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SPAZIO DONNA

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PANTERE GRIGIE

PANTERE GRIGIE

SPAZIO DONNA

RICERCATRICI, FIGLIE NOSTRE

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MARIA ROSA BATTAN, Vicepresidente Nazionale CNA Pensionati

Il 2020 è stato, come dicono tutti un anno da dimenticare, a meno che non si vogliano riconoscere i meriti che la scienza, con i mezzi a disposizione è riuscita a darci nel campo della ricerca/scienza. Sono state giustamente molto elogiate infatti, le tre ricercatrici dello Spallanzani di Roma che per prime sono riuscite a isolare il virus che ancora ci perseguita, il COVID. Anche l’individuare il vaccino è un ulteriore e indispensabile frutto della ricerca scientifica. La ricerca, tuttavia, non si ferma se su di essa si investe. Vorrei evidenziare infatti, il ruolo che la scienza ha nella nostra vita e come fino ad ora siamo riusciti a minimizzarlo, a non darne il giusto valore. Pensando a questo, mi è venuta subito in mente una mia amica che racconta le difficolta vissute da una ragazza, sua figlia Greta, nell’esprimere il proprio sapere (che non è ballare e cantare aggiungo io) e averne il giusto riconoscimento. Per questo motivo ho ritenuto di riportare il percorso di Greta attraverso questa sua testimonianza. Sicura che molte di noi, mamme e nonne, hanno nel cuore le scelte di figli/e con analoghi percorsi e leggendo lo condivideranno.

Greta Pintacuda Dottoressa Greta Pintacuda

Sono stata educata e cresciuta in un contesto in cui la parità di genere faceva parte della natura delle cose, banalmente fattuale come un’operazione aritmetica o un evento metereologico. Due più due fa quattro, fuori piove, la dimensione della progettualità non si declina al maschile o al femminile. Il privilegio di non aver sofferto discriminazione alcuna, mi ha permesso di misurarmi col maschile senza timori o complessi durante l’interezza del mio precorso scolastico e universitario. D’altro canto, la mia estraneità alle logiche del paternalismo e della discriminazione contro le donne, mi ha spesso resa incapace di diagnosticarne i sintomi, purtroppo presenti e preponderanti in ambito accademico. Solo dopo essermi trasferita a Cambridge, per un master in biologia molecolare seguito da un dottorato di ricerca ad Oxford, ho notato il contrasto netto tra Inghilterra e Italia nella composizione del corpo universitario. Almeno la metà del personale era composto da donne e ragazze come me. Netto contrasto rispetto alla popolazione studentesca dell’università che mi aveva formata in Italia, la Scuola Normale Superiore di Pisa. Unica biologa ammessa alla Classe di Scienze 2007, mi trovai a far parte del suo sparuto 10% femminile. La struttura fortemente competitiva della Scuola improntata allo sviluppo talvolta brutale dello spirito critico ed auto-critico, rende difficile distinguere

umiltà intellettuale da una sistematica tendenza all’auto-svalutazione dei soggetti più deboli. L’assenza di modelli femminili creava mitologie di scienziate “brave quanto i maschi”, laddove l’alterità di genere era di fatto una debolezza. La mia constatazione al tempo semi-aneddotica della ben maggior rappresentanza femminile tra i miei colleghi inglesi, è in realtà cosa seria nel Regno Unito. Una politica pluridecennale improntata all’esplicita eradicazione del gender bias nella formazione e nella ricerca, si riflette in campagne di informazione nelle scuole, commissioni di controllo nei criteri di selezione del personale specializzato, e in alcuni casi di vere e proprie “quote rosa”. Improvvisamente la scelta di emigrare, che avevo sempre attribuito ad una mia personale attitudine esplorativa, mi è sembrata molto meno una scelta e molto più un’attrazione naturale per un contesto culturale in cui il femminile e le esigenze del femminile trovino spazi meno asfittici. Quella che inizialmente fu un ricollocamento temporaneo si è nel tempo consolidato come l’unica alternativa possibile per perseguire una carriera di alto profilo in ambito biomedico. Dopo il dottorato mi sono spostata a Boston, Massachusetts dove risiedo attualmente. Sono ora ricercatrice presso il Dipartimento di Stem Cell and Regenerative Biology della Harvard University e il Broad Institute, nel gruppo del Professor Kevin Eggan, pioniere nello studio del Reprogramming, ovvero di quel processo che permette di “resettare” l’identità delle cellule umane riportandole al loro stato “primordiale” di cellule staminali. Il mio principale interesse di ricerca é sempre consistito nello studio dell’RNA non-codificante e del suo ruolo nel determinare l’identità cellulare, “regolando” l’espressione dei geni. Qui ad Harvard, utilizzo le cellule staminali riprogrammate per studiare l’effetto di mutazioni legate a malattie neurodegenerative e neuropsichiatriche nella specificazione neuronale. Un’opportunità straordinaria che non avrei avuto in Italia, dove purtroppo manca una gestione organica delle risorse umane e finanziarie dedicate alla ricerca. Certamente anche noi italiani vantiamo centri di eccellenza e progetti di altissimo profilo, ma la mia impressione é che si configurino come isole felici o casi isolati in un contesto piuttosto frammentato, e che spesso non godano di adeguato supporto logistico e istituzionale. Simili sono le considerazioni circa il supporto alla carriera dei talentuosi giovani ricercatori e ricercatrici italiani, che sono spesso costretti/e a farsi carico della cronica penuria di docenza di ruolo, accollandosi responsabilità d’ateneo con spirito quasi volontaristico e sacrificando molto tempo di ricerca all’insegnamento senza peraltro alcun diretto vantaggio economico. Peraltro non solo gli stipendi a inizio carriera non sono competitivi, ma le prospettive di una rapida (o persino lenta) risalita della scala salariale non è realistica nella maggior parte dei casi. Questo da una parte scoraggia il rientro di chi come me si trova all'estero, dall’altra rende la nostra università sistematicamente incapace di attirare stranieri, accentuandone l’isolamento sul piano internazionale. E ancora una volta, il femminile è ulteriormente svantaggiato. Non avendo l’accademia italiana mai operato un redde rationem circa la discriminazione di genere, le donne più che gli uomini si trovano a dover scegliere tra la propria soddisfazione professionale e l’umanissimo desiderio di tornare. Scelta che spesso si delinea in un’età in cui l’esigenza di trovarsi vicino alla propria famiglia, o di ricongiungersi con amici e/o partner, si fa concreta. E così il “viaggio di formazione”, mio come di tanti, si trasforma in una scelta permanente e talvolta dolorosa. Per quanto mi riguarda, le soddisfazioni professionali, l’opportunità di offrire la mia mentorship a giovani ricercatrici a inizio carriera attraverso programmi STEM, perché no, l’entusiasmo per una nuova stagione politica, prevalgono per ora sulla nostalgia e l’amarezza di non poter contribuire alla crescita tecnico-scientifica del Paese che mi ha formata ed educata, e che continuo, in fondo, a chiamare “casa”.

Tifo, tifiamo per Greta, insistendo perché le scelte di sensibilizzare e investire nella ricerca non si esauriscano a fine Covid ma diventino pane quotidiano e i giovani rimangano e/o ritornino a “CASA” sicuri che con loro e per loro noi saremo i mattoni su cui poggiare.

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