con-fine - Anno 1 n.1 - Marzo 2006

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Anno 1 - Numero 1

Tr i m e s t r a l e d i Arte & Cultura

Marzo ‘06 € 5,50 ISSN 1827-9864


Francesca Conti -

studio e a via porta romana, 5 cell. 3385

francesca conti -


abitazione 57 - 50123 firenze 5410890

- light sculptures

illustrazione – Graffiti

- Light Sculptures


Anno 1 - Numero 1 La Redazione di con-fine ringrazia per lo speciale contributo alla realizzazione di questo numero:

In questi tempi bui per il futuro della Penisola Sorrentina, segnati dall’abbuffata edilizia, dal dilagante abusivismo, dalla devastazione degli agrumeti che fanno posto ai parcheggi per le auto e da mistificanti interventi di restauro in nome di una presunta -!!!- archeologia industriale [...]

Elena Gualtierotti Gianfranco Rosini Vito Tongiani Giuseppe Vannucci Antonio Vinciguerra Carlo Zoli

Museo degli Sguardi Rimini

Galleria Rosini Riccione

Galleria L’Elefante Trieste

Nonché:

Sistema Musei della Provincia di Rimini

In META mura e volte, Mario Russo percorre le strade del centro storico mettendo in luce con passione le emergenze architettoniche e le caratteristiche tipologiche dell’abitato: le mura che celano allo sguardo del visitatore i giardini di agrumi – la parte più salda, fondativa dell’abitato, la sua anima più profonda -, le volte dei porticati e delle logge coperte, le semplici ed eleganti facciate degli edifici, impreziosite da elementi lapidei spesso finemente lavorati. (dall’introduzione di Michele Nicolosi)

Mario Russo, Meta mura e volte, Sett.2005. Introduzione a Cura di Michele Nicolosi. 48 Tavole fuori testo in bianco e nero tratte dall’archivio privato dell’Ing.Mario Maresca. 96 pagine. Euro 17* (Euro 13* per gli abbonati alla rivista con-fine)

Studio d’Arte Francesca Cesari

edizioni

Per acquistare Meta mura e volte: Sorrento (Na)

- Pagamento in contrassegno, ordinando il libro allo 051 6555000 o scrivendo a edizioni@con-fine.com - Pagamento con versamento su c/c postale n. 70592308 intestato a: con-fine edizioni - Via C. A. Dalla Chiesa, 3 - 40063 Monghidoro (BO)

In copertina Vito Tongiani Monumento alla Linea Gotica Marmo di Carrara – 2004 –

specificando nella causale Meta mura e volte Per ulteriori informazioni telefonare al num. 051 6555000 oppure info@con-fine.com *Il prezzo è comprensivo di tutte le tasse e le imposte applicabili, nonché delle spese di spedizione per tutta l’Italia


Marzo 2006 Direttore Responsabile Vincenzo Aiello

con -

Il Manifesto strappato del confine. Gino Fienga

pag.6

Il sorriso della Gioconda. Luciana Ricci Aliotta

pag. 8

contra - stare

Tra l’altro ieri, l’ieri e l’oggi. Giuseppe Di Bella

pag.9

sulla linea

Il gioco delle identità. Francesca Camisa

artenegra

L’estetica primitiva e l’arte moderna. La chiave per una nuova ricerca interiore. Chiara Presepi

passeurs

Vito Tongiani. Et in Arcadia Ego. Gino Fienga

metafore

Antonio Vinciguerra. Un neometafisico in terra labronica. Giuseppe Vannucci

pag.12

pag.14

Direttore Gino Fienga Comitato Scientifico Antonino Fienga Mario Ricci Pippo Lombardo Redazione Manuela Gargiulo - Coordinamento Celeste Borraccino Giuseppe Di Bella Chiara Presepi Luciana Ricci Aliotta Collaboratori Francesca Camisa Francesca Conti Danilo Margio Giuseppe Vannucci Via C. A. Dalla Chiesa, 3 40063 Monghidoro (Bo) telefono 051 6555000

redazione@con-fine.com

pag. 17

pag. 22

Relazioni esterne e Marketing Erika Carpanelli erikacarpanelli@con-fine.com Coordinamento Pubblicità Nadia Lazzarini nadialazzarini@con-fine.com cell. 393 1595622 Progetto Grafico e Impaginazione Gino Fienga Antonino Mastellone

quid

Al confine del Monte Parnaso. Pippo Lombardo

pag. 26

ri - letture

La Steppa e Siberia. Due mondi estremamente simili. Mario Ricci

pag. 28

La linea d’ombra del 1956. Una storia al confine della giovinezza. Vincenzo Aiello

pag. 29

in margine

Sul confine della parola. Il tempo e le sue trasformazioni. Francesca Conti

pag. 30

www.con-fine.com info@con-fine.com

chiaroscuro

Impressioni sul tempo che torna. Giuseppe Di Bella e Danilo Margio

pag. 32

Prezzi di vendita Un numero € 5,50 Abbonamento (4 num.) € 18,00

- fine

Dentro e fuori il corpo. La forza simbolica della fisicità. Manuela Gargiulo

pag. 34

Studio Immagine Graffiti s.n.c. Via Cassari, 80 80062 Meta (NA) – Italia telefono 335 6381792 Stampato presso piu’grafica s.r.l. Via Enea Stefani, 1 40138 Bologna – Italia Editore con-fine edizioni Via C.A. Dalla Chiesa, 3 40063 Monghidoro (BO)

Le opere d’arte e i diritti di riproduzione delle opere riprodotte, ove non diversamente specificato, sono di proprietà degli autori che ne hanno gentilmente autorizzato la pubblicazione.

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Il m a n i f e s t o s trappato del confine Sul confine, sul limite ognuno di noi termina e viene determinato, acquista la sua forma, accetta il suo essere limitato da qualcosa d’altro che ovviamente è anch’esso limitato da noi. (Franco Cassano, 1996)

S Pagina seguente: ©Raymond Hains Senza titolo manifesto strappato su lamiera cm40x50 by SIAE, 2006 Collezione privata

Bibliografia Cassano F., Il Pensiero Meridiano, Ed. Laterza, Bari, 1996 Cassano F., Modernizzare stanca, Ed. Il Mulino, Bologna, 2001

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ono passati molti anni, ormai, da quando, giovane fra giovani ambientalisti all’arrembaggio di una piccola società sorda alle grida d’allarme per il degrado culturale e materiale incalzante, spendevamo i nostri giorni a cercare teorie di cui essere epigoni, parole da fare nostre e da tenere in serbo come frecce nelle nostre piccole faretre. Fra tutte quelle scoccate, spesso a vuoto, qualche volta più vicino al cuore della nostra gente, ce ne sono alcune in particolare che continuo a forgiare e a portare con me ovunque io vada, ovunque ci sia da parlare, da scrivere, da spiegare. Sono le parole rimaste nell’aria in un incontro che organizzammo nella piccola sala consiliare del Comune di Meta e che chiunque può trovare nero su bianco in un libricino incredibilmente denso di saggezza qual è Il Pensiero Meridiano di Franco Cassano. Ed è proprio da quei pensieri e da quelle pagine che vogliamo ripartire: da un pensiero meridiano applicato all’arte come sintesi di quei valori che l’arte stessa, e gli artisti dovrebbero impugnare, riconquistando la dignità di soggetti del pensiero creativo, riscattandosi dalla condizione di oggetto passivo del pensiero mercanteggiante o di chi mestierante di parole, trova senso, previo compenso, dove un senso davvero non c’è. Parafrasando Cassano, mercificare stanca. Ed è proprio la mercificazione e la modernizzazione sterile che stanno facendo del mondo dell’arte un contenitore di contenitori usa e getta, un prodotto della corsa feroce di una società che pensa di avere tutto e che ritiene se stessa la quintessenza della compiutezza. Anche questo è un pericoloso fondamentalismo, perché tenta di nascondere la memoria e tratta la diversità come un male da debellare. Quello dell’arte rischia di diventare (se non lo è già) un mondo sedicente, capace di guardare solo a se stesso e alle proprie smanie di contemporaneità. Rompere i canoni non implica necessariamente allontanare l’arte dalla vita, dalla storia, dalla realtà. Quando negli anni ‘60 artisti come Hains e i suoi compagni del Nouveau Réalisme combattevano la loro battaglia contro la dittatura dell’informale strappavano i manifesti dai muri di Parigi per avere nelle loro opere frammenti del quotidiano, oggetti del vissuto: un contatto materiale con il mondo che abbiamo intorno.

Oggi la multimedialità sta allontanando spaventosamente il lavoro dell’artista dalla manualità della creazione da un lato, e dalla realtà che viene sempre di più alienata o psichedelizzata dall’altro; e la critica, che dovrebbe fare da tramite fra la dimensione artistica e il resto del mondo, si perde nell’autocompiacimento di discorsi farraginosi e incomprensibili che non servono ad altro se non a mascherare l’inutilità e la vacuità dei contenuti di cui si assume l’onere della prova, divaricando sempre più il valico che si è venuto a creare fra gli artisti e il loro pubblico. Il confine su cui vogliamo intraprendere questo nostro cammino, invece, è il luogo del contatto, la linea che unifica e non contrappone, un punto in cui la prima parte della parola con prevalga sulla seconda fine che perde la sua connotazione limitativa e si trasforma in scopo. La strada di con-fine si muove, quindi, sul fragile perimetro dell’etica, cercando nelle arti visive, insieme al rapporto con le arti altre il sottile filo da non spezzare con la tradizione nonché il legame morale con la società e il mondo con cui vanno ad interagire. Filo conduttore, quindi, un rapporto costante fra etica ed estetica, tornando a ricercare e a parlare del bello: non di quella bellezza effimera che fa dell’arte un semplice soprammobile per addobbare luoghi dell’apparenza, ma con l’occhio e la penna vigili a contenuti veri, positivi e pro-positivi, che siano guida e necessario avamposto ad un necessario rinascimento delle idee e non più soltanto banale reportage di immagini che già ci attanagliano, ormai sparate incessantemente da ogni cannone mediatico. L’artista sarà il passeur che ci traghetterà da una sponda all’altra di questo fiume, il passatore che clandestinamente ci guiderà nel difficile percorso attraverso questa sottile linea gotica, per sfuggire al bombardamento di banalità di cui quotidianamente siamo vittime. Torniamo quindi a strappare dai muri delle stanze del contemporaneo gotha artistico i manifesti delle false critiche dietro cui cercano riparo e restituiamo l’arte all’uomo, alla natura, alla lentezza del pensiero meridiano dentro il quale trova le sue origini e le sue fondamenta. Gino Fienga



Il s o r r i s o d e l l a Gioconda

Q

Carlo Zoli Incontro Bronzo cm 14x22x61 1997

S. Quasimodo, Alle fronde dei salici da Giorno dopo giorno, ed Mondadori

ualcosa, non sempre ben definibile ma certo, distingue l’arte da tutti i modi di comunicare. Anzitutto la sintesi, la grande capacità di dire o suggerire molto in pochi segni necessari e insostituibili. Ogni opera d’arte tocca tutto l’universo dell’artista. Può essere un dipinto, un verso di poesia, un brano musicale, e ne balza fuori la fisionomia di un mondo intero, che ci avvolge nell’incanto di una vita che non è la nostra ma della nostra cerca il contatto. Il fascino dello stupore del diverso e pur nostro ci fa uscire da una mostra d’arte o da un concerto con gli occhi incantati di chi ha vissuto un momento magico e sorridiamo anche col cuore scosso. L’arte sorride? È il sorriso della Gioconda. Enigmatico, misterioso non solo per ciò che Leonardo voleva racchiudervi, ma per tutte le ambigue interpretazioni che vi si sono accumulate attraverso i tempi senza ledere il fascino dell’irrisolto. E quali pensieri e angosce si nascondono dietro il dissolversi in luce delle ninfee dell’ultimo Monet? È un’altra visione del mondo, dove il dolore si fonde col ritmo musicale dell’Universo. Se superiamo una prima perplessità veniamo immersi in una sinfonia indistinta in cui l’acqua assume il colore dei fiori e l’aria si tinge di verde. Diveniamo figli di una terra che, come l’umore materno, ci accarezza e ci avvolge in liquide vibrazioni di verde e di rosa, gettate quasi a caso sulla tela nell’orgasmo di rendere con passione il vivere i colori nella sfolgorante bellezza dell’acqua. Acqua che è anche aria, luce, quasi respiro. E diviene il nostro respiro. Questo processo che si sviluppa da un definito cangiante a un sempre più indefinito, non è la rinuncia a esprimere il mondo nel suo farsi e disfarsi, o solo l’accentuare il tema dell’impossibilità di esprimere tutto. È il cercare di porsi dentro, di lasciarsi prendere e coesistere col proprio sogno. Divenire parte del frusciare di quelle fronde in un pulsare sensuale e spirituale insieme. Espressione fascino bellezza. Il pesco in fiore di Van Ghog: quanta commozione e serenità in una primavera così tenera e fragile, e quanto tragico amore l’ha partorito. Ma anche davanti ai dipinti di Francis Bacon possiamo parlare di respiro e bellezza: la forza dell’espressione, la ricerca delle perfette campiture severamente selezionate ci traggono fuori dalla tortura del suo mondo come davanti alla rappresentazione di una tragedia greca. L’arte ci turba richiamando la nostra coscienza alle istanze di altri che si muovono accanto a noi, che ci spingono a scrutare i nostri più nascosti e tormentosi pensieri, ma ci permette una catarsi liberatoria che non prescinde mai dalla forma. Quel segno ha senso in quel tempo e in quella maniera e solo in quella, così ha la magia di trasfonderci commozione e spesso di aprirci a un sorriso rasserenato. Quel segno è bello perché è significativo, cerca una sintesi che componga la vita in una sinfonia in cui le discordanze si acquietino, in una forma cioè in cui il dramma è risolto. Non intendo nel lieto fine: è risolto perché pienamente rappresentato. Bellezza uguale espressività. Su quali altri canoni potremmo delineare la bellezza? Sulle perfette misure umane del mondo classico ormai tramontate? La bellezza si può cogliere come sensazione e mai come schema. Fuori dalle regole guizza qua e là sfuggendo ad ogni tentativo di rappresentazione, di definizione. Ma esiste e noi la cogliamo sempre quando una parola, un segno, una immagine ci comunica un fremito che ci scuote dentro, una emozione non sempre chiara ma scevra da preconcetti. Quando cioè ci libera dal grigiore del consueto per svelare la ricchezza e la significatività di ogni cosa che ci circonda o preme dentro di noi. Quindi l’arte può sorridere, e sempre supera il grido. Il grido, l’immediatezza del dolore, della passione o della gioia, non ha che espressioni disarticolate a cui solo un ripensamento, forse il ricordo, può dare compostezza ed espressione. Sorride in quanto piena consapevolezza dell’esperienza, superamento della fase oscura e urgente che urla dentro, respiro partorito a volte da sospiri e slanci scomposti. È quel lieve distacco, a volte persino ironico, ma spesso amaro, che distanzia le cose dalla nostra miopia e ci permette di vederle meglio .

E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

della madre che andava incontro al figlio crocefisso sul palo del telegrafo ? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento. Luciana Ricci Aliotta

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Tra l’altro ieri, l’ieri e l’oggi di Giuseppe Di Bella


Tr a l’ a l t ro i e r i, l’ieri e l’oggi

E

Pagina precedente: Elena Gualtierotti Equilibri olio su tela cm70x100

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siste una comune nozione del contemporaneo senso estetico ed espressivo e quindi della pura essenza dell’arte, per cui si tende istintivamente a distinguere ciò che è “moderno” e unanimemente riconosciuto come tale, da ciò che si ritiene non lo sia, anche mentre ci occupiamo di autori che operano su assi praticamente simultanei di ricerca conoscitiva del presente. Ma di fatto, oggi esiste tutta una poetica, tutta una schiera di straordinari artisti viventi quali, per fare un esempio localizzato, certi naturamortisti di scuola fiamminga quali Helmantel, Van Albada, Mark Lijftogt, Jaap Roose o diversi altri anche italiani, tra cui Agostino Arrivabene, Giorgio Salmoiraghi, Gianluca Corona, Doriano Scazzosi (cito quelli esposti tra l’altro in collettiva alla galleria Roob Smeets di Milano nell’Ottobre del 2004) che compongono un corpus quasi tutto giovane di assoluta grandezza sulla scena, che se pure ricercatori del cosiddetto “bello” assunto quale ritorno rigeneratore ad un classico di classe in equilibrio tra la tradizione e l’attualità, in un ambito di crisi iconica quale ci troviamo a vivere mi pare assolvano a un compito (originario dell’arte per definizione) sicuramente odierno e reale, di contrapposizione all’orrido e al superfluo ampiamente esplorati di certe sfere del presente e allora più trasgressivo di qualsiasi superata provocazione. Mi riferisco poi ad artisti che sono stati e continuano ad essere quasi totalmente sconosciuti sia da certa critica ufficiale che dal mercato su largha scala perché evidentemente considerati poco attuali quando in realtà è la loro profonda empatia col contemporaneo che gli permette, per contrasto, di mostrarci, le più prossime urgenze dell’epoca; artisti già morti come Celada, o il novantenne bolognese Bertacchini allievo di Morandi, collocati al di fuori di quel mediocre canone di uno star sistem che include o esclude a seconda del grado di magnanimità (o di interesse) di un particolare standard teorico. La questione non è quella già decotta della diatriba tra figurativo e astratto o tra informale e figurativo, visto che oramai anche le più grosse lobbies editoriali ed espositive tengono in considerazione correnti di nuova figurazione fino quasi al delinearsi di un nuovo filone. La questione è ben diversa e proviene da non molto lontano. La rottura con la tradizione, che ha avuto inizio con le grandi rivoluzioni avanguardiste nazionali e internazionali, portatrici di linguaggi innovativi, e ha avuto pieno sviluppo col definitivo innestarsi dell’apparato tecnologico all’interno della fucina artistica di fine millennio, è la matrice di un retaggio che credeva possibile un’ escursione consistente e ancora determina effetto di allontanamento tra l’altro ieri l’ieri e l’oggi a partire proprio dalle nuove possibilità espressive e tecniche

al servizio degli artisti. Un falso mito progressista e storicista che ha assistito a quella deflagrazione di cui solo adesso si cominciano a raccogliere le schegge dopo la stagione Postmoderna e il successivo ulteriore superamento transavanguardistico, ma che in questa forma mutata, appunto di retaggio deformante, di specchio ustorio senza diaframma o protezione continua ad assediare l’attuale panorama occidentale. La libertà scaturita dal Novecento ci ha scagliati incontrovertibilmente verso un futuro centrifugo in cui si finisce, nell’incapacità ad un certo punto di amministrarsi, a limitare da noi stessi le infinite soluzioni scoccate dagli squarci psicanalitici, dalle irruzioni esistenzialiste, dalle cosmologie fantastiche o reali, dagli intrecci multiculturali, humus da cui far fiorire un “lavoro interessato all’uomo, alle sue contraddizioni, al suo habitat”, come rileva, nell’introduzione al catalogo del Premio CairoCommunication 2004 Maurizio Sciaccaluga, a proposito di quel gruppo di artisti. Adesso, col senno di poi, guardando a campo aperto i reperti alle nostre spalle e lo spazio incontrastato da percorrere dovremmo convenire - se come disse Pessoa il vero poeta/artista dice solo ciò che sente nel riconoscere che di fronte alla originalità di nessun artista si deve e si può parlare di solipsismo quando il suo lavoro non assolve necessariamente ad un intento sociale, generazionale o non è sotteso alle dinamiche dominanti di uno sguardo proteso e oltrepassante


verso il domani. In fondo se si riconoscesse una volta per tutte che è solo la modalità formale, esteriore (e non sempre la superficie rivela l’interiorità) che differenzia un’installazione da un bronzo, una performance da un affresco o il frame di un video dall’impatto di un movimento dipinto, l’ossessiva estetica del modernismo dovrebbe vaporizzarsi nella consapevolezza che le differenze stilistiche sono ora più che mai una questione politica, cioè di scelte inopinabili. Che si voglia tentare un approccio seguendo le vie della multimedialità e della virtualità utilizzando i segni e i materiali del proprio tempo scientifico e biografico o si opti per il ripescaggio di una sensualità “seicentesca” simulata attraverso tecniche più o meno tradizionali, sarebbe consono in sede di riflessione e di valutazione riprendere a esaminare la qualità intrinseca più che i fondamenti che “giustificano” una data idea creativa e dare maggiore visibilità a chi effettivamente la merita perché tra l’altro si corre troppo spesso il rischio di mistificare la fondamentale parentela anche lessicale ed etimologica esistente tra arte e artigianato. Certo, la stessa parte artigianale all’interno dell’atto creativo contemporaneo legato in buona parte alla gestualità, alla peculiarità intuitiva ed immediata potrebbe evolversi fino a essere sempre più assottigliata ed essenziale, nella speranza che tale manuale anoressia compositiva non finisca per determinare il decesso dello stesso intento estetico e comunicativo e il definitivo disinteresse dei più,

all’arte contemporanea. In questo senso anche la critica con gli addetti ai lavori dovrebbero fare un esame di coscienza, perché se è vero come afferma giustamente Achille Bonito Oliva che il critico è colui che ricuce la smagliatura fra la complessità dell’opera e il pubblico, rimane oscuro come troppo spesso gli assunti critici e teorici degli ultimi anni sfocino nel dotto vaniloquio di accademia o di sperimentazione, che esasperano la distanza tra l’uomo-artista e l’uomo-fruitore, allontanando sempre più dalla vera cultura la “massa”, già per sua natura spaventosamente indirizzata verso una deleteria cultura mediatica: la stessa massa che una volta recitava a memoria i versi di Dante o barattava con latte, uova, galline i quadri di Antonio Ligabue fino a non molto tempo fa, oggi si ritrova a interessarsi esclusivamente dell’ incarnazione del vuoto dei talk – show o di un’arte di rilievo circense, spettacolaristico e ruffiano, (vedi il macabro feticismo di Damien Hirst e le sue ancor più deliranti quotazioni) anche a causa del divario sempre crescente fra la sensibilità o la scaltrezza delle scaglie ricettive e quelle propositive del trust culturale. Questa è l’evoluzione? No. È semplicemente il frutto di una politica errata di chi la cultura la produce e l’ha prodotta o ha voce in capitolo sulla scelte della sua direzione, causando un generale impoverimento intellettuale che offende l’Arte degli Artisti e vuota le coscienze di significati. È altresì difficile trovare artisti veramente contemporanei nell’accezione di trasgressività e di capacità di mettere in crisi che tale aggettivo aveva assunto nel corso degli ultimi felici avamposti d’avanguardia e penso soprattutto al Dadaismo con la sua forza eversiva di scardinare e influenzare, influenzandolo ancora adesso, il percorso dell’arte, ma anche e soprattutto di insinuare dubbi sul piano etico, politico, e culturale a tutto il tessuto sociale. Ma allora? Qualche tempo fa riflettendo sul problema dei modelli artistici vi avevo applicato, per mezzo di una metafora, l’idea degli intermundia di Lucrezio, e in paragone a quelli avevo osservato come attraverso le diverse epoche alcuni artisti abbiano assunto il linguaggio o la sensibilità di un dato modello passato prendendone quanto di duraturo e di assoluto quel modello proponesse, emulandolo attivamente nel ciclico movimento del tempo dell’arte. Con questa nuova, ennesima rivista che nasce percorreremo così dei sentieri forse problematici, ma con la ferma volontà di sostenere il principio democratico e l’importanza di una eterogeneità espressiva con – fine o inversamente senza nessun tipo di fine o di confine, sia esso statutario, etico o temporale.

Elena Gualtierotti Cavallino olio su tela cm70x100

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Il g i o c o d e l l e identità

S

In basso: Hana Silberstein Sul filo teso tecnica mista su tela cm120x150 1988

Bibliografia Fabietti U., L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco. Carocci editore, Roma 2003 Turner F.J., La frontiera nella storia americana. Il Mulino, Bologna Barth F., Ethnic groups and boundaries, Little Brown, New York

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ulla linea di confine si separano i mondi, entità opposte come una sfera e una piramide si fronteggiano in un gioco di rappresentazioni che coinvolge le passioni umane. Perché il confine, pur essendo una creazione che la terra non comprende se non nei suoi limes naturali, separa le identità e unisce gli individui in un legame contrastivo, fatto di quella sostanza che infiamma i popoli e fomenta le guerre. Come ben sa l’arte di Hana Silberstein, artista di origini israeliane che nelle sue opere trasfonde una suggestione ed una forza del colore che ricordano i graffiti preistorici, mentre racconta con estrema delicatezza e con una punta di ironia yddish quanto l’equilibrio della nostra realtà si regga su un filo teso. Allo stesso modo, in un’ottica di analisi antropologica, i confini segnano con linee invisibili la definizione di identità, in quanto contribuiscono alla costruzione dei codici culturali. Alla fine degli anni Sessanta furono gli studi di Frederick Barth ad investigare il concetto di etnicità, partendo dalla confutazione del paradigma per cui le differenze culturali sono un effetto dell’isolamento sociale e geografico, ovvero della permanenza di un gruppo etnico all’interno dei propri confini. Le osservazioni di Barth portarono all’affermazione di come un confine non costituisca una barriera invalicabile. Dunque un punto di passaggio, un punto di contatto tra i gruppi che da esso sono separati, a riprova di come l’esistenza di un confine inneschi meccanismi di interazione tra i popoli, la cui identità etnica non permane in uno stato di isolamento, bensì si confronta con l’altro da sé proprio su quel filo teso che è il confine. L’esistenza di un confine, dunque, contribuisce al costante processo di riformulazione dell’identità e consente di incanalare la vita sociale, poiché i gruppi etnici persistono solo se viene dato rilievo all’esistenza di una differenza culturale. Si tratta tuttavia, come sottolinea Barth, di una diversità che si intreccia con una qualche comunanza di codici e valori, dal momento che lo scambio tra entità diverse può avvenire solo sulla base di un codice comune che consenta

la comunicazione. Connotazione leggermente diversa assume la nozione di frontiera, che Turner definì il limite di una civiltà avanzante. Caratterizzata da un elemento di dinamicità, la frontiera si delinea come lo spazio di interazione tra una società nel suo momento di espansione e i gruppi limitrofi, sottoposti alla pressione di una cultura che agisce intrusivamente. Confini e frontiere si affermano antropologicamente come entità complesse, in cui l’elemento negativo di separazione e di scontro viene ammorbidito dall’incontro, dall’ibridazione e dal meticciamento che operano l’innescarsi di un sincretismo necessario all’evoluzione sociale e alla crescita di nuove modalità di convivenza tra gli uomini. Sono realtà su cui spesso si giocano i destini dei mondi, questi confini, a cui dovrebbe essere maggiormente demandato il compito di ricordare agli uomini come nessuno di loro si possa arrogare il diritto di definirsi diverso e migliore dal suo vicino, con cui condivide non solo le origini e la terra, ma un mondo stimolante perché animato da sempre dalla mescolanza umana. Francesca Camisa


Ar tisti in permanenza ALIO Jorge Luis ALLEN Cour tney ANNENKOV Dimitri BAUMHOFER Walter Maria BORGHESE Franz CARTER Pr uett CORNWELL Dean CZOK Mar ta DE BELLIS Andrea GUIYOME L AMORU’

illustrazione – Graffiti

CASTRO José

MACHADO Juarez MANERA MC CLELL AND Barclay PIACESI Walter ROMANO Daniela ROSELLI Carlo T RINGALI Sergio WEBB Tom

Collezionando Gallery

Organizzazione di eventi - mostre Via dei Monti di Creta, 55 - 00167 Roma tel. 06 6624970 - fax 06 66031118 collezionandogallery@hotmail.it


L’ e s t e t i c a p r i mitiva e l’ar te moderna L a c h i a ve p e r una nuova ricerca interiore

C

Maschera kifwebe legno, pittura Congo R.D., Cultura Songye Coll. Dinz Rialto Museo degli Sguardi, Rimini

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hatwin mi ricorda che in tutte le religioni c’è l’immagine della vita e della fede come un viaggio, un cammino da percorrere; che in tutte le culture del mondo il viaggio fa parte integrante dell’essere uomini, per conoscere, per conquistare, per sopravvivere a volte. Per noi europei il viaggio significò scoperta, nuove possibilità di estendere la nostra potenza economica al di là dei confini conosciuti. Quando i navigatori europei, all’inizio dell’età moderna, sbarcarono su quelle terre così lontane scoprirono non solo metalli preziosi e paesaggi meravigliosi ma, dalle cronache dei missionari e dai racconti dei mercanti, si ha testimonianza anche di nuovi popoli e delle loro usanze. Alla meraviglia con cui guardammo questi popoli così diversi per il colore della pelle, seguì lo sdegno per il loro stile di vita così primitivo, per le pratiche sacrificali, per le automutilazioni e scarificazioni. Il limite del pregiudizio, la presunzione di superiorità della cultura occidentale ha fatto sì che questi uomini sterminati, assoggettati, ridotti a schiavi ancora alla fine del Settecento venissero descritti come barbari senz’anima, senza conoscenza che appartenga all’uomo. Da questi luoghi lontani oltre ai racconti, missionari e mercanti del XVI e XVII sec. portarono oggetti esotici, testimonianze di un’umanità arretrata, dell’irrazionalità contro la civiltà e la scienza. Gli oggetti andarono ad arricchire le corti reali dell’Europa rinascimentale e barocca riuniti in collezioni conservate nelle Wunderkammer (Le Camere delle Meraviglie). Questi feticci fino all’Ottocento saranno quasi totalmente distrutti, mentre durante il periodo coloniale saranno raccolti presso il Louvre dove, nel 1827, si aprirà il Musée de la Marine e D’Éthnographie progetto scientifico e ideologico, un luogo dove dimostrare l’esistenza di diversi livelli di sviluppo delle culture. Alla fine dell’Ottocento nel Musée D’Éthnographie du Trocadéro questi oggetti diventeranno uno strumento politico non solo per dimostrare l’esistenza dei diversi livelli di sviluppo intellettuale ma anche per evidenziare la gerarchia tra dominati e dominanti. Fu proprio a partire da questi anni che gli artisti europei guardarono a questi manufatti primitivi con grande interesse: alcuni di essi crearono nel proprio atélier una vera e propria collezione. All’impressionismo e all’accademismo che uniformavano la produzione artistica secondo canoni specifici, il contatto con i manufatti delle culture altre avviò ad una nuova modalità espressiva che trovò soluzioni formali innovative nelle linee essenziali dei tratti, nelle nuove proporzioni e in quelle fattezze sgraziate che rappresentarono una nuova fonte d’ispirazione. L’artista cercò

un nuovo linguaggio che potesse esprimere non più la realtà che vedeva attorno a sé, ma la realtà dell’artista stesso, una realtà interiore che non poteva avere più canoni formali universali: come Cézanne, nelle cui opere l’imperfezione diventò identificativa dello stile primitivo, opponendosi ai canoni decorativi. Il tema delle origini, di un ritorno ai principi dell’attività artistica recuperato dalla riflessione simbolista, insieme alla diffusione di manufatti dell’arte Giapponese, influenzò diversi artisti del tempo, come Gauguin, nel quale questo percorso a ritroso fu non solo un percorso creativo ma anche un recupero della sua identità che affondava le radici nel panorama sudamericano della capitale peruviana della sua infanzia. Le donne esotiche di Tahiti diventarono non solo, il soggetto preferito delle sue rappresentazioni, ma Tahiti sarà il luogo dove sceglierà di vivere. Il ritorno ad una produzione creativa che non prescindesse dalla conoscenza di manufatti oceanici e precolombiani è visibile nelle sue opere. Alle spalle della Belle Angèle troviamo infatti una statuetta in terracotta allusiva alle ceramiche precolombiane o nella Giovane donna bretone una ceramica della tipologia dei vasi antropomorfi, ma anche nei suoi vasi in terracotta con volto umano l’influenza dei modelli ceramici delle Culture Nazca e Mochica del Perù è evidente. La possibilità di vedere oggetti provenienti dalle varie zone di un mondo ancora da conoscere sarà decisiva per la stilizzazione e la semplificazione formale, raggiunta dai Nabis ai Fauves, dal Cubismo all’Espressionismo. Saranno le maschere africane, totem e idoli gli oggetti d’ispirazione di Matisse e degli artisti Fauves, le belve appunto, che troveranno in queste opere un primordiale vitalismo. “Questi africani, nel loro essere primitivi, semplici, incolti, possono esprimere il proprio pensiero grazie ad un immediato appello all’istinto. Le loro sculture sono modellate da delle emozioni” (Derain). La scultura ritornerà ad essere tra tutte la forma d’arte più vicina ai modelli espressivi delle arti primitive. Tutti i grandi pittori si cimenteranno in opere scultoree cercando i modelli soprattutto nelle maschere africane (pensiamo alla Jeannette V in bronzo di Matisse che ricorda le maschere del Camerun). Grazie a Henry Matisse, Picasso verrà a conoscenza di queste maschere e realizzerà l’opera più rappresentativa del Primitivismo dell’arte moderna le Demoiselle d’Auvignon dove l’influenza dell’arte negra si avverte proprio nella maschera dei volti, che hanno affinità riscontrabili con maschere della cultura Dan della Costa D’avorio


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Amedeo Modigliani Grande Cariatide mina di piombo e carboncino su cartoncino, firmata in basso a sinistra 1911 Curtesy Archive Légales Amedeo Modigliani, Paris, Collezione Gallerie Rosini, Riccione (RN)

Bibliografia AAVV, Arts primitifs dans les ateliers d’artistes, Société des Amis du Musée de L’Homme, Paris 1967 Bassani E. (a cura di), La grande arte africana in “Arte dell’Africa Nera”, cat. mostra, ArtificioSkira, Milano, 2000 Dandrieu C. (a cura di), Sguardi d’Africa, Alinari, Firenze, 1994 Goldwater R. (a cura di), Primitivism in Modern Art in “World cultures and modern art”, games of XX Olimpiad, Munchen, 1972 Messina M. G., Le Muse d’oltremare esotismo e primitivismo dell’Arte Contemporanea, Einaudi, Torino, 1993 Pezzoli G.(a cura di ), Affrica Terra Incognita, cat. mostra, Centro Studi Archeologia Africana, Milano, 2005 Soprintendenza Speciale al Museo Nazionale Etnografico L. Pigorini, Africa, cat. mostra, Roma, 1995 Susini V., Gli oggetti etnografici tra arte e storia. L’immaginario postcoloniale e il progetto del Musée du Quai Brainly a Parigi, Harmattan Italia, 2004

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e maschere Kifwebe della cultura Songe dello Zaire. G. Braque nei Cahiers D’art del 1954 scrisse: “Le maschere negre mi hanno aperto un nuovo orizzonte. Mi hanno permesso di prendere contatto con delle cose istintive, delle manifestazioni dirette che si opponevano alla falsa tradizione, di cui avevo orrore.” Lontano dalle Avanguardie, Brancusi guardando di là dei confini europei culture diverse come quella egizia e messicana sintetizzò nella sua scultura forme pure ed essenziali: la Madamoiselle Pongany nelle sue diciassette versioni è la rappresentazione della forza genitrice. Tra gli artisti italiani, Modigliani fu quello che riuscirà con uno stile tutto suo, a creare modelli ispirati non solo all’arte negra ma all’arcaismo greco, etrusco e in misura minore al medioevo e all’arte Khmer. Le sue teste scolpite, dai lunghi nasi dalle bocche appena accennate e dagli occhi a fessura ricordano le stilizzazioni delle sculture Baulé e delle maschere Fang africane. Anche nella pittura, nei ritratti delle persone della sua vita, Modì recuperò quella stilizzazione delle sue sculture, come le meravigliose Cariatidi che si ispirano alla statuaria africana e nonostante il titolo dell’opera rimandi a fonti classiche, figure

analoghe venivano scolpite nella Costa D’Avorio a sostegno dei seggi dei capi tribù. Dalle maschere africane dei Cubisti all’Isola di Pasqua che ispirerà produzione artistica di Max Ernst legata al mito dell’Uomouccello, fino al sud America a cui guarderà Moore per realizzare le possenti figure distese, rappresentazione della forza della creazione, che ricordano quelle Chac Mool, nel Tempio dei Guerrieri di Chichen Itzà in Messico, o per realizzare le Teste guarderà alle Hachas (asce) mesoamericane. Pure un futurista come Carrà non rimase indifferente alle soluzioni formali adottate dagli artisti Cubisti anche se giudicherà negativamente l’influenza delle arti extraeuropee sull’arte occidentale, un primitivismo infantile il suo che cercherà una essenzialità nella semplificazione arcaicizzante. C’è un proverbio africano che ricorda che lo straniero vede solo ciò che sa: per un momento l’arte ha permesso di guardare e vedere senza sapere, senza conoscere i perché della creazione di questi oggetti, e quali valori rappresentassero: solo più tardi infatti si sentirà l’esigenza di studi etnologici e antropologici orientati ad una contestualizzazione dell’arte tribale, un’arte che non era destinata alla pura contemplazione creata per interagire con la realtà, non per rappresentarla, che non aveva artisti ma artigiani, che non poteva avere un canone di bellezza universale perché esito di culture diverse . L’arte si è incontrata con l’arte e ha aperto le strade alla conoscenza, senza più canoni, cercando di superare i confini di quel pregiudizio che è stato rappresentato dalla definizione stessa di arte primitiva, connotata come barbara e selvaggia. Incontro che ha dato la possibilità di cercare nuovi linguaggi, dall’estetica del brutto come si espressero i giornalisti del tempo guardando il Nudo blu di Matisse, fino alle avanguardie del secondo dopoguerra. Arte che si è mescolata all’arte diventando dialogo e contaminazione. Chiara Presepi


Et in Arcadia ego Testo di Gino Fienga 17


È

Pagina precedente: Vito Tongiani Monumento alla Linea Gotica (particolare) Marmo di Carrara 2004

Pagina seguente: Vito Tongiani Pentesilea morente allontanata dal campo di battaglia cm 230x180 2004 Collezione di Palazzo Madama Roma

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difficile immaginare che oggi si possa essere artisti senza far parte di quel circuito commerciale che fa di questo lavoro un calderone di compromessi pubbliche relazioni appostamenti politici e produzioni seriali. È difficile immaginare un mondo dell’arte diverso da quello che ci presentano le fiere e le sempre più prezzolate riviste del settore. Tuttavia non è questo il mondo da cui emerge Vito Tongiani. Tongiani, a dispetto di tutto quello che è lo star system dell’arte contemporanea, viene fuori dal silenzio della terra, dal respiro lieve delle colline, dal ritiro nella Tenuta Galliena dove vive lontano dal chiasso e dal clamore dei riflettori puntati su tutte quelle ombre che non riescono a brillare da sole. E da questo ritiro guarda il mondo, lo osserva e lo ferma, a tratti, su tele dal sapore spesso parigino, ma di una Francia che non c’è più, che non ha più da concedere le stesse emozioni che accordava a chi l’ha vissuta molti anni fa a caccia di vita e di fortuna. Quello che vede è un mondo che gli va incontro e che lui incontra liberamente, senza pregiudizi, ma che attraverso il suo filtro artistico rende cosciente finendo, forse, per restituirgli una più profonda conoscenza di se stesso. Tongiani non è l’artista in continua ricerca di qualcosa da dipingere o a cui dare forma: lui trova senza cercare, e riporta puntualmente nel suo diario di viaggio, come in un taccuino di emozioni d’altri, annotate con complessa semplicità e che, sfogliate, ci conducono attraverso stanze della memoria in cui rivivono i personaggi incontrati, i luoghi vissuti, le donne amate, i colori respirati. Ma se la pittura è sicuramente per Tongiani una necessità interiore quotidiana, un normale modo di fare, è diventata, probabilmente, anche un rifugio dall’impossibilità di fare Scultura con la ‘S’ maiuscola, una fuga dalla mancanza di sensibilità di chi ne è spettatore e fruitore ormai ignaro dei canoni della bellezza, nonché dall’inadeguatezza delle capacità e delle competenze esterne che dovrebbero supportare uno scultore nella realizzazione della sua opera. L’idea dell’artista, il lavoro minuzioso del cesello, la perfezione formale, la ricercatezza di ogni più invisibile piega dell’anima della scultura è oggi, purtroppo, ben lontana da ciò che esce dalla fonderia e che diventa poi l’opera che ci viene restituita: qualcosa che assomiglia, in una percentuale più o meno bassa, all’idea

originaria, divorata dalla fretta, scarnificata, raspata, fresata, tirata via dall’insensibilità di diverse mani ignoranti. Mani che ignorano ormai il lavoro vero, quello di bottega, quello di fino, sempre più costrette a produzioni seriali di culoni boteriani che devono velocemente uscire per andare a decorare le piazze di chissà quale mondo rassegnato alla bruttezza. La morte esiste perfino in Arcadia. Per Tongiani, invece, la scultura è una sola: quella che dagli egizi a Bernini ha teso un filo sottile attraverso la storia dell’arte scrivendo le regole dell’armonia e della forma che, per quanto esasperata e arrotondata o semplificata e geometrizzata, risponde comunque a quelle regole di intersezioni di piani e di rette che rendono un pezzo di materia degno di essere chiamato Scultura. Il resto è forma che occupa lo spazio, non-scultura, non certamente arte. La sua essenzializzazione del disegno non lo allontana mai dalla figurazione, ma ne semplifica gli eccessi, restituendo un’eleganza formale che sembra provenire dall’interno stesso della materia, ma che scivola sulla superficie marmorea o bronzea con una sensualità ed una carica espressiva che è ciò che fa di Tongiani un grande artista. Non è, quindi, uno sterile legame con la tradizione che vincola il suo lavoro scultoreo a canoni ormai riconoscibili da pochi occhi non ancora assuefatti all’accettazione incondizionata della mediocrità. Bensì la profonda convinzione che non esistono altri modi di rendere finita un’idea, non esiste un’altra scultura solo perché giustificata da idee bizzarre e filosofie vuote: non servono punti di vista pseudo-soggettivi che attraverso discorsi e parole piene di niente costruiscono apparati critici solidi come castelli di carta; esiste, invece, ancora, l’Arte che non ha bisogno di pagare dissertazioni utili solo a nascondere l’incapacità di ideare e, soprattutto, realizzare qualcosa che possa davvero essere chiamata opera d’arte. Ed è questa consapevolezza e questa dignità di artista che trasuda dai personaggi delle sue opere: una dignità mai artificiosa, ma espressione di una fierezza del proprio essere, sia che si tratti di una donna in fuga sotto i bombardamenti della linea gotica, sia che rappresenti la passione di uno scrittore che noncurante del traffico e del caos che lo circonda si siede dove capita e con la sua macchina da scrivere sulle ginocchia da libero sfogo alla sua voglia di parole. Il monumento a Indro Montanelli (che sta per



concludere e che verrà collocato a Milano nel parco a lui dedicato), è forse per Tongiani una metafora della sua stessa vita e del suo lavoro, un cerchio che si chiude. L’impellenza della creazione non cerca comodità, non necessità tecnologie avanzate e uffici superaccessoriati e iperinternettizzati. La macchina da scrivere è lo scalpello che che scolpisce il bianco foglio di marmo, un colpo per volta, una lettera per volta. È lontana dalle sofisticazioni della velocità contemporanea, ha bisogno dei suoi tempi e non se ne vergogna. Il tic tac, l’aritmico martellio che l’accompagna è il ritmo necessario da ascoltare per ritornare a vivere la poesia che si nasconde in gesti che stanno scomparendo. Tongiani è cosciente che viviamo in una società che ci impone una razionalità pedante, ma lui si ribella a questa legge che pretenderebbe di ingabbiare e calcolare anche i sentimenti e la fantasia: la sua opera non è frutto di un programmato sviluppo seriale, ma il percorso incerto e sorprendente di una persona che vive, imponendo i suoi principi, forte della consapevolezza delle proprie idee e delle proprie capacità, ma con tutti gli imprevisti che un incedere del genere può riservare.

Vito Tongiani Karima la rosa olio su tela cm 97x130 2001 Collezione Privata

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È così che si intrecciano stili e tematiche, anche lontane: umori africani, soggetti mitologici, erotismo e narrazione, contemplazione paesaggistica e ricerca psicologica, guerra e poesia pura. Tutto questo fa parte della vita, di quella di Tongiani come della nostra e la sfida, oggi, sta nell’uscire dal vortice che ci trascina con forza verso mete imposte da altri. Sta nel non dimenticare, quando siamo davanti al tramonto, di volgere lo sguardo nella direzione opposta dove invece di vedere come ci si immagina i tenui colori dell’imbrunire scopri che sull’orizzonte, fra la terra e il cielo c’è un’alta banda di un indaco luminosissimo che verso l’alto diventa violetto rosso arancio giallo verde chiaro e azzurro pallidissimo. Lì, forse, è l’Arcadia che invano cerchiamo, al confine fra il nostro passato ed il domani: il luogo in cui il reale e l’irreale, il mito e l’oggettivo si fondono dando vita ad immagini sfumate nel tempo e nello spazio... et in Arcadia ego.


Un neometafisico in terra labronica Testo di Giuseppe Vannucci 21


A

Pagina precedente: Antonio Vinciguerra Accessi Impossibili olio su tela cm 100x110 2003

Pagina seguente: Antonio Vinciguerra Materia e forma olio su tela e tavola cm 140x70 2005

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dispetto dell’immagine diffusa che vede in ambito pittorico la notorietà di Livorno, (ad eccezione del caso Modigliani), legata essenzialmente al periodo felice della tradizione macchiaiola, questo territorio ha dato i natali, nel trentennio che va dalla fine degli anni ‘20 agli anni ‘50 del secolo scorso, oltre ad un protagonista assoluto dell’arte italiana del secondo novecento come Gianfranco Ferroni, ad un artista di grande spessore come Antonio Vinciguerra (Livorno, 1937) che pur seguendo itinerari umani ed artistici totalmente autonomi presenta suggestive consonanze poetiche con l’opera di Ferroni. Nel segno di un’arte neometafisica che non significa appartenenza accademica, né implica vincoli stilistici ai modelli paradigmatici di De Chirico e del fratello Savinio, Vinciguerra esprime un rinnovato atteggiamento interrogativo verso il mondo, una tensione volta a captare anche nella dimensione della quotidianità la sottile vibrazione di mistero che talvolta attraversa e scuote l’immagine apparentemente familiare e rassicurante di ciò che ci circonda. Un’immagine dove il senso ed il tempo appaiono sospesi nell’attesa del miracolo, di una rivelazione dall’indagine ossessiva di porzioni di realtà che sembrano tradire all’improvviso possibili significati inattesi. Silenzio ed assenza, aggiungo: termini chiave che definiscono una loro precipua temperie dello spirito, il punto di arrivo di un processo di progressiva rarefazione della presenza umana, percepita o ricordata da tracce ed indizi del suo breve e repentino passaggio in oggetti o luoghi che assurgono a muti testimoni emblematici. Vinciguerra, pittore e scultore molto noto a Livorno per gli affreschi, sculture e formelle in bronzo presenti in numerosi edifici pubblici (tra i quali il Palazzo della Gherardesca recentemente restaurato dalla Provincia) e su portali e tabernacoli di Chiese cittadine, dopo un periodo di matrice fauve ed espressionista dalle violente accensioni cromatiche, approda alla fine degli anni ‘70 ad un’analitica e straniante rappresentazione oggettuale di indirizzo neometafisico e concettuale che defnisce tuttora il suo ambito di ricerca. Seguito con vivo apprezzamento dal critico Antonello Trombadori e dallo storico dell’arte Federico Zeri, (entrambi insieme al futuro presidente Dott.Carlo Azeglio Ciampi nel Comitato d’Onore della mostra di Vinciguerra Quella magica galleria organizzata dal Comune di Livorno nel 1992), l’artista labronico persegue con rigorosi equilibri compositivi un indagine sempre più circoscritta ad oggetti prosaici e domestici, isolati e privi di riferimenti spaziali, per cercare

di catturare, nelle rifrazioni della luce e nella palpitazione vibrante della materia, il loro poetico mistero. Così che cuscini e cornici, contenitori di uova e sacchi di plastica,. per un istante si animano come personaggi, familiari ed estranei al tempo stesso, di intensa e talora drammatica pregnanza simbolica. La figura umana è del tutto scomparsa; solo le impronte di corpi sui tessuti ed ombre cupe ed incombenti testimoniano il suo passaggio forse già compiuto e concluso nel suo destino terreno. Meditazioni visuali sulla caducità, sul perenne ciclo dell’essere e del nulla che si sostanzia nelle pieghe di drappi funerei che ora avvolgono, nascondendo e rivelando, ora in volumetrie morbide evocano il fantasma di un’ Ilaria Del Carretto deposta sopra un divano. Il solitario percorso artistico di Antonio Vinciguerra configura così una poetica di assorta e spaesante oggettivazione che colloca la sua opera in un’area contigua e coeva alle sperimentazioni di Ferroni de La Metacosa, lungo una direttrice che va dal singolare connubio negli anni ‘60 di Metafisica e Pop Art di Domenico Gnoli alle materiche ed eternizzate nature morte di Carlo Guarienti, insieme al quale Vinciguerra espone nel 1988 a Roma alla mostra La Metafisica interpretata. Un intreccio di speculari analogie ed echi profondi sintonizzati sulle frequenze di un comune spleen esistenziale ed afflato laico e sacrale al mistero del mondo. Sarebbe certo auspicabile un ulteriore approfondimento storico-filologico da parte della critica d’arte più attenta alla ricerca nel campo della figurazione contemporanea. La dialettica antinomica tra un insopprimibile principio di vita che si manifesta nel culto della nascita e nei fantasmi dell’eros da una parte e la lenta ma inesorabile forza disgregatrice e pietrificante della sua negazione dall’altra, è la linfa sotterranea che alimenta l’immaginario di Vinciguerra. Infatti sia che immortali nelle tele umili suppellettili, riscattandole con la poesia dall’oblio , sia che indaghi la materia per tentare di carpirne l’essenza, quello che l’artista incessantemente insegue è una possibilità di salvezza; nella forza sublimante e catartica dell’arte, nel miracolo della vita che si rinnova o nella fede, tormentata ed interrogativa, in una dimensione imperitura dello spirito. Perché dietro il velo di Maya degli Accessi Impossibili non ci è dato di poter scrutare. La finestra di pietra spalanca sull’ignoto solo una buia e sottile fessura.


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illustrazione – Graffiti

STUDIO D’ARTE Francesca Cesari

PITTURA - MOSAICO - DECORAZIONE

Laboratorio ed esposizione: via Mar Adriatico, 14/16 47814 Bellaria Igea Marina (RN) - tel. 0541 346889


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A l c o n f i n e d e l Monte Parnaso

T

enebre notturne e tristi lamenti di strigi sperdute fra rami d’alberi intricati e spogli, e bisbigli indistinti di erranti pellegrini di ogni età, incerti in confusa processione lungo un percorso appena tracciato da pallide lucerne, spente già alcune da venti improvvisi che sbatacchiano l’aria. Scalpiccìo di passi e sassi calpestati e smossi, là dove il suolo è più pietroso e infido. Cammino affaticante per non si sa dove e c’è chi stracco nell’anima siede e dice ai viandanti che non vale la pena proseguire, perché poco oltre li attendono solo un dirupo scosceso e il nulla silenzioso. E intanto spegne stoltamente intorno a lui ogni lucerna. E c’è odore di morte e di schiavitù. E caterve di indolenti, però, lo ascoltano, lo imitano anzi, e sostano aspettando, ormai mesti e taciturni, non si sa cosa. Solo di tanto in tanto tra loro scoppi di risa inconsulte e suoni di parole vane, come estremi effetti della presunta forza del loro innumerabile numero. C’è chi invece solerte prosegue e lungo il ciglio del sentiero stacca qualche ramo secco e ne attinge il fuoco dalla lucerna più prossima e attorno a lui è subito tenue lucore e ciò suggerisce a tanti di seguirne l’esempio: si stacchino rami e si facciano torce e tutti insieme si avanzi illuminando il viaggio per evitare intanto il suolo accidentato, forse un po’ più in là anche il dirupo e il nulla. E c’è odore di vita e di libertà. Così a capo di un drappello di uomini accorti egli avanza, e non importa se poco più certo, importa che comunque in ognuno infonda la speranza di assistere alla mirabile visione di cui si vocifera di generazione in generazione: quel passo di confine tra terra e cielo, tra umano e sacro, tra phatòs e ineffabile: l’edenico monte Parnaso. E, a mano a mano questi procedono innanzi, ragionano tra loro con fiero piglio con l’intento dichiarato di tenersi desti dal funesto sonno della ragione e dei sensi, pascendo invece i pensieri: tentano ipotesi, congegnano teorie, sempre e comunque alternando la parola all’ascolto, per dimostrare o per consolare, mai per proselitismo, sperimentano così più efficaci tentativi di liberali comunicazioni, sempre diverse e nuove.

Pagina precedente: Ariela Böhm Percorsi V terracotta Raku su legno e foglia d’oro cm 124x67x3 1997

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Ed ecco finalmente sembra affiorare dalle lugubri tenebre una vaga aurora e ai sinistri alberi spogli si avvicendano prima rari allori, poi sempre più frequenti. Tutto intorno profuma. E di lontano si odono nell’aria – che ora è già fresca mattina – ogni canto d’uccello, tra tutti il pettirosso, e il garrire di trepide rondini e poi il tono suadente di una lira da braccio. Chi suona? Si acceleri il passo in mezzo al laureto. Chi suona? Ora si stia nella radura e si trattenga il fiato. Chi suona? Si osservi e si ascolti. È Apollo che suona: ispirato, seduto, al centro di una roccia erbosa, da dove fluisce Castalia, la limpida fonte perpetua d’estro e d’ingegno, a lui sempre devota. E attorno le estatiche Muse, perenni fanciulle in eleganti toilette, che ascoltano e intrecciano tra loro amabili gesti e sguardi. Ecco la lira azzittisce alla voce di un vecchio cieco – è Omero – che in alto a sinistra declama suoi versi antichi:

Cantami, o diva, del pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’eroi, e di cani e d’augelli orrido pasto lor salme abbandonò (così di Giove l’alto consiglio si adempìa), da quando primamente disgiunse aspra contesa il re de’ prodi Atride e il divo Achille...

Ennio, seduto a sinistra, ne trae ispirazione, e Dante austero si volge a Virgilio, vicino a Stazio (?), entrambi prossimi alle muse. Più in basso è Saffo, che regge suoi versi vergati, mentre guarda Alceo, Petrarca, Corinna e Anacreonte, raggruppati in silenziosa conversazione e sul lato opposto, dall’alto verso il basso, si muovono Castiglione (?), Boccaccio, Tibullo, Ariosto (?), Properzio e lì seduto Ovidio che, mentre indica con la mano destra i pellegrini astanti, – tra cui forse il munifico committente Giulio II –, guarda il Sannazzaro (?), nell’atto di chiedere silenzio: ora, appresso a Omero, ognuno a turno canti i suoi versi, e non solo tra i poeti già lì sul Parnaso, ma anche fra quanti dei viandanti in estasi hanno imparato da questi a rischiarare con meditate parole le tenebre notturne, e siano tra gli altri Shakespeare, Tasso, Molière, Alfieri, Parini, Goethe, Leopardi, Verga, Pascoli, Tolstoj, Eliot, Pirandello, Kafka, Quasimodo, Montale... tutti in attesa di un nuovo Raffaello che li collochi sull’edenico monte in una schiera sempre più fitta di uomini accorti che rendano ancora più mirabile la visione di cui si vocifererà ancora di generazione in generazione. Pippo Lombardo

Raffaello Il Parnaso Affresco cm 670 (base) Roma Palazzo Vaticano Stanza della Segnatura

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L a St e p p a e Siberia: d u e m o n d i e s t remamente simili.

P

er dare un senso, in premessa, a queste note su Anton Cechov, scegliamo due date: 1888 e 1890, vale a dire la pubblicazione de La Steppa e Siberia. Il primo è un lungo racconto ambientato nelle sconfinate distese d’erba che formano la steppa, il secondo predilige anch’esso il succedersi di eventi, racconta delle cose, pur configurandosi, in maniera più attuale, quale osservatorio per una molteplicità di fenomeni sociali nella forma di reportage giornalistico vero e proprio (non a caso venne pubblicato in prima battuta a puntate sulla rivista Ruska i Misl e successivamente in una straordinaria edizione del giornale omonimo). Tuttavia sia l’ambientazione che lo spirito dei due scritti sono completamente diversi. E vediamo perché. La Steppa prende a pretesto il viaggio compiuto da un adolescente, Egòruska, in compagnia di un parente mercante e di un priore, per raggiungere, lontano dalla famiglia, il ginnasio dove dovrà continuare gli studi. Già il prologo ci introduce a una atmosfera che accompagnerà tutto il viaggio (“Dalla città di N... sul far di un mattino di luglio, uscì rotolando con fragore sulla strada postale una vettura senza molle e sgangherata, una di quelle vetture antidiluviane sulle quali viaggiano ora in Russia solo più i rappresentanti di commercio e i priori poveri...”) in cui si fondono svariati elementi, come la strada battuta dal carro (un tratturo, poi semplicemente sentiero appena tracciato, oppure erba soltanto bruciata dal sole),

Nota: La steppa è in Racconti e novelle, vol. II, Sansoni, Firenze 1955. Siberia, con pref. di Corrado Pizzinelli, venne pubblicato per Nicola Moneta Editore, MilanoRoma 1960. (Da questa edizione è tratta la tavola riprodotta a destra) Di entrambe le opere ci sono oggi innumerevoli edizioni anche economiche.

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i villaggi intravisti in distanza, una umanità fatta di pochi personaggi incontrati qua e là perlopiù stralunati per la lontananza da altri esseri umani. Il viaggio procede con una lentezza esasperante, cui contribuiscono l’assenza di confini e il sole implacabile, fattori questi che coinvolgono il ragazzo inducendolo a sogni e fantasie ritmati dal rotolare del carro. Tutto insomma congiura a che l’autore sia vinto, pur vigile com’è verso i segnali provenienti dalla steppa, da un sentimento panico totale e più forte di qualsiasi resistenza critica. Il lettore si ritrova così coinvolto in una non storia formata da tasselli multicolori che concorrono assieme a dare il senso dell’infinito, la steppa insomma, immagine emblematica di una Russia immutabile e senza tempo. La storia termina con l’angoscia trattenuta del protagonista, come a dire una porta che si chiude definitivamente sul passato felice, l’adolescenza, cui subentra il sentimento dell’ignoto, della “nuova vita sconosciuta che iniziava per lui... Quale sarebbe stata questa vita?”. Con la seconda opera, Siberia-Sachalin, un panorama di vasto respiro, che approda quasi ai lidi dell’Oceano Pacifico, il dottor Anton Cechov (il perché del titolo accademico lo si capirà poi) si sottopone a una lunga preparazione di letture scientifiche accurate, di tabelle statistiche e indagini sociologiche oltre che di un allenamento fisico adeguato per affrontare i disagi di un viaggio ai limiti delle terre civili (si noti che l’autore era


La linea d’ombra del 1956

Una storia al confine della giovinezza.

L

ammalato di tubercolosi, malattia che lo porterà alla morte nel 1904 all’età di quarantaquattro anni). La meta è dunque l’isola di Sachalin, luogo di detenzione ed esilio per una popolazione che assomma a 15.000 persone, falcidiate da malattie endemiche ed epidemie di ogni tipo e brutalizzate dai lavori forzati, prive di qualsiasi protezione e diritto civile (val la pena di citare un esempio: due operai dovevano trasportare, per otto verste su terreno innevato grossi tronchi di 4-500 chili, con le conseguenze immaginabili in fatto di strapazzi e malattie). È con questa realtà che si confronta il dottor Cechov, animato da uno spirito umanitario che trae la sua ispirazione dal pensiero positivista dominante in quello scorcio di secolo, e anche in passato promotore in prima persona di iniziative filantropiche di vario genere. Il percorso culturale e la curiosità intellettuale dello scrittore lo portano ad indagare i più diversi aspetti di questa società estrema confinata in un luogo, la cosiddetta Katorga o colonia penale, che è quasi una bolgia dantesca, caratterizzata com’è dal concubinaggio spesso forzato (si vedano, ad esempio, gli approdi all’isola, periodicamente, di donne di ogni condizione e provenienza), la prostituzione, le malattie, la criminalità e il degrado. Tuttavia, a parte la denuncia delle condizioni di vita a Sachalin e le profonde ingiustizie generate dal regime autocratico zarista, il valore di Siberia sta, secondo me, nella narrazione del viaggio durato oltre tre mesi attraverso le regioni che da Mosca portano all’estremo oriente, coi continui cambi di carrozze e i numerosi traghetti fluviali, gli episodi che lo costellano e le osservazioni puntuali sui costumi delle varie popolazioni (memorabili le pagine dedicate ai cosacchi), sulle condizioni di vita e via via su tutti gli aspetti caratteristici di una società composita e per molti aspetti indecifrabile. C’è in tutto questo una vera e propria complicità e identificazione dell’autore col mondo che attraversa indagando, segno di rispetto, ma anche, sotto il profilo sociologico, angoscia malcelata per una condizione umana di cui non si vede un riscatto vicino. Ultima osservazione: forse il mondo di Siberia non è molto dissimile da quello più onirico della Steppa, anche se nell’uno è il deserto della taiga che prevale, entrambi comunque luoghi senza confini sia fisici che ideali.

o scrittore Salvatore Casaburi cinquantottenne docente napoletano di materie letterarie ce l’ha fatta. Al suo terzo romanzo Millenovecentocinquantasei, Disincanto napoletano - è riuscito in una sua particolarissima quadratura del cerchio letterario, riuscendo a scrivere una storia di passioni che unisce naturalmente storia minima e Storia, senza che il lettore colga integrazioni macchinose e parlandoci del superamento di un confine comune a tutti: la linea d’ombra di una giovinezza doppiata irrimediabilmente. In più emendando un difetto d’eccessivo barocchismo nella narrazione che avevamo colto nel primo testo ma che Casaburi è riuscito ad eliminare con una narrazione che ha un solo precedente a Napoli: il primo Erri De Luca di Non ora, non qui. Passando a dare conto della trama, se il primo romanzo La casa sulle metropolitane (ed. Intra moenia) disegnava una saga familiare che s’innestava in un crocevia politico e sociale ben definito: l’esperienza del ‘68; mentre il secondo La lettera di Soterio (Dante & Descartes) narrava di un ritorno a Napoli di Antonio Precanico, epidemiologo che rientra da Berlino richiamato dalla lettera di un amico di tante battaglie comuniste l’operaio siderurgico dell’ILVA Soterio Ferroso, “ex operaio ma coscienza critica in servizio permanente”; nella sua terza fatica Casaburi, pur partendo da un’infanzia iniziata in periodo fascista in un’oramai bozzettistica Porta Capuana, riporta la storia di Gerardo Cannavacciulo correttore di bozze tiepidamente comunista e dei suoi amici - Lina, la maestra; Marta, la sindacalista; Raffaele, il ferroviere; Luigi, l’intellettuale (personaggi che sembra ritagliato sullo scrittore Luigi Incoronato); ed anche dello zio omonimo proprietario della Tipografia Cannavacciuolo - la cui vita o giovinezza termina al culmine di quel fatale 1956. La ragione - le ragioni - di questa storia stanno tutte in quel sottotitolo che è una vera e propria dichiarazione d’intenti. Quel distacco con aggettivazione onomastica riflette la divaricazione di una città storicamente indifferente ai moti d’intelligenze e coscienze spontanei; ma anche e soprattutto il divario da una politica anch’essa autoreferenzialmente distaccata dai bisogni delle persone. La linea d’ombra dei protagonisti viene passata in quel 1956: quando l’Ungheria disvela l’ipocrisia comunista che s’aggiunge a quella laurina, cattolica e monarchica. Non c’è soluzione per una storia che ha i suoi corsi ed i suoi ricorsi nefasti dettati dal potere: l’unica è avere pazienza perché come dice un protagonista “il desiderio di vivere si deve difendere e qualche sacrificio bisogna farlo, perché la vita la vedi solo alla fine e se la consumi subito ti togli lo sfizio di goderti lo spettacolo”.

Mario Ricci

Vincenzo Aiello

Bibliografia Salvatore Casaburi Millenovecentocinquantasei, Disincanto napoletano Ed. Dante & Descartes, Napoli 2005

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Sul confine della parola. Il tempo e le sue trasfor mazioni Il con-fine delle cose avviene quando svanisce il Tempo e non pensiamo. Intuiamo: non rivestiamo il corpo di emozione ma Sensazione. La prima pervade prendendo il sopravvento la seconda accompagna dolcemente il nostro agire... ed ogni cosa non è più accessorio ma Diviene nel suo delimitarsi lo spazio in un più grande disegno che si nota solo dall’alto... dal con-fine del corpo.

Il fuoco... lo osservo. Il suo con-fine mi riscalda. Il fuoco... lo tocco e mi brucia. Il suo confine ha delimitato il mio.

...sconfinando i con-fini... tutto ciò che può essere definito opera d’arte ha un suo stile ed armonia... tutto ciò che ha un suo stile ed armonia deve essere oltre che pura espressione (cioè libera da qualsiasi forma di “malattia”) valutata compresa accettata. La comprensione risiede nell’individuo laddove non si giudica e gli equilibri soggettivi si uniscono formando Il Disegno (uno dei Tanti): e sono parte di un albero sono parte di un vulcano sono parte del cielo sono parte del ghiaccio e sono parte del fuoco. Alcuni vanno per esclusione di scelte per individuare... (non riconoscendosi in ciò che incontrano definiscono prima i confini poi i loro scopi) altri per pura intuizione altri non si esprimono, sono specchio (a volte di un equilibrio non loro)... ognuno di noi (ed ogni cosa) ha una sua Storia (che si può più o meno Intuire) ognuno di noi (ed ogni cosa) ha un suo percorso nella propria Evoluzione... Pagina successiva: Francesca Conti Il mio confine foto digitale 2006

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Il mio confine avviene nel non ricercare predisponendo un limite ed il mio con-fine avviene nel Silenzio dell’accettazione di un reale che Esiste solo nell’armonia della Pace del cuore. Francesca Conti



Impressioni sul tempo che torna di G. Di Bella - Danilo Margio

Una scala sullo specchio nella chimica magia del bianco e nero. Proiezione verso vite parallele, risalendo con la labilità del proprio ego a stabilire l’elisione dei confini tra l’interno (delle frustrazioni vuote) e l’esterno (di visioni cognitive). Così si può scomporre e ricomporre il senso, oramai nulla è più certo, fusione alchemica di bui significanti, oggetti di abitudine abusata in ensemble armonico e straniante di antitetici elementi primordiali, fuoco e legno, chiaro e oscuro, guerra e pace, vita e morte, combustione ed efflorescenza, quindi, rinascere come mitica fenice dal residuo delle proprie combustioni Naturali. Ma pure materiali tutti nostri, acciaio levigato, ghisa, ferro con poca luce e tutto da rifare: mentre siamo certi di afferrare appare l’ombra di una verità ri-velata a insinuare che esiste un altro modo di osservare il mondo. Perciò Chema Madoz nostalgica elegante e pure nata nel domani si adagia su una vetta di astrazione, viaggia nel silenzio siderale della estetica coetanea. All’origine fu sguardo, l’impressione che si sforma dentro il lampo, Monet nel suo giardino aspetta il sole delle 16:45. È il compimento sommo del trasmigramento umano nel divino: l’arte più della natura, ma la serialità infinita annulla il cuore chinando(lo) ed alzando(lo) al segno puro, al simbolo senz’alma dell’oggetto commerciale. Adesso siamo qui con questa lingua più sincera Pagina successiva: Gino Fienga Impressioni sul tempo che torna pennarello su carta cm 21x29,7 2006

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di scirocco cui dentro danza, l’icona, falce e martello ritagliati al centro da un prisma di sole addolcito dal filtro di colore. Ma un altro prisma ancor più dentro è il Che del Granma come un Gesù Romantico sovresposto e al risveglio è solo Warhol, l’angelo rosso, e nel risveglio dal risveglio è la Gold Marylin Monroe tutta sbavata. Allora la sensuosità fu tutto, tutto il mio essere colmato di passione. Era la nudità della patinata dolce di cosce e seni a profusione, e gambe e glutei a piene mani di screziata perfezione nei margini dei calendari e dei fogli di riviste e quotidiani. E ci si ferma a un punto, cruciale per premura e per ragione in quell’azione che sarà definitiva Eliott Erwitt con la sua ironia di pietra per cui torna il grigio in una lenta scalatura, neri e reietti e volti infranti dal dolore. Proprio ad un passo dall’entrare nello specchio ci coglie la ritrosia: non congiungere per sempre l’Essere, quest’essere che sa di sè, all’Icona. Così siamo tutti morti, ma per mano di Man Ray e mentre stiamo già per cedere alla Porn Art Timothy Greenfield serie XXX quasi fosse la vera Maya desnuda siamo anche noi immersi nell’acido azzurrino della camera oscura, nel lucido di Kodak, eternati e consacrati

sul crinale tra il tangibile e l’irreale,

e per quell’attimo infinito già Ricordo

attraversiamo come spettri il corpo assurdo

(qui entrò Montale insieme all’upupa

della norma chiuso in un tempo reale. Con il grandangolo dell’orizzonte e l’obiettivo con la massima apertura: la nube gonfia fulva

impagliata) il solo che nasce su un confine e non lo supera. Come impressioni sul tempo che ritorna.



De n t ro e f u o ri il corpo. L a f o r z a s i m b olica della fisicità.

H

o fatto un tatuaggio. Ci pensavo da tempo, credevo che non ne avrei avuto il coraggio, ed invece... Eccolo lì, sulla mia pancia. Una serie di situazioni e di disposizioni d’animo sono state sufficienti a renderlo reale. Ed ora, se chino la testa, vedo linee che rispecchiano la persona che sono. Non saprei se è considerabile una forma d’arte. Ma il fatto che proprio il corpo venga scelto – fin dall’antichità – quale veicolo di tali segni, mi sembra sia significativo dal punto di vista artistico. Se, infatti, il corpo viene utilizzato come mezzo per significare un qualcosa che va al di là della mera fisicità, e se un’opera d’arte è un oggetto che dovrebbe servire facendosi portatore di valori altri dal semplice mostrare, il territorio costituito dal loro intersecarsi non potrà che essere rigoglioso. Il corpo è un luogo di confine. Un luogo nel quale interno ed esterno si confondono, che nel momento stesso in cui agisce è agito, per cui se una mano tocca è allo stesso tempo toccata. Un luogo attraversato dai più profondi tabù dell’uomo, continuamente in bilico sul filo dell’infrazione. Un luogo che sempre più spesso viene scelto dagli artisti, per la sua intensa forza simbolica, per le sue potenzialità espressive, per la sua capacità di veicolare, con efficacia ed impatto, idee e domande. Il risultato annulla il limite tra artista e fruitore, tra artistico e quotidiano: è la performance, l’arte che si ritrova in atteggiamenti e che – inevitabilmente – gioca e scivola lungo i

confini di altre aree, prime tra tutte la politica e la morale. In quest’ottica, dunque, il corpo diviene una sorta di catalizzatore che aumenta la capacità dell’arte di essere utile, diventa lo strumento per eccellenza tramite il quale appellarsi ad una società che spesse volte lo espone senza alcun rispetto, lo sfrutta fingendo idolatria, lo intrappola in gabbie di false formalità dalle quali l’arte riesce a liberarlo. E non è un caso, forse, che un grande numero di opere corporee – se così possiamo chiamarle – siano eseguite da artiste, da donne, il cui corpo, storicamente e culturalmente, è in maggior misura soggetto ad abusi e prevaricazioni. Proprio quel corpo che in tutte le culture e tradizioni è il simbolo della vita, acqua fertile che scorre per fecondare la terra, scrigno del liquido amniotico da cui tutti siamo generati. Ed è proprio il rapporto fra l’uomo e l’acqua che scorre che andremo ad indagare ed a riportare alla nostra maniera sulle pagine che già si vanno scrivendo del numero 2 di questo nuovo quaderno di pensieri che girano intorno ad un rinnovato concetto di arte e cultura etica. Perché l’opera d’arte non rimanga un effimero soprammobile, ma diventi un libro aperto da sfogliare e da approfondire sempre di più. Manuela Gargiulo

Regalati e regala un viaggio lungo un anno attraverso l’Arte Riceverai in omaggio una stampa su carta vergata avorio di un’opera grafica del maestro o1 Ann

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Massimo Turlinelli

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