guerra abbandonò un amore, nel nome di un amore, oggi abbandona una donna: che amore è questo che allontana le persone e come un tiranno impone le sue regole, totali ed esclusive, buone solamente per dee inventate, la cui vanità esalta gli eroismi e scatena le guerre. Una donna semplice per una semplice vita, ripeteva Penelope, mentre la mano inerte abbandonava il telaio e gli occhi vagavano oltre la stanza vuota a cercare colui il cui ritorno attendeva.

AUTUNNO PESCATORE Calar reti in mare, seguire la rotta, scrutare il cielo e scampar la tempesta, questo so fare, di questo mi curo. A Itaca son straniero e nella mia terra schiavo, per questo non sento nei giorni d’autunno, il rimpianto malinconico di un inutile ritorno. Pure ad un ritorno debbo ciò che sono, uomo libero e padrone di una barca, io che venni schiavo al seguito di un pretendente. Fu l’ubriachezza ribelle a farmi punire dal mio padrone, scacciato dalla casa di piacere di cui Penelope era la casta tenutaria, proprio alla vigilia dell’esplosione d’ira che pose fine all’orgia. Dal mio rifugio, sul fondo della barca del padrone, con la schiena dolorante dalle bastonate, che erano state il viatico della mia cacciata, le urla dei proci mi raggiunsero, ad annunciarmi la fortuna che una grande tragedia può dare a un piccolo uomo. Quando le forze e la paura me lo concessero, mi spinsi alla casa di soppiatto e


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spiando i servi che lavavano via il sangue, vidi l’uomo il cui furore mi aveva reso libero e pensai alla donna che l’aveva atteso, provando sgomento dell’una e dell’altra, l’uno schiavo del ritorno, l‘altra dell’attesa, che in un giorno consumano vent’anni di vita. Fu il lusso di un attimo e subito tornai al mio presente, uomo senza padroni e padrone egli stesso di una barca, con la quale raggiunsi il luogo in cui vivo, il più misero tra i villaggi di Itaca, dove nessuno avrebbe chiesto allo schiavo di render conto della sua libertà. Ma queste son storie di un uomo il cui nome non conta e la cui parola vale solo a testimoniare dei giorni in cui un re fu Nessuno, non per astuzia o inganno, ma per l’angosciosa vergogna che gli divorava l’animo. La tempesta s’era appena scatenata e le raffiche di vento mi spingevano al desiderio della casa, quando attento all’ormeggio della barca, vidi l’uomo a cui dovevo la libertà, camminare come chi non sa dove e neanche ne ha interesse. Curiosità o gratitudine o forse solo la solitudine, mi spinsero a offrirgli l’ospitalità della mia casa, che lui accettò, per quella sera e le altre a venire, fin quando l’autunno non volse in inverno e le reti abbandonate smisero di dar senso ai giorni, con il loro peso di argentea vita. ANCELLA La purezza dei sedici anni, finalmente libera dal giogo che impose l’arroganza dei proci nella casa occupata, è il tratto più vivo di un’immagine di contorno, silenziosa presenza la cui voce non turba i pensieri di una regina, mentre alla sera le pettina i lunghi capelli. Nei giorni d’assedio in cui i clamori d’orgia mi inseguivano fino alle stanze più remote, il corpo ancora acerbo mi preservò dalla scelta, tra la fedeltà a una regina o la compiacenza per i suoi ospiti. Fui libera di sognare l’amore, puntuale allo sbocciare del corpo, accompagnando nell’attesa colei alle cui cure attendevo e la cui liberazione invocavo, come fosse la mia, perché desiderio e giovinezza fossero doni per chi li sapesse cogliere e non preda per chi ne avesse l’occasione. Accompagnando l’attesa di una donna, cui l’età aveva aggiunto bellezza, difesi i miei sogni dalla realtà impetuosa, che alle altre regalava grida di piacere, quando ogni angolo era alcova e ogni straniero padrone. I giorni passavano e l’abbassar lo sguardo non sarebbe più bastato a preservarmi dal desiderio incontinente che l’ubriachezza scatena e già subivo gli offensivi assalti, quando in un giorno di cui non voglio aver memoria, negli occhi della regina vidi l’attesa compiersi e il mio futuro aprirsi ai sogni legittimi, che la giovinezza ancora non sa come illusioni. Ma forse il mio tempo era ancora da venire, se rimasi affascinata dal segreto silenzio e dalla eterna tela, che muti rispondevano alla bramosia di un uomo, fino al giorno in cui la casa tornò vuota e la solitudine si impose alle speranze dell’attesa. Cos’era questo amore per cui vent’anni è un giorno e che in giorno solo apre un abisso di vent’anni, cos’era questa attesa che si alimenta d’assenza e la cui fame non si placa se non


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di assoluto e perfetto. Lei doveva saperlo, in fondo al cuore certo celava conoscenze la cui profondità, insondabile, affascinava. I giorni d’autunno tristi, rimandavano il tempo del mio fiorire e nei tramonti cupi inseguivo lo sguardo di colei che forse, non osava volgere gli occhi a se stessa. PESCATORE L’ospite regale era ormai compagno di fatica, quando spingevamo la barca in mare alla luce di una luna che il sole avrebbe presto scacciato. I gesti silenziosi della quotidiana fatica legano gli uomini a un’unica catena, la solidarietà dell’attimo, deluso o soddisfatto, in cui il peso della rete svela i frutti del lavoro. E’ questa l’amicizia frutto di solitudine, quando la stanchezza di se fa fuggire le confidenze, per timore di specchiarci in ciò da cui fuggiamo. Parla il sudore della fronte, che ad ogni goccia perde una speranza e un attesa e alfine vuoti alla sera il vino ci accompagna al sonno, pronti al mattino dopo per il viaggio nebbioso e senza meta, in cui le secche misere della rassegnazione son l’unico riparo alla tempesta delle illusioni. Riconoscevo in lui ciò che ero stato un tempo, uomo senza futuro che il presente ha incatenato all’altrui esistenza, ma di questa follia io ero vittima e lui artefice, che nella sua passione forgiava le sue catene. Schiavo liberato, non ero ancora uomo da far domande a un re, ma con le domande egli mi rispose, aprendo un varco nel muro del suo silenzio. Accadde una sera davanti al fuoco che l’ansia del suo cuore, prima che traboccasse in lacrime, si espresse in parole, difficili a dirsi, ma al cospetto di un altro uomo, meno dure del pianto a mostrarsi. Erano parole imperiose che nascondevano le ragioni profonde, la minaccia di un re disperato di fronte al precipizio dell’umiliazione e ancor prima di capirle ne ebbi paura: - Riconosco il tuo volto tra quelli urlanti e irridenti che mi circondavano, quando mendicante mi battevo con un mio pari, mentre te ed altri come te abusavate della mia casa. Tu fosti testimone dell’oltraggio, la cui vendetta non basta a darmi pace e per il cui dolore ancora fuggo la mia casa. Forse sei l’unico vivo a cui fare una domanda, per questo ti chiedo: quali offese ebbe a subire Penelope?Eccolo Ulisse, che mentre mostra il fianco cercando il conforto di un uomo, forse di un amico, pone davanti a se la spada, perché della sua fiducia egli non si fida. All’unica risposta che offrì il mio volto, la paura, egli abbassò lo sguardo, mentre di nuovo domandava, ormai solo a se stesso: Quali offese ebbe a subire Penelope perché io non abbia più a riconoscerla.In quell’attimo ero scomparso, poi di nuovo volse a me lo sguardo, come a leggermi nella mente e sereno nelle parole: - Ho molto viaggiato e visto tante cose, ma non so più nulla della donna che mi ha spinto al ritorno e che per vent’anni mi ha atteso; per questo chiedo a te, ora che sei re nella tua


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casa, di quando fosti schiavo nella mia, di ciò che i tuoi occhi videro, le tue orecchie udirono, i tuoi pensieri, tu che eri li dove era lei e forse vedesti quella verità che solo il nemico conosce, quando ti legge in viso l’offesa che tu non osi neanche ammettere.Posi altra legna sul fuoco e versai vino nei boccali. ANCELLA Forse non spetta a me giudicare di ciò che è bene e ciò che è male, di chiedere ragione di ciò che è dato, cercando nel giorno che arriva un senso per quello che se ne va, ma la giovane età mi scusa per le domande a cui altri hanno forse già risposto e per l’inquietudine che mi fa volgere lo sguardo al mare, mentre attendo al mio lavoro con il solo desiderio di finirlo. Questa casa è stata la mia vita e per essa ho sentito il timore e lo sdegno per l’offesa subita, quando ogni straniero aveva il diritto di violarne la soglia e solo in una stanza nascosta potevo coltivare le attese e i sogni di una bambina. In quei giorni l’amicizia comprensiva di colei che mi era padrona era rifugio di silenzio dal caos del mondo che Itaca dominava. Le trame della tela erano un ritornello di cetra che narrava la malinconia dell’attesa, al ritmo monotono del vivere quotidiano e a quella musica era piacevole assopirsi, mentre l’impudenza sfacciata degli ospiti, inventava ogni giorno nuove offese con cui riempire il tempo dell’assedio. Nel rito quotidiano che tesseva di giorno e sfilava di notte, io scoprivo il mistero di quella certezza profonda che alimenta il presente con l’immagine di un futuro, che per me coincideva col fiorire della vita, i cui segni leggevo nelle curve del mio corpo. In quel mistero trovavo la forza che permette al germoglio di resistere all’ultima gelata, per sbocciare in primavera. Oggi non vedo primavera, ma solo un grigio autunno, in cui lo sguardo si perde in un orizzonte cupo, di cielo e mare indistinti, da cui non giunge più alcuna vela. La stessa tela che ripeteva sicura il mistero dell’attesa, ora è un pozzo di oblio in cui annegano le domande inespresse di una donna stanca. In quella donna che io avevo immaginato maestra e sorella maggiore, di cui avevo letto negli occhi la confidenza e che nei giorni più aspri aveva compreso il mio pianto, ora io non vedevo altro che il deserto sterile di sentimenti sfiniti, cui pure è negato il sollievo di un’oasi di lacrime. Nulla sapevo di quanto accaduto tra lei e quell’uomo, la cui apparizione e scomparsa avevano trasformato l’atteso futuro trasformandolo in vuoto presente; le storie volgari dei servi più infidi che nella lontananza di Ulisse trovavano ragione di sarcasmo e il coraggio per esprimerlo, potevano solo colpirmi con l’offesa che almeno a Penelope la lontananza risparmiava. Nell’intimità necessaria che la cura del bagno offre, vedevo con certezza che non era da un corpo avvizzito e sensi spenti che Ulisse fuggiva e nel sentirne la pienezza delle forme rispondere al tocco delle mani, soffrivo in cuor mio al pensiero, di come quella che forse era l’ultima bellezza, si sprecava alla sola contemplazione di un’ancella, piuttosto


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che rigenerarsi alle carezze d’amore. E sempre soffrivo al pensiero di fuga che colei che più avevo amato ora suscitava in me. Tra serva e padrona anche il legame più profondo si esprime nel modo in cui una esegue e l’altra comanda e così era stato nell’eroica lotta, in cui avevamo difeso l’ordine quotidiano dall’aggressione esterna, esercizio in cui il corpo e la mente si preparano al riscatto; ora quello stesso ordine, privato d’ogni speranza era per me una prigione, insensato ripetersi di riti sempre uguali, in cui una donna invecchia e una giovane muore, coi sensi protesi alla vita di fuori, oltre le mura della casa da cui l’amore era fuggito. Così l’ancella fedele è ora svogliata e assente, mentre riflette sul malinconico destino che la vuole al servizio di una donna sola, che vive ogni giorno come fosse quello già finito e la cui solitudine è un funebre sudario che soffoca le domande che vorrei che mi facesse. Nelle sere vuote di comprensione in cui gli occhi non si specchiano più nell’affetto di un’amica, solo le mani distratte pettinano i suoi capelli, mentre la mente conta il tempo fino al momento in cui finalmente sarò sola, a seguire i sentieri di lacrime che rigano le mie guance. Ma ogni sera è più lunga e il trattenermi più arduo, finché una lacrima scivolò dal mio viso sulle sue spalle nude, dove il pettine accompagnava i lunghi capelli. Penelope si volse inquieta allo svelarsi del mio dolore che al suo sguardo si nascose voltando il viso: - Tu piangi e non è questo il tempo che tu debba passare in lacrime... Ti ho vista cambiare giorno dopo giorno e forse anche per te è venuto il momento, in cui il turbamento allo sguardo di un uomo, scatena inquietudini dolorose e sconosciuti desideri. Se è così parlami, che in queste stanze la regina è solo un’amica.Il suono della sua voce come per incanto aveva arrestato le lacrime, ma questo ancora non mi dava la forza per svelare il mio cuore, i cui turbamenti troppo la riguardavano perché le mie parole non potessero suonare offesa. Rimasi muta. - Devo aver pensato troppo a me stessa in questi giorni se solo ora mi accorgo, di aver perso la fiducia di un’amica. Ti leggo in viso il timore di non essere compresa e forse è anche giusto perché da troppo tempo ormai ho dimenticato il sapore di una lacrima versata per amore. Se la compagnia di questa donna stanca, non può alleviare il peso del tuo cuore, puoi ritirarti e cercare miglior compagnia in chi come te, può ancora soffrir di desiderio.La pena di quelle parole fece scomparire la mia e mi diedero la forza di parlare a una regina, così come si parla all’amica che ci ha deluso. PESCATORE Di quali offese posso parlarti Ulisse quando l’offesa più grande fosti tu a fargliela, abbandonandola negli anni migliori, per non esser da meno ai tuoi pari e rinnovandola a ogni bivio, quando il desiderio del ritorno sempre cedeva il passo all’attesa dell’ignoto. Di quali offese posso dirti Ulisse quando neanche l’attesa di vent’anni basta a colmare di gioia un ritorno. Così pensavo sorseggiando il vino, mentre il crepitare della legna sul fuoco scan-


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diva il silenzio, in cui il suo sguardo interrogativo macerava le passioni. Ma i miei pensieri non erano risposte per l’uomo che me le chiedeva, che non su di se mi interrogava, ma su altri in cui trovar ragione della pena che l’assediava. Da troppo poco tempo camminavo libero per aver dimenticato il parlare dello schiavo, che deve indovinare nella mente di chi lo interroga le risposte che da lui s’aspetta. Così con cautela mi risolsi a parlare: - Non v’è offesa Ulisse che tu non abbia già lavato nel sangue ma se neanche la vendetta ha placato il tuo dolore, lascia che sia il tempo a darti la pace che ti spetta e per favore ti chiedo, non far di me il sale che risveglia le tue ferite, narrandoti i giorni su cui la tua furia ha avuto ragione. Ciò che conta è ciò che già sai: nessuna offesa poté scalfire l’onore di tua moglie e neppure le ciarle ubriache del più infimo degli schiavi, poté in alcun modo macchiare la reputazione di Penelope. Null’altro posso dirti io che da schiavo, non ero uomo da guardar negli occhi una regina. Null’altro.Nei suoi occhi leggevo, la mia reticenza scoperta e la voce mi colse a capo chino, quando amara mi chiamò allo sguardo: - Qual’altra umiliazione vuoi che io sopporti, per poter udire la tua voce d’uomo piuttosto che le lusinghe d’uno schiavo. Un palazzo mi ha atteso per vent’anni e ancora mi attende, ma io spendo i miei giorni ad aumentare il debito di gratitudine, a cui la tua ospitalità mi obbliga: spero che ciò sia abbastanza per chiederti la grazia di guardarmi in viso. Ma forse ciò non basta a indurti a fare, l’unica fatica che la condizione servile non impone, quella di guardare nel padrone l’uomo e nelle sue pene le pene d’un amico.A quelle parole ebbi un sussulto perché ciò che allo schiavo era negato, ora gli veniva richiesto. Fu un attimo e Ulisse non se ne avvide, nella fatica di forzar con le parole la gabbia dell’orgoglio: - Allora ti dirò ciò che non sai, di come la vendetta placa l’odio, ma non fu certo l’odio che mi spinse al ritorno. Non per ansia di vendetta o di giustizia, rifiutai l’amore eterno di Calipso e su una zattera sfidai ancora l’ira di Poseidone. Non so se per te amore sia qualcosa, ma solo per esso io sono tornato, per il ricordo di occhi di bambina, che senza comprender sorridevano, quando ancor giovane riempivo il mio futuro, di sogni di gloria e di giustizia, che all’uomo danno il senso di una vita, fuor dal capriccio degli dei lontani. E bello era in quel tempo immaginare, ogni impresa audace come un gioco e poi al gioco stesso abbandonarsi, già pago del troppo sognare, quando il sognare è ciò che solo ci compete. Poi venni a Troia tra gli eroi in armi, a vivere l’audacia sognata per scoprire di come si corona nell’inganno, a far trionfare la giustizia offesa che pure si appaga di bottino, a conoscere la nobiltà dei re pronta a gonfiarsi a ogni brezza di discordia. Eroe fui io stesso, ma non così pieno d’ardore da essere cieco, davanti all’unico tronco, ritorto e ferito, da cui nasce l’audacia e l’infamia al tempo stesso e la giustizia e la meschinità e tutto ciò che umano. Da Troia partii dimezzato dell’unica ricchezza con cui ero partito, gli amici d’infanzia di cui ero capo, ma anche questi perdetti lungo il viaggio e di ciò ancora non so chi condan-


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nare, se l’incapacità di chi non seppe seguire o la presunzione di chi volle guidare. Quanto diversa la vigilia dal viaggio, quando a ogni bivio lasci il pedaggio, pagando ciò che sai con ciò che provi e solo nel ritorno trovi un senso, a un luogo e a una donna preservati, dalle tempeste che schiantano le navi, su cui da giovani partimmo sorridenti, oggi relitti a cui ci aggrappiamo stanchi. Per questo son tornato e ho fatto strage, non per giustizia o offesa subita, ma solo per far l’ultima fatica e poi dimenticare tutto quanto e solo ricercare ciò che lasciai, i giochi interrotti e i sogni svelati e colei insieme a cui presero forma.Ogni parola era stata detta con calma, come scelta dal caos della sua mente e quindi composta insieme alle altre, al solo scopo di porre un punto finalmente e non dire oltre, fuggendo il piacere da poco, di sguazzare nell’amarezza espressa. Dopo una breve pausa riprese: - Io non so se Penelope sia ancora lei e quando la guardo e per un attimo mi par di ritrovare il volto amato, io non so se il desiderio inventa solo ciò che si aspetta, immaginando abissi profondi in cui si cela il tesoro nascosto del suo amore o se invece l’altera e ignara donna che oggi appare è il frutto maturato da una pianta che non nasconde tesori alle radici. Son corsi vent’anni e non un giorno e di questo tempo io so così poco, che anche una parola mi è d’aiuto, purché sincera e detta senza timore. Troppo tempo ho vissuto senza il diritto di ascoltar nessuno, col solo dovere di seguire me stesso.Tacque, si versò da bere mostrando finalmente un volto sereno. ANCELLA Non c’era più traccia di lacrime sul mio volto, mentre ancora in piedi davanti a Penelope, chiudevo le porte all’infanzia con le parole pronunciate da una donna: - Come puoi credere Penelope che le mie lacrime siano acqua di attesa e desiderio, quando ho visto inaridirsi in un sol giorno, la sorgente che da sempre ha alimentato il ruscello nascosto della speranza. Nelle tue attese son cresciuta Penelope, in te che in silenzio ho visto maestra e sorella, quando nei giorni bui dell’offesa un solo spiraglio di luce filtrava e ad esso mi aggrappavo fiduciosa, che il tempo dell’amore sarebbe giunto a far da giardino al mio fiorire. Ora io ti chiedo cosa è accaduto, se ciò che conoscendo ho tanto amato, l’amore che alimenta ogni fatica, che da la forza di non subire oltraggi, che non si adagia in convenienze meschine, che resiste allo spazio lontano e al tempo infinito, quell’amore che ogni bambina sogna, si scioglie al sole che pur lo ha alimentato, quando questo svelato da ogni nube, finalmente si mostra coi suoi raggi. Se negli occhi di colei che mi fu guida, leggo che l’atteso ritorno cela solo la vanità di ogni promessa, allora cosa resta se non piangere al destino che ci offre solo la scelta, tra il subire degli uomini l’istinto e il ritirarsi nell’ombra silenziosa, a contemplare le rughe del volto nei cui solchi nascondiamo il desiderio. Se così


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non c’è ragione di sorriso e solo il timore della vendetta, giustifica la fedeltà con cui ti ho servito ed è ben poco.Ad ogni mia parola leggevo crescer lo stupore negli occhi di Penelope e tramutarsi quindi in amarezza, che al mio silenzio straripò come un fiume, che fuori dagli argini dilaga sugli orti e i campi a cui ha dato vita, quando pacifico scorreva nel suo letto. - Fa ciò che vuoi che a me non compete di dar consigli o di essere maestra, ne tanto meno mai dissi una parola che in altri alimentasse le illusioni, a cui da tempo io non do più fede. Ho atteso un marito perché era mio dovere, così come lui partì perché era il suo; ne ho rifiutati cento per disprezzo e in cento mi vollero per cupidigia e quando la notte al telaio, sentivo il piacere delle serve, che oltre la mia soglia si accoppiavano, per offendere il mio silenzio coi loro gemiti, non fu l’amore che trattenne la mano dal placare gli umori del corpo, ma solo la solitudine in cui il desiderio si specchia, per scoprir se stesso inutile e senza vita. E’ questo lo spiraglio di luce a cui t’aggrappasti fiduciosa? Ben altra luce t’auguro per il futuro, ma non aspettarla da me, che in aurora come in penombra guido i miei passi ciechi lungo un sentiero che torna su stesso. Di tante cose non so il perché, ne tanto meno me lo chiedo, usa a guardare la vita scivolare sui giorni, non sopporto chi mi scruta indagando, cercando un perché in ogni cosa, riempiendo dei suoi dubbi ogni silenzio, cercando in me conferme ai sogni, quei sogni in cui ognuno perde la sua vita, senza il coraggio di dire a se stessi che ciò che si fece fu solo ciò che si volle: attese fedeli e ritorni agognati, orpelli della mente di cui si fregiano i giorni, sempre uguali o diversi, in cui ci trasciniamo, seguendo le abitudini che al fondo più temiamo, ciò che da noi ci si aspetta e che in fondo vogliamo e a cui rinunciare è peggio che morire. In questo dov’è l’amore? Colui che per te è il sole dell’alba attesa, per me era il ritorno alla penombra amata, cessar di vivere come su un mercato, esposta come merce che ognuno può comprare, imponendo la sua vita nella mia, tramando contro un figlio non suo per dare il regno a un altro anche mio. Non so se sia natura, dei o chissà cos’altro, che ci impose l’altrui tutela ed arbitrio, ma almeno non si ammanti di passione ciò che anche una cagna sa fare, quando s’accoda al maschio vincitore. Quando l’uomo tornò a imporre il suo diritto, io l’ho accolto con serenità appagata, di chi contempla un ordine non scelto a cui s’adatta per trovarvi pace, libera dalla bestialità che s’azzannava fin sulla soglia della mia camera da letto; questo era il mio compito e quello il suo, fin da che uomo è uomo e donna è donna e se in ciò ognuno è solo io non lo temo, non più di quanto tema le notti senza luna, quando non oso guardar la nera cappa che ci avvolge e mi stringo con forza alle pareti e saldo i piedi in terra, a quella terra muta e aspra, di fango e pietre, da cui tutto nasce e a cui tutto torna, dopo aver viaggiato nel cielo dei sogni.Ero ferita. In silenzio mi volsi a uscire da quella stanza, in cui il desiderio non entrava, ma Penelope con dolcezza mi prese la mano e mi trattenne, mentre io non osavo liberarmi


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da quel contatto così inusuale, quando le dita mi sfioravano il palmo: - Non andar via non ho finito, sopporta ancora un poco le parole, crude ma vere, di chi nel silenzio ha seppellito una speranza di cui ha perso il nome e che ora parla, senza saperne il motivo, ma sentendosi ridiventar concreta, oltre i gesti e i riti quotidiani, in cui combatto il vuoto scomparendo, semplice ombra che al sole cresce per scomparir la notte, senza mai dar essa luce intorno. Lascia che io ti dica come accadde che l’uomo ritornato, ripartì, lasciando dietro se solo i suoi dubbi, oltre alle chiacchiere di cui certo non si cura. Le sento anch’io le ciance bisbigliate di serve sciocche e rozzi pecorai, che al mio giaciglio vuoto fanno lazzi e non diverso al mio sentire suona, l’attesa di un amica che mi scruta, delusa nel vedermi senza amore; quell’amore la cui vetta è raggiunta, nel bramoso contatto dei corpi, quand’uno si afferma e l’altra si perde, entrambi grati per quell’attimo di intenso in cui ognuno è se e pure l’altro, regina o ancella, servitore o re e infine solo carne, che al tocco sapiente delle dita, canta deliziata il suo piacere, ignara e viva come una vela al vento. Di tutto ciò come ogni altra donna ho conoscenza e ad ogni uomo posso darne esperienza: per viver questo non c’è da attender vent’anni e una volta attesi non c’è da perderli con dinieghi. Non è questa l’esperienza attesa che in vent’anni Ulisse non ebbe a mancarne e anch’io volendo avrei avuto di che scegliere, non meno di ogni altra prostituta, che in vent’anni approfittò della mia clausura. Se non lo feci è solo per Telemaco, il cui danno non sarebbe stato minore, sia nell’aver sua madre sposa a un altro che suo padre non fosse, sia di vedersi attorniare da fratelli figli del solo piacere. Quando alfine Ulisse fu tornato, a lui come a ogni altro mi sarei data, a lui più che a ogni altro per il suo diritto, con lui come ogni altro avrei potuto, coronare ciò che ognuno chiama amore. Ma non questo mi fu chiesto, ma altro a cui non so dare un nome, forse un’attesa ch’io fossi qualcos’altro, forse un enigma a me ignoto, comunque qualcos’altro, più di me e oltre me capace, di placare i tormenti di un uomo, che vive se stesso incompleto, stretto nella sua carne come in gabbia, obbligato a giustificar se stesso con l’agire. E di tutto ciò io non so dar ragione. Ora è di nuovo lontano, per fuggire o cercare qualcosa io non so e non ho mai saputo ne, ormai, ho interesse a sapere.La mano che aveva tenuto la mia lentamente aveva sciolto la presa, perdendosi come le sue parole lontane e in parte oscure e io sentii il disagio del testimone, a cui i fatti non danno emozioni e solo quando il suo sguardo si illuminò incontrandomi, compresi l’affetto che le sue parole non mostravano. La sua mano mi sfiorò una guancia mentre la voce risuonava amica: - E’ adesso dimentica ciò che dalla mia bocca è uscito, cerca miglior compagnia di questa donna sola e godi di ciò che la vita ti da, senza badare a ciò che ti promette; cerca le braccia forti e le labbra avide di chi sappia nel silenzio far cessare ogni attesa, fino a che nel tuo ventre la vita nascerà misteriosa e tutto continuerà senza inizio ne fine.Uscii da quella stanza confusa e un po’ impaurita, come al mattino in cui il sangue delle mie viscere aveva chiuso la porta ai giochi di bambina.


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PESCATORE Quando il destino ci pone su una vetta, soli a guardare l’orizzonte lontano, appagandoci della sua grandezza, forse non dovremmo tendere le braccia a cercare di coglierne la sostanza, ma in silenzio accogliere la divina illusione, paghi della visione che per privilegio ci fu data. Questo pensai sentendo l’uomo, che confuso cercava sulla terra, ciò che a lungo l’aveva guidato nel gran mare. Ma ora egli sorrideva, come colui che a lungo ha sopportato sulle spalle un peso e finalmente libero comprende il piacere del passo leggero. Ma a quel sorriso che aspettava parole, cosa potevo dire io che neanche dell’amore di mia madre avevo ricordo, volto di lacrime confuso nei lamenti, del giorno di razzia in cui nacqui schiavo, in una terra lontana che non so. Riempii il boccale e bevvi a brevi sorsi e il tempo del silenzio scandivo ad ogni sorso, perché il vino desse forza alle parole, che a mente fredda non osavo pronunciare: - Tu mi chiedi se la donna che lasciasti è la stessa da cui ora invece fuggi, ma di questo io non posso dirti più di che ciò che seppi, raccogliendo gli avanzi dei banchetti, dove ogni sera un pretendente vantava il successo imminente, mentre un altro nel silenzio irato, subiva le beffe per le deluse vanterie della sera prima. Quand’ella con lo sguardo trapassava, gli uomini giunti da ogni isola lontana che a lei recavan doni e una richiesta, io mi sentivo al pari di ogni principe, che come me, da lei era negato. Uomini tutti noi eravamo e questo ci rendeva trasparenti, uguali e inutili agli occhi di colei, la cui virtù offendeva anche il buon senso. Penelope fu virtuosa se questo vuoi sapere, per quanto io non sappia che cosa sia virtù. Se virtù è l’indifferenza alle passioni, certo più virtuosa è la prostituta, per cui ogni piacere è una tariffa. Ma io non so nulla di regine o principesse, da schiavo ho conosciuto solo femmine, anime impaurite dalla vita, che usano come possono quel che hanno, neanche guidate dal naturale istinto, che col calore fa scegliere alla cagna, quando e con chi è il momento d’accoppiarsi. Da schiavo so guardar la sofferenza e la vigliaccheria meschina che ti salva, e il calcolo e la lusinga falsa e le mille arti a cui il timore insegna a farti esperto. Che sia forse questa la virtù femminile e il darsi o negarsi senza mai scegliere, se non il minor danno e minor rischio, indifferente a ciò che non capisce, la libertà che pur lo schiavo anela e per cui mai donna giocò la propria vita, la giustizia per cui gli uomini si scannano e di cui la donna comunque diffida, indifferente a ciò per cui tu Eroe inseguisti il tuo destino per vent’anni. E’ questa forse la virtù femminile, sia che tu la incontri gemente tra le braccia di un padrone ubriaco, sia che essa ti appaia altera a disegnare trame su una eterna tela.Alle ultime parole riempii di nuovo il bicchiere e mentre con il vino risvegliavo, l’amara vita che m’aveva reso saggio, l’occhio scrutava nello sguardo dell’altro, quanto la mia lingua fosse andata oltre. Ma egli, in silenzio era in attesa: - Ma non pensare ingiuste le mie parole, che altre ancora non le ho pronunciate. Della sublime follia non ho ancora detto, che fa generare schiavi ad una schiava, arricchendo il


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padrone che li vende, di questo istinto ignobile alla vita che non si cura di come essa sia, paga soltanto di continuare a perpetuarla. E’ forse questa la virtù femminile che si difende da ciò che non la riguarda, ripiegata su di se a contemplare, l’eterno ciclo di cui non v’è ragione, compito ingrato che non da spazio a scelte con cui invece si baloccano gli eroi. E’ questa la virtù femminile che io conosco, una virtù lontana per cui mai avrei sognato dieci anni un ritorno, quindi io non so di cosa parli, ne tanto meno so cosa dirti. Ma ormai è il vino che parla e io lo lascerò parlare. Nella offesa del vivere che tutti opprime, l’uomo con violenza si esprime, generando eroismi e crudeltà, grandi ideali e brama di potere, impeti di forza che puntano alla meta, soddisfazione e fine di ogni viaggio, addirittura la morte, purché appagata dalla vittoria, quand’uno su mille completa il suo cammino, lasciando il seme da cui la speranza nasce. Ma tutto ciò che fa grande l’uomo e fra gli uomini lo elegge, è un gioco di bambini che solo la madre inorgoglisce, quando le grandi imprese del figlio ricorda, al pari del suo primo balbettare. Ciò che tu sei agli occhi di una donna è mistero, schiavo o grand’uomo, tiranno o innamorato, ciò che tu dai non è ciò che lei prende e come il palo a cui la vite si lega, così l’uomo è solo il sostegno proteso al cielo, per chi trae alimento dalle viscere della terra. E’ forse questa la virtù femminile, nascere, generare, morire e tutto ciò che è intorno è solo dolore e vanità, da cui fuggire nell’oblio, di cui approfitta chi, almeno per una notte vuol sentirsi re, padrone o eroe di qualcosa e dal corpo su cui giace misura i gemiti della propria gloria. Questo ho imparato dell’amore e di questo ho fatto esperienza nella tua casa, tra le disgraziate che tu uccidesti perché infedeli, mentre io ne porto il ricordo di piacere, quando schiavi, ubriachi, miserabili, subendo l’arbitrio di chi può, in ogni angolo ricavavamo un’alcova, io per rubare ancora qualcosa al mio padrone, lei forse per dimenticarne l’esistenza, io pronto a scampare il suo bastone, lei a placarne la rabbia, offrendogli il piacere da me regalatole. Poi tu venisti e il suo sangue pagò l’infedeltà, mentre il suo ventre portava un altro schiavo, un bastardo che non sapevo se mio e di chi altro, col sangue di un principe e di uno schiavo ribelle, mescolati nel vaso accogliente di un corpo caldo, unica ricchezza e difesa di una vita inerme. Questo io so dell’amore e tu me lo insegnasti, quando non piansi per ciò che già avevo perso ma gioii per ciò che mi rimaneva. E di ciò non ho vergogna, perché io schiavo al margine del branco, rubo ciò che posso alle giumente in calore, ma ho visto con i miei occhi il nobile stallone, uccidere a calci il puledro non suo che distoglie la femmina dai suoi ardori. Tu hai chiesto a un uomo di parlare e io l’ho fatto, ma non credo che tu possa trar vantaggio dalle mie parole. Tu hai una vita non cercarne altre, che il dolore proprio basta alle proprie spalle e quello altrui scivola e si perde, lasciandoci solo più stanchi nel cammino. Ed ora lo schiavo è stanco, lascialo dormire che il vino ha preparato, la tranquilla nebbia in cui il sonno è guida.-


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Quando al mattino mi svegliai ero di nuovo solo, pentito delle parole che squarciando il cielo della verità, avevano scacciato la foschia autunnale della nostra amicizia. Non so in realtà cosa volesse da me, ma vidi ciò che ebbe: solo il dolore, imprevisto e ingiusto, che dà la colpa appresa troppo tardi; e con esso la viva, disperata, quotidiana e coraggiosa rassegnazione al proprio destino. ANCELLA Mi accorsi del mattino in cui ebbe inizio la mia vita, dal disagio che provavo in quella altrui, quando nella stanza di Penelope l’aiutavo a vestirsi e la vedevo così come era, donna sola e senza speranza, il cui sorriso non faceva promesse, ma solo rischiarava la penombra di reclusa, sole autunnale che illumina alberi spogli, che non attende primavera ne rimpiange l’estate, di cui non serba altro ricordo se non il vuoto lasciato, in cui il freddo si insinua. Delle parole della sera prima non era rimasta eco e l’aspra confessione non ci faceva più vicine, come se le parole pronunciate potessero inventar da sole i dubbi e inseguendoli trascinar noi stesse oltre il recinto degli attimi consueti, al cui riparo vive l’amicizia. Mentre la vestivo immaginavo i tanti giorni a venire, quando sul suo corpo avrei incontrato ogni mattina un nuovo segno, che implacabile avrebbe annunciato l’andare del tempo e non il suo ritorno. A che pro fuggire il dolore che accompagna l’amore, la crudeltà che ignaro l’eroe semina, ogni tempesta che al calor delle passioni monta, negando il tempo che di ciò si nutre, tentando di imbrigliarlo nei gesti sempre uguali di ogni giorno, quando poi il tempo lo portiamo dentro noi e parla nei segni sotto gli occhi, in una linea contratta sulla fronte, in un seno avvizzito in uno specchio, in un corpo che non si osa più specchiare. Quand’ebbi assolto ai miei compiti e fui libera, mi incamminai da sola verso il mare, dove le barche dei pescatori erano in secca e reti e lenze riposavano riposte, mentre gli uomini dividevano il magro frutto di un’ultima pesca d’autunno. Il vento soffiava a scacciare le nubi, liberando un sole inerme che non scaldava le creste bianche sul mare agitato, ma ancora dava luce a risaltare la mia bianca veste tra i sempreverdi e le rocce. Dal sentiero che sovrastava la spiaggia li guardavo, di età diverse e di diverse attese, seduti in terra infreddoliti e stanchi, ma non al punto di non volger lo sguardo e sorridenti salutare il mio apparire, che risvegliava il pensiero più riposto, quel desiderio che della vita è premio e non attende primavere per mostrarsi, che non cerca giardini in cui fiorire, ma si alimenta di fatica e solitudine, tanto più forte e impetuoso, quanto più aspra è la terra da cui nasce. Volsi le spalle e tornai sui miei passi, intimorita dalla mia stessa audacia, sentendo gli sguardi seguirmi ben oltre la vista e trasformati in pensieri accompagnarmi lungo il giorno a venire, che correndo andava al mattino nuovo, in cui sulla spiaggia avrei portato acqua a lenire la sete del ritorno e a cercare lo sguardo di colui il cui sorriso m’avrebbe riscaldato nell’inverno.


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INVERNO Mercante:- Ti saluto Laide e spero che la tua casa sia un piacevole asilo per il viaggiatore che vi cerca rifugio, dopo un lungo pellegrinare fra i porti barbari dell’occidente.Etera:- O guarda chi si rivede, Timocle; ne è passato del tempo prima che ti ricordassi della tua Laide. In quali bettole hai speso il tuo tempo, perché non te ne rimanesse abbastanza da far visita a chi ti aspettava in solitudine e nel frattempo affogava nella povertà vergognosa delle donne abbandonate?Mercante:- L’ultimo tuo abbandono non è di molto tempo fa, dato che or ora ho visto il giovane Egesandro, soddisfatto e appagato, uscire dalla porta da cui io sono appena entrato.Etera:- Beh, che ne vuoi sapere? Una donna sola può vivere solo della generosità dei suoi amici, e quanto più è piccola la generosità tanto più deve avere molti amici; tu vecchio spilorcio dovresti ben saperlo, che non ti manca il denaro per avermi in esclusiva e risparmiarmi il fastidio di bambocci intemperanti e per giunta anche gelosi.Mercante:- Anche geloso Egesandro? Beata gioventù, quando la borsa è vuota e il cuore è pieno...Etera:- Beata la vecchiaia, quando l’uomo e pronto a pagare molto per quel poco che gli abbisogna!Mercante:- Quel che m’abbisogna è un bicchiere di vino, il caldo d’un braciere e quello del tuo giaciglio, spero che in mia assenza tu non sia diventata esosa e che la tariffa non sia aumentata. Van bene 50 dracme?Etera:- Vecchio avaraccio inveterato, credi di essere in uno dei tuoi porti barbari, a mercanteggiare sul prezzo della merce? La casa di un’amica ti è sempre aperta, almeno fin che la povertà non la manderà in rovina. Piuttosto che mi porti dai tuoi viaggi, non ci son profumi o vesti di porpora nelle terre da cui vieni?Mercante:- Ne profumi ne vesti di porpora, ma solo schiavi ribelli e servi infingardi, tempeste e pirati, poco guadagno e tanta fatica e se non fosse per la curiosa follia del mondo che si incontra, già da un bel po’ mi sarei ritirato.Etera:- Quanto a questo il mondo è curioso anche a guardarlo dal chiuso di un’alcova. E se a viaggiar non si guadagna nulla, è meglio starsene a casa propria a badare ai propri affari.Mercante:- Bella filosofia la tua, chissà che anche Ulisse oggi non ti dia ragione.Etera:- E chi sarebbe questo Ulisse, uno dei tuoi barbari?Mercante:- Ecco che succede a badare solo ai profumi e alle vesti di porpora, si finisce ignoranti e l’ignoranza porta alla miseria.Etera:- Che c’entra Ulisse con la miseria? Timocle, se ti vuoi beffare di me, bada che 50 dracme sono poche.Mercante:- Ulisse non c’entra niente, ma l’ignoranza c’entra eccome. Come vuoi pretendere che un ricco mercante o un nobile ti prendano come amante, se neanche sai quel mi-


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nimo che serve a conversare in un banchetto; che figura ci farebbero a portare in giro una femmina che non sa ne parlare ne stare zitta. Così come sei vai bene in un letto dove un po’ di gemiti e guaiti fanno felice un uomo, ma per fare un etera di lusso ci vuol altro; poi quando la gioventù comincerà a lasciarti e tra i postriboli del porto ci sarà qualcuna con i seni più ricchi, eretti e puntuti dei tuoi, allora arriverà la povertà, ed il rimpianto per il tempo in cui la tua bellezza, se ben investita, poteva fare la tua fortuna.Etera:- 50 dracme e una paternale. Ma intanto i miei seni li stringi eh?Mercante:- Beh, di che ti lagni non t’ho forse pagato?Etera:- Ah vecchio maiale, dov’è la tua sapienza?Mercante:- La tua l’ho già trovata...Etera:- Sotto la veste l’hai trovata.Mercante:- Porgimi la mano, ti voglio fare un dono...Etera:- Lo conosco il tuo dono... oh, lo ritrovo meglio di come lo lasciai!Mercante:- No, aspetta, distenditi, no, oh,... oh... ah...Etera:- Che irruenza Timocle, un giovane non può starti dietro, il desiderio in te trabocca e non lo si può contenere. E’ questo che mi piace nell’uomo maturo, che non si perde in giri e fantasie, ma prende il suo piacere con furia e...Mercante:- E velocemente.Etera:- Che è, non t’è piaciuto? Dai ti porto del vino e riattizzo il fuoco, che il freddo comincia a farsi sentire; poi mi dirai di quel tuo Ulisse e di quello che vorrai e io ti ascolterò curiosa e quando sarò sapiente e istruita, tu potrai portarmi ai banchetti dei tuoi amici e io sarò la tua amante e solo la tua.Mercante:- Adesso il quadro è completo, c’è anche la fedele Penelope.Etera:- Ah questa la conosco, anche se è una storia vecchia di cui sentii parlare da bambina: era una regina e fu abbandonata e passò tutto il suo tempo al telaio in attesa del ritorno. Non è mica vera, no?Mercante:- Ma certo che è vera, e Penelope l’ho incontrata più volte nei miei viaggi. Dai stenditi vicino a me che il tuo corpo mi riscalda più di quel focherello. Certo che le donne chi le capisce è bravo, non sai nulla di Ulisse ma ti ricordi di Penelope... a volte mi chiedo se viviamo nello stesso mondo.Etera:- Ancora questo Ulisse, insomma vuoi dirmi chi è o devo cavarti le parole di bocca?Mercante:- Che è tanta curiosità? Attenta che posso mettere una tariffa alla mia sapienza, che chi ha da dare qualcosa ha ben diritto di chiedere qualcos’altro in cambio.Etera:- Buono con le mani, che lo scambio non è alla pari: la mia merce è di sostanza, la tua è fumo di chiacchiere.Mercante:- Che è l’ardore di Egesandro ti ha spossata? Era solo una carezza...Etera:- Si, ma nel posto sbagliato. Insomma se vuoi la mia compagnia, devi stare buono, bevi il tuo vino, e raccotami una storia, altrimenti conosci la tariffa.Mercante:- Ma ho già pagato!Etera:- E hai già avuto.-


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Mercante:- Femmina avida, dovrei lasciarti ai tuoi amanti squattrinati, ma fuori fa freddo, ho una casa vuota...Etera:- E io sono la tua Penelope che ti aspetta fedele.Mercante:- Si, ridi pure, ma vedrai se un giorno...Etera:- Oh un giorno, un giorno; un giorno sarò vecchia e tu te ne prenderai un’altra e a me non resterà altro che far la tela. Insomma com’è questa Penelope, sarà vecchia ormai.Mercante:- Meno di quel che pensi, e ancora piacente. Certo che una regina non è il tipo di donna da farti venire certi pensieri.Etera:- Perché che tipo di donna è una regina? Non ce l’ha mica di traverso.Mercante:- Come ce l’ha non lo so e nemmeno voglio saperlo, vista la fine che hanno fatto quelli che ci hanno provato, però lei è diversa o almeno così sembra.Etera:- Allora qualcuno ci ha provato.Mercante:- Tanti ci hanno provato, tutti i nobili rampolli di Itaca e delle isole vicine la volevano in sposa, più per interesse che per amore ovviamente, ma lei ha resistito a tutti per anni e anni.Etera:- A tutti tutti ?Mercante:- Non ero nel suo letto ma così si dice, e nessuno oserà mai dire altro visto quel che ha fatto Ulisse quand’è tornato.Etera:- Allora Ulisse era il marito; ed è tornato alla fine. Mercante:- E’ tornato, è tornato purtroppo e una bella piazza d’affari se ne è andata in malora; ma è meglio non lamentarsi che ad altri è andata peggio. L’ultima volta che son giunto ad Itaca, la bella nobiltà di manica larga con cui facevo affari era sparita e di loro era rimasto solo il ricordo del massacro che ne aveva fatto Ulisse. Un viaggio a vuoto.Etera:- Ma chi è questo Ulisse? Prima sparisce, poi ritorna e ammazza tutti, una donna l’aspetta per vent’anni e nel frattempo non si prende neanche un po’ di divertimento. Ma poi che aveva fatto durante tutto il tempo in cui era stato lontano?Mercante:- Se ne dicono tante, ma per lo più son favole. Partì al tempo della guerra con i Troiani, quando questi interrompevano i nostri traffici con l’oriente; la guerra andava per le lunghe, ma alla fine Ulisse seppe cavar tutti dagli impicci e con un tranello entrò nella città nemica, ne aprì le porte e chiuse la partita. Già all’epoca non era tipo da avere come nemico; poi le cose si fanno confuse e l’unica cosa certa è che dopo la partenza da Troia non fece ritorno a Itaca, se non molti anni dopo e senza nessuno di quelli che l’avevano seguito. Certo che neanche lui doveva essere del tutto a posto e un po’ di tempo dopo il suo ritorno, abbandonò il palazzo, gli affari e la regina, e si ridusse a vivere nella capanna di uno schiavo liberato... pescava.Etera:- E Penelope?Mercante:- Lei a star sola c’era abituata e anzi dopo il massacro dei pretendenti sembrava stare anche meglio... Beh la storia l’hai avuta, adesso vuoi essere un po’ gentile?Etera:- Aspetta, fammi capire, lei l’ha atteso per vent’anni, lui è tornato dopo vent’anni, un bel po’ di gente ci ha rimesso la pelle e loro non vivono neanche insieme?-


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Mercante:- No, alla fine è tornato; forse non sopportava più la puzza dello schiavo e del suo pesce. E’ stato poco tempo fa, all’inizio dell’inverno, proprio mentre io ero li: ero ospite nella casa di Telemaco, il figlio di Penelope, quando una mattina al risveglio sentii i servi che commentavano il secondo ritorno di Ulisse. Questa volta non aveva fatto alcun macello, ma presentatosi all’alba, da solo sulla soglia di casa, aveva ordinato qualcosa da mangiare e poi era andato a stendersi su un giaciglio; il sole era già alto, ma nessuno aveva osato svegliarlo. I servi dicevano che era lacero come un mendicante, ma fu subito riconosciuto.Etera:- Allora anche tu l’hai visto? Che tipo d’uomo è?Mercante:- Nei giorni successivi le condizioni del mare erano tali che non consigliavano la partenza, ed ebbi modo più volte di vederlo e soprattutto di sentire ciò che dicevano di lui. Non dormiva con sua moglie e anzi pare che lei stessa facesse in modo che una giovane serva soddisfasse le sue necessità; durante i banchetti non ascoltava i discorsi dei convitati, ma sembrava concentrato e attento solo a ciò che mangiava o beveva; ascoltava i musici e seguiva i danzatori e sembrava goderne serenamente. I servi raccontavano del molto tempo che passava davanti al focolare, attizzando personalmente il fuoco, con la sola compagnia di una tazza di vino. Pare che dopo il suo ritorno abbia fatto una sola domanda, il nome di una serva incinta tra quelle uccise al tempo del suo ritorno, ma nessuno se ne ricordava; qualcuno sussurrava che fosse pazzo, ma altri credevano che fosse un trucco, un inganno.Etera:- Voleva forse ingannare Penelope? Indurla magari a una confessione, forse un dubbio gli macinava nella mente e attendeva una parola da lei, ma non osava chiederla, e poi chi era questa serva.Mercante:- Ma chissà, cosa vuoi che ne sappia..., ma non pensavo che ti interessasse tanto questa storia.Etera:- E’ una storia strana.Mercante: -E neanche allegra dopo tutto. Dimmi piuttosto di Egesandro e della sua gelosia. E’ generoso almeno?Etera:- Per quel che può, ma non è ricco. Ma poi a te cosa interessa? Non sarai mica geloso anche tu. Dimmi di Penelope piuttosto.Mercante:- Cosa vuoi che ne sappia io di Penelope? Non è il mio tipo dopotutto.Etera:- Perché cos’ha di diverso da me per esempio.Mercante:- Beh, è più vecchia.Etera:- Ma è ancora bella.Mercante:- Non come te.Etera:- Le mani! Non puoi star fermo una buona volta. Dimmi di Penelope sono curiosa. Il tuo Ulisse, va e viene, è pazzo o si finge pazzo chi lo sa, e lei se ne sta li a guardare senza dire e fare nulla?Mercante:- E cosa dovrebbe fare, Ulisse è suo marito.Etera:- Appunto perché è suo marito. Se una donna vuole... altro che mandargli la serva.-


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Mercante:- Ma forse lei non vuole. Forse non vuole più, forse non ha mai voluto, cosa vuoi che ne sappia io di quel che passa per la testa di una donna. Stai diventando noiosa.Etera:- Scusa, pensavo fossi tu il sapiente e io l’ignorante.Mercante:- Che è, anche il tuo sarcasmo è compreso nelle 50 dracme?Etera:- Il tuo umore si fa cattivo e non ne vedo il motivo. Parlavo per parlare, non te la prendere; se avessi saputo che questa storia ti turbava...Mercante:- Scusami hai ragione, ma le tue domande hanno risvegliato le mie, le domande che mi feci quando alla fine vidi quell’Ulisse di cui avevo tanto sentito parlare, uno dei tanti a cui la fatalità si svela troppo tardi. Dicono che abbia rifiutato la vita eterna e l’eterno amore di una ninfa, solo per tornare dalla donna che amava: oggi forse sarebbe contento di pagare le sue 50 dracme e prendere ciò che la vita offre senza pretendere altro. L’amore di una donna è più insondabile di tutti i mari ignoti in cui si dice Ulisse abbia navigato.Etera:- Forse se invece di navigare per mari ignoti le fosse stato vicino...Mercante:- Forse, ma forse anche no, chi lo sa? Gli uomini, le donne, in una stagione si incontrano, son pronti a legarsi per una vita, costruiscono le abitudini, le regole, la quotidiana cantilena che li rassicura, che li guida lungo un sentiero già segnato, e che a questa cantilena si adattino o vogliano fuggirne, sempre ad essa fanno riferimento, perché è la loro vita, così come la videro in un giorno di gioventù. Etera:- Che vuoi dire, che ognuno è schiavo di qualcun altro, che l’amore...Mercante:- L’amore, l’amore, il fiore più bello della giovinezza e anche quando non da frutti e appassisce e muore, i suoi petali secchi te li ritrovi nei sogni della notte o peggio, nello sguardo di qualcuno che chissà perché, ti accompagna nella vita.Etera:- Cos’hai? Non t’ho mai sentito parlare così.Mercante:- E infatti non devo parlare così, non a te soprattutto che sei giovane, bella e di amore dovresti saperne più di me.Etera:- Che vuoi che ne sappia io dell’amore? Fin da bambina mi hanno insegnato a tenermene a distanza, sentivo le mie compagna più grandi ridere, quando d’una di loro si diceva che fosse innamorata; non è l’amore che ci da da mangiare e anzi ne ho viste che per amore di un uomo si sono rovinate.Mercante:- E Egesandro? Se è geloso forse è perché ti ama.Etera:- Quello, non è migliore del tuo Ulisse; a volte mi tormenta, quasi al punto che debbo cacciarlo di casa, anzi una volta l’ho veramente cacciato, ma lui s’è piantato davanti alla porta e non s’è mosso di li per tutto il giorno e la notte, pronto ad azzuffarsi con chiunque osasse guardare alla mia finestra; all’inizio era divertente, ma con divertimenti così è meglio cambiare lavoro. Alla fine era così stanco e assonnato che l’ho fatto rientrare, si è buttato sul letto ed è crollato; poi al mattino dopo non c’era più, se ne è andato senza nemmeno salutare. Alle volte scompare per settimane, anche se so che non è andato via dalla città; la prima volta ero anche preoccupata, pensavo fosse malato, ma non potevo chiedere di lui alla famiglia e i suoi amici non mi dicevano nulla.Mercante:- Ti preoccupi per la salute dei tuoi clienti?-


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Etera:- E tu ti diverti a prendermi in giro? Facevo bene a non dirti nulla. Bada che posso cacciare di casa anche te.Mercante:- No, no, con la bufera che c’è fuori. Ritiro tutto e ascolto rispettoso.Etera:- Non c’è proprio nulla da ascoltare.Mercante:- Femmina ostinata, passami la borsa, pagherò di nuovo.Etera:- E’ inutile, non ne ho voglia!Mercante:- Cosa sentono le mie orecchie. Rifiuti del denaro?Etera:- No, cioè… non so…_Mercante:- Cos’è, il pensiero di Egesandro che ti intristisce, o forse Penelope ed Ulisse ti han confusa.Etera:- Sei tu che mi confondi, parli di amore e fatalità, di petali secchi, mi chiedi di Egesandro, ma l’unica cosa che vuoi e toccarmi tra le cosce.Mercante:- A dirla tutta vorrei qualcosina in più che una semplice… toccatina.Etera:- A questo ti serve tutto il tuo viaggiare, vedere terre, incontrare re e regine, a questo ti serve, a elemosinare come un bambino un piacere a pagamento? Con tutta la tua conoscenza e le tue chiacchiere, non vali più di Egesandro infine.Mercante:- Già… e almeno lui è giovane. Laide, adesso sei tu ad intristirmi, e non è per questo che ho pagato.Etera:- Hai già avuto ciò per cui hai pagato, non ti lamentare. Se ti rendo triste vattene, per me è lo stesso.Mercante:- Si può sapere che t’ha preso? Comunque di certo la colpa è mia, son io che ti parlo di cose che non puoi capire; adesso basta con Ulisse, Penelope e le loro follie, se sarai carina ti farò un bel regalo, ti va?Etera:- Ti ho già detto che non mi va!Mercante:- Va bene, ho capito, non insisto, questa è la lezione che mi merito... ognuno al suo posto, chi vende e chi compra, la merce e il denaro, un onesto mercato e le parti soddisfatte, e invece ecco qua, un vecchio deluso e una bambina imbronciata.

PRIMAVERA Gli uomini che mi temono, mi hanno dato un re, un re temibile di tridente armato, gli stessi uomini che nulla rispettano, quel re hanno offeso. Da secoli, in ogni luogo, si canta l’eroe che sfidò il mio re, ne violò i domini, ne accecò il figlio, sopravvisse alla sua furia, e vivo infine ritornò alla sua terra. Ma questa è solo una delle mille storie che ho visto, nelle mille terre che lambisco, nei mille tempi che ho passato, io che non ho nessun re da offendere, perchè di nessun re son suddito, perchè il mio regno è troppo vasto e profondo, non mi curo di chi mi sfida e si esalta, nella presunzione di dominare la mia immensità, di attraversare le mie tempeste, di saccheggiare la vita che accolgo, non mi curo di chi vive o muore tra i miei flutti, ma pure anch’io, che son specchio in terra dell’infinito cielo, trovo il mio limite, laddove il mio mistero a un altro più profondo cede il passo. Chi regola le sue passioni, i furori e le bonacce, al ritmo regolare delle stagioni, non subisce gli assalti


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improvvisi, gli slanci e le cadute, le angosce e gli entusiasmi, che dell’uomo son la vita, ne da essi ricerca il senso e la ragione, per il tempo immotivato che gli accade di vivere. Così nella storia del più ardito tra gli umani, non mi curo di ciò che per ognuno è esempio e insegnamento, ma non mi sottraggo alla domanda su ciò che pose un limite al suo ardore. L’ho visto orgoglioso alla guida di uomini e navi, l’ho visto disperato nel naufragio di una zattera, l’ho visto lenire il dolore, nell’umile fatica della pesca, lo vedo rassegnato rivolgersi a me, ora che il primo sole primaverile, scalda il trasparente cristallo con cui mi offro, dopo la furia delle tempeste invernali. E solo io son testimone del giorno di risveglio, quando al cinguettare delle rondini tornate e al fiorire degli arbusti tra la duna, Ulisse finalmente si scosse dal torpore invernale, e ai sensi finalmente vivi, chiaro apparì il punto della vita oltre il quale nessuna curiosità l’avrebbe più guidato. Quando l’aspra dignità con cui uno schiavo cela il suo dolore, si impone sulla furia di un re, null’altro rimane se non accettare ciò che ci è dato da vivere senza nulla pretendere o sperare; quando l’ardore di passioni estenuate si esaurisce nel prosaico sollievo che danno un pasto e un giaciglio, allora è solo il corpo a guidarci, ed esso ben poco chiede; quando i sensi placati dalle arti di una schiava, vuoto ti lasciano di fronte a una regina, allora quale amore ti ha guidato nel ritorno; e infine, quando il passo, perso l’usuale slancio, conosce disgraziato il primo affanno, allora cos’hai più da cercare nel tempo a venire, se non i segni del declino. Questo fu di Ulisse il risveglio e solo io, il sole, il cielo, la brezza, i fiori e le rondini, facemmo commento a tanta sapienza. Lontana, di terra e ombra, da tempo al mio fascino non cedi, da quando fui compagno del tuo sposo che su di me misurò cos’è esser uomo, da quando con il vento portai la brama avida e insolente dei proci, da quando tuo figlio a me si affidò per cercare un padre e cessare d’essere figlio. Da tempo da me non ti lasci sedurre e illudere, e saggia non cadi nell’inganno a cui nemmeno l’astuto Ulisse ha saputo sottrarsi, quell’inganno che sempre induce ad andar oltre, verso quel luogo in cui gloria e giustizia, bellezza e pace e ogn’altra cosa, finalmente si trova, e sempre su una sponda lontana. Ma tu di ciò non ti curi, sapendo che su ogni sponda tanto al mendico quanto al re, tanto al sapiente quanto allo stolto, il fato casualmente dispensa l’angoscia e il dolore, la gaiezza e il piacere, ed a nessuno il sollievo d’incoscienza che pure alla bestia è dato. E perché poi affrontar le mie tempeste quando su ogni sponda al tuo sesso solo compete, l’attimo sublime o ignobile in cui la vita si perpetua, il mistero che la fanciulla conosce quando nel suo ventre il miracolo si compie, la bellezza di una madre quando al seno allatta. Eppur quando la brezza salata giunge alle tue stanze, ti sento, cedere alla mia carezza, e spossata di tanto sapere, a un desiderio d’abbandono abbandonarti. Svegliati Ulisse e guarda al mondo in cui sei tornato. Gli dei, che il tuo viaggiare ha svelato, non più guidano l’avventura degli eroi, ne dignità, sapienza e giustizia, indicano all’uomo la via della gloria o del martirio, svanite son le trame della storia, in cui l’agire umano cerca un senso, Di questo sei testimone Ulisse, come ogni uomo, che al sole del giorno illuso s’affatica, e nel crepuscolo deluso si rassegna. Questo è il tuo mondo Ulisse, un isola in cui ogni giorno è uguale all’altro, ognuno ha il suo posto stabilito, lo schiavo alla fatica disperata, il ricco al suo denaro teso, e tu di tutto ciò saresti il re. Ma ciò non vuoi guardare Ulisse e t’attardi, a cercare in un nome il senso, che tutta una vita non t’ha


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dato, l’amor cui giovane non desti peso, per seguir la via dell’eroe, a cui ora quasi vecchio t’aggrappi, come l’ultimo relitto di una vita. Guardalo l’amor come si spegne, nella rinuncia quotidiana ad ogni sogno, e solo può lenire rassegnato, il mal di vivere che l’uomo e la donna unisce, quando l’uno e l’altra dei suoi doveri e stanco. Non cercar in Penelope le tue ragioni, che l’amor non basta alla vita, se la vita l’amor non alimenta. Come posso sedurti Penelope? Troppo presa sei ad attendere al tuo mondo, senza curarti di quale esso sia. Dell’impeto dell’uomo non ti fidi, della sua storia tu sempre sei la vittima, quando le lacrime delle madri nessuna vittoria asciuga, ma è forse meglio il camminare chini, sotto un cielo da cui il fato incombe? Tu sai che la sapienza di oggi è solo l’ignoranza di domani, la dignità è solo presunzione, e la giustizia dell’uno è dell’altro l’abuso, ma guarda all’uomo che a quest’inganno si sottrae. Cammina su una via sicura, e sicuro egli stesso, costruisce ogni giorno i muri entro cui il suo regno si ordina e il tuo ordine regna, grato di ciò che gli dai, pago di ciò che è. All’ordine del mondo e della casa egli s’adatta, e in entrambi il suo posto conosce, che sia esso di agi o di travaglio, ne lo arrischia in sogni vani e sconfinati. E in questo la vita perpetua, così com’è, e come vuole, il disegno ignoto che a tal fine un giorno ci illuse, equivoco di passioni che una volta ognuno almeno prova, quando dell’amor suo ogn’un si sente eroe. Abbandonati, Penelope, a questo se ti basta, ma abbandonati Penelope, ne hai bisogno… Il tempo dell’uomo è finito Ulisse, te lo dice il tuo viaggiare, te lo conferma il tempo. Con quale superbia potrai più dir mediocre il camminare, di quanti su sentieri certi muovono i passi e un’altra via mai sanno immaginare? Con quale verità potrai svelare la menzogna di chi al disonore s’adatta per riempir la pancia, soddisfare i sensi e goder del piacere meschino di infliggere ad altri il proprio stesso destino? Non più in te, ne negli dei troverai la fede per guidar le genti e sollevar le schiene chine, verso l’orizzonte immenso, irraggiungibile, vano, specchio e riflesso della tua stessa vanità Il tempo dell’uomo è finito Ulisse, te lo dice il tuo ritorno, la tua donna lo conferma. Colei il cui nome fu meta del tuo viaggio, colei il cui sguardo cercasti premio ad ogni impresa, colei nel cui abbraccio trovar sollievo e alimento, nulla ti chiede di ciò che fosti, nulla s’aspetta da ciò che sarai e paga ti accoglie senza saper chi sei. Il tuo tempo è finito Ulisse, per questo solo sulle mie rive puoi trovar sollievo, lungo la linea che divide una terra a cui non t’adatti e un mare in cui più non credi. Eppure lo so che in cuor tuo ancora attendi. Cosa posso offrirti Penelope, a te che la vita puoi donare, e alla sua cura attendi come un giardino, nella minuta fatica quotidiana, che ogni giorno il reale riproduce, quel reale che da te emana come ombra dalla quercia frondosa, fuor della quale, la luce acceca e il caldo brucia. Sacerdotessa nel tempio di una dea altera, che non si cura di illudere o sedurre, ma impone i suoi riti quotidiani, con la forza del reale e necessario, fuor da quel tempio lo sai cosa t’attende, a te come a ogni altra donna, la sorte di un mondo in cui il padrone nell’amante si cela, e dietro ai belletti e ai gioielli svela la serva. La tua dignità ti ha preservato, dal cedere nel piacere a quest’inganno, ma certo non potrà scacciare, il ricordo di un tempo lontano, quando un uomo e una donna appena in fiore, vissero l’equivoco vitale, senza il quale nessun fiore da frutti, giocando come pari eppur diversi, alla vigilia del viaggio che vi rese lontani. Nella pace silente della casa, nel fruire operoso dei tuoi giorni, quel ricordo


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si affaccia a turbarti, come un piacere perduto e non placato, un sapore di cui ancora non si è sazi. E di colui che con te il gioco visse, nulla e rimasto se non la vuota attesa. L’attesa e poi cos’altro? Un’altra partenza Ulisse? Solo a questo può tendere tutta la tua ambizione? Solo per questo hai sfidato vent’anni la morte in guerra e in mare? Solo per fuggire Ulisse? E da cosa poi? Da un’isola che non ha bisogno di un re e da una donna a cui non serve un’eroe? E per cercare cosa poi, cosa che tu non abbia già avuto? Ti immagino circondato da giovani alla loro prima impresa, prendere il mare senza saper per dove, con la sola rotta delle illusioni di chi ti accompagna… Continuerai a tappare con la cera l’udito, perchè nessuno sappia quanto vano sia il canto delle sirene, ma tu che quel canto hai già sentito, perché dovresti guidarli? No, leggo la tua mente, nessuno turberà il tuo solitario scomparire, una vela che si perde all’orizzonte e il tuo nome che si perde nel mito, questo è certo un finale che più ti aggrada... un finale per tutti, ma non per te, te che già hai provato l’arsura della sete quando l’acqua ti circonda, tu che già hai temuto il frangersi violento delle membra sugli scogli, tu che sei già stato nessuno in terra straniera, senza riuscire a dimenticare l’orgoglio delle armi, tu solo sapresti il vero finale, quello in cui l’uomo è solo, fuggito alla vita e col timor della morte. Quindi perchè ancora t’attardi a guardarmi come s’io solo potessi darti aiuto? E’ solo la brezza che porto a darti sollievo? E i tuoi pensieri non son forse una nenia che ti porta all’oblio come il suono della risacca? O forse nell’oblio risenti il tempo in cui la vita urlava la sua forza, nella tensione del combattimento, nella curiosità per una nuova terra, nella fiducia ammirata dei compagni, e sol col sapore di una vita vissuta, finalmente al sonno abbandonarti. Attesa e poi cos’altro? Quale altra attesa Penelope, che cos’hai più da attendere, non certo l’uomo il cui mondo ti è estraneo, non certo il figlio che ai suoi doveri attende e che alla madre come a un dovere guarda, solo il crepuscolo e poi la notte, in cui celare il segreto che neanche a te stessa sveli, quando la cura cui quotidianamente attendi, quella cura che fu ragione di ciò che altri chiamano virtù, è solo prigione per i desideri dimenticati. La frescura delle rassicuranti mura della casa, finalmente al suo ordine tornata, non basta a darti sollievo per il calore che ancora il tuo corpo genera, quando sola in un letto vuoto, misuri il peso di un’assenza con il tempo sempre più lungo che ti accompagna al sonno. Nessuno sguardo, avido e indagatore, ti insegue nei meandri della casa, e di ciò che attendesti per vent’anni non rimane, che un ombra silenziosa e persa, che nulla chiede e nulla osa e solo si accontenta, di esser nel tuo regno placato, uno fra i tanti a cui il tuo albero fa ombra. Il tempo dell’uomo è finito, non più accessi di passione, avidità di vita, ingorda ricerca d’ignoto, ebbra e cieca scommessa in cui giocare tutto e tutto perdere. Questo è il tuo tempo, il tempo del ritorno perenne alle verità palesi e profonde, vere e vicine, vitali e concrete, in cui futuro e passato vivono in un eterno presente, il tempo di una donna semplice, per una semplice vita. Cos’è quindi che ti spinge Penelope a esporre la tua carne impallidita dalle veglie alla tela e dalla domestica clausura, al primo sole primaverile che scalda gli scogli taglienti? Cosa cerchi nella brezza marina e nel dolce fluire delle onde, quando sola mi vieni a visitare? E’ forse il sapore del sale quel che non trovi nel tuo mondo di donna? Due figure, piccole e solitarie, lungo l’immensa linea oltre la quale il mio regno cessa: l’uno, in piedi sulla spiaggia immobile scruta l’orizzonte lontano, l’altra prudentemente


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avanza lungo la cresta di scogli che s’inoltra in acqua; l’uno con nobiltà fronteggia l’infinito, senza svelar quanto ormai poco di esso si curi, l’altra, all’incedere attento nasconde, la curiosità di un piacer nuovo. Due figure, piccole e solitarie, ma che riempiono la vastità che l’occhio abbraccia. L’uomo, stanco di se e d’ogni altra cosa, non frena, quel senso animale che lo sguardo guida, la donna, che il vento sfiora e il mare sente, avverte, ciò che gli occhi non si curan di guardare. All’uomo non sfugge, come al più semplice tra gli istinti, svanisca ogni affanno, la donna si compiace, dell’avventurarsi come una bambina. L’uomo, riconosce la donna e la guarda, come non l’aveva mai vista, la donna, che dell’uomo si accorge, non si volta, ma scioglie i capelli. L’uomo, il cui sguardo ormai brama, allerta i sensi acuti, la donna, che al sole sorride, si bea al calore del corpo e dello sguardo. Tra loro lo spazio assolato, distanza che protegge dal timor di un incontro, e di esso alimenta il rinnovato desiderio. Ne un passo ne uno sguardo a sciogliere l’incanto. Tra loro l’intenso azzurro del mare, il cui abbraccio invita. La donna alza la veste ad offrire, le candide caviglie al fresco gioco dell’onda tra gli scogli, l’uomo a quel vedere il passo avanza fra le cristalline increspature. Il fresco dell’acqua apre a un sorriso, che finalmente nell’altro si rispecchia. Nel silenzio il suono dell’uomo che si immerge; in silenzio la veste depone e la donna, alle acque il suo pudore affida. L’uomo con lente bracciate s’avvicina, tra gli scogli la donna attende. A entrambi, nella danza ignara, appagato ritorna l’amore di se.


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