con-fine international art magazine n.21

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MICHELANGELO

DA UNO A MOLTI,

e CITTADELLARTE

1956 - 1974

4 MARZO 2011 - 15 AGOSTO 2011 MAXXI - VIA GUIDO RENI, 4 A - ROMA partner tecnologico

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magazine ISSN 1827-9864

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9 771827 986075


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2nd Opening 30 April at 6 p.m. Hotel Europa Třída Kpt. Jaroše 27, Brno, Czech Republic info: +420 545 421 400 arthoteleuropa.blogspot.com / www.hotel-europa-brno.cz Permanent exhibition

Project by: Andrea Penzo and Cristina Fiore cantierecorpoluogo.blogspot.com / cantierecorpoluogo@gmail.com Aldo Aliprandi, Marianna Andrigo, Michelangelo Barbieri, Greta Bisandola, Gino Blanc, Francesca Bonollo, Elena Candeo, Martina Chloupa, Pablo Compagnucci, Irene De Andres, Lorenzo De Nobili, Adolfina De Stefani, Elisabetta Di Sopra, Paolo Fiore, Fabio Fornasier, Barbara Fragogna, Patrik Hábl, Monika Havlíčková, Vladan Hořica, Alessandro Mandruzzato, Antonello Mantovani, Pavel Piekar, Patrizia Polese, Diego Ranzato, Maria Eugenia Rivas, Arturo Siebessi, Daniela Štichová, Klára Stodolová, Ladislav Sýkora, Isabel Tallos, Maria Gabriella Troilo, Marcela Vichrová, Lorena Vivent, Luigi Voltolina.

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Possibile che ancora oggi sia attuale la domanda “che cos’è la bellezza?” Per Crispin Sartwell, docente al Dickinson College (Carlisle, Pennsylvania) non solo tale domanda è attualissima, riguardo ad ogni ambito della società moderna, oltre che all’ambito più strettamente artistico, ma ci introduce in una considerazione del mondo seguendo un ragionamento che abbraccia cultura occidentale e orientale, ambiti disciplinari diversi e purtuttavia interessati al concetto di bellezza, che innanzitutto è indagata come oggetto del desiderio. La bellezza, quindi, è relativa all’esperienza, del singolo e della collettività, e in quanto tale si è storicizzata e la si può rendere, quindi, nuovamente evidente attraverso un’accurata analisi di civiltà che vanno dall’antichità a oggi. L’autore ne individua sei percorsi che conducono tutti al concetto di bellezza, che in quanto riscontrabile in ogni epoca e civiltà acquisisce da sé uno status di necessità dell’esperienza umana, da quella sanscrita, ebraica, greca, giapponese, a quella navajo e inglese. Una riflessione, quindi, nuova e originale per un concetto antico e quanto mai tradizionale, condotta attraverso una parola ora semplice, ora più esigente l’attenzione di un lettore che voglia capire nuove implicazioni conoscitive della bellezza.

Is it still possible nowadays that the question “what is beauty?” is still so relevant? For Crispin Sartwell, professor of Dickinson College (Carlisle, Pennsylvania) not only is this question very relevant, concerning every aspect of the modern society, beyond the art sphere, but he also induces us to think about the world following a reasoning that embraces both the eastern and the western culture, different disciplinary areas which are interested in the concept of beauty, which is first of all considered as object of desire. Beauty relates to the experience of individuals or collectivity, and being this its nature, it has been historicized and it can be highlighted through an accurate analysis of civilizations ranging from antiquity to nowadays. The author identifies six paths that lead to the concept of beauty, which, being recognizable in every era, it acquires a status of need of human experience, from the Sanskrit, Jewish, Greek, Japanese, ones to the English and Navajo ones. A new and original reflection, not at all traditional, for an ancient concept, led through a simple word, or through a more demanding one, the attention of a reader who eants to understand new implications of beauty.

I sei nomi della bellezza (L’esperienza estetica del mondo) Crispin Sartwel Piccola biblioteca Einaudi Filosofia – Torino, 2006

Pippo Lombardo

È appena uscito il n° 30 di Busta Sorpresa (Gennaio 2011) a cura di Carla Bertola, operazione di Offerta Speciale, la rivista multimediale d’artista che la Bertola edita e dirige dal 1978 insieme a Alberto Vitacchio. Busta Sorpresa n° 30 è stata presentata nel loro stand (11) al padiglione 18 ad Arte Fiera 2011 a Bologna. Il numero in questione consta di una cartella in formato A5 in cartoncino grigio/celeste/violetto, chiusa da un nastro di passamaneria giallo/arancio, contenente dieci opere originali di altrettanti autori eseguite in sessanta esemplari numerati e firmati. A questo numero hanno collaborato Franco & Mauro Carrera (Italia) con una gouache originale e un aforisma, John M. Bennett (USA) con una piccola icona, Clemente Padin (Uruguay) con un acronimo, Pasquale Maria Cerra (Italia) con una tecnica mista, Giancarlo Pucci (Italia) con una cartolina/ collage, Reed Altemus (USA) con una cancellatura tipografica, Giovanni & Renata Strada (Italia) con una copia fotostatica + interventi, Luc Fierens (Belgio) con una tavola anatomica, Franticham (Irlanda) con un collage neodada, Keith A. Bucholz (USA) con una stampa policroma. Non si tratta assolutamente di stampe tipografiche ma di veri e propri manufatti. Per chi ha del collezionista d’arte il cuore ma non il portafoglio.

The 30th issue of Surprise Envelop has just come out (January 2011) by Carla Bertola, operation carried out by the multimedia art magazine that Mrs Bertola has been running since 1978 together with Alberto Vitacchio. Issue n° 30 of Busta Sorpresa (Surprise Envelop) has been presented at their stand (11) in pavilion n°18 of Arte in Fiera 2011 in Bologna. This issue is in an A5 format made of grey/light blue/violet cardboard, wrapped in a yellow/orange passementerie ribbon, containing ten original works by ten artists, made in sixty numbered and signed models. Many people have collaborated in this issue: Franco & Mauro Carrera (Italy) with an original gouache and an aphorism, John M. Bennett (USA) with a small icon, Clemente Padin (Uruguay) with an acronym, Pasquale Maria Cerra (Italiy with a mixed technique, Giancarlo Pucci (Italiy) with a postcard/collage, Reed Altemus (USA) with a printing delation, Giovanni & Renata Strada (Italiy) with a photostat + papers, Luc Fierens (Belgium) with an anatomic painting, Franticham (Ireland) with a neo-dadaist collage, Keith A. Bucholz (USA) with a polycromatic print. It’s not about printings but downwright manufacture. For those who like collecting but do not have the money for it.

Busta Sorpresa Carla Bertola Offerta Speciale 2011 - Tavv. 10 in cartella

Nero Corsa


reading

La letteratura fantastica e visionaria è un genere che si ama o si detesta. Per chi la ama, dopo il precedente Via Regia in fase rem (2005) è da poco uscito, sempre per i tipi della Pezzini Editore, un altro volume dell’eclettico artista e scrittore Antonino Bove dall’evocativo titolo Oniroplasmi. Il tema di questo vero e proprio libro d’artista è quello della materializzazione dei sogni. La peculiarità di questo volume risiede nella possibilità di leggerlo in maniera irregolare, come un trattato di scienza immaginaria o un libro di presagi, ma chi è coraggioso può affrontarlo con una lettura lineare. Tra le immaginifiche suggestioni troverebbe l’atto costitutivo e lo Statuto della Società degli Onironauti fondata a Firenze nel 1973, alla quale Bove riconduce da anni la sua ricerca. Questo libro, realizzato con la rigorosa grafica della Gum Design, è anche un viatico surreale per il Centro per la Materializzazione dei Sogni, ambiente affascinante in cui le entità oniriche entrano in contatto con la realtà e sono quindi oggetto di analisi di laboratorio da parte degli esperti della Società degli Onironauti. Da queste indagini consegue la rivelazione che gli oniroplasmi, o sogni materializzati, trascendono i limiti fisici di spazio e tempo e consentono di ampliare le potenzialità dell’esistenza oltre i limiti della realtà. Da qui è auspicabile l’accesso ad un altro mondo alternativo. La via indicata da Bove è geniale e affascinante, come tutti gli scenari che la scienza dischiude davanti all’umanità. A testimoniare la serietà di questo percorso quasi ultrafanico ma rigorosamente scientifico, ci sono la prefazione di Vittore Baroni e la postfazione di Paolo Albani. Oniroplasmi Antonino Bove Pezzini Editore 2010 Pagg. 160 con illustrazioni

The fantasy and visionary literature is a genre that you either hate or love. For those who have loved the previous Via Regia in fase rem (2005), another volume of the eclectic artist Antonino Bove has just come out with the previous publishing house Pezzini. The title is Oniroplasmi. The subject of this downright artist’s book – which the author really loves - is the materialization of dreams. The peculiarity of this book lies in the fact that it is possible to read it in an irregular way, just like an imaginary science book or a book of premonitions, but if you are brave, you can read it from cover to cover. Among the highly imaginative suggestions, you would find the deed of partnership and the Statute of the Onirouts society funded in Florence in 1973, which Bove has been studying for years. This book, realized with the Gum Design’s rigorous graphics, is also a surreal viaticum for the Centre of the Realization of Dreams, fascinating place where the dreamy entities get in contact with reality and become study subjects for the experts of the Society of Onironouts. From these researches it follows that the oniroplasmi, or dreams realized, transcend the physics limits of space and time and allow to widen the potentialities of existence beyond the limits of reality. From here, the access to another parallel and unusual world is desirable. It’s a possible alternative to the inevitable biological destiny of the human being, circumscribed between the birth and the death. The way indicated by Bove is brilliant and fascinating, like all scenarios that science opens slightly to the mankind. Vittore Barone’s preface and Paolo Albani’s afterword back up the seriousness of this meditative but rigorously scientific path. Mauro Carrera

Generaction. Un promemoria per le generazioni è probabilmente uno dei più estesi libri d’artista collettivi mai realizzati, ma anche una mostra (ottobre 2010) presso la Galleria di Arti Visive dell’Università del Melo di Gallarate, un elegante catalogo, un’installazione da sfogliare, un work in progress internazionale. L’intero progetto – a cura da Ruggero Maggi, uno dei principali esponenti italiani della mail art – ha per tema l’«Incontro tra le generazioni» e ha visto per la sua realizzazione l’impiego di circa 16.200 Post-it®, per un’area complessiva di svariate decine di metri quadri. Al progetto sono stati invitati 355 artisti provenienti da 39 nazioni di quattro continenti, che hanno risposto all’appello con singole opere ottenute mediante le più diverse tecniche sul supporto dei celebri foglietti gialli, confluite tutte insieme nella realizzazione di un unico grande e leggerissimo libro/ installazione. A temporanea conclusione dell’operazione, per le edizioni della Fondazione Il Melo è da poco uscito il volume Generaction che rappresenta la documentazione libraria del progetto. I testi, pubblicati in catalogo in italiano e inglese, sono, oltre che del curatore Ruggero Maggi, di Isabella Peroni, Emma Zanella (Direttrice MAGA – Gallarate) e Marco Predazzi (Presidente Fondazione Il Melo - Luigi Figini). Il volume in 16° quadrato è interamente illustrato da fotografie riproducenti le opere realizzate dai mail artisti internazionali invitati.

Generaction Ruggero Maggi (a cura di) Edizioni Il Melo 2010 Pagg. 96 con illustrazioni

Generaction. A memo for the generations is probably one of the widest collective artist book never achieved, but also an exhibition (October 2010) at the Gallery of Visual Arts in the University of Melo in Gallarate, an elegant catalogue, an installation to be leafed, an international work in progress. The whole project carried out by Ruggiero Maggi, one of the main exponents of the mail art, features the theme of the “meeting among the generations” and for its achievement more than 16200 Post-it® have been used, covering an area of several dozens of square meters. 355 artists coming from 39 countries of the 4 continents were invited to join this project. They answered the roll call presenting single works obtained by using different techniques on the well-known yellow small pieces of paper, all converged in an unique large and very light book/ installation. As a temporary conclusion of the operation, the volume Generaction, being the book documentation of the project, has been recently published for the Foundation’s editions Il Melo. Besides the editor Ruggero Maggi, the texts, published in the catalogue both in English and Italian, are by Isabella Peroni, Emma Zanella (Editor of MAGA – Gallarate) and Marco Pedrazzi (President of the Foundation Il Melo – Luigi Figini). The volume in 16° square is fully illustrated with pictures showing the works of art carried out by the invited international mail-artists. Mauro Carrera


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Art Hotel Europa Andrea Penzo + Cristina Fiore Formato cm 22x27 - pagg. 112 - € 18 ISBN 978-88-96427-08-8

Un hotel di Brno, l’Hotel Europa. Più di trenta artisti di varie nazionalità che si ritrovano a respirare l’atmosfera intrigante e sensuale della città morava, alla ricerca di suggestioni volte ad indagare un solo tema: l’accoglienza. Tra loro, direttori d’orchestra e sceneggiatori di una quotidianità alterata, Andrea Penzo e Cristina Fiore si muovono tra i corridoi dell’hotel, ex palazzo dei servizi segreti comunisti, scandendo le giornate, dando informazioni e consigli, registrando ogni minimo indizio che possa servire da detonatore creativo. La documentazione appassionata di un’esperienza lunga un mese, il luogo dove restano le tracce dei progetti degli artisti e del loro laboratorio mentale nel tempo sospeso della distanza. Le stanze della condivisione, gli echi delle difficoltà linguistiche, le emozioni forti dell’esperienza. Un libro particolare, una sorta di reality-book, mezza via tra un romanzo e un’esperienza visiva. La storia per immagini e parole di una ricerca affrontata da mille punti di vista, sviscerata e sofferta, sul poliedrico tema dell’accoglienza.

An hotel in Brno, the Hotel Europa. More than thirty artists of various nationalities who find themselves in the atmosphere of sensual and intriguing Moravian town, in search of suggestions to investigate just a theme: the welcome. Among them, conductors and writers of everyday life altered, Cristina Fiore and Andrea Penzo move through the corridors of the hotel (palace of communist secret services) articulating every day, providing information and advice, recording every little suggestion that might serve as a creative detonator. The documentation of passionate experience lasts a month, the place where the signes of artists’projects persist and their time suspended in the mental laboratory of the distance. The rooms of the share, the echoes of the language difficulty, the excitement of the experience. A particular book, a sort of reality-book, half way between a novel and a visual experience. The story in pictures and words addressed to a search by thousands of points of view, going deeply inside and suffering, about the multifaceted theme of the welcome.


showing Donne senza uomini Women without men

Cinque figure conducono in un universo dove il tempo, la realtà e la trama di romanzo si confondono, si dilatano, commuovono e spaventano. “Donne senza uomini” è un progetto a cui l’artista iraniana Shirin Neshat ha lavorato dal 2004 al 2008 e che, nel 2009, sotto forma di lungometraggio, è stato insignito del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia. Il romanzo di Shahrnush Parsipur, che dà il titolo al film e alla serie video presentata a Palazzo Reale, vietato in Iran dal 1989, è la base per un intervento dove le immagini e la musica raccontano in maniera cruda e allo stesso tempo poetica la storia di cinque donne, diverse per estrazione sociale e vita che si ritrovano, sullo sfondo del colpo di stato iraniano del 1953, in cui il ministro Mossadegh cercò di contrastare il ritorno al potere dello Shah, a fare i conti con la propria condizione femminile, con la vita vissuta, con le proprie paure e le imposizioni di un territorio dove la donna è al servizio dell’uomo sotto qualsiasi punto di vista. Così Mahdokht, Zarin, Munis, Faezeh e Farokh Legha, questi i loro nomi, si ritrovano sole di fronte alle proprie esistenze, costrette a camminare su sentieri taglienti che le condurranno a estreme conseguenze per riuscire ad afferrare uno spiraglio di libertà, di un’esistenza in cui sia possibile schierarsi “contro” senza subire il dileggio e le vessazioni del potere e dell’integralismo. Un’opera che può far discutere, impressionare ma anche scuotere dal dolore: Donne senza uomini è un polittico raffinato che attraverso frame di assoluta poesia macchia di nero e di rosso il pensiero intorno a un paese dai perenni, fortissimi, contrasti dove mancano, metaforicamente, a tutti, uomini e donne, giardini nei quali perdersi o dove coltivare desideri…di famiglia, carriera o libertà. Matteo Bergamini

Artist’s Books from Italy Libri d’artista dall’Italia

Five figures lead in a universe where time, reality and plot of the romance mix , expand, get moved and scare. “Women without men” is a project that Shirin Neshat had worked on from 2004 to 2008 and that, in 2009, in the shape of a feature film, has been decorated with the Golden Leon at the Venice Biennial. Shahrnush Parsipur’s novel, after which a film and the series presented at the Royal Place have been named, banned in Iran since 1989, is the base of an intervention where images and music tell in both a cruel and poetic way, the story of five women, coming from very different social ranks and lives that, in the background of an Iranian coup d’état in 1953, when the minister Mossadegh tried and contrast the return to the power of the Shah, find themselves having to face the condition of women, with their lives, with their own fears and impositions in a territory where women has to serve their man under any point of view. In this way Mahdokht, Zarin, Munis, Faezeh e Farokh Legha find themselves alone, having to face their own existences , forced to walk on harsh paths that will lead them to extreme consequences in order to succeed and obtain a little bit of freedom, of an existence when it’s possible to be “against” without having to go under the mockery and the harassment of the fundamentalist power A thought provoking work that might affect you in terms of pain: Women without Men is a refined polyptic that through frames of absolute poetry, stains, with black and red, the thought around a country where continuous and strong contrasts take place, a country where, metaphorically, there are no gardens where both men and women can get lost or where dreams of a family, career and freedom can become true.

29 gennaio – 28 febbario 2011 Sala delle Cariatidi, Palazzo Reale, Milano

Affiancato a una rassegna sul cinema dell’emigrazione siciliana in America a cura del MUSEUM di Bagheria in collaborazione con il CSC e ospite dall’Universidad Alvarado di Barquisimeto, Artist’s Books from Italy è un evento che fa leva sull’idea che particolari generi d’arte, nello specifico i libri d’artista, più di altri siano vocati allo spostamento. La selezione tratta dai materiali del KoobookArchive di Catania, si sposta dalla terra dell’estremo sud europeo fino a un paese altrettanto estremo e lontano quale è il Venezuela, da un contesto all’altro della cultura. Il presupposto che mette insieme tali opere per un easy journey tra due continenti, sta nel fatto che a quella del libro d’artista, una delle tipologie più maneggevoli e dense di contenuto, è consentito circolare e trasmettere con estrema agilità. E che questo tipo di produzione venga dalla Sicilia e sia prodotta prevalentemente da artisti siciliani è importante. Si potrebbe dire che mission e significato della mostra vanno esattamente in senso contrario a quelli veicolati dal film di Correale Oltremare ma non è l’America clou della rassegna, oltre che da tanto cinema del dopoguerra dove il viaggio è l’epilogo di un dramma umano quasi sempre riportato con retorica. In questo caso invece i libri viaggiano in aereo sistemati nel bagaglio a mano di Ezio Pagano e il senso dell’operazione è del tutto disinvolto, oltre che intelligente e denso di sostanza propria: essi contengono unicamente il mondo inedito dell’artista. Due i nomi storici: Bentivoglio e Munari. Conseguenze, sviluppi e deviazioni di quanto da loro tracciato è posto liberamente in essere da Giovanni Fontana, Anna Guillot, Marcello Palminteri, Enzo Patti e dal collettivo /openbookgroup/. Anna Guillot

Artist’s Books from Italy, put side by side with a film show on the Sicilian migration to America, by the Bagheria Museum, in collaboration with the CSC and guest at the Universidad Alvarado of Barquisimeto, is a project that is based on the idea that peculiar art genres, in specific art books, more than anything else, are devoted to displacement. The selection taken from the KoobookArchive of Catania shifts from the lands of the extreme south of Europe, to an extreme country that is Venezuela, from one cultural contest to the other. The element that puts these works of art together for an easy journey between the two continents lies in the fact that, because of its handy nature and density of their content, art books can move around more easily. And it’s important that this kind of production and this kind of artists come from Sicily. We can say that the ,mission and the meaning of the exhibition go exactly in the opposite way from those spread by Correale’s film. Though it is overseas, it is not America that is the most important part of the film show, besides all the films about the postwar period where the journey is the epilogue of a human drama, almost always reported rhetorically. In this case, books travel on a plane, placed in Ezio Pagano’s handbag and the sense of this act is completely casual, intelligent and full of its own substance: they only contain the unpublished world of the artist. The historical names are two: Bentivoglio e Munari, Consequences, development ad deviations of what has been traced by them and realized by Giovanni Fontana, Anna Guillot, Marcello Palminteri, Enzo Patti and by the collective /openbookgroup/.

Marzo 2011 Universidad Centroccidental L. Alvarado, Barquisimeto


ATLAS - Cómo llevar el mundo a cuestas. The XX century italian sculpture.

Breath. Respiro.

Georges Didi-Huberman ci ha abituato attraverso i suoi saggi a una serie di dissertazioni sull’arte visiva, sul potere delle immagini e sui problemi del contemporaneo attraverso un limpido linguaggio in grado di rimescolare variazioni culturali di epoche talvolta anche molto discordanti tra loro creando rimandi, riferimenti, citando e svolgendo le indagini su un piano temporale che spesso non è cronologico, lineare, ma mischiato, circolare. Atlas ripercorre, attraverso una metodologia di scuola “warburghiana”, l’idea di costituire una raccolta di icone in grado di comunicare tra loro seguendo principi fluidi come appunto lo fu l’infinito (e incompiuto) Atlante di Mnemosyne di Aby Warburg. Si accostano così opere eterogenee come tante piccole tessere a comporre un mosaico che riflette su tre cardini fondamentali: l’ordine del tempo, dei luoghi e delle cose. Alighiero Boetti con Histoire(s) du Cinema di Godar, Kurt Switters e Moholy-Nagy passando per Man Ray e Bataille. Un modo di indagare il contemporaneo ponendo domande che non siano solamente inerenti alla pratica dell’arte ma che passino attraverso i solchi della storia e della società: non dimentichiamoci che Didi-Huberman è autore, tra l’altro, del saggio “Immagini, malgrado tutto”, una ricognizione sul potere dello “svelamento” delle immagini analizzato attraverso quattro piccoli frammenti fotografici recuperati dal campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Immagini che nella loro crudezza aprono nuovi piani di lettura semantica di un’epoca, di una problematica che ha trovato la domanda più inquietante e acuta in Adorno che si chiedeva se fosse ancora possibile creare poesia dopo lo sterminio. Matteo Bergamini

Quando l’opera d’arte deve farsi testimonianza e vettore di un significato che vive nella memoria sociale, è indispensabile un equilibrio che si fondi su una sintassi anti-retorica. Perché il Simbolo inchiodato all’opera sia la perfetta condensazione di valori o l’incarnazione di una ferita da colmare realmente legata all’identità collettiva. È il caso dell’opera A Breath che l’artista italiano Davide Orlandi Dormino ha realizzato ad Haiti a un anno di distanza dal terribile terremoto che ha lasciato una impronta indelebile. L’opera scelta per commemorare nello specifico le 102 vittime dell’Onu, assume i connotati di un monumento legato alla contingenza del dolore e alla universalità del suo possibile e legittimo superamento. Dormino si fa testimone per l’appunto, arriva nel territorio come un cronista emotivo che raccoglie empiricamente e percettivamente tutto il corollario di colori, tracce, segni inquietanti che permangono e sembrano annichilire la speranza. I suoi occhi puntati su animali, persone, rifiuti, ma anche su una bellezza che si intravede ed è pronta a risorgere in forma ordinata e cosmetica. E così ci appare l’equilibrio formale del progetto A Breath: una serie di fogli si dispone quasi contro ogni legge gravitazionale e scientifica in bilico su una struttura di cemento che per contrasto ne evidenzia la mobilità e il mutamento drammatico e pur necessario. Fogli di metallo che riprendono il simbolo delle Nazioni Unite che anziché avere valore didascalico viene assunto nel contesto dell’arte e diventa esso stesso stemma estetico in grado di evocare la poeticità dei propri contenuti politici e umani e la memoria delle proprie vittime. Un gesto essenziale, minimo e concreto che parte dalla committenza per diventare altro, rappresentazione pura.

Fino al 28 Marzo 2011 Centro de Arte Reina Sofia, Madrid A cura di Georges Didi-Huberman

Through his essays, Georges DidiHuberman got us used to a series of discourses about visual art, about the power of images and about contemporary problems, through a limpid language, able to re-mix cultural differences of eras, at times contrasting, creating references, mentioning and carrying out surveys on a time level that is often non chronological, non linear but mixed, circular. Though a methodology of “warburghiana” school, Atlas, retraces the idea of constituting a collection of icons, able to communicate with each other, following fluid principles like the infinite (and the unfinished) Atlante di Mnemosyne by Aby Warburg. Heterogeneous works are put side by side, like little cards, as to form a mosaic that reflects on three fundamental cornerstones: time order, places order and things order. Alighiero Boetti with Histoire(s) du Cinema di Godar, Kurt Switters e Moholy-Nagy passing through Man Ray and Bataille. It’s a way of investigating the present times, asking questions that are not solely connected with the practice of art, but that go through the rut of history and society: let’s not forget that Didi-Huberman is the writer of “Images, in spite of all” a reconnaissance about the power of “revealing” images, analyzed through four little photographic frames taken from the concentration camp of Auschwitz-Birkenau. They are such stark images that they open a new semantic vision of that era, of a problem that has found the most disquieting question in Adorno, who used to wonder whether it was still possible to write poems after the extermination.

Giuseppe Di Bella

Esposiziopne permanente Haiti, centro Onu

When the work of art has to act as witness and means of a meaning that lives in the social memory, it is necessary to find an equilibrium, based on the anti-rhetorical syntax. So that the symbol linked to the work of art is the perfect mix of values or the incarnation of a wound to cure, really linked to the collective identity. It is the case of A Breath, realized by Orlandi Dormino in Haiti one year after the terrible earthquake that has left a permanent mark: the work of art, chosen to commemorate the 103 victims of Onu, acts as a monument linked to the contingency of pain and to the universality of the possibility and legitimacy of getting over it. Dormino acts as a witness, he gets there as an emotional reporter that empirically and perceptively gathers all the colors, traces, disquieting marks that stick and seem to discourage hope. His eyes, staring at animals, people, trash, also see a kind of beauty that is ready to emerge in a tidy and cosmetic way. And that’s how the formal equilibrium of A Breath appear to us: a series of sheets are placed against any kind of gravitational and scientific law, leaning on a cement structure, that by contrast, highlights the mobility and the needed dramatic change. Metal sheets that remind of the the United Nations symbol, which, instead of having a didactic value, it is involved in the art contest and it becomes an aesthetic badge, able to evocate the poetry of its own political and human contents and the memory of its own victims: An essential minimal and concrete gesture, which starting from the purchasers, aims at becoming pure representation.


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Matthew Jackson The Tomb., 2010 Wood, plastic, glass , steel

L’

inaugurazione della mostra di Matthew Day Jackson al Mambo di Bologna è di certo uno di quegli eventi che possono renderci orgogliosi, così di rado, del nostro percorso espositivo e culturale. Il programma del Mambo, come lo stesso Maraniello che ha anche curato personalmente la mostra di Jackson ha dichiarato, approda ad una nuova fase, più espressamente poetica, di ricerca e sperimentazione. La mostra dell’artista americano nato nel ’74 e già collezionato dai principali musei del mondo, è testimonianza e vettore anche di un cambiamento di rotta diffuso e preconizzato dalle più grandi figure dell’arte contemporanea. Un cambiamento che va verso l’abbattimento di ogni linearità temporale e il concetto di avanguardia, nullificandoli. Qui la ricerca è soprattutto antropologica, e cosmologica, intende la visione dell’arte come capacità di rendere in immagini il Tutto, riutilizzandone le forme e i simboli a 360 gradi per restituirne la verità intrinseca, la verità Mistica. Jackson è un artista esoterico, e gioca su determinati parametri semiotici sempre al confine con l’illusione, ma ancora di più con il rivelamento, o supposto tale, di una nuova visione del mondo, come una riconfigurazione avvenuta tramite la diagnostica di un pendolo di Foucault, di una analisi iconica sulla civiltà umana e le sue istanze scientifiche, genealogiche. È la luce rifratta del prisma che segna l’ingresso nella nuova dimensione dell’umano, l’assembramento di materiali eterogenei al fine di esprimere il mistero e la particolarità di alcuni fenomeni ritenuti inspiegabili, ma che raccontano del riflesso dell’uomo in tutto ciò che lo circonda. Mostra gli spettri e le dinamiche psichiche dell’individuo posto di fronte all’assoluto. Noi siamo il riflesso che riverberiamo sul cosmo intero, siamo la verità mistica che emerge in quanto volto antropomorfo su una roccia, una nube nel cielo. La varietà dei media, lo sconfinamento continuo sono solo sintomi superficiali di una ricerca profonda basata sullo studio eteroclito della violenza, una violenza che è anche essa trasformazione, riconfigurazione del mondo, anzi dei mondi possibili. Come l’opera A Oppenheimer, in cui si paventa l’assunzione dell’uomo a divinità. La scultura essendo una riproduzione al laser di un modello 3d, di una dea orientale, simbolizza l’esondazione dell’umano nella forma di un potere di distruzione così alto, che è quello della bomba atomica, e del suo collaudatore, in grado di distruggere e riconfigurare la mappa geografica e storica dei viventi. Da ogni possibile riconfigurazione bisogna partire, anche la scomposizione dell’atomo a opera di Fermi; perché non c’è più stile, né formalismo che tenga. Ogni parametro è disciolto in fluidità interattiva. Si potrebbe assumere a proposito dei significati plurimi applicati al concetto della forza, un motto di Richter: qualunque tipo di scelta, rappresenta già una violenza. E per questo è impossibile e controverso rimanere fedeli a ogni sorta di staticità programmatica.

M

atthew Day Jackson’s exhibition opening at the Mambo in Bologna is for sure one of those events that can make us proud, and that happens so rarely, of our expositive and cultural path. The program of Mambo, as Maraniello, who has cured Jackson’s exhibition, has declared, is arriving at a new phase, more specifically poetic, of research and sperimentation. The exhibition of the American artist, who was born in 1974, and who has already exposed in the most important museums of the world, is the evidence and vector of a spread change of route and predicted by the most important figures of contemporary art. A change that goes towards the demolition of every time linearity and the concept of avant garde, overruling them. The research is mostly anthropological and cosmological: it means the vision of art as the ability to make THE ALL into images, reusing its shapes and symbols in full to find it intrinsic and Mystic truth. Jackson is an esoteric artist and he plays with specific semiotic parameters, close to illusion, but even more, with the (supposed) realization of a new vision of the world, like a reconfiguration that has taken place through the diagnostics of a Foucalt’s pendulum, of an iconic analysis on the human people and its scientific and genealogic instance. It ‘s the prism’s refracted light that traces the entrance in the new human dimension, the assemblage of heterogeneous materials, in order to express the mystery and the peculiarity of some phenomena that are still inexplicable, but which tell about the reflection of the man in everything that surrounds him. It shows the specters and the psychic dynamics of the man who finds himself having to face the absolute. We are the reflection that we reverberate in the entire cosmos, we are the mystic truth that emerges as an anthropomorphic face on a rock, a cloud in the sky. The media variety and the continuous trespassing are few of the superficial symptoms of a deep research based on the heteroclite study of violence; a violence that is transformation, reconfiguration of the world, or the possible worlds. Just like the work A Oppenheimer, in which the man is dreaded as a divinity. The sculpture of an oriental goddess, which is a laser reproduction of a 3d model, symbolizes the flooding of the human being in the shape of such a high destroying power, the atomic bomb and its tester, able to destroy and re-configure the geographic and historical map of living humans Any possible configuration is the starting point, as well as the de- composition of Fermi’s atom, because there’s no style any more, nor any possible formalism. All the parameters are dissolved into interactive fluidity; the concept of power might be associated with multiple meanings according to Richter: any kind of choice is a kind of violence. For this reason being loyal to any kind of programmatic static state is impossible and controversial. Giuseppe Di Bella



Summary N. 21 - March 2011

con-

editorial

Lo Spazio di con-fine. Il Luogo dell’incontro. con-fine Space. The meeting place. Gino Fienga

pag. 19

Sul limite o sullo spazio? Beyond the limit or in the space? Matteo Bergamini

pag. 21

Costantino Ciervo Tre domande. Three questions. Matteo Bergamini

pag. 27

Christiane Löhr La pienezza dell’ignoto. The fullness of the unknow. Giuseppe Di Bella

pag. 39

Michael Kenna Al confine della siepe At the boarders of the hedge. Luciana Ricci Aliotta

pag. 49

David Schnell Lo spazio simbolico deflagrato. The flared up simbolyc space. Giuseppe Di Bella

pag. 59

perceptio

interview

passeurs

installation

photography Cover David Schnell Insel Oil, acryl on canvas Cm 290 x 240 2010 Sammlung Kaufmann, Berlin courtesy Galerie EIGEN + ART Leipzig/Berlin Photo Uwe Walter

painting


in-camera

exlibris

quid

Annamaria Di Giacomo Spellare l’immagine Peeling the image. Viviana Graviano

pag.. 69

William Xerra Mento ergo vivo. Lie ergo live Mauro Carrera

pag. 73

Laura Pugno Vertigini dello spazio, e dell’anima: nuovo contemptus mundi. Giddinesses of the space, giddinesses of the soul: a new contemptus mundi. Pippo Lombardo pag. 79

atelier Sulla piega dell’onda. On the pleat of the wave. Veronika Aguglia

pag. 84

Lo Spazio dell’Arte: il luogo dell’atemporalità The Space of Art has no time. Gino Fienga

pag. 88

-fine

at the end


Lo Spazio di con-fine: il luogo dell’incontro. con-fine Space: the meeting place.


con-

I

l perimetro su cui con-fine ha intrapreso ormai da alcuni anni il suo cammino perde da questo numero la sua connotazione nazionale per rivolgersi ad un nuovo e più vasto pubblico. Non più quindi una rivista solo italiana, ma un magazine internazionale che dall’Italia continua a guardarsi intorno come sempre, e che ora vuole parlare davvero a tutti, superando limiti geografici e linguistici, in modo da farsi portavoce in ogni paese del mondo, di un’idea alternativa di arte. Il nostro confine è da oggi ancora di più un luogo dove le diversità si incontrano, dove le culture dialogano, dove l’arte incontra le parole e dove le parole non sono mai merce di scambio fra mercanti e interessi localistici, ma strumenti al servizio di una cultura sempre più libera e internazionale. Perchè l’Arte è Cultura e la cultura non ha e non deve avere barriere o padroni di sorta. Una sfida questa che ci fa guardare e ci conduce verso mete sempre più lontane, dove ricercare nuovi stimoli e dove esprimere le nostre idee, aprendole al confronto di chi ha punti di vista sull’Arte e su il contemporaneo sicuramente diversi dai nostri. Punti di vista di cui ci faremo a nostra volta portavoce e che useremo come nuova fonte di dibattito, nonché come valido supporto ad una ricerca instancabile di artisti, ambiti e studi critici sempre inediti e di indubbia qualità. Il taglio monografico che fin dal primo numero ha caratterizzato le nostre scelte editoriali, è ancora il fil rouge che tiene insieme immagini parole opere artisti e pensieri. Non un rigido schema da seguire, non un compiuto argomento da analizzare, ma la scusa per viaggiare attraverso i temi e le idee che sottendono ogni atto creativo. Quest’anno ci muoveremo ne Lo spazio osservandolo nelle diverse declinazioni estetiche, cercando di scoprire i collegamenti naturali ed extra-sensoriali tra la realtà e la sua interpretazione artistica, come sempre attraverso un approccio trasversale e, spesso, imprevedibile. Diamo il via a questo nuovo cammino, insieme ai lettori che ci hanno fin qui seguiti e incontro a tutti coloro che vorranno unirsi a noi.

T

heThe perimeter in which con-fine started his own way some years ago is losing his national connotation, in order to address a new and wider public. No more an Italian magazine only, but also an international one which keeps on looking around as always and that now is really willing to talk to everyone, overcoming geographic and linguistic limits, in order to be the bearer worldwide of an alternative idea of art. Our boundary is today once more the place where the differences meet each other, where the cultures hold a dialogue, where the art meets the words and where the words are never exchangeable goods among merchants and sectional interests, but instruments serving an international and increasingly free culture. This because the Art and the Culture have not and shall not have barriers or owners of any type. This is a challenge that makes us look at and lead towards aims far-off, where we can search new spurs and where our ideas can be expressed, opening them to the comparison with those people who have surely different points of view from ours, concerning the Art and the Contemporary. Points of view which in our turn we will be the bearers of and that will be used as a new source of discussion and as effective support to a tireless research of artists, circles and new critical studies of uncertain quality. The monographic tone which has distinguished our editorial choices since the first issue is still the fil rouge binding together images, words, works, artists and thoughts. This is not a rigid scheme to be followed, a complete topic to be analysed, but the excuse to travel through the themes and the ideas subtending each creative act. This year we will be moving in Lo spazio - The Space observing it in its different aesthetic declinations, trying to discover those natural and extrasensory connections between the reality and its artistic interpretation, through an usual transversal and often unpredictable approach. Let’s start this new journey with the readers whofollowed us till now and towards those ones who wish to join us. Gino Fienga

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colophon Direttore Responsabile Editor Vincenzo Aiello Direttore Editoriale Executive Editor Gino Fienga Capo Redattore Managing Editor Giuseppe Di Bella Redazione Editorial Staff Veronika Aguglia, Matteo Bergamini, Matelda Buscaroli, Pippo Lombardo, Luciana Ricci Aliotta Collaboratori Contributors Mauro Carrera, Neil Novello, Elenio Fabbris Traduzioni Translations Emilia Di Dio, Maura Forla, Flaminia Passeri redazione@con-fine.com Pubblicità Advertising Nadia Lazzarini adv@con-fine.com - cell. +39 393 1595622 Editore Publisher con-fine edizioni Via C. A. Dalla Chiesa, 3 - 40063 Monghidoro (BO) - ITALY - tel. +39 051 655 5000 fax +39 051 0544561 Stampato presso Printed by Grafica Metelliana Via Gaudio Maiori - 84013 Cava de’ Tirreni (SA) - ITALY Distribuzione per l’Italia Distribution for Italy con-fine edizioni Via C. A. Dalla Chiesa, 3 - 40063 Monghidoro (BO) - ITALY - tel. +39 051 655 5000 fax +39 051 0544561 Agente esclusivo per la distribuzione e abbonamenti all’estero Sole Agent for Distribution and Subscriptions Abroad A.I.E. - Agenzia Italiana di Esportazione S.p.A. Via Manzoni, 12 - 20089 ROZZANO (MI) - ITALY - Tel. 02 5753911 Fax 02 57512606 Registrazione presso il Tribunale di Bologna Registration at the court of Bologna n. 7639 dal 27/2/2006 Iscrizione al ROC n.19530 del 22/04/2010 © Copyright con-fine edizioni, Monghidoro (BO). Tutti i diritti riservati. All rights reserved. È vietata la riproduzione anche parziale di qualsiasi parte della rivista in qualsiasi forma, senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Per le illustrazioni l’editore ha ricevuto l’autorizzazione degli aventi diritto. È disponibile comunque ad assolvere i propri impegni per eventuali diritti di riproduzione qui non contemplati. You may not reproduce any part of any part of the magazine in any form without the written permission of the publisher. For illustrations the publisher has received the approval of the entitled. There is, however, to fulfill their commitments to any reproduction rights are not covered here. www.con-fine.com/artmagazine - info@con-fine.com


perce ptio

Sul limite o sullo spazio?

Beyond the limit or in the space?

Matteo Bergamini


perceptio

Preview page:

Christiane Löhr Feld Horse hair, needles Installation for the show Vulnerable Landa HangarBicocca, Milano 2010 Courtesy Hangar Bicocca Photo Agostino Osio

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Il fatto grave/ è che sappiamo/ che oltre l’ordine/ di questo mondo/ ce n’è un altro./ Quale?/ Non lo sappiamo/ Il numero e l’ordine delle supposizioni possibili in quest’ambito/ è appunto/ l’infinito!/ E che cosa è l’infinito?/ Non lo sappiamo!/ è una parola/ di cui ci serviamo/ per indicare/ l’apertura/ della nostra coscienza/ verso la possibilità/ smisurata,/ infaticabile e smisurata./ E che cosa è la coscienza?/ Non lo sappiamo./ è il nulla./ Un nulla/ di cui ci serviamo/ per indicare/quando non sappiamo qualcosa/ da quale parte/ non conosciamo/ e diciamo/ allora/ conoscenza,/ dalla parte della coscienza,/ ma esistono centomila altri aspetti.[…]1

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l fatto è, come insiste Antonin Artaud, che l’orizzonte in cui l’essere umano ha spazio di movimento durante tutto l’arco della vita, è limitatissimo. In alcuni casi è addirittura negato e l’uomo è costretto a muoversi in una zona della sottrazione, del diniego. I percorsi dell’arte, del mondo onirico, di una visionarietà in grado di abbracciare tutti gli ambiti della conoscenza, dalla letteratura alla musica alla chimica sono le uniche disposizioni possibili, in tutti i casi ufficiose, che promuovono, è proprio il caso di dirlo, un rovesciamento di prospettiva. Un’azione che, forse, permette di scorgere alcuni degli altri centomila aspetti che sono celati dietro le coscienze raffreddate, nell’impasse di un disco dai solchi rigati. Qualcuno per sfuggire alla pesantezza del mondo ha cercato di togliere peso, di trovare, come scriveva Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane, un punto in cui il linguaggio non divenisse opaco, ombra di sé stesso, ma si potesse librare nell’aria per raggiungere uno spazio che non fosse quello della polvere, dei cimiteri dell’espressione. Altri, come Georges Perec, definito dallo stesso Calvino come uno dei più grandi scrittori del novecento, ha spesso insistito sulla narrazione di una serie di spazi “del vivere” partendo da superfici minime (la pagina, il tavolo) scandagliate in maniera quasi ossessiva, come a raccontare l’universale dal particolare, per arrivare alle stanze dell’appartamento, al quartiere, allo spazio urbano parigino letto attraverso i numeri degli autobus che restano nella cerchia comunale o che portano verso le banlieue seguendo una metodologia stravagante quanto efficace. “Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti: […] Tali

The serious fact/ is that we know/that beyond the order/of this world/there’s another one./Which?/We don’t know/ The number and the order of the possible presuppositions in this area/is in fact/ is the infinite!/ And what is the infinite?/We don’t know!/ it’s a word/ that we use/ to indicate/ the opening/ of our conscience/ towards the unlimited and untiring possibility/. And what is conscience?/We don’t know/ it’s the nothing./ That void/that we use / to indicate/ that we don’t know something/ from which side/ we don’t know/ and say/ knowledge,/From the side of conscience,/ but there are other thousands of aspects[…] Antonin Artaud

T

he point is, as Antonin Artaud states, that the horizon in which the human being has space of movement during his lifetime, is far too limited. In some cases it is denied and the man is forced to move into the subtraction and denial zone. Art paths belonging to the dreamlike world, whose visionariness can embrace all areas of knowledge, from literature to music, to chemistry, are the only possible dispositions, in all cases unofficial, that promote, we can say it, a reversal of perspective. An action that may allow you to spot some of the other one hundred-thousand aspects that are hidden behind the cooled consciences, in the impasse of a record whose tracks are scratched. In order to avoid the world heaviness, somebody’s tried to lighten it by finding a language that, as Italo Calvino wrote in his American Lessons, would not become opaque, the shadow of itself, but could hover in the air to reach a different space from the dusty one, from the cemeteries of the expression. Other people, such as Georges Perec, defined by Calvino himself as one of the most important writers of the twentieth century, has often insisted on the narration of a series of spaces “for the living” starting from the smallest surfaces (the page, the table) plumbed almost obsessively, as if you could tell the universal starting from a detail, in order to proceed towards the rooms of the flat, to the neighborhood, to the Parisian urban space read through the bus numbers the run inside the city or that take you to the banlieu following an extravagant but effective methodology. “I wish there were stable, still, intangible, never touched, almost untouchable and rooted places: places that would be reference points and starting points, sources: (…) Such places don’t exist, and just because they don’t exist, the space becomes problematic, it stops being evidence, it stops


luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo”.1 Una profonda illusione l’idea di possedere “spazio” quando in realtà null’altro possiamo se non attraversarlo, fenderlo con la nostra presenza, appropriarci di qualcosa che non è già più spazio ma una porzione ridotta di un adattamento all’uso umano: un pavimento, una parete, un angolo. Non c’è spazio per nessuno e c’è spazio per tutti, o quasi: ce lo insegna Jean Luc Nancy con La città lontana, saggio sulla profondità orizzontale di Los Angeles, ipotetica, perché in fondo “impossibile”, metropoli dove il transito umano non è contemplato se non a bordo di automobili. Distese di vetrate, giardini e piscine spalmate sulle colline in uno scenario che ricorda l’immaginario di James G. Ballard, che in alcuni romanzi come Super Canne o Cocaine Nights aveva tracciato, con l’utilizzo di campi da golf, spiagge e candidi soggiorni, poi macchiati di sangue, il perimetro della violenza insita nei luoghi della lussuosa villeggiatura europea. Sicuramente nello spazio dell’arte c’è la possibilità di sognare, di scardinare la percezione cartesiana della dimensione per aggrapparsi all’instabile superficie dello spazio dell’anima o della rappresentazione, di un’illusione prospettica che schiaccia la proporzioni e azzarda sui racconti biblici ritraendo un Cristo Morto dinnanzi al quale lo spettatore si presenta trovandosi di fronte un paio di piedi con i segni evidenti della crocefissione, la testa di sbieco e il torace schiacciato o, in altre occasioni, una Vergine impersonata dal corpo di una prostituta annegata nel Tevere, dalle gambe scoperte e dal ventre gonfio. Ed è, probabilmente, Salvador Dalì a dimostrare che lo spazio dell’arte, realizzata attraverso quella pittura così “tradizionale”, è l’orizzonte in cui, forse ancora oggi, si può scardinare lo spazio della percezione del mondo: Le Christ de Saint Jean de la Croix è la dimostrazione che il pittore assume il punto di vista del creatore per eccellenza. Il punto di vista del pittore è, per la prima volta, posto al di sopra della testa di Cristo crocifisso, da sempre rappresentato frontalmente o dal basso. Un affronto che è anche confronto con lo spazio della rappresentazione, una sorta di invettiva

being incorporated, it stops being appropriate. Space is a doubt: I have to spot it continuously and design it. It’s never mine, but it’s given to me, I am supposed to gain it”. 1 The idea of possessing the space is a deep illusion, when all we can do is crossing it, rending it with our presence, getting possession of something that is no longer space but a reduced portion of the human being’s adaptation: a floor, a wall, a corner. There isn’t space for anyone and there’s space for everybody, or nearly: Jean Luc Nancy teaches this in The far city, essay on Los Angeles’ hypothetical horizontal depth, because it is an actually “impossible” city where the human transit is only contemplated into cars. Expanses of glass windows, gardens and swimming pools spread on the hills in a scenerio that reminds of James G. Ballard, in whose novels Super Canne and Cocaine Nights, he had traced beaches and soft stays through golf greens, where crimes would then be committed, as to represent the perimeter of violence taking place in European luxury holiday resorts. For sure in the space of art there’s the chance to dream, to unhinge the Cartesian perception of dimension in order to cling on the unstable surface of the soul space or the space of representation, of a perspective illusion that squashes perceptions and ventures to tell Biblical tales portraying a Dead Christ, before whom the spectator finds himself in front of two feet with clear scars of crucifixion, with the head on one side and his chest squashed. Or, in other cases, a Virgin Mary embodied by a prostitute’s body drowned in the Tiber river, with her legs uncovered and her stomach bloated. It was probably Salvador Dalì the one who demonstrated that the art space, realized through that “traditional” painting, is the horizon where the space of the world perception can still be unhinged: Le Christ de Saint Jean de la Croix is the proof that the painter adopts the creator’s point of view per excellence. For the first time, the painter’s point of view is above Christ’s head, which had always been represented frontally or from below. This is such a slight that, even compared to the space of representation, represents a sort of abuse to the semantic of tradition: this process also takes place in a canvas that dates back in 1954, a crucified Christ without cross who floats in the empty space: the rise to the heavenly kingdom,

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perceptio

Alberto Garutti Opera dedicata a chi guarderà in alto Installation 2010 Courtesy Hangar Bicocca Photo Agostino Osio

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alla semantica della tradizione: questo processo avviene anche in una piccola tela datata 1954, un Cristo crocifisso senza croce che galleggia nello spazio vuoto: l’ascesa al regno dei cieli, senza vincoli terreni e gravitazionali, è bloccata dalla posizione del sacrificio. “Disegno, pittura e scultura sono forme non tradizionali ma originarie, quindi anche del futuro” o “Non sono interessato all’arte antica quanto a quella moderna, bensì all’arte antidiluviana” sono solo un paio di concetti che era solito esprimere Gino De Dominicis intorno alla pratica dell’arte. Una serie di sviluppi di ipotetiche “possibilità” coinvolgono in pieno il lavoro dell’artista, dal Tentativo di fare dei quadrati anziché dei cerchi gettando sassi in uno stagno al Tentativo di volo: la volontà è quella di travalicare le leggi della fisica, della logica, di questa maledetta gravità che ci tiene ancorati a terra e che, attraverso l’ausilio di un Corpo senza organi, probabilmente sarebbe sconfitta per creare nuove connessioni, nuove “intellighenzie” e una serie di rivoluzioni anche per liberarci di una vita che deve fare i conti con l’insopportabile fardello di una macchina follemente imperfetta come solo il fisico umano può essere. Dopo esserci sbarazzati di questo inutile corpo sarebbe il caso anche di sbarazzarsi di tutte le pratiche umane quotidiane che, inutili, non permettono il raggiungimento dell’immortalità e dunque della realizzazione perfetta delle proprie fantastiche volontà: “La maggior parte delle attività dell’uomo sarebbero giustificate solo dopo aver raggiunto l’immortalità, perché solo allora potremmo permetterci degli obiettivi fantastici e irrazionali volti solo a procurarci gioia”.2 Manomettere il sistema della vita mutandone una serie di “energie”, liberarsi del dogma religioso e di una scientificità che rassicura solo gli stolti è il primo passo per ampliare l’orizzonte del proprio spazio-tempo. De Dominicis, in questo senso, introduce nel ciclo della storia un inciampo: le sue pitture (ancora la consueta pittura) tradisce il tempo della sua realizzazione: futuro, presente o passato? Gli esseri antropomorfi dai lunghi nasi e dalle pupille dipinti, o sottilmente tratteggiati, dall’artista chi sono? Da quale zona dell’universo o dalla storia fanno capo questi alieni o Urvasi? E lo spazio dell’arte parte alla conquista dello spazio cosmico qualche istante prima delle

with no earthly or gravitational ties, it’s blocked by the position of sacrifice. “Drawing, painting and sculpture are primordial non-traditional art forms that belong to the future as well” or “ I’m not interested in antique and modern art, I’m interested in the anti- diluvian art” are only a couple of the thoughts that Gino De Dominicis used to have about the practice of art. A series of developments of hypothetical “possibilities” “involve the artist’s work at full, from the Attempts to make squares instead of circles by throwing stones in a pond to Flying Attempts: the aim is to cross the laws of physics, of logistics, of this damn gravity that keeps our feet stuck on the ground and that, through the help of Body with no organs, would probably be defeated to create new connections, new “intelligentsias” and a series of revolutions to get rid of a life that has to square things up with the unbearable burden of an insanely imperfect machine as the human body can be. Once we’ve gotten rid of this useless body, we should also get rid all the daily human practices that do not make us reach immortality and consequently the perfect realization of one’s own fantastic desires: “Most human activities would be justified only after having reached immortality, because only then we could aim at great and irrational objectives that can only give us joy”. 2 Damaging the life system by changing a series of “energies”, getting rid of the religious dogma and of a scientific nature that reassures only the foolish, is the first step to widen the horizon of one’s own space-time. In this sense De Dominicis introduces a tripping in the cycle of history: his paintings (still the usual painting) deceives the moment when they were actually created: future, present or past? Who are the anthropomorphic beings with a long nose and painted or slightly hatched pupils? Which part of the universe or history do these aliens or Urvasi come from? And the space of art aims at conquering the cosmic space some moments before the possibilities carried out by the science, in a continuous attempt to beat to the draw: anticipating the moon landing of one year, in 1968 Fabio Mauro realizes, a strongly poetic installation at the limit of visionarity, entitled just “Moon”. It’s a simple dark room lightened by a soft light coming from two lateral egg-shaped windows. Inside, on the


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perceptio

1. Antonin Artaud Si presenta la questione di…in “Per farla finita col giudizio di Dio”, Stampa Alternativa, Viterbo 2000

2. Georges Perec Specie di spazi Kinds of spaces Bollati Boringhieri, Turin, 2004 3. Gino De Dominicis Lettera sull’immortalità Letter on immortality in Gino De Dominicis, Flash Art Special Issue 2008

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possibilità messe in atto dalla scienza in un costante gioco d’anticipo: Fabio Mauri realizza, nel 1968, anticipando di un anno l’allunaggio, un’installazione potentemente poetica, al limite della visionarietà, intitolata proprio “Luna”: si tratta di una semplice stanza buia rischiarata da una luce candida che arriva da due aperture ovoidali laterali. All’interno, a terra, una distesa di candide e microscopiche sfere di polistirene: lo spettatore può dunque camminare sul suolo lunare, fisicizzato dall’arte che gli rende giustizia in uno spazio umano e percorribile, mantenendo inalterato lo stato del sogno ad occhi aperti che, di fronte allo sbarco sull’astro dei poeti, vero o hollywoodiano, ha coinvolto tutta l’umanità. Appartiene solo alla capacità immaginaria dell’arte la grandiosa idea di mostrare un altro mondo che resterebbe senza immagini, senza la possibilità di essere “vissuto”. L’esempio più emblematico per parlare di uno spazio che renda tangibile la visionarietà dell’arte e la fascinazione del sublime, soprattutto nella sua accezione settecentesca, descritta da Edmond Burke come il fascino della violenza della natura, allo stesso tempo in grado di ammaliare e terrorizzare è “dipinto” da Walter De Maria nel deserto del Nuovo Messico, negli Stati Uniti: The Lightning Field è una distesa di circa di tre chilometri quadrati in cui sono disseminati quattrocento pali appuntiti di acciaio inox che, nella zona geografica con la più alta densità di sviluppo di fulmini al mondo, dal 1977 disegnano un’installazione di enorme impatto, destinata a svanire col tempo, visitabile per pochi mesi l’anno. Il “campo di fulmini” riunisce sotto il cielo tutta la potenza del cosmo che diviene sintomo della grandezza dell’arte, della capacità di “vedere” nello spazio l’epifania del meraviglioso, della realizzazione dell’impossibile. Un’installazione in grado di “toccare” le estensioni più infinite, della mente e dell’ambiente, dell’energia e della forza di essere riusciti a convergere in un’area circoscritta uno dei più inquietanti fenomeni naturali che l’uomo conosca. Esempio di un immenso che ancora si riesce a pensare ma già sfugge verso traiettorie che non appartengono alla dimensione dell’arte ma diventano quelle di una possibilità d’esistenza del sogno allucinata e autentica.

floor, there’s a series of microscopic polystyrene spheres: the spectator can walk on a lunar floor, made real by art that does justice to it in a earthly, walkable space, keeping unchanged the state of daydream that has involved the hole mankind, after the arrival of poets in the aster purple. The most emblematic example to talk about a space that makes tangible the visionarity of art and the fascination of the sublime, especially in its eighteenth-century acceptation described by Edmond Burke as the charm of the nature violence and at the same time able to bewitch and frighten, is “painted” by Walter De Maria in New Mexico desert, in the United States: The Lightning Fields are fields that spread for three square kilometers, where four-hundred stainless steel posts have been placed. This area is struck by the highest number of bolts of lightning in the world. Since 1997 they’ve been drawing an installation of strong impact that can be visited for a few months a year, but which is designed to fade away as time goes by. The “lightning field” gathers under the sun the power of all the universe, which becomes symptom of the art greatness, of the ability to “see” the epiphany of marvelous and impossible things in the space. An installation that is able to “touch” the most infinite extensions of the mind, of the ambient, of the energy and of the power of having succeeded in converging on an area whose peculiarity is being subject of one of the most disquieting natural phenomena known by the human being. Sample of an immensity that we are still not able to contemplate, it slips towards paths that do not belong to the dimension of art, but become one of those possibilities of hallucinated and authentic existence of the dream.


interview Costantino Ciervo

Tre domande

Three questions

Matteo Bergamini


inter view

Preview page: Costantino Ciervo Beijing Series, No. 9 Photography Fondazione Mudima, Milan, Italy 2006 © Costantino Ciervo

Costantino Ciervo Profit Installation/performance Mixed media 2003 Dispary&Dispary, Reggio Emilia, Italy 2006 © Andrea Sassi

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Costantino Ciervo: Quando Pasolini scrisse il suo famoso editoriale nel Corriere della Sera, eravamo nel 1974; il sistema di potere economico italiano e occidentale si avviava verso gli ultimi epiloghi di un’era che io definirei del “capitalismo newtoniano”. Così come avviene nella fisica di Newton, tutto il sistema produttivo, comunicativo e politico era “quantificabile” e ben definito nello spazio e nel tempo lineare. Il capitale si riproduceva “militarmente” con brutalità ripetitiva soprattutto nel preciso rapporto spazio/tempo che intercorreva tra il luogo della grande fabbrica-macchina e il tempo di lavoro manuale svolto dall’operaio-massa. La propaganda politica proveniva dalle sedi dei partiti, dai loro sistemi teorici e ideologici, storicamente precostituiti e schierati geograficamente in blocchi contrapposti. L’informazione (disinformazione) si collocava in uno spazio pressoché statico: da una parte la grande scatola TV a tubi catodici controllata dai partiti; dall’altra, seduto di fronte, lo spettatore-lavoratore incantato, intrattenuto, divertito, arrabbiato e del

Costantino Ciervo: It was 1974 when Pasolini wrote his famous editorial on Corriere delle Sera , the Italian and western system of economical power was going towards the last epilogues of an era that I would define as “Newtonian capitalism”. Just like it happens in Newton’s physics, all productive, communicative and political system was “quantifiable” and well designed in the linear space and time. Capital reproduces “militarily”, with a repetitive brutality above all in the precise relationship between space and time that elapsed between the place of the big factory-machine and the time of manual work done by blue collars. The political propaganda came from the parties branches, from their theoretical and ideological systems, historically reconstituted and geographically located in opposite coalitions. Information or (disinformation) placed itself in a quite static: on one side the big TV box with cathode-ray tubes controlled by parties: on the other side, sitting in front of it, the enchanted, entertained, amused,

atteo Bergamini: Il tuo ultimo progetto si intitola “Controinformazione” e prende in esame una serie di ombre che non trovano spazio tra l’informazione di massa, dalle esecuzioni capitali in Iran passate sotto silenzio per non “scomodare” le leggi coraniche da una parte e il pensiero che gli islamici siano tutti estremisti violenti dall’altra, alla caduta della libera informazione in Italia, fino alle denunce delle torture in Cecenia da parte della giornalista Anna Politkovskaja, uccisa proprio per la sua qualità di coscienza critica dell’attuale regime sovietico. Pasolini scriveva in un famoso articolo scritto nel 1974 e intitolato Cos’è questo golpe: “Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. Ora, pensi che sia cambiato qualcosa nella conoscenza di una sorta di informazione “libera” da quarant’anni a questa parte, specialmente in Italia, o che sia ancora ad esclusivo appannaggio degli intellettuali, degli artisti, di chi “vive” attraverso le informazioni, le parole, la storia?

atteo Bergamini: Your last project is entitled “Counter information” and examines a series of topics that do not find space in the mass communication, starting from the capital punishment in Iran, which nobody talked about in order not to “bother” the Islamic laws on one hand, and the thought that Islamic people are all violent extremists on the other hand, from the fall of free press in Italy, to the accusation of tortures in Chechnya made by the journalist Anna Politkovskaja, killed for her quality of critical conscience of the current soviet regime. In a famous article written in 1974 and entitled “What is this coup?”, Pasolini wrote “I know why I am an intellectual, a writer that tries to follow what happens around, who tries to know everything that people write about, who tries to imagine what is unknown or unsaid, who coordinates events that happened long time ago, who puts together the unorganized and fragmented pieces of a whole coherent outline of politics, which brings the logics where arbitrariness, craziness and mystery seem to reign.” Now, do you think that something has changed in the conscience of a sort of “free” information in the last forty years, especially in Italy, or that it is still the privilege of intellectuals, of artists, of those who “live” history through pieces of information and words?



inter view

Preview page: Costantino Ciervo Perversion of Signs 84-channel videoinstallation Mixed media CentrePasquArt, Biel, Switzerland 2009 © Serge Hasenböhler

tutto attonito. Il controllo e la repressione erano esercitati soprattutto fisicamente, frontalmente ed esternamente. L’esercito, la polizia e i servizi segreti (“deviati”) erano in un certo senso tangibili: la corruzione, le stragi di stato e di mafia, gli attentati terroristici, le eliminazioni fisiche del nemico (un anno dopo Pasolini sarà assassinato). In questa situazione il partito comunista italiano, l’unica grande forza di opposizione costituzionale, appesantito dal burocratismo e da un’incapacità critica di evolvere il suo impianto teorico di analisi e lettura della realtà, prospettava il cosiddetto “compromesso storico”. Ma chi prospettava il compromesso (l’alleanza) con quel tipo di potere che avrebbe voluto e dovuto debellare, alla fine non farà altro “che condividerne la pratica” (come lo stesso Pasolini sintetizzerà profeticamente nel suo editoriale). Insomma, l’informazione libera o la controinformazione non poteva che nascere ed esprimersi al di fuori delle istituzioni, ed essa, non trovando ascolto in chi maggiormente avrebbe dovuto ascoltare e cioè il PCI, non trovando “valvole

angry, dazed spectator-worker. Repression and control were wielded above all physically, frontally and externally. The army, the police and the secret services (“diverted”), were, in some sense, tangible: corruption, political and mafia related assassinations, terroristic attacks, physical elimination of the enemy (one year later Pasolini will be assassinated). In this situation, the Italian communist party, the only big constitutional opposition power, overburdened by bureaucracy and the critical incapability to evolve its theoretical framework of analysis and reality-reading outlined the “historical compromise”. But those who pictured the compromise (alliance) with that kind of power that they would have liked to defeat, at the end they had to share the “practice” (as Pasolini summarized prophetically in his editorial). In short, free information could only be born and spread outside of institutions, and because it wasn’t heard by those who should have heard, that is PCI; because it couldn’t find “technological and transnational safety valves” (internet didn’t exist and power was delimited in the national boundaries) it was only able to explode violently. And violence

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inter view

Costantino Ciervo Homologation Installation mixed media Fondazione Mudima, Milan, Italy 2006 © Andrea Sassi

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di sfogo tecnologiche” e transnazionali (non c’era internet e il potere era circoscritto nei confini dello stato-nazione), non poté che esplodere nella violenza. E la violenza generò spettacolo mediatico scavalcando l’argomentazione politica e culturale e confondendosi così con lo spettacolo della violenza di stato, con le stragi e con i tentativi di golpe. Come si vede, lo spazio della controinformazione era limitato, definito ed estremamente circoscritto a quegli intellettuali e poeti non conformi che riuscivano a raccogliere intuitivamente quel momento di conoscenza della realtà, senza però poterlo trasmettere a un’entità soggettiva organizzata che ne sapesse o potesse fare un uso efficace per innescare e portare a termine un vero cambiamento democratico della realtà. Oggi la situazione è completamente diversa. Per certi aspetti è più inquietante, per altri è positivamente promettente. Dal “capitalismo newtoniano” siamo progressivamente passati a un “capitalismo fluido”, capace di alterare a suo uso e consumo la dimensione tempo-spazio lineare. Questo significa che il sistema economico vigente (che, non dimentichiamo, aveva e ha ragione di essere nell’unico scopo del lucro fine a se stesso e nell’accumulazione-appropriazione del capitale a discapito del lavoro di molti), ha sostituito il luogo della produzione della fabbrica-macchina con i cervelli degli individui. Non è più il lavoro manuale il principale fattore della produzione del valore di scambio ma il “lavoro intellettuale strumentale”. Un corpo, una macchina che producono richiedono tempo e logistica, il pensiero no. Il cervello, l’intelligenza e internet sono onnipresenti. Nella fisica, il lavoro della forza è misurabile, il pensiero no; di conseguenza il sistema si estrinseca a prescindere dai limiti del tempo/spazio. Questo significa che siamo tutti dipendenti da informazioni e dall’aggiornamento continuo del sapere strumentale, a prescindere dal luogo in cui viviamo. Siamo tutti intellettuali che “conoscono”? Non ancora. Il capitalismo fluido dipende dal sapere e crea sapere, ma si tratta di un “sapere strumentale”, il cui fine non è la conoscenza, ma il mezzo stesso. Siamo noi stessi che, vendendo a qualcuno (ci crediamo imprenditori) o a qualcosa la nostra intelligenza, produciamo continuamente quelle informazioni, perlopiù perverse, (e non il partito o l’ideologia) che a loro volta accrescono il nostro “sapere strumentale”. Un circolo vizioso di un sistema che si autocontrolla da solo. In questo senso il controllo, la repressione, l’aberrazione verso

generated the media show bypassing the political and cultural argumentation and getting muddled with the show of state violence, with massacres and attempts of coup. As we can see , the space given to unofficial information was limited, defined and extremely limited to those non standard intellectuals and poets that were able to intuitively catch that moment of knowledge of the reality , without being able, though, to transmit it to an objectively organized entity that could have made good use of it, in order to make a real democratic change of reality. We progressively passed from the Newtonian capitalism to a fluid capitalism, able to alter, for its own use, the linear space/time dimension. This means that the economical system in force (that, let’s not forget, is meant to be in the only purpose of profit as an end in itself and in the accumulation– appropriation of the capital to the detriment of many people’s job) has substituted the production place of the factory-machine with people’s brains. Manual work is not longer the main factor of production of the exchange value but the “instrumental intellectual work”. The brain, intelligence and internet are everpresent. In the physics, the power work is measurable, the mind is not: consequently, the system expresses itself aside from the limits of time/space. This means that we all depend on continuous information and updating of the instrumental knowledge, aside from where we live. Are we all intellectuals who “know”? Not yet. Fluid capitalism depends on the knowledge and it creates knowledge itself, but it’s an “instrumental knowledge”, whose purpose is not knowledge but means. By selling our intelligence to something or someone (we think we are entrepreneurs), we keep on producing those bits of information, most of which perverted, (and not the party or the ideology), which in their turn increase our “instrumental knowledge”. A viscious circle of a system that controls itself. In this sense, the control, the repression, the aberration towards knowledge, are internal and not frontal. They are not intrusive. So, compared to the Pasolini’s last years of life, the level of knowledge has gotten worse and wors, but, paradoxically, for the first time in the history, a great liberating and planning power, able to face the supremacy of the profit culture, could be born worldwide. The globalization of knowledge and telematic technology, where it flows, could allow the re-establishment of the communication of those needs


la conoscenza sono interni e non frontali. Non sono invasive. Perciò, rispetto al periodo degli ultimi anni di vita di Pasolini, il livello di conoscenza reale è qualitativamente peggiorato, ma, paradossalmente, è proprio da questa involuzione che potrebbe nascere, su scala mondiale, per la prima volta nella storia, una grande forza liberatoria e progettuale, capace di fare fronte al dominio della cultura del lucro. La globalizzazione del sapere e la tecnologia telematica, nella quale esso naviga, potrebbero rendere possibile il ripristino della comunicazione di quei bisogni e desideri che il capitalismo fluido ha relegato (ma non soppresso) nell’inconscio generale. Un risveglio che i cultori dell’estetica, se pensassero un po’ meno alla loro carriera, potrebbero decisamente contribuire a provocare, con uno “squillo di sveglia”. Matteo Bergamini: Nella piramide di “Perversion of Signs” le 84 bocche filmate leccano e fanno scomparire, inghiottendoli, una serie di simboli disparati ma universali, dal profilo della statua della Libertà al marchio indicante il nucleare: insistevi sulla necessità del capitale di omogeneizzare i

and dreams that the fluid capitalism has banished (but not suppressed) in the general subconscious. An awakening that could be encouraged with an “alarm clock sound”, if only aesthetics lovers stopped thinking about their career for a while. Matteo Bergamini: In the pyramid of “Perversion of Signs”, the 84 filmed mouths lick and swallow a series of various but universal symbols, making them disappear: from the Statue of Liberty to the mark indicating the nuclear. You insisted on the capital need of homogenizing tastes, life, individual “tensions” and at the same time influencing economy and politics through the already sclerotic “sovereign people”. In this case it’s no longer about choosing to share, but devouring all and now, in order to ravenously get possession of the image of ourselves that transpires, of the unique and univocal icon, created by the show society. Do you think that art goes under the same process or that, because of its own nature, can be located in a conflict or “crisis” area? Costantino

Ciervo:

Although

art

has

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inter view gusti, la vita, le “tensioni” individuali dunque di influenzare l’economia e la politica attraverso l’ormai sclerotizzato “popolo sovrano”. In questo caso non si tratta più di scegliere per condividere ma di divorare tutto e subito per appropriarsi voracemente dell’immagine che traspare di se stessi, dell’icona unica e univoca creata dalla società dello spettacolo. Pensi che l’arte subisca il medesimo processo o per sua natura possa permettersi di abitare una zona di conflitto o di “crisi”? Costantino Ciervo: L’arte, sebbene per sua natura abbia una valenza simbolica metastorica, quindi un significante indelebile nel tempo, è, nello stesso istante, poiché forma continuamente esposta a essere usata ed integrata impropriamente dal potere istituzionalizzato, nello spazio storicotemporale che la struttura economica produce. Essa, cioè, è esposta al sequestro o alla presa in ostaggio transitoria del significante da parte del significato, della veridicità da parte della verità assoluta, della differenziazione da parte della banalizzazione. Nel passato, quando i mass media non erano ancora così presenti, quest’espropriazione avveniva attraverso un atto frontale che si traduceva perlopiù in censura. Una censura legittimata da una ragione strumentale, un’ideologia (sistemi autoritari). Nel “capitalismo newtoniano”, con l’avvento di massa della televisione, l’espropriazione del significante era oggetto mirato dell’uso unilaterale espositivo e diretto della comunicazione. Un procedimento che conduceva (e conduce ancora) alla banalizzazione e, quindi, alla sospensione del messaggio poetico contenuto nel simbolo, tanto più che l’utente era abulico, giacché il mezzo non era interagibile. Con l’avvento della globalizzazione, nel “capitalismo fluido”, la sospensione del significante da parte del potere diventa molto più sofisticata e maldestra, poiché siamo noi stessi, utenti dinamici, che produciamo, con il sapere generale strumentalizzato, illudendoci di essere creativi, i segni perversi del linguaggio omologato di cui, a nostra volta, ci serviamo per vivere, comunicare e produrre altro sapere strumentalizzato, sovrapponendo così il significato effimero del pittogramma alla profondità del simbolosignificante. Un rituale di massa cannibalistico, paragonabile a una nuova religione moderna che, però, inverte il senso tra il sacro e profano e che io ho voluto mostrare iconograficamente nella forma monumentale della piramide di “Perversion of

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symbolic worthiness which makes it a significant waterproof in time, it is in the historical/time space that the economical structures produce, because it is continuously exposed to be exploited also inappropriately by the institutional power. It can be seized or be taken hostage temporarily by the signifier, from the meaning, by truthfulness from the absolute truth, by differentiation from banalization. In the past, when the mass media were not so present, this expropriation used to happen through a frontal action that, most of the times, was mainly censorship. A censorship legitimated by an instrumental thinking, an ideology (authoritarian system). In the “Newtonian capitalism”, with the advent of TV, the expropriation of the significant was subject to the unilateral expositive and direct use of communication. A procedure that used to lead (and it still does) to banalization, and therefore, to the suspension of the poetical message of the symbol: the more users could not interact with the means, the more they became aboulic. With the advent of globalization, in the “fluid capitalism” the suspension of the significant acted out by the main power becomes more sophisticated and clumsy, because it’s us dynamic users who produce through the exploited general knowledge. We think we are creative, the perverted signs of homologated language that, in our turn, we use to live, communicate and produce other exploited knowledge, making the ephemeral meaning of the pictogram and the depth of symbol-significant overlap. A cannibalistic mass ritual, comparable to a new modern religion that inverts the meaning of the sacred and the profane, which I wanted to show ichnographically in the monumental shape of the “Perversion of Signs” pyramid. Here we go deeper in your question, something new has happened: the big volcano of globalization that squashes us under the weight of the greyness of homologated language ashes, contains the objective and revolutionary conditions to spark off the blooming of significant. The general knowledge, in its process of continuous reproduction, contains in itself that amount of intelligence and lurking critical ability that, with time and in contact with “water” (the need of a relationship and the desire of love), is slowly starting to deconstruct the instrumental and homologating cap that has formed around the sign, digging up its stone of truthfulness. The art work then, nowadays, is potentially more understandable and effective, as


Signs”. Ora però, e qui entriamo più direttamente nel merito della tua domanda, è successo qualcosa di nuovo: il grande vulcano della globalizzazione, che ci appiattisce sotto il peso del grigiore delle ceneri del linguaggio omologato, contiene in sé le condizioni oggettive rivoluzionarie per innescare la fioritura del significante. Il sapere generale, nel suo processo di riproduzione continuo, contiene in sé quel grado d’intelligenza e di capacità critica latente che, con il tempo, a contatto con “l’acqua” (il bisogno della relazione e il desiderio dell’amore), sta cominciando, lentamente, a destrutturate la calotta strumentale e omologante che si è venuta a formate intorno al segno, riportando alla luce il suo nocciolo di veridicità. L’opera d’arte quindi, oggi, detto semplicemente, è potenzialmente più recepibile ed effettiva, a patto però che si renda essa stessa coscientemente più critica (forse più criptica) e, quindi, il meno possibile vulnerabile alla sua mistificazione. Non solo: anche nel caso che il messaggio sia contaminato, esso può essere oggettivamente “bonificato” e reintrodotto, dall’utente “convertito” dinamico e cosciente, nella rete telematica, producendo così un circolo fruttuoso di controinformazione e di scelte possibili. L’arte, oggi, ha paradossalmente più possibilità di vivere in quello che tu hai definito “abitare una zona di conflitto”. Matteo Bergamini: Tornando un po’ intorno al tema dello “spazio”, mi piacerebbe raccogliere una tua opinione: come vedi, da italiano residente a Berlino, lo stato sociale e artistico della penisola? Pensi che un paese in perenne stato di crisi possa ancora essere il terreno fertile per una condizione di “ribellione” intellettuale/ artistica? O la mancanza di riconoscimento determinerà l’affossamento totale della cultura contemporanea? Molto spesso in Italia si ha la percezione di vivere in un paese che non si è mai affrancato dalla sua storia, e non parlo della storia secolare, ma della storia del Novecento, dal fascismo: Berlino, al contrario, ha cercato un riscatto pur mantenendo inalterata la sua memoria… Costantino Ciervo: Io penso che l’Italia, per la sua particolarità di essere stata il crocevia nel Mediterraneo di diverse civilizzazioni, per la sua storia millenaria costellata di conflitti di ogni genere, affiancati a momenti di spicco culturali nelle arti e nella società unici al mondo, sia, in questo periodo, da prendere molto in considerazione come laboratorio

long as it makes itself consciously more critical (and even more cryptic), and therefore less vulnerable to its own mystification. Not only: even if the message is contaminated, it can be objectively “cleared up” and reintroduced by the “converted” dynamic and conscious user, in the telematic web, producing in this way a full circle of unofficial information and possible choices. Nowadays, art has, paradoxically, more chances to live in what you have defined as “living in a conflict zone” Matteo Bergamini: Going back to the theme of ”space”, I’d like to have your opinion: as an Italian living in Berlin, how do you see the social and artistic state of the peninsula? Do you think that a state going under continuous crisis could still be rich soil for the artistic and intellectual “rebellion”? Or will the lack of reward determine the dip of contemporary culture? Very often Italy is seen as a country that has never been able to free itself from its own history, and I’m not talking about its secular history, but about the history of the twentieth century, that is fascism: Berlin, on the contrary, has been trying to redeem itself , keeping its memory alive… Costantino Ciervo: I think that Italy, because of its peculiarity of having acted as crossroads of different civilizations, for its millenary history full of conflicts of any kinds, with some cultural moments in the art field and in the society that were unique in the whole world, and also now, a phase to be taken into consideration as a laboratory to understand in which direction the contradictions of the globalization are developing. We have to point out the fact that , with modernity in Europe and in the western world, we were the first to acclaim fascism and a decade later, Germany and the whole world knew the terrible consequences of Nazism. Since I was born, I have been witness to a progressive degeneration of the ruling class, and in the last 16 years I’ve seen it lead towards the implausible and muddy phenomenon of berlusconism (and I don’t think it’s getting to an end). But it’s not Berlusconi the one who has created the berlusconism, but the society that has created Berlusconi, and it’s not only a case of diplomatic correctness that the foreign “mouthpiece” per excellence of “Obama’s hope”, Hillary Clinton, has recently defined Berlusconi as the “best friend”, with whom “we share values” (Corriere della Sera e Repubblica 1.12.2010): the Berlusconism is the

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inter view per capire in quale direzione le contraddizioni della globalizzazione si stanno sviluppando. È da notare che, con l’affacciarsi della modernità in Europa e nel mondo occidentale, siamo stati i primi ad acclamare il fascismo, e con un certo ritardo, una decina di anni dopo, la Germania e il mondo intero conosceranno le terribili conseguenze del Nazismo. È da quanto sono nato che assisto empiricamente a una progressiva degenerazione delle classi dirigenti italiane, fino a vederla sfociare, negli ultimi sedici anni, nell’inverosimile melma del berlusconismo (e non penso purtroppo che essa si stia essiccando). Ma non è Berlusconi che ha creato il berlusconismo, bensì è dalla società che è fuoruscito Berlusconi, e non è un caso di sola correttezza diplomatica che il “portavoce” per eccellenza all’estero della “speranza Obama”, Hillary Clinton, abbia definito recentemente Berlusconi “l’amico migliore” di cui “condividiamo i valori” (Corriere della Sera e Repubblica 1.12.2010): Il Berlusconismo è l’espressione culturale intrinseca del “capitalismo fluido”. Ora, detto questo, vorrei aggiungere che ci sono nel mondo regioni a bassa intensità e altre ad alta intensità berlusconiana. Berlino è ancora a bassa intensità… Per quanto riguarda l’aspetto dell’arte contemporanea in relazione al concetto di ribellione, comincio a intravedere in Italia, finalmente, labili ma interessanti segnali. In questo periodo ci sono delle nuove generazioni di artisti giovani, con “l’anagrafe italiana in tasca”, che si muovono tra questo paese e il mondo, fisicamente e nella rete, nelle istituzioni e fuori di esse e che stanno producendo un interessante lavoro di un’ ”estetica della controinformazione”. Vorrei citare due gruppi e alcune artiste/i: come esempio “01001011101101.org”, “alterazioni video” a www.alterazionivideo.com, l’artista Blu www.blublu.com, l’artista Rossella Biscotti (www. rossellabiscotti.com), l’artista Adrian Paci e augurare loro ,come a tante altre soggettività impegnate ,la continuazione e la riuscita di un buon lavoro già intrapreso, con un auspicio di “successo globale”.

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cultural expression which is typical of the “fluid capitalism”. Having said this, I would also like to say that there are berlusconian regions of both high and low intensity. Berlin has still got low densities… For what concerns the aspect of contemporary art in relation with the concept of rebellion, I’m finally starting to see some interesting signals, even though they’re still a bit weak. In this period there are new generations of young artists, with the “Italian register of births in their pocket”, that work both in Italy and around the world, physically and in the web, inside the institutions and out of them, and which are creating an interesting work of an “aesthetics of unofficial information”. I would like to mention two groups and some artists such as “01001011101101.org”, “alterazioni video” www.alterazionivideo.com, the artist Blu www.blublu.com, the artist Rossella Biscotti (www.rossellabiscotti.com) the artist Adrian Paci and wishing them, as well as some other committed realities, the continuation and the success of a work that has already been started, with the wish of a “global success”.


Annoiati dai soliti artisti...

Bored by the usual artists... ...we are looking for you! ...cerchiamo te!

artcollection Proponi la tua opera alla Collezione di con-fine Submit your work to the con-fine art collection

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con-fine

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Ogni anno con-fine nell’ambito della sua mission di promozione e sostegno dell’Arte Contemporanea seleziona l’opera di un artista fra tutti i lettori della rivista d’arte con-fine. L’opera verrà acquistata dalla casa editrice, entrerà a far parte della collezione permanente e verrà pubblicata sul numero di settembre. Per partecipare compilare il presente modulo, (only the original one, no copies will be accepted) inserire un’immagine di ottima qualità dell’opera e spedirlo all’indirizzo:

Inserire qui un’immagine dell’opera Insert here an image of the art work

con-fine each year as part of its mission of promoting and supporting contemporary art, selects one work of an artist among all the of con-fine art magazine readers. To participate fill out this form, insert an high-quality picture of your work and send it at

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passeurs

Christiane LĂśhr

La pienezza dell’ignoto

The fullness of unknow

Giuseppe Di Bella


passeurs

L

Preview page:

Christiane Löhr Zwei durchlässige Formen Blossom Tree Cm 16 x 26 x 25 12 x 30 x 22 2008

Photo Burat

Christiane Löhr Löwenzahnkissen Seeds of Dandelion Cm 12 x 53 x 63 Villa Panza collection Varese 2010

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a procedura formale di Christiane Löhr, sembra innanzitutto basata su una traslazione che dall’oriente giunge come stimolo poetico e si fonde ad una perfezione formale, propria della fragilità dell’occidente. In questo senso si fonda un dialogo con la materia indissolubilmente legato a un doppio vuoto, e a una doppia crescita germinante. La costruzione millimetrica di un gesto che riparta dal grado zero dello spazio è la responsabilità a cui richiama un ossimoro culturale: il bianco come stato di grazia - e in esso un minimalismo che interagisce emotivamente - e il bianco come stato di riflessione del segno, utile a gestire la fragilità del vero, del foglio, della labilità di un centro che riconfiguri l’invisibile tessuto come in una dissolvenza inversa, da cui l’Essere e quindi l’immagine si definiscono gradualmente. La stessa Christiane postula la comunione con un’estetica dell’Asia retta da un equilibrio supremo, che non è statico, ma nasce internamente al proprio sviluppo come “bilanciamento”. Tuttavia è forse nell’arte islamica che si trova la maggiore fonte di impulsi connettivi, laddove la purezza geometrica di quell’architettura sprigiona qui un’energia che è sacra e al tempo stesso muta, priva di ogni invasività che scomponga la “naturalezza” del concetto e la sua interazione con lo spazio circostante, con la trasformazione interattiva che si determina a partire dall’avvicinamento fra la realtà e il soggetto posto nudamente in essa. E forti sono le implicazioni emozionali e di astrazione che si dipartono. L’artista nota come in Giappone, in quel substrato creativo e creaturale, la vita, e quindi l’arte, nascono con un minimo apporto, il pensiero del creare è legato a un’infinitesimale che si fa immenso, diviene affermazione ontologica e visiva da un impercettibilità che si va generando con una ritmica lentezza evolutiva. L’utilizzo di materiali naturali assume allora una grande forza spirituale, cosmica, come di legame dimensionale fra vari mondi. Ma fra mondi che sono culturali e più specificamente sapienziali: la matematica, la biologia, la geografia, l’architettura; linguaggi primariamente conoscitivi della relazione all’ordine del cosmo. Le regole che essi assecondano e determinano disvelando il vero, sono il punto di accesso per mezzo del quale l’arte arriva a determinare il proprio carattere Poetico. La dimensione metafisica e quella corporea/ sensoriale si toccano fino a sublimarsi in una sola monade pulviscolare, perfetta e delicatissima. Ognuno dei saperi che sconfina assume, la

T

he formal practice of Cristiane Löhr seems firstly based on a transfer which, as poetic impulse, comes from the East and which joins a formal perfection, typical of the western fragility. So the relation with matter, indissolubly bound to a double sense of emptiness and to a double germinal growth, is set. The millimetric setting up of an action starts from the beginning of the space and recalls a cultural oxymoron: white as state of grace – and, within it, minimalism acts as emotional interaction – and white as state of the sign’s reflection, useful to run the weakness of the truth, of the paper, of the faintness of a central point which shapes the invisible structure as an inverse fade, from which Being and, consequently, the image gradually take their shapes. Chritiane postulates the communion with an Asian Aesthetics based on a supreme balance, that is not static, but in development, as “counterbalance”. In the Islamic art it is possible to find the main sources of connective impulses, there, where the geometrical purity of architecture is both silent and holy, in its true “being natural”. The artist marks that in Japan, in that creative and creaturely substrate, life and consequently art, grow with a minimum effort, even if the creating thought is tied to the infinitesimal, here it turns into the infinite, becoming an ontological statement visible through imperceptibility and its rhythmical evolutionary slowness. So the use of natural row material has a great spiritual cosmic power, as dimensional bound among different worlds. But among worlds which are cultural and more specifically, concerned with sciences as for example mathematics, biology, geography, architecture; that are primarily cognitive languages about cosmic order’s relations. Their rules are the access to the Poietic character of art. The metaphysical dimension and the corporal/ sensory dimension become together a single sublime dimension, a perfect and highly delicate, nomadic and dust dimension. The choice of certain dynamics is forced and subjected to the use of specific materials. The logic used by a blade of grass to get in a precise world, is very different from that used by traditional materials. The essence comes out from its invisibility, following the same physic and ampathic rules imposed by elements. We take part in a sort of millimetric and minimal reconstruction of certain human sentimental





passeurs

Preview page: Christiane Löhr Dividere il vuoto Divide the blank View of installation Scuderia Grande 2010

Photo Burat

Christiane Löhr Dilatare lo spazio Expand space View of installation Gallery Oredaria 2010 Courtesy Gallery Oredaria, Rome

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propria fenomenologia installativa senza pretese di oltrepassamento temporale. Vede ciò che c’è, ma in un eterno che non conosce stadi di evoluzione. La scelta di un certo tipo di dinamiche ovviamente è vincolata e fecondamente piegata all’esigenza del materiale. La logica che serve a un filo d’erba per inserirsi in un ambiente è diversa da qualsiasi valore plastico dato dai materiali tradizionali, diviene già essa proiezione di un’attenzione particolare e del modo in cui potrà divenire forma e far emergere quello che appunto “già c’è”. Si tratta di tirare fuori dalla invisibilità l’essenza, seguendo le stesse regole fisiche ed empatiche imposte dagli elementi in campo. Assistiamo a una sorta di ricostruzione millimetrica e minimale di certe rotte sentimentali dell’essere umano, qualcosa di anti-ideologico, povero, ma solo nel senso della scelta stilistica. Ciò che interviene in senso di rilievo estetico e semantico è l’interfaccia fra il gesto dell’artista e l’atteggiamento con cui egli vede e “invera” il reale. La Löhr parla di un atteggiamento sempre politico che in realtà si esprime appunto in quanto posizione di apertura e labilità in grado di fermare o spezzare un flusso duro e organico di nozioni slegate dalla propria perfezione originaria. La perfezione di materiali che non mutano a partire dalla tecnica, ma dal pensiero che elabora ciò che sta al margine, nella propria sostanzialità empirica e cangiante. Ho cercato di rintracciare una linea di comunanza e quindi di ulteriore connessione fra vari mondi semiotici, fra l’opera della Löhr e quella del maestro Wolfgang Laib, ma in effetti come lei stessa conferma tale dialogo è solamente di fascinazione e pilotaggio di una fragilità costitutiva del metodo e della scultura, per cui l’estremo palpito condiviso della creazione si incarna in quella durevolezza rappresentata da un polline, da un’organicità che racchiude il segreto dell’immortalità in quanto evanescente ma eternamente ricreabile, riutilizzabile. Poi il lavoro della Löhr è indissolubilmente legato a una fisicità che usa il metafisico come un ambito di rimando, di specularità leggera e permeata di una forza creaturale più che confessionale. Ma un versante più specificamente orchestrale si innesta nell’opera dell’artista tedesca, nel momento in cui il disegno e la grafica sono più proiettati verso l’essenzialità di un linguaggio articolato che diviene pura instrospezione. Si apre al costruttivismo scandito dalla muta dedizione a un “campo” di lavoro da cui desumere il proprio tracciato.

routes, something of anti-ideological, poor, but only in its stylistic choice. The interface between the artistic act and the his attitude towards the real is of great aesthetics and semantics importance. Löhr talks about a political attitude, that thanks to its position of breath is able to stop or break the flux of knowledges freed from their original perfection. The perfection of materials that do not change from the technique, but from the thought that elaborates what stands aside. I tried to trace what Löhr and Wolfgang Laib have in common, but how she states, the existing dialogue is only about fascination of the weakness of the method and sculpture, for this reason the last pulse of the creation embodies the time represented by flower-dust, by an entity which holds the secret of immobility as evanescent but eternally recreated. Furthermore Löhr’s work is indissolubly joined to a kind of physicality which reminds to metaphysics. But the most important moment in the work of the German artist is when drawing and graphics are oriented towards introspection. The work recently performed at Hangar Bicocca in Milan during the TERRE VULNERABILI a growing exhibition a project curated by Chiara Bertola, proves the importance of the anthropological overflowing and as freedom could fully acts on poetic and experimental horizons. In this particular place but as somewhere else, the artist creates a work interpreting the place but, beyond the site specific project, she wants to enter in contact with the invisible reality of the space and of its different dimensions. At the Hangar Löhr exploited the big large hall of the warehouse “the presence of the roof as protection, allowed to the walls to lose their meaning, and this perception of the space let me focusing on the importance of the old industrial building and – in contrast to the space - on the use of the most fragile materials, horsehair, needles to sew.” So, one more time, absolute white becomes the expression of the emptiness, of the break that fixes the relational nature of the landscape in the semiotics exchange and that increases the power of a minimalism which carries the peace between paper and bare corner, and it is as a road or a map in the re-appropriated path of the sign, furthermore it increases the power of a mind which catches and defines the meaning of the drawing and its solution towards the outside. The simple corporeality of the horsehair, or the finest blade of grass, becomes the strongest artist’s declaration of aesthetic identity



passeurs L’opera realizzata di recente all’Hangar Bicocca di Milano in occasione alla mostra Terre vulnerabili curata da Chiara Bertola, è la dimostrazione di quanto forte sia nel contemporaneo la continua esondazione dalla gabbia dell’impatto di sistema per creare una circolarità centrifuga e catalizzatrice del senso, dell’antropologia. Ma anche come la libertà ormai acquisita riesca ad agire a 360 gradi su tutti i versanti sperimentali e poetici che sono offerti dalle interazioni fra i vari livelli. Evidentemente qui come altrove quando l’artista costruisce un’opera lo fa leggendo l’ambiente ma che al di là del progetto site specific vuole entrare in contatto con la realtà invisibile dello spazio e delle sue molteplici dimensioni. All’Hangar la Löhr ha sfruttato l’immenso salone del capannone “dove la presenza del tetto in quanto protezione e le pareti non si sentono più, e questa percezione dello spazio mi ha portato a concentrarmi sul valore di un edificio ex industriale e - in contrasto con la crudezza dell’ambiente - a lavorare con i più fragili dei materiali, pelo di cavallo e aghi per cucire.” Così ancora una volta il Vuoto è un’espressione del bianco assoluto, e cioè della pausa che consente di fissare meglio la natura relazionale del passaggio da una fase all’altra dello scambio semiotico e aumenta il potere di un minimalismo che reca la pace del foglio e dell’angolo nudi, e vi si adagia come una strada o una carta geografica nel percorso di riappropriazione del segno, di una mente che cattura e delinea in divisione spaziale eterea il significato del disegno e la sua risoluzione verso l’esterno, l’esteriorità. L’esigua corporeità del crine, o di sottilissime ramificazioni vegetali, o di soffioni ed efflorescenze, appare come la più forte dichiarazione di identità estetica possibile nella propria necessaria e velleitaria anti-retorica. Ogni sistema all’interno della singola opera o nell’organizzazione complessiva si incastra a un altro sistema e tutto assume una complessità di rimandi e di trame che si assottigliano e assurgono a una macrotestualità lampante, come un cespo o una natura che semplicemente “sta” eppure non sta davvero e soprattutto non così semplicemente. È fondamentale per la pianificazione di un’esposizione, un impianto basato su un’intima conoscenza dello spazio totale, e per determinare l’esatta dislocazione e priorità visiva di alcuni pezzi rispetto ad altri. In questo c’è già una volontà cosmica di ordinamento legato a leggi che rendono il lavoro una grande sfida su minimi spostamenti, dettagli minuscoli in cui entrano in gioco il controllo e la presenza della mano dell’artista

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che a volte si fa presente, altre si eclissa come a nebulizzare l’autorialità in maniera sottilmente strategica. Nel lavoro a Villa Panza dove lo spazio è stato diviso in undici podi, la collocazione degli oggetti e dei podi rileva una potenzialità scultorea alta e una mimesi giocata fra caso e nascondimento della rigida progettualità. L’energia nelle opere di Löhr deriva da una trasparenza concettuale e processuale ed è simbolo di una vulnerabilità che si espande e apre gli orizzonti. All’improvviso un solo filo d’erba, una chiusura per raggiungere la perfezione e l’autonomia dell’opera diventano il solo modo per raggiungere quello zenit, quella calma e sollievo che sono frutto di una profondità guadagnata centimetro per centimetro, pollice per pollice, fino allo spasmo culminante che unisce l’irregolarità del materiale organico con una precisione matematica e ascetica. In qualche modo rimane sempre un debito legato a un doppio vuoto come attraversamento della verità produttrice di forma e uno spazio da riempire senza mutuata pienezza dell’ignoto.

in its necessary but ambitious anti-rhetoric. Each system, inside a work or in the complex structure, is fixed to another system and in this macrotextuality finds its meaning. A system, based on a deep knowledge of the space is essential in the organisation and in the planning of an exhibition. For example at Villa Panza, where the space has been divided into eleven platforms, the position of objects and of the podia reveals a high sculptural potentiality and a mimesis between fate and hiding of the inflexible planning. The energy in Löhr’s works comes from a conceptual clearness and it is the symbol of a vulnerability that is growing and is opening new horizons. Suddenly a single blade of grass, a closing to reach perfection and autonomy of the work of art becomes the only way to reach the zenith; that calm and relief that are the result of a depth gained centimeters per centimeters, inch per inch, until the culminant spasm that joins the irregularity of the organic material with a new mathematics and ascetic precision. Somehow it is always a debt linked to a double gaps as crossover of the producing truth of shape and a space to be filled up without fullness of the unknown.


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Michael Kenna

Al confine della siepe

At the boarders of the hedge

Luciana Ricci Aliotta


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U Preview page: Michael Kenna Copacabana Beach Rio de Janeiro, Brazil, Photography 2006 © Michael Kenna Photography / All rights reserved

Michael Kenna St. Basil Cathedral Moscow, Russia Photography 2008 © Michael Kenna Photography / All rights reserved

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na scia di fragilissimi paletti -quasi un ideogramma- incide il biancore di una collina innevata salendo incerta verso la cima lontana; più che recingere indica la direzione su una linea diagonale che dilunga lo sguardo fin là dove sparisce alla curva del cielo (“Recinto sul pendio di una collina” - T.H. Giappone 2002). Barriere fragili come nella foto “Resti di un molo” (Sussex 1990) dove pochi pali residui di qualcosa che si è perduto si ergono fra acqua e nebbia. Pochi, ma senza queste leggere presenze materiali lo spazio non esisterebbe, perché senza le cose lo spazio è nulla. A volte sono piccoli sassi o alberi sottili, quasi rifilati a penna (memoria dello stile giapponese?), sperduti in un immenso campo di neve a dare la coscienza dello spazio che si dilata oltre. E sono sempre loro, nella loro esiguità, a indicare che c’è qualcosa che non viene raccontato, cosicché il finito si fa metafora dell’infinito. Con questi segni Kenna si appropria di un territorio sottraendolo all’indefinito. Lo ritaglia penetrando nel suo essere concreto. Ma per farlo deve distaccarsene, mettersi fuori campo, scomparire. Divenire l’occhio della macchina fotografica: se non compare alcuna parte del tuo corpo nella scena, neppure la tua ombra, ti estendi a ciò che vedi, sei tutt’uno con la visione. Il corpo vero (presenza-assenza dell’uomo) diviene la funzionalità dell’occhio della macchina che scruta i segreti della notte, del moto lento delle cose, del nascere del giorno, del diffondersi della luce e del tempo. Nell’epoca in cui l’arte sembra esplodere nello spazio attingendo a tutte le moderne tecnologie per coinvolgere quanto più campo possibile, in uno scenario multisensoriale che avvolge anche lo spettatore, Michal Kenna tiene a dominare tempo e spazio sulle due dimensioni della foto. “La luce del mattino è soffusa. Può ridurre uno sfondo disordinato in diversi piani di toni bidimensionali.” (Wraparound 2003) L’azione non è impersonale perché nello sguardo che si fa ‘meccanica’ coglie lo spazio che si costituisce nelle cose e lo conosce. Solo se non vi si getta la propria ombra ci si può illudere di conoscerlo, di studiarne la forma. O meglio la molteplicità delle cose che giacciono nel suo grembo, quel suo ridursi da possibilità cosmica ad immagine alla portata della limitata definizione dei nostri occhi: un terreno geometricamente divisibile. Inglese, nato a Widnes nel 1953,

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trail of very fragile poles - almost an ideogram - etches the whiteness of a hill covered by snow, going up faltering towards the far top; more than surrounding, it indicates the direction on a diagonal line that addresses the look up to where the sky curve ends. (“Fence on the hill slope” - T.H. Japan 2002). Flimsy barriers, just like in the photograph “Remains of a pier” (Sussex 1990), where few poles, as remains of something, can be spotted between water and fog. Just a few of them, but without these light material presences the space would not exist, because without any things the space is nothing. Sometimes they are little stones or thin trees, almost trimmed with a pen ( memory of the Japanese style?), lost in a huge snow field as to give a conscience to the space that extends further away. And there they are, with their slenderness, suggesting that there is something that hasn’t been told, so that the infinite becomes the metaphor of the infinite. With these signs Kenna gets possession of the territory removing it from the indefinite. He curves it out by penetrating in its concrete being. But in order to do this, he has detached himself from it, put himself out of sight, disappeared. He has to become the eye of the camera: if any part of your body appears on stage, not even your shadow should be there, you extend yourself up to what you see, you and the vision are one thing. The true body (presence and absence of the human being) becomes the eye functionality of the camera that probes into the secrets of the night, of the slow motion of things, of the day rising, of the diffusion of light and time. In the era when art seems to be exploding in the space by drawing from all the new technologies, in order to involve the most sight possible, in a multisensory scenario that envelops the spectator as well, Micheal Kenna keeps dominating time and space on two dimensions of photography. “The morning light is soft. It can reduce an untidy background in different bi-dimensional layers of shades” (Wraparound 2003). The action is not impersonal because in the look that becomes “mechanism” he catches the space that builds up in the thing and he gets to know it. Only if you don’t intrude this space with your own shadow you can get the illusion of knowing it, of studying its shape. Or even better, the multitude of things that lie on its lap, which





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Preview pages: Michael Kenna Circle of Stones Ahu Viahu, Easter Island Photography 2001 Pine Trees Study 2, Wolcheon, Gangwondo, South Korea, Photography 2010 © Michael Kenna Photography / All rights reserved

Michael Kenna Tangyue Arches Study 2, Shexian, Anhui, China Photography 2008 © Michael Kenna Photography / All rights reserved

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Michael Kenna, ormai americano d’adozione, è uno dei maestri internazionali della fotografia di paesaggio. Il suo lavoro è stato esposto in numerose gallerie pubbliche e private in Asia, Australia, Europa Stati Uniti ed è incluso nelle collezioni permanenti di note istituzioni, tra cui la National Gallery di Washington. Nel 2000 Kenna è stato insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere da Ministero della Cultura francese. Per la mostra a Palazzo Magnani di Reggio Emilia (2010) Sandro Parmiggiani, curatore del bellissimo catalogo, ha voluto il titolo, Immagini del Settimo Giorno, che induce a una riflessione sull’intenso lavoro presentato dell’artista: 290 fotografie di paesaggio in bianco e nero, che ripercorrono l’iter creativo del maestro inglese dagli anni settanta ad oggi. Le immagini di Kenna sono insieme “un’apparizione e una rivelazione” perché ci mostrano anche ciò che già conosciamo in altra luce, ce le fa riscoprire: dai grandi scenari impervi della nostra terra, alle città popolate di luci (ma non di uomini), alle lontane civiltà scomparse riscattate oggi da una memoria purificatrice che giunge anche ai campi di sterminio nazisti, a cui l’artista ha voluto offrire una propria testimonianza perchè Impossible to Forget. Kenna viaggia per tutto il mondo cercando al di sotto delle apparenze i segni e le analogie nascoste che meglio rispondono a una sua visione interiore, a una curiosità appassionata e pronta all’incanto, che è insieme sensibilità al bello e profonda riflessione mistica. Questo lo porta a studiare con molta attenzione il cammino che deve percorrere per impossessarsi dell’oggetto da fotografare, a osservarlo più volte a tempi e luci diverse quasi per coglierne l’anima prima di osare di afferrarne la presenza. “Non sono un fotografo paparazzo. Non corro fuori in un paesaggio, scatto una foto e poi corro via di nuovo. Mi piace conoscere un albero, da vicino. Passo spesso molto tempo girando attorno all’albero, cercando di conoscerlo. In un certo senso parlo all’albero. Provo a essere molto rispettoso e mi piace tornare allo stesso albero due anni dopo, o cinque, o tanto spesso quanto mi è possibile” (Artworks 2007) La scelta del bianco e nero è intimamente coerente: stimola la concentrazione, offrendo possibilità di infinite sfumature nei due toni senza la frantumazione dei colori. Una geometria

reducing from the cosmic possibility to the image that fits in the limited definition of our eyes: a field that is geometrically divisible. Micheal Kenna, born in Widnes in 1953, English but practically American is one of the international masters of landscape photography. His work has been exhibited in various public and private galleries in Asia, Australia, Europe and USA and he is part of the permanent collections of wellknown institutions, such as the National Gallery in Washington. In 2000 Kenna was invested with the title of Chevalier of the Order of Arts and Literature of the French Minister of Culture. For the exhibition in Reggio Emilia in Magnani Palace (2010), Sandro Parmiggiani, the curator of the beautiful catalogue, wanted the title Images of the Seventh Day, which leads you to a reflection on the intense work presented by the artist: 290 black and white landscape pictures that trace the creative path of the English master from the Seventies to nowadays. Kenna’s images are both “apparition and revelation” because they give us a new perception of what we already know, he makes us rediscover them. From the inaccessible landscapes of our world, to the cities populated with lights (but not people), to the far disappeared cultures that have been redeemed only now through a purifying memory that even gets to the Nazi extermination camps, to which which the artist has given his own account, because Impossible to Forget. Kenna travels all over the world, looking for those signs and analogies that are hidden behind the appearances and that better match his inner vision and his curiosity, always ready to be enchanted, which is both sensitivity to the beauty and deep mystic thinking. This leads him to studying carefully the way he has to go through, in order to get possession of the object he wants to take pictures of, to observe it many times with different lights and exposure times as to catch its soul before he dares to grab its presence. “I’m not a paparazzo. I don’t just get out, see a landscape take a picture and set off. I like getting familiar with a tree. I spend long time going around a tree, trying to become familiar with it. In a sense, I speak with the tree. I try to be respectful and I like coming back to the same tree two years later, or even five, or as often as possible.” (Artworks 2007). The choice of black and white is intimately coherent: it stimulates the concentration, giving the



passeurs morbida e lineare insieme, senza divagazioni inessenziali. Le linee e la luce conducono con intenzione ma senza durezza, preferibilmente lungo un tracciato diagonale, fino a ciò che non si può varcare: l’ignoto, forse il vuoto. Così quando guardiamo Omaggio ad HCB(Francia 1993), un viale che si spinge avanti per essere inghiottito dalla foschia, noi subiamo lo smarrimento che oltre non ci sia più strada, più alcun passaggio percorribile. Paura non della nebbia, che fa parte della nostra vita, non di quello che potrebbe esserci alla curva, ma di quello che potrebbe non esserci: per cui la caduta nel nulla. È la malinconia della finitezza, ma anche la speranza: la nebbia è un punto interrogativo che non nega e non lede la bellezza del nostro mondo. In “Riflesso di bosco ceduo” (Ca’Vendramin, Taglio di Po - Rovigo - 2007) l’armonia di sfumature digradanti ormai trapassa dal luogo reale a una visione sospesa in un immaginario che rifiuta ogni definizione temporale e locale. Lo specchio d’acqua duplicando terra e bosco aumenta lo sconcerto nel discernere l’immagine dal riflesso: vediamo realmente la realtà? Tutto qui ha varcato ormai la soglia dello spazio concreto per irretirsi nella possibilità del sempre e ovunque che caratterizza una concezione cosmica del mondo. La scelta del bianco e nero potenzia il fascino delle mezze luci, delle ore del declino o dell’inizio del giorno: un crinale che sfiora il mistero del farsi. La luce non è sempre in funzione dell’ora, per lo più agisce per dare forza spirituale a una parte o a un soggetto preminente nella foto. Così nelle magiche geometrie della serie di foto riprese in più tempi dei parchi francesi, come “Sopra l’abbeveratoio” (Marly- Francia 1996), in cui le file degli alberi potati in forme piramidali sfilano senza più coscienza vegetale come sogni della mente. Nella foto segnalata, al centro, isolato e imponente per la luce che lo potenzia nel contrasto, la forza e la solitudine dell’IO, che ha preso possesso di uno spicchio terreno per farne una eco che col suo manto d’ombra regale risuona fuori dal limite naturale. Ma forse il trapasso più magico dal reale all’astratto si scopre nella serie di foto delle inquietanti forme conico-trapezoidali della centrale elettrica di Ratcliffe, dove potenti forme geometriche morbidamente avvolte in luci velate da nebbia o da smog (tecnicamente elaborato), smussate dalla rotondità delle ciminiere su cui

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possibility of infinite nuances in the two tones without any color chippings. A soft and linear geometry, with no unnecessary digressions. Lines and lights lead with a clear intention but without being too hard, preferably along a diagonal outline up to what is impossible to exceed. So when we watch Homage to HCB ( France 1993), a lane that thrusts itself forward up to the point of being swollen by the haze, we feel lost because no roads can be seen, nor a practicable path. We’re not scared of the fog, which is part of our life. We’re not afraid of what we might find round the bend, but we are scared of what we might not find: falling through the air. It’s the gloom of the finiteness, but also the hope: the fog is an enigma that doesn’t deny and doesn’t ruin the beauty of our world. In “Reflexes of a coppice” (Ca’Vendramin, Taglio di Po - Rovigo - 2007) the harmony of the fading nuances goes past the real place towards a suspended vision in an imaginary that refuses both the temporal and local definition. By duplicating land and woods, the stretch of water increases the bewilderment when you try and discern the image from the water: can you actually see the reality or not? Everything here has already gone past the edge of concrete space to be ensnared in the possibility of ubiquity, as to represent a cosmic conception of the world. This passage is visible in many images by Kenna: from a feeling of deep and intimate familiarity with a place, to a spiritual abstraction that makes a metaphor of it and involves it in the universality of time. The choice of black and white empowers the charm of half lights, in the dawn or in the dusk, a crest that brushes the mystery of becoming. Light is not always the indicator of each hour; it gives more spiritual power to a part or to a preeminent subject in the photo. Therefore, in the magic geometries of the series of pictures taken in many different times in the French parks as in “Above the trough” (Marly - France 1996), where rows of pyramid shaped pruned trees parade without any vegetal conscience, just like dreams of the mind. In the picture that has been pointed out, the power and the overshadowing EGO, due to the lights that empower it in the contrast, stands in the centre, isolated. It has got possession of the a piece of land to make an echo out of it, which, with its cloak of royal shadow,


scivola prodigiosamente un continuo fluttuare di ombre, sembrano vibrare in uno spazio e un tempo perenne. La geometria, apparentemente la più concreta delle scienze, diviene per Kenna un mezzo per contenere nelle due dimensioni della foto quel tempo e quello spazio che sfuggono alla vista ma non ai sensi dell’uomo, la tensione a un infinito cosmico che è paura mistero ma anche desiderio e speranza. Forse più legate alla concretezza della materia potrebbero apparire le foto di città come Hong Cong (profilo di Hong Cong notte - studio 1 Cina 2006) o il Grattacielo della Crysler (studio 1 USA 2000). Ma l’attenzione dei tagli delle zone di colore, tutte gradazioni dal nero al grigio, l’uso a volte folgorante, a volte discretissimo della luce, riporta ad una idea di astrazione. Così nella foto del Grattacielo della Crysler, lo stacco netto degli edifici in primo piano, scurissimi, esalta l’edificio più lontano, perfettamente profilato nella cupola a punta. Uno stacco di una evidenza quasi pubblicitaria, (benché Kenna di rado lavori per pubblicitari) ma che comunque richiama ancora una volta certe tendenze astratte della pittura. La solitudine con cui si pone Kenna in rapporto esclusivo coi suoi paesaggi (non permettendo ad altri di parteciparvi) lo caratterizzano per una ricerca continua di identificazione con le sue visioni creative; in lui, intimo abitatore invisibile di un mondo ricreato, ridefinito nella complessa elaborazione della camera oscura, gioca anche una malinconia pacata, mai disperata, capace di sollevare con tenerezza il tema della solitudine e del mistero delle linee sfuggenti che si perdono all’orizzonte. La sua nebbia, le luci lunari in cui la realtà pare a volte dissolversi, le notti cittadine, coi grattacieli sfavillanti per tante piccole luci che si rispecchiano in acque assonnate, sfavillanti ma prive di gente, disegnano un mondo terreno ritagliato con amore incantato ed esclusivo da una realtà le cui dimensioni si inseriscono nello spazio terreno ma vengono percepite come richiami a ciò che sconfina, senza più dimensioni, oltre la ‘siepe’.

resonates out of the natural limit. But maybe, the most magical passage between the reality and the abstract can be seen in the series of photos picturing the disquieting conical-trapezoidal shapes of the electric power station of Ratcliffe, where powerful geometrical shapes, softly enshrouded by lights veiled by fog or pollution (elaborated technically) and rounded off by the roundness of the chimneys where a continuous float of shadows slides down prodigiously, seem to vibrate in a constant time and space. Geometry, apparently the most concrete science of all, becomes a means to keep the time and the space, which pass unnoticed to the eye but not to the man’s senses, in the two dimensions of the photo: the strain to the cosmic infinite which is both mystery, wish and hope. Photos of cities like Hong Cong (profile of Hong Cong studio-night 1 China 2006) or the Crysler Skyscaper (studio 1 USA 2000) might seem more tied to the concreteness of the matter. But the attention paid to the cuts in the color zones, all graded from black o grey, the striking use of discrete light, leads to the idea of abstraction. In the Crysler Skyscraper photo, the clear contrast between the very dark buildings in the foreground, highlights the furthest building, perfectly outlined in the pitched cupola. The contrast, similar to the contrast used in advertising (although Kenna rarely works for advertisers) recalls once again certain tendencies that are typical of painting. The exclusive relationship of solitude that Kenna has with his landscapes (not allowing anybody else to join) characterizes him for his continuous research of identification with his creative visions; in Kenna, who’s an invisible dweller of a studied world that is redefined in the complex elaboration of the dark room, there’s a placid melancholy, which is never desperate, able to bring up the theme of solitude and mystery of the shifty lines that get lost in the horizon. His fog, his moonlights where reality seems to be dissolving at times, and the city nights without people draw an earthly world, cut out with enchanted and exclusive love by a reality, whose dimensions fit in the earthly land, but are perceived as calls to what goes too fast, beyond the “hedge”.

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David Schnell

Lo spazio simbolico deflagrato

The flared up simbolyc space

Giuseppe Di Bella


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P Preview page: David Schnell Schein Oil, acryl on canvas Cm 290 x 230 2008 Act art collection / Siegfried Loch Courtesy Galerie EIGEN + ART Leipzig/Berlin und Photo Uwe Walter

robabilmente la Nuova Scuola di Leipzig, forte di un rigore altamente formalizzato, da cui sono venuti fuori alcuni tra i più interessanti pittori degli ultimi anni, è uno di quei fenomeni culturali che per le infinite potenzialità di interazione che ha col substrato sociale e culturale, necessita di una analisi dettagliata sulle varie personalità che ne compongono il corpus dinamico. Non è un caso che il pittore David Schnell amplifichi e strutturi parte del proprio influsso espressivo in relazione a un rizoma di implicazioni che nascono da quella perfezione intellettuale ma si attuano in quanto scarto continuo della norma e ribellione alla prossemica convenzionale. Proprio da un territorio filosoficamente intenso come la Germania nasce una pittura di questo genere e ha potuto svilupparsi in una tale molteplicità semovente e corale. La pittura di Schnell muove da un apparente trauma della visione per congeniare una dinamicità delle forme più strettamente connesse a un cosmo reale e dettagliato, all’abbandono della gestualità più rutilante. Non manca in lui la

P David Schnell Plakat Oil, tempera on canvas Cm 65 x 80 2008 Privatsammlung Frankfurt am Main Courtesy Galerie EIGEN + ART Leipzig/Berlin und Photo Uwe Walter

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robably Leipzig’s new school, with its highly formalize rigor, where some of the most important painters of the latest years have studied, is one of those cultural phenomena that, because of its endless interaction potentialities that it has with the social and cultural substratum, needs a detailed analysis on the different personalities that are in the dynamic corpus. The fact that David Schnell amplifies and structures a part of his own expressive flood in relation with a root stock of implications, which are born from that intellectual perfection, but come true as continuous discard of the norm and rebellion against the conventional proxemics, is not a case. Right in a territory that is as philosophically intense as Germany, this kind of painting was born and was able to develop so much. Schnell’s painting moves from an apparent trauma of the vision to connect a dynamicity made of shapes connected to a real and detailed cosmos, and the abandonment of a more reluctant gestural expressiveness. In him the overstepping dimension of the dream,





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Preview page: David Schnell Moment Oil on canvas 240 x 460 cm 2010 Private Collection Courtesy Galerie EIGEN + ART Leipzig/Berlin 7 Photo Uwe Walter

David Schnell Schatten Oil on canvas Cm 300 x 200 2009 Privatsammlung Courtesy Galerie EIGEN + ART Leipzig/Berlin und Photo Uwe Walter

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dimensione oltrepassante del sogno, appunto di ciò che rappresenta una ferita, un’origine visiva di rottura con determinati parametri storicoartistici, ma maturata e accresciuta di energie e osservazioni proprie di una scienza precisa e magistralmente trasfigurata. Nel prospetto pittorico lo sguardo non nasce da un fondamento empirico, ma nemmeno dal registro dell’onirico, è la sintesi di un attraversamento a molteplici livelli nel quale l’esperienza visiva è ostica e allo stesso tempo di impatto, costringendoci a entrare in profondità per comprendere il contenuto. In questo senso l’ambiguità dell’immagine nell’estetica contemporanea diventa l’apertura verso uno spazio più profondamente nudo e stratificato. La superficie pittorica è segnata da scolature, costellazioni di petali evanescenti, figure geometriche e sospese che si fanno Simbolo e rifrazione di un continuo riassetto. Simboli svincolati dall’iconoclastia e che si purificano espandendosi sull’opera in una orizzontalità densa di efflorescenze e scatti minimi e trasparenze. La densità del piano concettuale incamera e trasuda lo spettro della memoria stratigrafica della surrealtà: una surrealtà che è più autentica e forte perchè è fissata sui tasselli volanti e irriflessi di orbite metafisiche, ultra-scientifiche. L’idea dello spazio che si apre in senso concettuale e anche idealistico è qualcosa di fortemente legato alla mentalità cosmica e generale, piuttosto che individualistica nella propria iconicità referenziale. Nessun referente traspare dal cosmo di Schnell, ogni paesaggio destrutturato, ogni forma è la pura distillazione di un percorso esornativo, che si capovolge totalmente diventando la più profonda connotazione gnoseologica. Vi sono elementi eterogenei che si fanno visivi, per ridefinire la pregnanza della mobilità della pittura, dal ribaltamento della linearità mediatica, al tracollo esplosivo che traccia le rotte e le proiezioni cromatiche del quadro scansionato come se si sommassero le potenzialità del vedere in espansione. Dalla virtualità, al moto sottocutaneo di oscillazioni frequenziali e biochimiche, l’umano è bersaglio di imprevedibili reazioni a catena di cui le conseguenze sono da vagliare nella loro forza figurale, non figurativa. Qui l’interruzione dei livelli retorici diviene trasfusione di varie parti pittoriche da assemblare per possedere l’idea dell’origine e il momento della sua estroflessione dal turbine anti-narrativo della mente.

of what a wound represents, is not missing. A visual origin of breaking off with some specific historical-artistic parameters, but matured and rich of energies and observations of a transfigured and precise science. In the pictorial prospect, the look isn’t born from an empirical fundament or from the dreamy register: it is the synthesis of the act of crossing a multitude of levels where the visual experience is harsh, but at the same time striking, forcing us to go deeper to understand the content. In this sense, the ambiguity of images in the contemporary aesthetics becomes opening towards a more naked and layered space. The pictorial surface is marked by smears, constellations o evanescent petals, suspended geometrical figures that become symbols and refraction of a continuous reorganization. Symbols that are free from iconoclasm and that purify themselves spreading on the work in an horizontal way, full of fluorescence and minimal turns and transparences. The density of the conceptual level holds and exudes the specter of the stratigraphic memory of sub-realities: a more real sub-reality that is also stronger because it is fixed on flying and unreflected metaphysical and ultra-scientific orbits. The idea of space that opens in a more conceptual sense and more idealistically, is something that is strongly linked to cosmic and general mentality, rather that the invidualistic one, typical of one’s referential iconicity. No referent comes out of Schnell’s cosmos, turning upside down, becoming the deepest epistemology connotation. There are heterogeneous elements that become visual, in order to redefine the significance of mobility of painting, from the overturning of the media linearity, to the explosive collapse that traces the route and the chromatic projections of the scanned painting as if potentialities of the expanding sight would add up. From virtuality to the subcutaneous motion of frequential and biochemical oscillations, the human being is the aim of unpredictable chain reactions whose consequences are to be considered in their figural power, not the figurative one. Here, the interruption of rhetorical levels become transfusion of various pictorial parts to put together in order to have an idea of the complete origin and the moment of its eversion from the anti-narrative turmoil of mind. But preliminarily also an opening which is mainly



passeurs

David Schnell Insel Oil, acryl on canvas Cm 290 x 240 2010 Sammlung Kaufmann, Berlin courtesy Galerie EIGEN + ART Leipzig/Berlin Photo Uwe Walter

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Ma preliminarmente anche un’apertura soprattutto formale, basata sulla destrutturazione della stessa prospettiva canonica si fonda per sgretolare i confini dei vari codici visivi e farne filtro irradiante della inaffidabilità dell’immagine impeccabile, univoca e predeterminata. Quasi a negare la dittatura di ogni visione oggettivizzabile, dobbiamo aspettarci di ritrovare completamente esautorato il nostro stato di percezioni per cui però la variazione kamikaze non consiste in un passaggio da mondo a mondo, ma nello stesso mondo che cambia colore, e si attiva, comincia a muoversi, si vivifica assurgendo a iridescenza pellicolare. Nei termini di una ricerca pittorica che spezza moduli tradizionali per esplorare l’attualità in senso lenticolare, scandito da energie sintattiche inedite, la “Rivoluzione pacifica” è un possibile ritrovamento per orientarsi nel labirinto dell’instabilità ottica per iniettare nelle arterie e nei capillari della storia un frangente di sovvertimento autentico. Nei quadri, nelle finestre che egli apre si manifestano dati prioritari di verità, si ha l’impressione che si celebri il Grande Evento. La destrutturazione per frammenti del totale ambientale è la rarefazione di un piano astratto che diventa pura materia priva di datità, e colma di senso dell’immagine solo al di sotto e al di sopra della sua percezione. L’iconografia dell’esplosione assume una connotazione fortemente naturalista, quasi come se un tunnel dimensionale creasse legami tra ogni legge fisica, sociale e antropologica per riconfigurare il mondo come sarà dopo, durante o dentro una sospensione fatale, cataclismatica. Il suono di una bomba H occlude le orecchie e il tempo si ferma. Ma ne consegue una ricchezza formale che giustifica la continuazione dell’esistenza oltre il dogma, oltre il significato annichilendo la narrazione e riprendendone la forza eversiva di un teatro hippie scorporato dai cascami dell’ideologia. Il dato semantico si riferisce alla possibilità di riflettere forze (in)visibili nello spazio e riverberando lo stesso spazio nel senso della rinascita, del miracolo dei segni e della percezione. In questo modo Ernst Cassirer e la sua spiegazione simbolica delle forme entrano prepotentemente in campo. Così vediamo che la ragione non è lo strumento con cui l’artista indaga l’espressione e lo spirito del tempo, ma bensì una ricerca di ricchezza e una varietà che nascono

formal, based on the de-structuring of the canonic perspective melts in order to break the limits of the various visual limits and creates an irradiant filter of unreliability of the perfect, univocal and predetermined image. As to deny the dictatorship of every vision that could become objective, we must expect our state of perception to be divested of authority, where the kamikaze variation doesn’t lie in the passage from one world to another, but in the same world that changes color and activates itself, and starts to move, becomes alive by rising with pellicular iridescence. In terms of pictorial research that breaks the traditional modules to explore actuality in a lenticular sense, marked by syntactic new energies, the “pacific revolution” is a possible retrieval to orient oneself in the labyrinth of optical instability to inject a fragment of authentic subversion in the history capillaries and arteries. In the paintings and windows that he opens, priority truth data arise; you get the impression that the Great Event is being celebrated. The un-structuring phase of the whole ambient into fragments is the rarefaction of the abstract level that becomes pure matter deprived of datas, and full of sense of image above and under its perception. The iconography of explosion gets a strongly naturalistic connotation, as if a dimensional tunnel created links amongst every physics, social and anthropological law, to re-configure the world the way it will be after, during or inside a fatal, cataclysmatic suspension. The sound of an H bomb occludes our ears and time stops. What follows is a formal beauty that justifies the continuation of existence beyond the dogma, beyond meaning, destroying the narration and getting, once more, the subversive power of a hippie theatre detached from ideology wastes. The semantic data refers to the possibility of reflecting (in)visible powers in the space and reverberating the same space in the sense of rebirth, of the miracle of perception signs. In this way Ernst Cassirer and his symbolic explanations of shake take the field domineeringly. So we see that the mind is no longer what the artist uses in order to look into the expression and spirit of time, but a research of richness and a variety that are born from the chaos irregularity that is calibrated in one’s own disruptive anti-static anti-orderliness. Schnell’s symbol lacks any kind of reference, it is the essential form, projected in the whole of all in the repositioning phase, it is



passeurs dalla irregolarità di un caos che è calibrato nella propria dirompente anti-sistematicità antistatica. Il Simbolo in Schnell è privo di ogni rimando, è la forma essenziale, proiettata nella fluidità del tutto in riposizionamento, è la registrazione astrale di uno scorrimento che afferisce a una sensazione. Lo spazio e le sue interazioni si dislocano rivelando la natura ellittica e inesplicabile nella propria spasmodicità satura di tensioni polimorfe e concrescitive. Credo che la Germania sia l’eterno motore dell’Europa nella ricerca contemporanea del suo sviluppo verso il ritrovamento di una identità forte e vincente, e la presenza di un significato europeo dell’immagine contrapposto a quello americano, porta con sè i drammi e le inquietudini di cui è ancestralmente piena la nostra memoria. Eppure la forza di Schnell sta nella capacità di essere trasversale in senso semiotico, giocando con strutture extrasensoriali mentre si muove su uno stile che è quello recondito e contemporaneo del tunnel e del mosaico interattivo. Ma allora una trascendenza interviene a questo punto per far collidere positivamente il sollevamento di uno spazio contaminato e plurale che assorbe tutto come in virtù di un magnete prospettico e che arriva al centro delle stesse dinamiche processuali dell’esistenza. Un trascendente para-fenomenico dove astrazione e figurazione, principio e fine, coesistono in maniera perfettamente armonica. In tale modo credo si possa valutare anche il rapporto di eventuali debiti o differenze con Gerard Richter, che è sostanzialmente più di compensazione metodologica che di rilievo creativo. L’impossibilità della scelta genera una purezza piena di significato che scioglie ogni violenza. Ciò che resta in fondo della proiezione iconica deflagrata sul mondo è una pittura impressa come la cognizione pura di una potenza che attiva e agisce le possibilità inesplorate della cosmologia. Dalla politica, fino alle forme assolute, l’estetica si trasforma in deriva umana e caustica per creare dati analitici senza tautologie, orme fisiche irradiate di processi psico-emotivi e storici. Qui quello a cui si aspira è catturare direttamente la radice stessa di ogni tensione del gesto artistico in divenire.

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the astral recording of a flooding that leads to a feeling. The space and its interactions dislocate, revealing the eclectic and inexplicable nature in its own spasmodic way, full of polymorphous and growing tensions. I think that Germany is the best in Europe in terms of contemporary research of its development towards the retrieval of its own strong and winning identity, and the presence of an European significance of the image opposed to the American one carries the drama and the uneasiness that our memory is full of. But still, Schnell’s strength lies in the fact that the it is transversal in a semiotic sense, playing with extra-sensorial structures while it moves on a style that is the hidden and the contemporary one of a tunnel and of the interactive mosaic. At this point, a transcendence intervenes in order cause the collision between the lifting of contaminated and plural space that absorbs everything by virtue of a perspective magnet and it gets to the centre of the same process dynamics of existence. A para-phenomenal transcendence where abstraction and figuration, beginning and end, coexist in a perfectly harmonic way. In this way, in my opinion, we can value the relationship between eventual debts or differences with Gerard Richer, which is basically more about methodological compensation than creative importance. The impossibility of choosing creates a pureness, which is full of meaning that melts any violence. What remains of the flared up iconic projection on the world, is a painting that is as stuck in the memory as pure cognition of a power that activates and moves in the unexplored possibilities of cosmology. From politics, to the absolute forms, aesthetics turns itself from human and caustic to create analytical data without tautologies, yet physics footprints, irradiated by psycho-emotional and historical processes. The objective is to catch the root itself of every tension of the artistic act to be.


in-camera Annamaria Di Giacomo

Spellare l’immagine

Peeling the image

Viviana Gravano


in-camera Antonino capì che fotografare fotografie era la sola via che gli restava, anzi la vera via che lui aveva oscuramente cercato fino allora (Italo Calvino, L’avventura di un fotografo)

Preview page: Annamaria Di Giacomo Il tempo non dovrebbe presentare sorprese Still from video b/n 1’10” super8 4:3 dvd PAL 2010

Annamaria Di Giacomo Rendez-vous Still from video colore 2’45” mini DV 4:3 dvd PAL Musiche L. Einaudi 2007

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N

ella definizione moderna le immagini vivono un doppio ruolo di (dis)velatrici: sono da un lato pornografiche, nel mettere a nudo il loro soggetto, nel mostrare quello che non si vede a “occhio nudo”; dall’altro sono abiti, vestiti, cortine che ricoprono una supposta “verità” che si celerebbe dietro la loro superficie d’apparenza. Questo statuto ambiguo è tanto più da sempre applicato alla fotografia, considerata per definizione “realistica”. E dunque lo sguardo su un’immagine seriale non potrebbe che cogliere due essenze uguali e opposte: un senso di continuo inganno, e allo stesso tempo, una sorta di rivelazione dell’invisibile. L’immagine è in realtà un oggetto a sé stante che non vive della riproduzione di un’altra realtà, ma è in sé e per sé un accadimento totalmente autoreferenziale e, in quanto tale, non può in nessun modo avere un valore messianico, di palesamento, sia esso negativo o positivo, che le è stato attribuito dalla modernità. Ma l’immagine non produce nemmeno nuovi mondi, nuove realtà, ma (de)costruisce “immaginari”, cioè sistemi visibili, che si fanno simbolici solo attraverso la lettura superficiale, proprio nel senso della sua superficie stampata o proiettata. L’immagine è fondamentalmente un luogo d’identificazione, collettiva o individuale, temporanea o perseverante, è di per sé un territorio di scambio continuo con uno sguardo che, lo risoggettivizza incessantemente, e la riscrive e la re-inscrive in una logica che non fa che confermare, ogni volta di più, che non c’è nessuna possibilità di descrizione di un’ “altra” realtà. Vorrei quindi spostare l’osservazione non sulla valenza più o meno di dominio coercitivo dell’immagine mediale, che credo sia un falso problema, ma piuttosto sulla possibilità di installarsi in, di appropriarsi di, identificarsi con, una certa superficie immaginifica. Nei lavori di Annamaria Di Giacomo non trovo la volontà di spellare la superficie dell’immagine imposta, se si vuole stereotipa, alla ricerca di un secondo livello, di un’altra profondità, di una sorta di “verità” pura e originale che l’immagine di per sé, in quanto superficie, non può e non deve alludere. Semmai invece sento una sottile volontà invasiva di appropriazione, di traduzione/tradimento del “significante”. Nelle opere di Annamaria non si racconta

Antonino understood that taking photos of other photos was the only way left, indeed, the real way he had been obscurely seeking until then (Italo Calvino, The adventure of a photographer)

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ccording to the modern definition, images have a double role of (un)cover: they are pornographic, in laying their subject bare, in showing what a naked-eye cannot see; but they are also dresses, clothes, curtains that cover a supposed ‘truth’ behind their surface of appearance. This statement has always been applied to ‘realistic’ photography. So it is a glance on a serial image that takes two equal and opposite essences: a sense of a continuous deception, and at the same time, a sort of revelation of the invisible. Imagine is a separate object, it does not live as reproduction of another reality, but it is a true self-referential event and, as such, it cannot have a Messianic worth, both negative and positive, given by modernity. But image does not reproduce new worlds, new realities, but (de)construct ‘imaginatives’, visible systems, which become symbolic only through their superficial reading, their printed or projected surface. The image is basically a place of identification, single or collective, temporary or persistent, an area of continuous exchange that writes and rewrites it in a practice that confirms that it is impossible to describe ‘another’ reality. So, I would like to shift the observation not to the possibility more or less of coercive domain of the mass media image, that I believe it is a false problem, but rather to the possibility of putting in, getting possession of, recognising with, a strong imaginative surface. In Annamaria Di Giacomo’s works I do not find the will of ‘peelling’ the surface of the imposed maybe stereotype image, in search for a second level, for another depth, for a sort of pure and original ‘truth’ that the single image, as surface, cannot and has not to allude. On the contrary, I feel a fine invasive appropriation’s will of translation/betrayal of the ‘signified’. In Annamaria Di Giacomo’s works the image is not told, but the artist finds it again in an undisciplined faint glimmers of tales belonging not to her. Taking as photos someone’s other photos, printed or magazine pages, Annamaria does not look for a former moralist critic to the image as source of ‘lie’ or of mystification, but she converts a pornographic surface, publishes the purest appearance in her own personal image, what she steels from that space of



in-camera l’immagine, ma l’artista ritrova se stessa negli spiragli indisciplinati e indistinti di racconti che non sono suoi, che non le appartengono. Rifotografando immagini altrui, già stampate, pagine di riviste, Annamaria non cerca una critica, veteromoralista, all’immagine come fonte di “bugia” o di mistificazione, ma riconverte una superficie pornografica, pubblica, assolutamente e schiettamente coercitiva, in una sua intima immagine, che ruba a quello spazio della comunicazione la più pura apparenza. Nei suoi lavori non s’intuisce nemmeno lontanamente cosa quella data foto volesse dire prima del suo intervento, non ha nessuna importanza il suo significato, ma importa invece la possibilità di astrarne il significante, di spellare la superficie per trarne una tranche de vie mai vissuta su quella pagina ma risoggettivizzata da Annamaria. In Double un volto si moltiplica, emerge lentamente dalla superficie e lo sguardo penetra per far affiorare un dettaglio che si può (dis)velare solo perché non esiste, perché è solo il frutto della proiezione di Annamaria in quel territorio indistinto dell’immagine. Alla fotografia, “originale” viene negata qualsiasi possibilità di “essere”, ma le viene concessa la possibilità di apparire, anzi di ri-apparire in un altro immaginario precario, soggettivo, inimitabile e inrepricabile.

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the communication. In her works it is also very difficult to foresee what that specific photo could mean before her intervention, what is important is not its signifier but its signified, of peelling the surface to get a new tranche de vie expressed by Ammamaria’s subjectivity. In Double a face multiplies, slowly comes up from the surface, and the glance gets in to show a detail that could be reveal only because the original does not exist, because it is the result of Annamaria’s projection in that part of the imagine. To the ‘original’ photo is denied every kind of possibility of being, but it can appear, rather reappear in an other precarious subjective inimitable imaginary.


exlibris

William Xerra

Mento ergo vivo.

Lie ergo live

Mauro Carrera - Photo Andrei Cibotari


exlibris

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Preview pages: William Xerra Racconto bene Libro d’artista 1974 Cui dono lepidum novum libellum “Cataloghi d’artista” con disegni originali e dediche autografe (23 settembre-23 ottobre 2009) Palazzo Angelelli Hercolani Fava Simonetti, Sala di Enea, Bologna. Mostra a cura di Mauro Carrera e Marzio Dall’Acqua per la Soprintendenza Archivistica per L’Emilia Romagna in collaborazione con IBCSoprintendenza per i Beni Librari e Documentari della Regione EmiliaRomagna e l’Archivio Uroburo di Parma. Catalogo a cura di Mauro Carrera. Art-books in Archivio Esposizione internazionale di libri d’artista - libri-oggetto (25-26 settembre 2010) Sala Sassi per il Comune di Castel San Pietro Terme. Mostra a cura di Anna Boschi e Mauro Carrera, con il patrocinio della Provincia di Bologna e della Regione Emilia-Romagna 2000 Cui dono lepidum novum libellum “Cataloghi d’artista” with drawings and signed inscription (23 Septeber-23 October 2009) Palazzo Angelelli Hercolani Fava Simonetti, Sala di Enea, Bologna. Exhibition by Mauro Carrera and Marzio Dall’Acqua for Archives superintendancy in Emilia Romagna region, in collaboration with IBC Soprintendenza for Cultural assets and Documentaries of Emilia-Romagna region and the Uroburo Archive of Parma. catalogue by Mauro Carrera.

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uando il “concetto” si fa ingombrante si ha il timore che irrisorio si faccia il mestiere. È questo il rischio di equivoco in cui si incorre talvolta guardando all’arte contemporanea. Non che a pensar male si abbia sempre ragione, ma la diffidenza è un corollario della modernità. William Xerra è un artista nel senso più completo del termine. In lui la componente creativa e quella intellettuale si equivalgono, piuttosto concorrono alla realizzazione di un opus complessivo formidabile. Il suo percorso creativo è la linea che congiunge i punti di contatto tra le ricerche artistiche e letterarie degli ultimi decenni, che disegna ma non delimita le aree di intersezione tra le diverse discipline. Nel suo esemplare percorso di ormai quasi mezzo secolo di attività, Xerra ha battuto le strade possibili della creatività, condividendo il cammino con compagni di viaggio - Spatola e Costa su tutti - incontrati in maniera preterintenzionale, ma non certo per caso. Dalla prima metà gli anni Sessanta Xerra indaga le poetiche del segno e della materia, con cogente consapevolezza della tradizione culturale e artistica occidentale e con vivace spirito d’avanguardia. A partire da questa posizione postmoderna, ha realizzato opere, operazioni e azioni d’arte memorabili, oltre ad un numero rilevante tra libri d’artista tipografici e libri-oggetto in copia unica, mantenendo un’autenticità di ispirazione e un’elevata tensione ideale. Il libro d’artista, in tutte le sue più disparate versioni, rappresenta il sinolo perfetto di forma e materia e l’artista nato a Firenze nel 1937, ma piacentino di adozione, si è rivelato nel tempo un demiurgo impeccabile, un alchimista audace. Il valore concettuale di ciascuno dei suoi libri non è di certo in conflitto con il valore estetico dei medesimi, cardine irrinunciabile per lui in qualunque contesto. È del 1967 l’incontro decisivo con la poesia visiva, in virtù di un’assidua frequentazione degli intellettuali e letterati orbitanti intorno al Gruppo ‘63. In quegli anni iniziano le proficue collaborazioni con altre esperienze liminali, come la sua, tra scrittura e pittura. Un decennio più tardi, in parallelo alle sperimentazioni della fine degli anni Settanta riguardanti la controversa relazione tra l’uomo e lo spazio altro da sé, Xerra elabora un complesso percorso artistico costellato di esperimenti linguistici, cicli tematici, intuizioni filosofiche. La poesia, intesa come forma imagopoietica, diventa essenziale per lui e accompagna l’intensa e ininterrotta produzione di geniali libri in tiratura o

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hen the “conceptualization” gets too much in the way, we have the fear that the job might become trivial. This is the misunderstanding that you might risk falling into when you re watching some contemporary art works. This doesn’t mean that thinking badly makes you right, but the difference is a corollary of modernity. William Xerra is a real artist. His creative and intellectual components are the same, and they compete for the realization of a formidable opus. His creative path is the line that joints the contact points between the artistic and literature researches in the last decades. In his almost 50-year-old exemplary career, Xerra has explored new grounds of creativity, sharing them with other “fellow travelers” - Spatola and Costa for examplemet involuntarily, but certainly not by chance. Since the mid-sixties, Xerra has been looking into the poetics of the sign and matter, with the coercive awareness of cultural and artistic tradition and with a vivid avant-garde spirit. Starting from this post-modern position, he has realized works, operations and art actions, keeping an inspirational authenticity and an highly ideal tension. The artist’s book, in all its different versions, represents the perfect synolum of form and matter and the artist, born in Florence in 1973 but living in Piacenza, has revealed himself as a faultless creator, a bold alchemist. The conceptual value of his books is not in contrast with their esthetic value, an irremissable foundation for him, in any contest. The approach with visual poetry dates back in 1967, when he used to mix with intellectuals and scholars orbiting in the Group’63. In those years the profitable collaborations with other luminal experiences started, like his one in the fields of writing and painting. A decade later, together with the experiments of the late Seventies concerning the controversial relationship between the human being and the space, Xerra elaborates a complex artistic path full of linguistic experiments, thematic cycles and philosophical intuitions. Poetry becomes essential for him and accompanies the intense and uninterrupted production of genial books in a circulation of many copies or in a single copy. Some of his typographical artist’s book made an epoch and they are currently being searched by many collectors. To be noticed are the ones realized in the competition of the poet Corrado Costa: Seguendo uno dei due (Piacenza 1971), Maograd (with Giovanni Rubino, Macerata 1971), Tre poemi-flippers – Laocoonte, lampone, lavare (Milan



exlibris

William Xerra Lugar significativo Libro d’artista 2003-09

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in copia unica. Alcuni tra i suoi libri d’artista tipografici hanno fatto epoca e sono attualmente molto ricercati dai collezionisti. Vanno ricordati su tutti quelli realizzati con il concorso del poeta Corrado Costa: Seguendo uno dei due (Piacenza 1971), Maograd (con Giovanni Rubino, Macerata 1971), Tre poemi-flippers – Laocoonte, lampone, lavare (Milano 1972), Antologia & Niente (Reggio Emilia 1973). Di grande interesse sono anche Verifica del miracolo (con testo di Pierre Restany, Milano 1976), Il triplano (con Luigi Bollani, Piacenza 1982), Fallografia (Piacenza 1982), il recente Avec l’oeil avec la plume (con Maurizio Cucchi, Nizza 2005) ed una serie di pubblicazioni ibride tra catalogo e libro d’artista, uscite in occasione delle sue numerose mostre o degli happenings. Suoi libri hanno visto la collaborazione tra gli altri di tanti scrittori, poeti, filosofi, critici e artisti del calibro di Fulvio Abbate, Nanni Balestrini, Remo Bodei, Roberto Borghi, Ugo Carrega, Claudio Cerritelli, Maurizio Cucchi, Gillo Dorfles, Filiberto Menna, Sandro Parmiggiani, Antonio Porta, Arturo Carlo Quintavalle, Vanni Scheiwiller, Franco Solmi, Sebastiano Vassalli, Emilio Villa. Il concetto di libro per Xerra tuttavia non si esaurisce nella realizzazione di pubblicazioni editoriali: di significativa rilevanza è anche la produzione di stupefacenti “libri oggetto” creati negli ultimi quarant’anni. A titolo esemplificativo ne abbiamo presi in considerazione tre decisamente molto rilevanti e di recente presentati dall’Archivio Uroburo di Parma: il primo nella mostra Cui dono lepidum novum libellum (Artelibro 2009)1 e gli altri due nella mostra Artbooks in Archivio (Artelibro 2010)2. Tutte e tre le opere, ché tali vanno considerate a pieno titolo, procedono dalla rigorosa prassi di Xerra nel far rivivere gli oggetti del passato, con particolare attenzione a quelli della memoria e del linguaggio segnico e visivo. Non si tratta di una semplice rivisitazione del ready made duchampiano, spesso abusato da feticisti privi di idee e tecnica, ma piuttosto dell’elezione di un supporto con una sua pregressa valenza estetica che viene non decontestualizzato, ma ricontestualizzato. Ma vediamo di chiarire attraverso un’analisi più puntuale delle opere. La prima è un ibrido tra un libro d’artista tipografico e un libro oggetto in copia unica. Il libro è Lugar significativo del 2003, con testo di Giorgio Guglielmino, le immagini riprodotte dall’eccellente fotografo Gionata Xerra e la grafica di Elena Zanon per la casa editrice Vicolo del

1972), Antologia & Niente (Reggio Emilia 1973). Very interesting are are also Verifica del miracolo (with the text by Restany, Milan 1976), Il triplano (with Luigi Bollani, Piacenza 1982), Fallografia (Piacenza 1982), the recent Avec l’oeil avec la plume (with Maurizio Cucchi, Nizza 2005) and a series of hybrid publications between catalogue and artist’s book, came out on the occasion of his numerous exhibitions or happenings. In his books many writers, poets, philosophers, critics and artisits have collaborted: Fulvio Abbate, Nanni Balestrini, Remo Bodei, Roberto Borghi, Ugo Carrega, Claudio Cerritelli, Maurizio Cucchi, Gillo Dorfles, Filiberto Menna, Sandro Parmiggiani, Antonio Porta, Arturo Carlo Quintavalle, Vanni Scheiwiller, Franco Solmi, Sebastiano Vassalli, Emilio Villa. The concept of book for Xerra is not only in the realization of editorial publications: the production of amazing “object books” created in the last forty years has a noticeable relevance. By way of an example, we have chosen three of them, which are very relevant and which have been recently presented at the Uruburo archive of Parma: the first one in the exhibition Cui dono lepidum novum libellum (Artelibro 2009)1 and the other two in the exhibition Artbooks in Archivio (Artelibro 2010). The three works of art, because this is what they are, proceed from Xerra’s rigorous practice in the choice of making past objects live again, with particular attention to those of memory and sign and visual language. This is not a simple reexamination of the Duchampian ready made, often abused by fetishists with no ideas and technique. This is the election of a support with its previous esthetical worthiness, which is not de-contextualized, but re-contextualized. But let’s clear it by analyzing the works more closely. The first one is an hybrid between an artist’s book and an object book in one single copy. The book is Lugar significativo (2003) with Giorgio Gugliemino’s text, images reproduced by the amazing photographer Gionata Xerra and the graphics by Elena Zanon for the publishing house Vicolo del Pavone in Piacenza. In the 16th volume, only 500 copies published, left uncut, William Xerra has intervened afterwards, realizing for the occasion, an elaborated collage/mixed technique that makes of it a unique piece of art. The dedicatory letter ad personam is very functional on it. On the colophon, beside the numeration that dates back to 2003, the artist affixed his signature and the date of the intervention (2009).



exlibris Pavone di Piacenza. Sul volume in 16°, in sole 500 copie numerate, lasciato ancora intonso, William Xerra è in seguito intervenuto, realizzando per l’occasione sulla copertina un elaborato collage/ tecnica mista, che lo rende un pezzo assolutamente unico. Su esso appare in maniera funzionale la dedicatoria ad personam. Sul colophon, accanto alla numerazione risalente al 2003, l’artista ha apposto la sua firma e la data dell’intervento (2009).La seconda opera, datata 1975/2006 e firmata Xerra ’75, è un vecchio album da disegno, di quelli da viaggio con la copertina in tela, l’anello sporgente, che aveva la funzione di alloggiamento della matita, e due laccetti per la chiusura. L’album in seconda di copertina reca il timbro di una cartoleria viennese. Sulla copertina era originariamente scritto in corsivo rosso “vive”, logos feticcio del poeta/artista, che allude al codice delle correzioni tipografiche. Sul medesimo corsivo, in bianco mediante una maschera normografica, è trasferita la scritta “IO MENTO”, altra ‘impresa’ d’elezione di Xerra. All’album in questione mancano ormai tutti i fogli a cui un ignoto disegnatore o acquerellista doveva aver affidato le sue impressioni. Al loro posto Xerra ha quindi inserito tre fogli di velina, sul verso del primo dei quali ha vergato la scritta “per sempre”. La terza opera intitolata “RACCONTO Bene” e firmata “W Xerra 1974”, è un vecchio album fotografico con la copertina in pergamena vegetale. Da esso sono state rimosse tutte le fotografie un tempo presenti (rimangono a testimonianza fantasmatica gli angoli adesivi ai quali venivano assicurate) e al loro posto in posizione centrale compare a matita la scritta “VIVE”. Le ultime pagine vedono invece una serie di interventi più complessi: calligrafie, collages, segni, macchie, frecce, scritte che rievocano discorsi lasciati in sospeso dal tempo. Sul libro come opera d’arte William Xerra si è espresso senza remora alcuna. Dal livre de peintre tradizionale con la Diane Française, al libro d’artista d’avanguardia con Corrado Costa, dal catalogo d’artista con Restany al libro oggetto autoprodotto, nella veste su misura di artista poliedrico si è cimentato in tutti i paradigmi creativi, con coraggio, mestiere e versatilità. Se l’Italia, come pare ogni giorno di più, somiglia alla penisola splendida e travagliata delle Signorie, Xerra ricorda da vicino quegli artisti/ umanisti che ben più dei principi rissosi seppero renderla immortale.

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The second work of art, which dates back to 1975/2006 and signed “Xerra ‘75” is an old drawing book, those with the cover made of cloth, usually used during trips, the ring protruding, where the pencil was placed, and two laces for the fastener. In the album, there’s the stamp of a Viennese stationery shop. Originally, in the album cover, there was written “vive”, fetish logos by the poet/artist, which alludes to the code of the publishing corrections. In the same cursive, in white through a stencil, the inscription “Io MENTO” (I lie). All the pages are missing from the album in question: they must have been used by an unknown drawer or watercolor painter for his impressions. Xerra has replaced them with 3 tissues, in the first of which he has written “forever”. The third work of art entitled “RACCONTO bene” (I TELL well) and signed “W Xerra 1974”, is an old photo album with a vegetal papyrus cover: all the photos have been removed (but the sticky angles where they were placed have remained). Where the pictures once used to be, now there’s the central inscription “VIVE”. In the pages, a series of more complex interventions have been made: calligraphies, collages, signs, spots, arrows, inscriptions that recall loose ends. For what concerns the book as work of art, William Xerra has expressed himself without any hesitation. From the traditional livre de peintre with Diane Française, to the book with the avantgarde artist Corrado Costa, from the art catalogue with Restany, to the self-produced object book, comfortable with the image of eclectic artist, he took a stab at all the creative paradigms, with courage, professionalism and versatility. If Italy, as it seems more and more every day, looks like the amazing and difficult peninsula of the Lordships, Xerra reminds us closely of those of artists/ humanists that were able to make it eternal, more than highlighting its quarrelsome principles.


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Vertigini dello spazio, vertigini dell’anima: ovvero nuovo contemptus mundi

Laura Pugno

Giddinesses of the space, giddinesses of the soul: a new contemptus mundi

Pippo Lombardo


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“L’arte, per creare la bellezza, deve al tempo stesso rifiutare il reale ed esaltare alcuni dei suoi aspetti.” (Albert Camus)

Preview page: Laura Pugno Percorrenze 012 Cm. 85,5 x 65,5 x 3 ,5 Adhesive film, spray, papers, glass and wood 2010 Courtesy Alberto Peola

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mmaginare di spiccare il volo e quindi volteggiare tra gli spazi celesti a contatto col deliquio del distacco dal mondo terreno che ci costringe a lottare per un nostro spazio vivibile e poi come Icaro ripiombare nell’angusto della vita tra spazi domestici, pubblici, privati, statali, commerciali, industriali, tutti civili e oggi in occidente democratici, quelli di un’aula, di una sala d’attesa, di una piazza, delle metropoli del loro pullulare frenetico del formicaio umano, delle vie centrali, dei centri commerciali, delle favelas, tra sporcizie morali (quasi invisibili) e sudiciume fisico (ben più visibile) di corpi piuttosto che di strade e quartieri, tutto moderno lectisternio al profitto, cieco dio sempre più potente, che immola, sacrifica a suo piacimento orientando il suo sguardo solo là dove intravede solo lauti guadagni, svincolati da ogni principio morale. Purtuttavia calcolatamente il cieco profitto cerca il riscatto alla sua bruttura etica ed estetica nel ricorso a immagini, sempre più invasive, della pubblicità (cartacea, televisiva), curate da specialisti, nuovi omileti, che creano realtà bugiarda, quale vanitas vanitatum per irretire l’uomo degradato a consumatore, stretto tra le pareti domestiche sempre più asfittiche, dalle quali poter

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Laura Pugno Il tempo necessario Installation site specific graphite on papaer, spray, film on glass 2010 Courtesy Alberto Peola

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hink about flying and therefore fluttering among celestial spaces with the swoon of the earthy world distance, which forces us to struggle for our living spaces. And after, like Icarus, plunging back into the darkness of the narrowness of our life among household, private and public spaces, and again national commercial and industrial spaces, all civil spaces, and today, in the democratic West, those of a courtroom, a waiting room or a square, of the metropolis and of their hectic swarm of human crowd, of central roads, of trade centres, of favelas, between moral foulnesses (nearly invisible) and physical grime (more visible) of bodies rather than of roads and districts, a form of modern lectisternium to the profit, a more and more powerful blind god, who immolates and sacrifices to his liking, only seeking where he could get large profits without any kind of moral principles. Nevertheless, to redeem from its ethic and aesthetics ugliness the blind profit takes from advertisement, (papery or television) invasive images, created by specialists, new homilists, which set a dummy reality, as vanitas vanitatum to ensnare the demoted man to consumer, who find himself norrowed by his asphyctic house walls, trying to



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Laura Pugno Percorrenze 08 Adhesive film, spray, papers, glass and wood Cm.102 x 83 x 3,5 2010 Courtesy Alberto Peola

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sfuggire con slanci immaginativi, qualitativamente sempre più scadenti, di eros a buon prezzo o di gloria surrogata (per mezzo stampa, ma meglio se in televisione). L’immaginario individuale/ collettivo è malato, e la spudoratezza si traveste di sincerità, e il kitsch, non riconoscendo se stesso, si spaccia ostinatamente per buon gusto, naufragando inesorabilmente nel midcult che sazi gli appetiti pantagruelici della nuova borghesia alfabetizzata che pretende una sua mitologia, nella quale specchiarsi per pura vanità, piuttosto che per riflettersi/riflettere. Quindi ecco l’arte inferiorizzarsi a prodotto finalizzato a un target preciso che si connoti per una visibilità, prima di tutto “incomprensibile”, che va sotto il nome di contemporaneo, che si distingua per originalità, canonizzata da esperti, da loro stessi celebrata, che, soprattutto, guardi al futuro, nel disprezzo del presente, che rende tutto prosaico, e che diventò, così, prima avanguardia, mentre ora diventa generico anticipatore di nuovo sentire su cui si scommettono capitali per quello che sarà: l’opera d’arte intesa come percezione della bellezza di forme e colori, che rinvia alla bellezza del mondo, stenta a riconoscersi come utopia di libertà e sempre più si sottrae alla ricerca della verità. Ecco, l’artista, perciò, sarà tale se lunatic (un po’ matto), se non lo è che almeno lo sembri, e allora sarà l’eletto, poco importa distinguere se faccia arte solo per ambizione, egotismo, ostentazione della sua presunta intelligenza, per far parlare di sé; atteggiamenti, intendiamoci, tutti legittimi e fortemente compromessi con il mestiere di artista, una volta come oggi, come domani ancora. Ma chi sarà in grado di discernere se solo tutto questo atteggiarsi è il movente dell’arte (e allora è arte?) o se c’è dell’altro? Magari un blando tentativo di ricerca di verità, di umanità. Ecco, da qui comincia un processo di corruzione se la rivolta individuale (arte è rivolta?) spontanea viene quantomeno pilotata (negli ambiti dell’arte: musei, gallerie, fiere) da teorie omologanti, raggruppanti, trasformandosi in tattica e strategia (di mercato) e mirando a fini e necessità estranei all’arte stessa, al fruitore ultimo. Allora, alla nullificazione dell’arte si assiste sempre più acriticamente in kermesse di fiere dell’arte, gallerie d’arte à la page, se propongono l’ipertrofia, l’espansione dell’opera d’arte nelle dimensioni, nella enfatica visibilità, contigua a un veterobarocco, falsamente pieno, come realizzazione di una dimensionalità eccentrica che tende a colmare, prima di tutto, il vuoto di sé, creandolo così anche negli altri, destabilizzando l’immaginazione del singolo e della collettività, afferendo a un futuro inesistente che diventa così sempre più distopia. L’arte viene, pertanto, subdolamente sottratta

escape only through low-quality imaginative élan, of nice price eros or of replaced glory (by press or better by television). Single/collective imagination is ill, and shamelessness disguises in honesty, the kitch passes himself off as tastefulness, consequently and inexorably wrecking in the midcult which feeds the Pantagruelian appetites of the new educated middle class, which claims for its own mythology, in which mirrors its mere vanity, rather than reflect or be reflected. So art becomes ‘poorer’, a product for a precise target, characterised by visibility, firstly ‘incomprehensible’, under the name of ‘contemporary’, which its specific originality, ratified and celebrated by its experts, which looks mainly at the future, in contempt of the present getting everything prosaic, and which became avant-garde, while today it becomes the general anticipator of a new way of feeling: the work of art as perception of the beauty of shapes and colours, which reminds to the beauty of the world, which can hardly recognise itself as freedom’s utopia and which escapes from the search of the Truth. So, the artist will be lunatic (a little bit mad), and if he is not, at least, this has to be his attitude, so he will be the elect, it does not matter if his art expresses only his ambition, egotism, ostentation of his presumed cleverness, to let people talking about him; even if these are rightful and artistic attitudes, in the past as today and as tomorrow. Who could recognise if this attitude is the reason of art or if there is something more? Maybe a minimum effort of search of the truth, of humanity? A process of corruption begins if the single spontaneous revolt (is art rebellion?) is led (in the artistic field: museums, galleries, exhibitions) by conforming and standardizing theories, which turn into approach and strategy (market strategy) aiming at strange and unknown purposes and needs. So the overruling of art takes place in uncritically kermesse of art exhibitions, art galleries à la page, if they suggest hypertrophy, expansion of the work of art in dimensions, in the visibility contiguous to an old baroque, wrongly full, as realisation of an eccentric dimension, which tends to fill up its emptiness, creating this feeling also in other people, destabilizing the image of the single or of the community, suggesting an inexistent future that becomes dystopia. Art, that is no more an object of contemplation (not only of wonder), becomes supremacy, actually risking violence, brutality and an assumption of power that is fallen in a stream that is keeping its distances from man and nature, from the same reality that has to inquire about its contradictions. Therefore, someone, as for example Laura Pugno, stunned by this chaos, flies, in an attempt of overcoming


al suo essere oggetto di contemplazione (non solo di meraviglia), diventa dominio, rischiando concretamente la violenza, la brutalità, l’assunzione di un potere che per esercitarsi non si accorge di richiudersi in una spirale che si allontana dall’uomo e dalla natura, dalla stessa realtà che ha il dovere di indagare nelle sue contraddizioni. Allora qualcuno, per esempio Laura Pugno, magari frastornato fra tanto disordine, fra tanto mondo inconto, spicca il volo, nel tentativo di un superamento delle zone prossemiche di Edwaud T. Hall per sprigionare un senso di libertà, se non altro perseguito con fatica, quella della vertigine dell’anima, quasi un allontanamento dal terrestre con la consapevolezza dell’autentico intellettuale che nutre sempre più, con i suoi studi, il contemptus mundi (disprezzo del mondo), qui rievocato in forme e colori verosimili, ma non veri, in un dibattersi doloroso tra aderenza realistica e astrattezza, nell’uso promiscuo di segni e media che nella resistenza all’apafisi dell’incomprensibile vita, oppone un onesto tentativo quasi metafisico che ricongiunga arte a conoscenza del mondo: della natura oggetto, ammirata; dell’uomo soggetto, ammirante.

Edwaud T.Hall’s nonverbal areas to give a sense of freedom, that of the giddiness of the soul, a sort of alienation from the earth with the awareness of the true intellectual who feeds with his studies the contemptus mundi (the disregard for the world), here it is recalled in shapes and likely untrue colours, in the painful debate between realistic adherence and abstractness, in the abuse of signs and media, it opposes an honest nearly metaphysic attempt, which could rejoin art to world’s knowledge: of nature as the admired object; of man as admiring subject.

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atelier Sulla piega dell’onda

On the pleat of the wave

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a buona figlia della generazione digitale, è a partire da un celebre spot tv che stavolta inizia la riflessione sullo spazio e le sue ibridazioni nel visivo e nella moda in particolare. “E’ tutto intorno a te”, questa la citazione, suggestione. In questo tutto che mi avvolge visualizzo uno spazio. A questo concetto riconduco la categoria Kantiana e la nascita della geometria. E subito dalla geometria, mondo affascinante della realtà intesa come costruzione misurabile, astraggo l’architettura. Architettura come porzione di spazio legato a ciò che dura ma anche come spazio non verbale, quindi comunicazionale e culturale, che collego alla moda che è luogo di costruzione di identità personale e collettiva, messa in forma di ciò che desideriamo che gli altri sappiano-vedano di noi. La carica eversiva delle categorie, sottoposte a riforma, dipende come sempre dal punto di vista. Alcuni luoghi, come nel caso di musei e di flagship (negozi portabandiera di brand moda internazionali e visualizzazioni stilistiche di altissimo prestigio), sono sfondi ideali per la percezione della forma, vissuta a sua volta come pure forma percepita. Come l’arte, l’architettura, anche la moda è intorno a noi, circoscrive la pelle, è figura più o meno solida che delimita perimetro e area del nostro corpo. È una geometria che però sfugge a ogni imperativo categorico per affermarsi come gioco e postulato aperto a interpretazione.

Genhy O’Gehre Tornado Scultura in titanio h cm.760 2001

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Lo spazio, oltre che successione di continuità, è campo di relazione, comunicazione e creazione di senso nuovo della realtà. La moda ci aiuta a rendercene conto attraverso i cantastorie più radicali della sua tradizione: “ricoprire il corpo con un unico pezzo di stoffa crea un interessante ma ( in giapponese spazio) tra il corpo e il tessuto. Poiché ogni persona ha una figura diversa, il ma è unico e crea una forma individuale”. Per intenderci Issey Miyake fa parte di un gruppo di stilisti (di scuola giapponese ma anche belga) che a partire dagli anni ‘80 in particolare, apportano dei cambiamenti riconosciuti fondamentali per un viraggio di gusto nell’abbigliamento a favore di un rapporto abito corpo interiorizzante. In quegli anni Miyake crea una linea di abbigliamento a pieghe, invertendo il consueto procedimento secondo cui prima si piega il tessuto e poi si taglia

s a child of the digital generation, the reflexion on space and its crossbreeding in the visual and fashion fields in particular come out from a famous advert. “It’s all around you”, is the quotation/suggestion. In this “all” that surrounds me I can visualize a space. And from geometry, which is a fascinating world of reality meant as measurable construction, I abstract architecture. Architecture meant as a portion of space, tied to what lasts, but also meant as non verbal space, so communicational and cultural, which I link to fashion, which is a place of personal identity and collective identity construction, in the shape of what we want the other people to knowsee about us. The subversive charge of categories, subject to reform, depends on the point of view, as usual. Some places, such as museums and flagships (shops that are sell international fashion brands and stylistic visualizations of very high prestige) are ideal backgrounds for the perception of the form, lived, in its turn, as pure perceived form. Just like art and architecture, also fashion is around us. It surrounds the skin, it’s a more or less solid figure that delimits the perimeter and area of our body. It’s a geometry that escapes any outright imperative to establish itself as a game and postulate open to interpretation. Space, beyond being succession of continuity, is relation field, communication and creation of a new sense of reality. Fashion helps us to notice it through the most radical storyteller of its tradition: “covering the body with a piece of cloth creates an interesting ma (space in Japanese) between the body and the cloth. As every person has a different figure, the ma is unique and creates an individual form”. To get this straight, Issey Miyake is part of a group of stylists (of both Japanese and Belgian school) that especially in the 80’s, made some changes that are considered fundamental for a tasteful clothing color change in favor of an interiorized relationship dress-body. In those years Miyake creates a creased clothing line, inverting the usual procedure according to which, first the cloth is folded and then it is cut to make a dress. On the contrary, by cutting first and then folding the piece of clothing, he creates dresses that combine materials, shapes


il capo. All’opposto, quindi prima tagliando e poi intervenendo singolarmente sul capo con le pieghe, crea manufatti che combinano materiali, forme e funzionalità. Tutto il suo lavoro si affida allo spirito della tradizione più le spinte tecnologiche per valorizzare il tessuto che si radicherà sulla pelle. Curve, pieghe, interruzioni, asimmetrie sono traduzioni espressive di un effimero ontologico inteso come processo, che permea l’immaginario culturale del Giappone tanto quanto i dettami della prospettiva centrale appartengono alle prescrizioni occidentali delle origini. Il contagio della frammentazione è indotto a partire dalle avanguardie storiche in seguito al confronto proficuo con stilemi orientali che suggeriscono le potenzialità della linea curva. Ecco allora che La Grande Onda come quella del vecchio pazzo per la pittura Hokusai (1760-1849) ci

and functionality. All his work relies on tradition helped by technology to give value to the cloth that will become one with the skin. Curves, pleats, interruptions, asymmetries are expressive translations of an ontological ephemeral meant as process, which permeates the Japanese cultural imagination as much as the central perspective dictates belong to the western prescriptions of origins. The contagion of the fragmentation takes place starting from the historical avant-gardes, following the profitable comparison with oriental stylistic methods that suggest the potentiality of the curved line . Here’s how the Big Wave, like the one of the old crazy for painting Hokusai (1760-1849), sweep us away in a whirling and wonky motion, which the modern world is rich of. A cornerstone of architecture, for example, is the Guggenheim

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atelier travolge in moti vorticosi e storti, di cui è per fortuna ricco il mondo odierno. Un esempio su tutti è un caposaldo dell’architettura contemporanea come il Guggenheim Museum di Bilbao (97) di Frank O’ Gehry, architetto la cui firma è un effetto vela in-movimento delle strutture, noto appunto come effetto Bilbao. La stessa impronta che guarda caso Issey Miyake sceglie per il proprio flagship di New York aperto nel 2001 e realizzato da O’Gehre. Tornado è il nome della scultura in titanio alta 7,60 metri che partendo dalla scala al livello interrato avvolge i piani superiori fino a emergere verso l’apertura su strada del negozio. Così facendo all’interno di quell’apparente spazio commerciale Genhy ha portato un pezzetto del Guggeheim di Bilbao. La contaminazione è visibile e tattile, l’architetto si fa narratore di una storia sull’effimero che diventa corpo architettonico organico perché vissuto. La moda come l’architettura si fa punto di contatto tra l’arte e la gente, l’architettura come la moda deve rispondere ai bisogni delle persone ed essere funzionale. La storia delle CASE di moda risale al 1858 e inizia con Charles Worth (1825-95) primo couturier che fu anche il primo che istituì la sua maison al numero 7 di rue de la Paix a Parigi. Passando da connubi più noti come quello tra Paul Poiret (1878-1944) e Le Corbusier (1887-1965) si rese evidente sin dall’inizio come fosse indispensabile votare a questa causa l’intervento di grandi architetti dotati di quel sentimento del tempo capace di tradurre i gusti nascenti. Dalle maison a oggi la moda scende in strada e si fa luogo di esperienza urbana, emotiva e polifunzionale nei distretti delle capitali mondiali. Altro esempio sempre sulla scia fluttuante delle onde, quella tipica del flagship di Prada aperto sempre a New York nel 2001 progettato da Rem Koolhaas. Il negozio sorge dalle gallerie espositive della succursale del Guggenheim Museum a Soho, ed è caratterizzato da una struttura di legno a forma di onda che ha origine dal piano terreno, scende con una gradinata al livello del piano interrato e risale con una curva rapida, per ricadere nuovamente al piano terra. La gradinata è luogo di esposizione di scarpe o manichini ma anche posto di incontro, dove i clienti si possono sedere e chiacchierare. L’onda pertanto si fa collocazione simbolica dove l’ibridazione di funzioni è compiuta, tra intrattenimento, esibizioni, shopping, risultano abitacoli multiuso e multi esperienziali i luoghi del contemporaneo.

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Museum di Bilbao (97) by Frank O’ Gehry, an architect whose signature is an effect of “structures moving sails”, well known as Bilbao effect. It’s the same stamp of artist that, and it’s not a case, Issey Miyake chooses for his own flagship in New York, opened in 2001 and realized by O’Gehre. Tornado is the name of the sculpture in titanium which is 7,60 metres high. It starts from the stairs in the basement and involves all the upper floors, up to the opening on the shop street level. In this way, inside that apparent commercial space, Genhy has brought a piece of Bilbao’s Guggeheim. The contamination is visible and tactile, the architect becomes the narrator of a story about the ephemeral that becomes architectural organic body, as it is experienced. Fashion, just like architecture, is a connection point between art and people; architecture, just like fashion, must meet people’s needs and be functional. The story of fashion HOUSES dates back to 1858 and begins with Charles WWorth (1825-95), the first couturier that was also the first one who created his maison in 7 di rue de la Paix in Paris. Since the beginning of popular unions, such as the one between Paul Poiret (1878-1944) and Le Corbusier (1887-1965), it became clear that it was necessary to dedicate to this the intervention of great architects endowed with that feeling, typical of that time, able to express the rising tastes. From the maison, nowadays fashion goes down in the streets and becomes the space for urban, emotional and polyfunctional experiences in the districts of the world capitals. Another example coming on the fluctuant wake of the waves, typical of Prada’s flagships, open in New York in 2001 as well and projected by Rem Koolhaas. The shop rises from the exhibition galleries of the Guggenheim Museum’s branch in Soho, and it is characterized by a wooden structure shaped like a wave, which has its origins from the ground floor, goes down to the basement trough a flight of steps, goes up with a rapid curve, and falls again on the ground floor. The flight of steps is an expositive place for shoes or mannequins, but also a meeting place, where clients can sit down and chat. The wave becomes a symbolic collocation where the functions interbreeding is accomplished, amongst entertainments, exhibitions, shopping. They become multifunctional cabs and places of many experiences, contemporary places. Veronika Aguglia



-fine

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empre più spesso ho l’impressione che il mondo dell’arte stia diventando un piccolo campionato (come può essere quello di calcio in Italia, o quello di Basket in USA) dove gli artisti dal nulla diventano dei divi, vengono pagati a peso d’oro, con tanto di tifosi che sono da questa o da quella parte, con tanto di mercato, allenatori-curatori, procuratoricritici, e le gallerie-stadio in cui mostrare le proprie prodezze. In questo universo di star così impegnate a far salire le proprie quotazioni, spesso ci si dimentica che l’arte e la critica dovrebbero essere anche (e per quest’ultima categoria, soprattutto) approfondimento e ricerca. Invece sempre di più si scende in campo l’un contro l’altro armati quasi che non fossimo tutti qui a lavorare per gli stessi motivi, alla ricerca delle stesse cose. E forse in realtà non lo siamo... Questo ci allontana sempre di più dalla serenità necessaria ad un sano confronto critico che riesca a mettere in relazione, e quindi comprendere, i meccanismi che attraversano e che costituiscono lo spazio dell’arte. Spazio che non ha tempo, dimensione in cui le barriere epocali costruite su modi e ‘maniere’ diverse, perderebbero di senso, se guardassimo tutto da fuori, come da un altro universo. Vedremmo che quello che sta succedendo è già accaduto, che l’Arte Medievale è Contemporanea e l’oggi è forse un MedioEvo che attende ad un nuovo Rinascimento: entrambe epoche in cui l’affermazione del valore simbolico su quello formale diventa il comune modus operandi, entrambe momento di fermento e di preparazione ad una nuova concretezza spaziale che rivoluzionerà il modo di fare arte. Lo spazio dell’arte è quindi il luogo dell’atemporalità, dove tutto può e deve essere messo in relazione con tutto, perchè se fino al secolo scorso ogni epoca era rappresentata da uno stile, il contemporaneo è un buco nero in cui tutte le epoche sono state risucchiate e rimescolate nelle forme e nei concetti. Non sappiamo cosa c’è al di là del buco nero, ma sicuramente il nostro dovere è cercare, se non di scoprirlo, almeno di intuirlo.

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t is my impression that more and more often the world of the art is turning to a small championship (like the soccer championship in Italy or the basket one in US) where the artists become stars from nothing, paid for their weight in gold, having fans taking sides with some of them rather than with some others, entering the market rating, with trainers, agents-critics and the stadium/gallery where their own feats are shown off. In this universe of stars committed in puffing up their own rating, we forget that the art and the criticism (above all this latter category) should be in-depth analysis and research as well. On the contrary they are entering the field armed one against the other almost as if they were not here to work all together for the same target, searching the same things, and perhaps they are not actually…. This moves them away from the necessary serenity for a safe critical discussion which is able to relate and therefore comprehend the mechanisms crossing and building the space of the art. Space without time, dimension, in which the epochmaking barriers built up on different ways and “manners” would lose meaning if we observe all from the outside, as from another universe. We would see that what is happening now, it happened already, that the Medieval Art is Contemporary and today is may-be Middle Ages waiting for a new Renaissance: epochs in which the achievement of the symbolic value, in comparison with the formal one, becomes the common way of doing, both epochs being an effervescent moment and preparing a new space concreteness which will revolutionize the way of doing art. The space of the art is therefore the place of the timelessness, where everything can and must be related with everything, because if every epoch was represented by a style until the last century, the contemporary is a black hole in which all the epochs have been swallowed up and stirred in their forms and concepts. We do not know what there is beyond the black hole, however our duty is for sure the attempt, if not to discover it, but at least to sense it. Gino Fienga

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Lo Spazio dell’Arte: il luogo dell’atemporalità The Space of Art has no time.


Il lato simpatico della vita.

Mibramig Nasone veneziano Oil on board cm 60x40

Mibramig Indri Oil on board cm 30x40 Courtesy Galleria Davico Torino

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a origini lontane il percorso artistico intrapreso da Michele Braschi e si perde, forse a sua insaputa, nella memoria bambocciante del ‘600; ma trae spunto da impulsi decisamente contemporanei, quali l’uso del digitale come strumento di progettazione degli equilibri cromatici, che andranno a stendersi su quella tavola che ospiterà l’opera finalmente ad olio. Nelle opere di Mibramig (questo il suo nome d’arte) si respira un’atmosfera sempre più rara nel mondo dell’arte contemporanea: quella dello scherzo, del grottesco, del fanciullesco. In un ambito dove tutti sono così impegnati a prendersi sul serio, Braschi con una tecnica assolutamente invidiabile (anche questa in via d’estinzione), riporta in scena caricature leggere e affabulanti di maschere e di animali, dove le colorazioni ardite richiamano alla sua attività illustratoria, ma trasmettono anche una sorprendente capacità di gestire accostamenti imprevedibili senza mai restituire una sensazione di forzatura o di artefazione. Ma non è solo questo. Si coglie un’attenzione del tutto particolare per le cose piccole, per quel mondo indifeso della natura reale e fantastica in cui i personaggi che vengono raccontati sono protagonisti indiscussi. Occupano lo spazio, attirano l’attenzione e intrappolano lo spettatore nella surrealità del paesaggio che li circonda. Sono personaggi a cui sembra potersi affezionare per l’allegria che regalano, a volte per le loro caratteristiche grottesche a volte per la fragilità che li rende vulnerabili e indifesi, in un mondo così poco attento alla natura e a tutto ciò che rischiamo di perdere. Il percorso intrapreso da questo artista, spinto e sostenuto con intuito e passione da Emilio Gargioni, è interessante perchè dimostra che nelle nuove generazioni continua ad esserci un’attenzione alla tradizione e alla memoria e non tutto è disgregazione di valori e abbandono della tecnica tradizionale. C’è ancora (oserei dire per fortuna) una pittura silenziosa che va avanti per la sua strada nonostante il chiasso mediatico di cui anche l’arte spesso è vittima, e che parla di cose belle, direttamente al cuore, senza dover necessariamente essere cerebrale. Ma non per questo meno intelligente e, soprattutto, utile a mostrarci almeno per un momento il lato simpatico della vita.

The lovely side of life.

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he artistic life of Michele Braschi has a faraway origin and gets lost, probably without his knowing it, in the memory of bamboches painters of the seventeenth century, drawing his inspiration from a definitely contemporary impetus, such as the use of the digital mean as design instrument of the chromatic balances, stretching themselves on that panel which finally will be housing the oil work. In the works of Mibramig (art-name), everyone can breathe an atmosphere which is increasingly rare in the world of the contemporary art: the one of joke, of grotesque, of childishness. In a world in which everyone is taking oneself so seriously, Braschi, thanks to an absolutely enviable technique (even this is dying out) brings again on stage faint and fancy caricatures of masks and animals, where the daring colours retrieve to his illustration activity, but transmit also a surprising capability to manage unforeseeable matching without giving a straining or adulteration sensation. But this is not all. Everyone can perceive a particular care for the small things, for that vulnerable world of the real and fancy nature in which the related characters are undisputed protagonists. They occupy the space, draw the attention and entrap the onlookers in the surrealism of the landscape surrounding them. They are characters whom we can seemingly become fond of, thanks to the joy they are giving, due sometimes to their grotesque features, sometimes to the weakness that makes them vulnerable and helpless, in a world that is taking little care of the nature and of what we are risking to lose. The way set off by this artist, backed and supported by Emilio Gargioni with intuition and passion, is interesting because it shows that in the new generations there is still care for tradition and memory and not only breakup of values and neglect of traditional technique. There is still (I would dare to say fortunately) a silent painting that goes its own way despite the media sensation, of which the art is often a victim, and talks directly to the heart about beautiful things, without necessarily being over intellectual; but surely not less intelligent and, above all, useful at least for a moment showing us the lovely side of life. Gino Fienga



preview Un progetto fra Italia e Repibblica Ceca A project between Italy and Czech Republic

Barbara Fragogna I give you everything, You must be mine.

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poche ore dall’inizio della primavera, alle 18 del 19 marzo 2011, le porte del Capannone 36 di Forte Marghera si apriranno per mostrare i frutti di un progetto partito mesi fa tra Italia e Repubblica Ceca. Più di trenta artisti italiani, cechi e di altre parti del mondo hanno vissuto a stretto contatto esistenziale e creativo per dieci giorni, abitando i confortevoli spazi dell’Hotel Europa di Brno e respirando l’aria morava che soffia tra strade, case e gallerie. Tutti a ragionare, progettare, creare sul tema dell’accoglienza, esposti agli input creativi che sono stati loro sottoposti dagli organizzatori, Andrea Penzo e Cristina Fiore, e raccontandosi l’un l’altro per somministrare linfa alla propria identità. Più di trenta modi di dire accoglienza, più di trenta percorsi che facessero approdare ad un’infinità di soluzioni differenti. Il libro, edito da con-fine edizioni, si propone come un progetto artistico in sé. I volti degli artisti non sono mai rivelati, l’opera finita non viene mai mostrata. L’introduzione è un racconto, le conclusioni, delle istantanee sugli artisti che hanno partecipato alla residenza: Aldo Aliprandi, Marianna Andrigo, Michelangelo Barbieri, Greta Bisandola, Gino Blanc, Francesca Bonollo, Elena Candeo, Martina Chloupa, Pablo Compagnucci, Irene De Andres, Lorenzo De Nobili, Adolfina De Stefani, Elisabetta Di Sopra, Paolo Fiore, Fabio Fornasier, Barbara Fragogna, Patrik Hábl, Monika Havlíčková, Vladan Hořica, Alessandro Mandruzzato, Antonello Mantovani, Pavel Piekar, Patrizia Polese, Diego Ranzato, Maria Eugenia Rivas Medina, Arturo Siebessi, Daniela Stichovà, Klára Stodolová, Ladislav Sýkora, Isabel Tallos, Maria Gabriella Troilo, Marcela Vichrová, Lorena Vivent, Luigi Voltolina. Le pagine sono intervallate dagli input creativi dati da Anna Háblová, architetto, Andrea Melendugno, psicologo e Pavel Kolmačka, scrittore e studioso di religioni antiche. Ogni personaggio, ogni dettaglio, ogni piccola suggestione è diventata il tassello di una storia che finisce al di là del libro, non al suo interno. Dal 30 aprile del 2011 tutta la collezione verrà installata all’interno dell’Hotel Europa (Třída Kpt. Jaroše 27, Brno, Repubblica Ceca). Dal 19 marzo al 9 aprile, invece, la mostra sarà visibile a Forte Marghera (Via Forte Marghera 30, Venezia), la splendida isola a forma di stella tra terra e laguna che quest’anno darà vita, tra le mille attività che già propone, ad un vero e proprio Parco del Contemporaneo. Tra i tanti lavori ne verranno selezionati cinque ritenuti particolarmente efficaci da una commissione composta da Riccardo Caldura, Chiara Casarin, Gino Fienga e Lucie Siklová. Il progetto è patrocinato dai Comuni di Venezia e di Brno, dall’Istituto di Cultura italiano a Praga, dall’Istituto di Cultura ceco di Milano, dall’Ambasciata ceca e dal Marco Polo System g.e.i.e.

F

ew hours before early spring, at 18 o’clock of march 19, the doors of Capannone 36 in Forte Marghera, will open to show the results of a project started few month ago between Italy and Czech Republic. More than thirty artists from around the world have lived in close contact existential and creative for ten days, living the confortable spaces of Hotel Europe in Brno, breathing the moravian air blowing through the streets, homes and galleries. Everybody thinking, planning, creating about hospitality, telling each other to infuse life into their own identity, pushed by the inputs of Andrea Penzo and Cristina Fiore (the organizers). More than thirty ways to say hospitality, thirty different ways to arrive at solutions. The book (published by con-fine edizioni) is an artistic project itselfs. We never see the artists faces. The complited work is never shown. The introduction is a story. The conclusions are snapshots of the artists who participated in the residence: Aldo Aliprandi, Marianna Andrigo, Michelangelo Barbieri, Greta Bisandola, Gino Blanc, Francesca Bonollo, Elena Candeo, Martina Chloupa, Pablo Compagnucci, Irene De Andres, Lorenzo De Nobili, Adolfina De Stefani, Elisabetta Di Sopra, Paolo Fiore, Fabio Fornasier, Barbara Fragogna, Patrik Hábl, Monika Havlíčková, Vladan Hořica, Alessandro Mandruzzato, Antonello Mantovani, Pavel Piekar, Patrizia Polese, Diego Ranzato, Maria Eugenia Rivas Medina, Arturo Siebessi, Daniela Stichovà, Klára Stodolová, Ladislav Sýkora, Isabel Tallos, Maria Gabriella Troilo, Marcela Vichrová, Lorena Vivent, Luigi Voltolina. The pages are interspersed by the creative input of Anna Háblová, architect, Andrea Melendugno, psychologist e Pavel Kolmačka, writer and scholar of ancient religions. Every character, every detail, every little suggestion has become the anchor of a story that ends beyond the book, not inside. Since April 30, 2011 the entire collection will be installed inside the Hotel Europa (Třída Kpt. Jaroše 27, Brno, Czech Republic). From 19 March to 9 April, the exhibition will be in Forte Marghera (Via Forte Marghera 30, Venezia) the beautiful star-shaped island between the land and the lagoon that will create this year a real park of Contemporary Art. Among the many works, five of them will be selected from a committee consisting of Riccardo Caldura, Chiara Casarin, Gino Fienga e Lucie Siklová. The project is sponsored by the cities of Venice and Brno, the Institute of Italian Culture in Prague, Czech Cultural Institute in Milan, Czech Embassy and the Marco Polo System g.e.i.e.



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Il mondo mistico trascendentale dove spirito e realtà non hanno confine, in queste dimensioni dove si passa per cercare e vi si ritorna per trasmettere. Ecco dove viaggia Luca Tornambè. Le sue visioni frutto di una ricerca interiore dove è chiara ogni risposta, l’Arcano diventa oggetto di pensiero energia che fluisce, energia che attraverso le sue cronovisioni diventa materia e realtà. Dai suoi viaggi ci riporta il suo essere in contatto con l’aldilà con altri mondi altre energie >pure< senza crearsi preamboli su ciò che discutibile o no. Un pensiero che viaggia in atmosfere dove per molti è incognita dove per molti non c’è risposta e futuro. Le sue immagini trasferiscono un dono a tutti noi: il dono dell’Anima che esiste, il dono dell’universalità in cui viviamo ma che per molti aspetti non ne cogliamo il vero significato. Per quanto riguarda le trasformazioni di pensiero in opere nei suoi dipinti si percepisce la sensibilità nel tratto e nel colore, con tonalità tranquille che sembrano accarezzarsi tra di loro, i toni si amano i tratti si chiudono come un atomo ma che si uniscono a tanti altri atomi da cui l’esistenza, le fantasie originali non si affacciano prepotentemente ma si fondono nell’insieme, tutto questo è Luca Tornambè un ‘artista dai toni di pace di fratellanza e amore in conclusione il messaggio di una chiara sintonia con l’essere. Gianni Mazzola The mystical world where the transcendental spirit and reality have no boundary, in this dimension where you go to look for and to send you back there. That’s where Luca Tornambè travels. His visions are result of interior research where every answer is clear, the Arcanum is an object of thought, energy flowing, which through its cronovisions becomes matter and reality.

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He take us back from his travels his being in contact with the beyond, with other worlds, other energies >pure< without creating preambles what questionable or not. A thought that travels in an atmosphere where for many it is unknown, where for many there is no response and future. His images move a gift to all of us: the gift of the soul that exists, the gift of universality in which we live but we do not keep the true meaning. About the transformations of thought in works, in his paintings we perceive sensitivity in the sign and color, with quiet tones that seem fondling each other, the tones love themselves, the signes like an atom, but who are united with many others atoms from which the existence, the original patterns merge together. This is Luca Tornambè an artist of love of peace, in the end the message of a clear line being.

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Erri Rossi

A caratterizzare la sua ricerca c’è un costante richiamo a realtĂ che appaiono a volte oscure e non facilmente interpretabili. Linee che percorrono direzioni non proprie. Figurazione che non potremmo di certo definire accademica. Pensiero che travalica la psiche e si fa gesto autentico. To characterize his research there is a constant reminder to reality that sometimes appears obscure and not easily interpretable. The lines goes in unsuitable directions. Figuration that we could certainly define academic. Thought that goes beyond the mind and makes itself authentic signe.

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Osvalda Pucci

Nata a Siena, vive e lavora ad Arezzo. Si è dedicata giovanissima allo studio della pittura e, dopo avere sperimentato diverse tecniche pittoriche ha preferito quella dell ’olio a colore spanto una tecnica antica, da lei rielaborata e corretta. La ricerca s’incentra in espressioni simboliche e su fiori, nature morte e paesaggi: un mondo riveduto in un contesto metafisico.

She was born in Siena but she lives an works in Arezzo. She starts to study painting very young and, after experimenting with different techniques, she prefered spilled oil color, an antique technique that she worked out and fixed it. Her research focuses on symbolic expressions, flowers, still life and landscapes: a world revised in a metaphysical way.

Via XXV Aprile, 37 • 52100 Arezzo - ITALY • osvalda.pucci@fastwebnet.it • www.op-arte.it


Oggi Clelia Cortemiglia vive una maturità fervida, all’insegna non di prosecuzioni prive di necessità – che sono, ben sappiamo, moneta corrente nei prodotti d’arte – bensì di un’ansia continua di distillare i nuclei cruciali della propria vocazione espressiva, e insieme di avventurarsi verso limiti che ancora ne eccitano la curiosità. Il percorso di ieri vale dunque come documentazione essenziale, ma soprattutto per capire l’artista di oggi, le sue opere sono esempio di silenzio alto, in tempi di clamori.

Today Clelia Cortemiglia lives a fervent maturity, not the banner of continuations without necessity - that is, we know, the currency in the products of art - but the anxiety continued to distill the critical nuclei of own expressive vocation, and in the same time to venture to the limits that still excite her curiosity. The way of the past is the essential documentation, but also to understand the artist today, his works are an example of absolute silence, in times of clamor. Flaminio Gualdoni

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Frammenti di memoria della Pechino Olimpica Simonetta Rigato Testo Italiano e Francese Italian and French Text

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L’artista ci accompagna sul confine fra l’arte e le parole, alla ricerca di un nuovo rapporto sinestetico che si snoda in due narrazioni parallele: una fatta di racconto e l’altra di opere d’arte.

Il Nome Il Branco Maria Micozzi

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Monografia di un’artista sorrentino Riccardo Propoli

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The artist takes us on the border between art and words, looking for a new synaesthetic relationship that is divided into two parallel tellings: the first one is made like a novel, the other one made of artworks.

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Una collezione unica che mette in luce l’originalità e l’autenticità dei giovani poeti italiani, tenuti a battesimo dai grandi maestri della poesia contemporanea. Un suggestivo viaggio attraverso le sensazioni, le riflessioni, i sogni, e i pensieri nascosti fra le parole delle nuove generazioni.

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Questa collana si prefigge di rappresentare il vissuto reale delle persone del nostro tempo: espresso con un linguaggio che non dimentichi la tradizione e che si abbeveri alla seconda fonte della letteratura: la lettura. La prima essendo la vita.

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