La raccolta Eugenio Balzan a Bellinzona 1944 | 2012
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MUSEO CIVICO 29.09.2012 VILLA DEI CEDRI — 20.01.2013 Museo Civico Villa dei Cedri piazza San Biagio 9 CH—6500 Bellinzona villacedri.ch Domenico Morelli La sultana torna dal bagno 1877 — 1883 circa, dettaglio Grafica Veruska Gennari www.monostudio.ch Fotografie Mauro Ranzani
Orari MA | VE 14 — 18 SA | DO e festivi 11 — 18 LU chiuso Aperture serali fino alle 20 primo GIO di ogni mese Ingresso 8.- chf | 6.00 eur Ridotti 5.- chf | 4.00 eur
Arrivato a Milano, il mio sogno è stato proprio quello di radicarmi in questa zona che trovo fra le più belle della città, dove ancora si possono vedere le pietre antiche su cui si lavava e gli attracchi dove si legavano i barconi, perché i Navigli erano il mezzo più facile per far giungere le merci e i materiali dalla campagna milanese. Milano era tutta una città di canali. Della Milano città d’acqua parla anche Hemingway in uno dei Quarantanove racconti, In un altro paese, che è tutto un muoversi tra corsi d’acqua e ponti. When I arrived in Milan, it was my dream to establish myself in this area, which I find to be one of the most beautiful in Milan, where you can still see the old washing stones and the moorings where the boats were tied. Milan was a city full of canals. Hemingway even talks about that in one of his Forty-nine Stories In Another Country - about moving around the city along canals and bridges. Arnaldo Pomodoro Flaminio Gualdoni Vicolo dei Lavandai. Dialogo con / Conversation with Arnaldo Pomodoro I Edizione - Giugno 2012 - cm 12x16 - pagg.48 - brossura Italian/English text - Postfazione di/Afterword by Gino Fienga ISBN 978-88-96427-16-3 - € 9,00
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a cura di / cured by Gino Fienga
Pa s s e u r s
Collana Series Gianni Otr
Illusions
Il linguaggio dell’artista trova le proprie origini in un percorso di ricerca che, nell’ambito proprio del medium fotografico, indaga criticamente le prospettive della percezione visiva. Nello specifico vediamo come lo spazio d’azione si caratterizzi come modalità relazionale e di azione collettiva, rispetto alla comune sensibilità di recepire il linguaggio visivo. The artist’s language has its roots in a research project that, in the photographic medium proper, explores critically the prospects of visual perception. Specifically, we see the action space is characterized as relational mode and collective action, compared to the common sensitivity to transpose the visual language. Testo Italiano/Inglese Italian/English text I ed. 2012 - pag. 80 - € 20,00
Luca Tornambè
I significati della fantasia The meanings of fantasy Luca Tornambè indaga con nuovi mezzi compositivi realtà simboliche e fantastiche. La superficie si tinge di rossi vibranti, gialli cangianti e infinite declinazioni di verdi. Da tenebrosi fondali danze segniche creano irruenti effetti visivi che assumono una forte dicotomia interpretativa. Luca Tornambè investigates with new compositional means symbolic and fantastic reality. The surface acquires vibrant red tones, iridescent yellow ones and inifite declination of greens. From gloomy backgrounds dances of signs create impetuous visual effects which assume a strong interpretative dichotomy. Testo Italiano/Inglese Italian/English text I ed. 2012 - pag. 80 - € 20,00
Le pubblicazioni degli artisti contemporanei Series Passeurs Contemporary artist editions L’artista ci accompagna sul confine fra l’arte e le parole, alla ricerca di un nuovo rapporto sinestetico che si snoda in due narrazioni parallele: una fatta di racconto e l’altra di opere d’arte.
The artist takes us on the border between art and words, looking for a new synaesthetic relationship that is divided into two parallel tellings: the first one is made like a novel, the other one made of artworks.
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Roberto Giuliani – Gabriele Giuliani
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Summary N. 26 - Winter 2012
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editorial
(in)comunicabilità #1. Codici. (non)comunication #1. Codees Gino Fienga
pag. 18
Die Kleinen Kunstler Riflessioni intorno a un’opera... Consideration about a work Alberto Zanchetta
pag. 22
pretext
Drammaturgia quantistica. Quantum drammaturgy. Dialogo fra Dialogue between Silvia Conta & Antonio César Morón pag. 28
passeurs
Cover Arnaldo Pomodoro Continuum bronzo cm 80 x 150 (part.) 2010 (Foto Dario Tettamanzi)
Arnaldo Pomodoro Un viaggio nei segni dell’uomo. A journey into man’s signs. Gino Fienga
pag. 36
Irene Kung Tracce dall’ombra. Traces from the shadows. Luciana Ricci Aliotta
pag. 46
Anna Ramasco Deep. Codici inversi. Deep. Codes inverse. Cristina Fiore + Andrea Penzo
pag. 54
atelier
Mani di fata? ...ma anche no!. Light touch? better not! Silvia Conta & Alberto Zanchetta
pag. 64
Il frontespizio. The frontispiece.. Mauro Carrera
pag. 70
exlibris
quid
Alfio Giurato Utopia e distopia tra nuovi codici dell’arte di oggi. Utopia and dystopia between new codes... Pippo Lombardo pag. 76
documenta(13) Codici e stilemi del preambolo per una nuova epoca. Codes and styles of the preamble to a new era. Matteo Bergamini pag. 84
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at the end
Voltando pagina. Turning the page. Gino Fienga
pag. 100
Thanks Robert S !#3 a cura di Silvia Conta
Andrea Galvani A cube, a sphere, and a pyramid #5 (detail) Archival pigment print cm 70x100 27.6x39.4 inches, framed © 2011 Next page: Andrea Galvani A cube, a sphere, and a pyramid #12 Ink on paper © 2012 Credits: Courtesy of the Artist, Meulensteen Gallery, New York and Artericambi, Italy
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Few Invisible Sculptures è il titolo della complessa installazione presentata da Andrea Galvani (Italia, 1973. Vive e lavora a New York) alla scorsa Biennale di Poznań, in Polonia. L’artista chiama ad interagire scultura, disegno, suono e fotografia, ri-analizzando in modo radicale la definizione di scultura contemporanea. La sua e’ un’ indagine acuta che sottrarre letteralmente peso e volume alle forme sino a sospingerle nel territorio dell’invisibile. Il motore centrale del progetto e’ costituito da un audio installazione su quattro canali A Cube, a Sphere, and a Pyramid #1 che origina da alcune sculture minimaliste, costruite dall’artista e poi distrutte con il solo scopo di conservarne una memoria acustica. La traccia audio in questione (registrata in un laboratorio di ricerca in Germania) documenta i segnali ultrasonici di un gruppo di pipistrelli lasciati volare liberamente per giorni intorno a tre sculture appese come marionette in un teatro vuoto. Durante il processo di registrazione, le sculture sono state issate e poi abbassate in tempi differenti, venendo letteralmente esposte o sottratte alle onde ultrasoniche emesse dagli animali. Registrata con apparecchiature ultrasoniche e poi convertita ad una frequenza udibile all’orecchio umano, la traccia sonora è quindi di fatto una precisissima scansione dello spazio negativo intorno agli oggetti eseguita inconsapevolmente dai pipistrelli nei loro percorsi di volo. Nell’audio installazione (presentata precedentemente anche alla Fondazione Calder di New York), il pubblico veniva circondato dalla presenza acustica delle sculture e si trovava al centro di un perimetro sonoro delimitato da altoparlanti montati su cavalletti da sala. Documentazione esclusa, all’intero progetto appartiene una sola fotografia - in bianco e nero - : A Cube, a Sphere, and a Pyramid #5. In essa uno dei pipistrelli è ritratto in volo, congelato da un flash durante l’azione di scansione della sculture. Nell’immagine, che ricorda uno dei primi studi scientifici dei movimenti del volo, il corpo del pipistrello si eclissa per qualche frazione di secondo dietro le sue stesse ali, trasformando l’animale in una geometria astratta. A Cube, a Sphere, and a Pyramid #12 e’ un disegno inedito che l’artista ha realizzato appositamente per le pagine di Con-fine. Esso appartiene ad una serie di piccoli disegni a china eseguiti su carta d’archivio che ricostruiscono alcuni estratti della traccia acustica. Si tratta, come dichiara l’artista, di “una decodificazione di informazioni scientifiche, una proiezione di eventi tridimensionali in uno spazio bidimensionale”. I disegni visualizzano infatti graficamente l’interfaccia tra i pipistrelli e le sculture su due registri indicando le posizioni degli oggetti nello spazio, in un preciso e unico momento del tracciato acustico.
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! S t reboR sknah T cured by Silvia Conta
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few Invisible Sculptures is the title of the complex installation presented by Andrea Galvani (Italy, 1973. Lives and works in New York City) during the last Poznań Biennale, in Poland. The artist invites sculpture, drawing, sound and photography to interact, re-analysing in a radical way the definition of contemporary sculpture. His investigation is sharp and it literally steals weight and volume to shapes until they are driven into the territory of the invisible. The central force of the project consists of an audio installation on four channels A Cube, a Sphere and a Pyramid #1 which originates from a few minimalistic sculptures, built by the artist and then destroyed with the only aim to keep an acustic memory. The audio track involved (recorded in a research laboratory in Germany) documents the ultrasonic signals of a group of bats flying freely for days around three sculptures hanging like puppets in an empty theatre. During the recording, the sculptures were hoisted and lowered in different timing, and so literally exposed or removed from the animals’ ultrasonic waves. Recorded using ultrasonic devices and then converted into frequencies audible to man’s ear, by doing that the audio track is a precise scan of the negative space surrounding objects unknowingly made by the bats during their flying. In the audio installation (previously presented at the Calder Foundation in New York too), the audience was surrounded by the sculptures’ acustic presence and was placed in the centre of a sound perimeter defined by speakers on stands. Excluding the documentation, only one photography - in black and white - belongs to the entire project: A Cube, a Sphere, and a Pyramid #5. In it one of the bats is depicted flying, frozen by a flash during the sculptures’ scanning. In the image, which reminds one of the first scientific studies on the flying movement, the bat’s body eclipsed for a fraction of seconds behind its own wings, transforming the animal into an abstract geometry. A Cube, a Sphere, and a Pyramid #12 is an unpublished drawing that the artist specially made for Con-fine. It belongs to a series of small ink drawings made on achive paper and they reconstruct a few extracts of the audio track. As the artists declares, it is a “decoding of scientific information, a projection of three-dimensional events in a twodimensional space”. In fact drawings graphically visualise the interface between bats and sculptures on two registers, suggesting the objects’ positions in space, in a precise and unique moment of the audio track.
(in)comunicabilitĂ #2. Codici. (non)comunication #2. Codes.
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on credo che sia sempre necessario davvero capire che cosa un’opera d’arte significhi. A volte basterebbe semplicemente disporsi a sentire, cercare l’empatia con l’espressione del significante, per non avere più la necessità di tradurre in parole quel significato sotteso. L’arte contemporanea è una fabbrica di traduttori di codici impossibili che cercano di mettersi tra noi e lei, utilizzando spesso chiavi false, per decifrare messaggi che talvolta non esistono, aprendo porte di stanze sbagliate e vuote che cercano disperatamente di riempire con fragili suppellettili rubate qua e là, in giro per questa casa in cui prima o poi tutti entriamo: la critica. Il voler a tutti i costi decifrare cosa l’artista avrebbe voluto comunicare, a volte ci fa perdere di vista il semplice e banale piacere della fruizione estetica: guardare, toccare, e godersi il senso della percezione dei sensi, la forza dell’equilibrio, l’energia che l’opera sprigiona e che invade il nostro spazio prossemico nostro malgrado. Se la smettessimo di rincorrere, con l’accellerazione propria di questi tempi, parole e categorie, ricominceremmo a vivere diversamente (e forse con più lentezza) il nostro rapporto con il mondo dell’arte. Ma ci muoviamo in un contesto dove tutto deve essere comunicato, spiegato e spiegabile, dove l’istinto deve essere sempre ricondotto ad una funzione o almeno ad un’intenzione. Ciò non toglie che tantissimi artisti si sforzino di creare un proprio codice, riconoscibile, seriale, interpretabile da tutti. Una cifra stilistica che attraverso il tempo ci permetta di ricostruire la storia e le motivazioni di un percorso chiaro, che dall’enunciazione di una propria ipotesi attraversa tutte le fasi della dimostrazione fino ad acquisire validità e diventare tesi condivisa. Sono approcci, mezzi e codici differenti. Ma è proprio questa la ricchezza dell’arte: le differenze. Lasciamo che ci siano sempre più linguaggi, sempre più stanze da aprire, lasciamo l’arte libera di parlare da sola e raccontiamo solo quello che gli artisti ci raccontano, perché sono solo loro i veri custodi del messaggio o del niente che vogliono (o non vogliono) comunicare al mondo. Lasciamo che il silenzio rimanga silenzio e che le porte di cui non abbiamo le chiavi rimangano sigilli di stanze che spesso è meglio lasciare chiuse. Soprattutto, evitiamo di cercare un passepartout che possa diventare chiave di ogni possibile codice: perchè non esiste!
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do not think that it is always necessary to really understand what a work of art means. Sometimes it would be enough to just set up to feel, to look for the empathy with the meaning’s expression, so that we will not need to translate into words that underlying meaning. Contemporary art is a factory of translators of impossible codes who are trying to place themselves between us and you, often by using false keys, in order to decipher messages that sometimes do not exist, opening the doors of wrong and empty rooms which they are desperately trying to fill with fragile ornaments stolen here and there, all around this house in which all of us sooner or later enter: critique. Wishing to decipher at all costs what the artist might have wanted to communicate, sometimes makes us miss the simple and trivial pleasure to aesthetic fruition: to look, touch and enjoy the sense of perception of senses, the strength of balance, the energy that the work of art emanates and which, despite everything, invades our proxemic space. If we would stop running after, with the acceleration which is typical of our time, words and categories, we would start again living differently (and maybe slowlier) our relationship with the world of art. But we move in a context where everything has to be communicated, explained and explainable, where the instinct always has to be brought back to a function or at least to an intention. Nevertheless many artists are making efforts to create their own code, recognisable, serial, interpretable by everybody. A stylistic figure that through time could allow us to rebuild history and the reasons to a clear path that starting from the utterance of one’s own hypothesis goes through all the stages of demonstration till it acquires validity and becomes a shared view. These are approaches, ways and different codes. But this is the true richness of art: differences. Let there be more and more languages, more and more rooms to open, let’s leave art free to talk for itself and let’s tell only what the artists tell us, because only they are the real keepers of the message or of nothing that they want (or do not want) to communicate to the world. Let’s allow silence to be just silence and the doors whose keys we do not have shall remain seals of rooms that it is often best to leave locked. More importantly, let’s not look for a passepartout that could become key of every possible code: because that does not exist! Gino Fienga
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colophon con-fine n.26 - (in)comunicabilità #2. Codici. (non)comunication #2. Codes. Direttore Responsabile Editor Vincenzo Aiello Direttore Editoriale Executive Editor Gino Fienga Capo Redattore Editor in chief Matteo Bergamini Redazione Editorial Staff Veronika Aguglia, Mauro Carrera, Chiara Casarin, Silvia Conta, Cristina Fiore, Pippo Lombardo, Andrea Penzo, Luciana Ricci Aliotta Traduzioni Translations Luca Zappa redazione@con-fine.com Pubblicità Advertising Nadia Lazzarini adv@con-fine.com - cell. +39 393 1595622 Editore Publisher con-fine edizioni Via Garibaldi, 48 - 40063 Monghidoro (BO) - ITALY - tel. +39 051 655 5000 fax +39 051 0544561 Stampato presso Printed by Grafica Metelliana Via Gaudio Maiori - 84013 Cava de’ Tirreni (SA) - ITALY Distribuzione per l’Italia Distribution for Italy con-fine edizioni Via Garibaldi, 48 - 40063 Monghidoro (BO) - ITALY - tel. +39 051 655 5000 fax +39 051 0544561 Agente esclusivo per la distribuzione e abbonamenti all’estero Sole Agent for Distribution and Subscriptions Abroad A.I.E. - Agenzia Italiana di Esportazione S.p.A. Via Manzoni, 12 - 20089 ROZZANO (MI) - ITALY - Tel. 02 5753911 Fax 02 57512606 Registrazione presso il Tribunale di Bologna Registration at the court of Bologna n. 7639 dal 27/2/2006 Iscrizione al ROC n.19530 del 22/04/2010 ISSN 1827-9562 - ISBN 978-88-96427-36-1
© Copyright con-fine edizioni, Monghidoro (BO). Tutti i diritti riservati. All rights reserved. È vietata la riproduzione anche parziale di qualsiasi parte della rivista in qualsiasi forma, senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Per le illustrazioni l’editore ha ricevuto l’autorizzazione degli aventi diritto. È disponibile comunque ad assolvere i propri impegni per eventuali diritti di riproduzione qui non contemplati. You may not reproduce any part of any part of the magazine in any form without the written permission of the publisher. For illustrations the publisher has received the approval of the entitled. There is, however, to fulfill their commitments to any reproduction rights are not covered here. www.con-fine.com/artmagazine - info@con-fine.com
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Die Kleinen Kunstler riflessioni intorno a un’opera e al suo codice genetico considerations about a work and its genetic code Alberto Zanchetta
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olto spesso, i frequentatori di mercatini riescono a trovare oggetti in grado di stuzzicare la curiosità o a solleticare il senso del possesso, magari facendo leva su quella strana condizione-coincidenza che è “l’appuntamento inatteso”. Eventualità di cui esiste una mirabile testimonianza nel romanzo L’amour fou, ove si narra di quando André Breton e Alberto Giacometti erano alla ricerca di fortuiti quanto fortunosi reper[imen] ti che sapessero imporre loro «un contatto sensoriale stranamente prolungato, che ci rinviava senza tregua alla considerazione della loro concreta esistenza, e ci schiudeva anche certi prolungamenti del tutto inattesi, della loro vita». Girovagando in un marché aux puces, i due surrealisti finiscono per incappare in alcuni objet trouvés, instaurando così una sorta di reciproca “scelta elettiva” – a conferma del fatto che non sono solo le persone a scegliere, più spesso sono gli oggetti a chiamarci a sé. Benché il desiderare le cose altrui sia condannato come peccaminoso dai precetti religiosi, il libero mercato ci fornisce l’assoluzione di cui abbiamo bisogno. Pur’essendo incline alla cupidigia, io stesso ho imparato a resistere a questa (onerosa che più cattiva) abitudine, eccetto il caso di una litografia della metà dell’Ottocento intitolata Die Kleinen Kunstler, “I piccoli artisti”, realizzata da Ferdinand Piloty e Albrecht Fürchtegott Schultheiß. Pochi giorni dopo esserne entrato in possesso, mi sono lungamente interrogato sull’opera, cercando di razionalizzare i motivi di quell’impulsivo e fulmineo acquisto. A prima vista il soggetto ruota intorno a due bambini che si divertono a dipingere barba e baffi su un dipinto, ma per quanto irriverente, l’immagine nasconde molte altre insidie che mi sono ostinato ad analizzare in modo lenticolare, a partire proprio dai due pargoletti. Seppur minuta, la bambina sorregge una grande palette da pittore ove sono stati spremuti sette differenti colori, la cui tonalità degrada dal più scuro al più chiaro. Tale accorgimento denota una consapevolezza e un’abilità pittorica di cui il fratellino pare non essere sprovvisto. Abbarbicato su uno sgabello, il fanciullo impugna con destrezza un pennello, cimentandosi nelle ultime “rifiniture” di un pizzetto luciferino che ben si accorda con i lunghi e riccioluti mustacchi inflitti al dipinto. Assolutamente rimarchevole la perizia tecnica con cui l’infante mette in pratica il suo goliardico scherzo, ingerenza che trasforma questo mediocre ritratto borghese nel suo contrario, ovvero in un’opera per épater le bourgeois. Osserviamo meglio il ritratto della giovane ragazza: il volto è tondeggiante, lo sguardo leggermente svagato, la bocca sembra accennare a un timido sorriso mentre la scriminatura dei capelli rilascia sopra le spalle delle crespe e ondulate chiome. Un colletto di colore chiaro ne impreziosisce il vestito scuro, che comunque appare eccessivamente castigato rispetto alla giovialità della ragazza. A ben guardare c’è pudicizia nel suo aspetto, e forse anche nella decisione di farsi ritrarre. Il contegno
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ftentimes the flea markets goers can find objects capable of arousing the curiosity or tickling the sense of possession, maybe leveraging on that strange coincidence-condition that is the “unexpected rendezvous”. Contingency existing in an admirable evidence in the novel L’amour fou, where it is narrated that when André Breton and Alberto Giacometti were looking for accidental and lucky findings that could raise in them «a strangely extended sensory contact, that would relentlessly throw them back to the consideration of their concrete existence, and that would also unfold completely unexpected extensions, of their lives». Wandering in a marché aux puces, the two surrealists end up getting into a few objets trouvés, and so establishing a sort of mutual “elective choice” - confirming that not only are people to choose, but oftentimes objects call us. Although desiring other people’s things is condemned as being sinful by religious precepts, the open market provides us with the acquittal we need. Despite being prone to greed, I myself learnt to resist this (onerous more than bad) habit, except in the case of a midNineteenth century lithography entitled Die Kleinen Kunstler, “The little artists”, made by Ferdinand Piloty and Albrecht Fürchtegott Schultheiß. A few days after I got hold of it, I long questioned the work, trying to rationalise the reasons of this impulsive and instantaneous purchase. At first sight the subject revolves around two children having fun while they paint a beard and moustaches on a painting, but although disrespectful, the image hides many other traps that I persisted analysing in a lenticular way, starting right from the two children. Although tiny, the girl holds a big painter’s palette where seven different colours had been pressed out, their shade proceeds from the darkest one to the lightest. Such expedient indicates awareness and a pictorial ability which the little brother does not seem to lack either. Clinging on to a stool, the boy skillfully holds a brush, venturing in the last “finishing touches” of a Lucifer-like goatee that goes well with the long and curly moustaches inflicted to the painting. Absolutely remarkable the technical expertise the boy puts into practice his goliardic joke with, an interference that transforms this mediocre bourgeois portrait into its opposite, in a work capable of épater le bourgeois. Taking a better look to the young girl’s portrait: her face is round, the look slightly inattentive, the mouth shows sign of a timid smile while the parting releases on her shoulders frizzy and wavy hair. A light-coloured collar enhances the dark dress, which still appears excessively chaste compared to the girl’s joviality. At a closer look there is prudery in her appearance, and maybe even in the decision of being portrayed. The demeanour is the same one of Leonardo da Vinci’s Mona Lisa, although the hirsutism risks to make her resemble to the sneering L.H.O.O.Q. by Marcel Duchamp. Like the “little artists” of Piloty and Schultheiß, even the enfant terrible of French art delighted himself placing a sharp beard and a pair of
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pretext è lo stesso della Monnalisa di Leonardo, sennonché l’irsutismo rischia di accomunarla alla beffarda L.H.O.O.Q. di Marcel Duchamp. Come i “piccoli artisti” di Piloty e Schultheiß, anche l’enfant terrible dell’arte francese si era compiaciuto nell’apporre un’affilata barbetta e un paio di vistosi baffi su una cartolina della Gioconda; nella versione originale Duchamp li aveva scarabocchiati in modo frettoloso, nella Boîte-en-valise la riproduzione è invece molto più curata, quasi che la Monnalisa fosse per davvero affetta da una forma di ipertricosi (sulla scorta della barbuta Magdalena Ventura ritratta da Jusepe de Ribera nel 1631). Il gesto iconoclasta di Duchamp è dirompente, perché sceglie di “sfigurare” una delle opere più celebri al mondo, ma l’intento non è poi così dissimile da quello dei due fratellini che troviamo nella litografia. Oltre all’inevitabile parallelismo con Duchamp, non bisogna dimenticare L’avantgarde se rend pas (1962) di Asger Jorn, in cui l’artista si era deliziato nel deturpare con dei peli posticci i lineamenti di un dipinto acquistato in qualche mercatino, facendo poi risaltare sul fondo del quadro la scritta “L’avanguardia non si arrende”. L’allusione è rivolta in modo esplicito a Duchamp, resta però da capire se quest’ultimo abbia a sua volta preso spunto da un’altra opera. Considerando che la litografia Die Kleinen Kunstler risale alla metà dell’Ottocento, e che L.H.O.O.Q. è del 1919, potrebbe sorgere il sospetto che Duchamp potesse aver visto una di queste riproduzioni, allora molto in voga in tutta l’Europa. Tuttavia: Jorn è l’unico che si arrischia per davvero a deturpare un’opera preesistente, Duchamp si era candidamente limitato a differire il suo gesto, mentre Piloty e Schultheiß l’avevano solo immaginato. Prima che il sapido “delitto” sia compiuto in modo inequivocabile, trascorre almeno un secolo tra l’una e l’altra opera. La sontuosa modanatura del ritratto ci esorta a considerare il dipinto come un’opera perfettamente compiuta, ma anziché essere appeso a una parete lo vediamo languire su un cavalletto (difficilmente potrebbero avercelo appoggiato i due fratellini, ma se così fosse la loro impresa sarebbe ancor più rimarchevole.) Ammesso e concesso che non sia un quadro in lavorazione, è stato disposto sul cavalletto per essere mostrato a qualcuno? O forse abbisogna di un restauro? In quest’ultimo caso spetterebbe ai due bambini il compito di apporre il loro magistrale ritocco finale. In realtà il ritratto non è l’unica opera pittorica che si trova nella stanza. Nella parte sinistra, avvolta in una semioscurità, possiamo intravedere una cornice inchiodata al muro. Nonostante sia difficile penetrare con lo sguardo la sua superficie granulosa, all’interno della cornice si riescono a scorgere delle ombre – sembrerebbero le sagome di alcune figure oppure il profilo di un paesaggio, ma è cosa ardua stabilirlo persino con una lente d’ingrandimento. Sospendendo il giudizio e la nostra facoltà visiva, potremmo azzardare un paragone con i Black paintings di Ad Reinhardt e di Frank Stella, pitture
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gaudy moustaches on a Mona Lisa postcard; in the original version Duchamp had doodled them hastily, in the Boîte-en-valise instead the reproduction is much more careful, almost as if Mona Lisa would really be affected by a form of hypertrichosis (on the model of the bearded Magdalena Ventura portrayed by Jusepe de Ribera in 1631). Duchamp’s iconoclastic act is shattering, because he chooses to “disfigure” one of the world’s most famous paintings, but the aim is not too unlike the one of the two siblings of the lithography. Beyond the inevitable parallelism with Duchamp, one should not forget about Asger Jorn’s L’avantgarde se rend pas (1962), in which the artist delighted himself by spoiling with fake hairs the features of a painting bought in some market, hightlighting on the painting’s background the line “Avantgarde does not surrender”. The allusion is clearly addressed to Duchamp, it remains to be seen if the latter had himself taken inspiration from another work. Considering that the lithography Die Kleinen Kunstler dates back to the mid-Nineteenth century, and that L.H.O.O.Q. is from 1919, one could suspect that Duchamp had seen one of these copies, very popular in Europe back then. However: Jorn is the only one that really risked and spoilt an already existing painting, Duchamp had only innocently differed his act, while Piloty and Schultheiß had only imagined that. Before the savory “offense” was unequivocally done, at least one century passed by between one work and the other. The sumptuous molding of the portrait encourages us to consider the painting as a perfectly accomplished work, but instead of hanging on a wall we see it languish on an easel (it hardly could have been placed there by the siblings, but if that was so their achievement would have been even more remarkable). Supposing that that is not an ongoing painting, was it placed on the easel in order to be shown to somebody? Or maybe it needs restoration? In this case it would be up to the children to add their masterly final touch. Actually the portrait is not the only painting in the room. On the left side, shrouded in the semi-darkness, we can catch a glimpse of a frame nailed to the wall. Although it would be difficult to penetrate with a look its lumpy surface, inside the frame it is possible to notice some shadows - they look like a few people’s profiles or the contour of a landscape, but it is hard to ascertain even with a magnifier. Suspending our judgment and our vision faculty, we could venture a comparison with the Black paintings by Ad Reinhardt and Frank Stella, i.e. paintings that represent the “nearlynothing”. In the same way, Piloty and Schultheiß’ frame does not just restrict space, it does not containt the work, but it gives sense to that emptiness. Thus a reversibility relation exists between the perimetric and inner form: it is the first one that generates the second, not the other way around. If the object involved would not be painted, it could then surely be a mirror (which does not mean to show the reflexed image but the surface itself of the mirror); and so keeping us at
cioè che rappresentano il “quasi-nulla”. Allo stesso modo, la cornice di Piloty e Schultheiß non si limita a circoscrivere lo spazio, non contiene l’opera, ma dà un senso a quel vuoto. Esiste quindi un rapporto di reversibilità tra la forma perimetrale e la forma interna: è la prima a generare la seconda, non viceversa. Se l’oggetto in questione non fosse un dipinto, sarebbe sicuramente uno specchio (che non intende far vedere l’immagine riflessa ma la superficie stessa dello specchio); tenendoci quindi a debita distanza dal grado zero della pittura analitica, la coercizione dello sguardo ci obbliga ad accettare questo quadro come un oggetto disincarnato dall’oscurità. Scorrendo lo sguardo sull’arredamento della stanza siamo indotti a identificarlo come l’atelier di un pittore, avvalorando così l’anomala presenza del ritratto sul cavalletto, e in particolar modo del piccolo disegno che scorgiamo sul lato sinistro dell’immagine. Il foglio non è incorniciato alla maniera degli altri due dipinti, bensì è fissato direttamente alla parete. Se si fosse trovato in un salotto o in una qualsiasi altra stanza, non v’è dubbio che sarebbe stato messo sotto vetro; soltanto lo studio di un pittore avrebbe acconsentito a una tale sciatteria, soprattutto a causa di quell’angolo che si arriccia essendo sprovvisto del quarto chiodo. Il disegno è troppo piccolo per poterne stabilire il soggetto con precisione, ma dai pochi tratti che si intravedono parrebbe una figura che indossa un bizzarro copricapo. Basandoci su questi scarsi e scarni segni verrebbe da pensare, anche se solo vagamente, alla Marie-Antoinette conduite au suplice (1793) di Jacques-Louis David, il quale aveva immortalato, con un tratto veloce e aspro, l’altera regina poco prima della sua decapitazione. Analogia alquanto singolare dato che il disegno di David, eseguito a penna, e il ready-made di Duchamp, rettificato con la matita, si trovano entrambi al Musée du Louvre. Caracollando di suggestione in suggestione, non deve sfuggire alla nostra attenzione il dettaglio inserito tra il dipinto sul cavalletto e il tavolo con il vaso di fiori. Non sembra una tela da pittore quella su cui ricade la tenda? La punzonatura sui lati e la rigida forma rettangolare ne convaliderebbero l’ipotesi, sfortunatamente per noi si tratta dello schienale di una sedia. Cionondimeno, è alquanto curioso il contrasto tra la tenda floscia e la tela [del quadro] tirata sul telaio. Esaminiamo adesso il tavolo posto sulla destra: ricoperto da un tessuto finemente lavorato, vi è stato appoggiato un vaso di fiori che contiene un rado, quasi sciatto bouquet. Affastellata in modo grossolano, la composizione floreale è tutt’altro che decorativa, più verosimilmente un artista potrebbe averla improvvisata per poi dipingerla. Ma niente a che vedere con le rigogliose e generose nature morte di Brueghel o di Bosschaert, la similitudine è possibile soltanto con certe opere di Cornelis de Heem, in cui i fiori si flettono verso il basso, annunciando il loro degrado biologico. Che il bouquet sia un artificio pittorico, anziché una velleità domestica, ce lo sussurrano in gran segreto le brocche, i calici e le scatole che languono sull’armadio del
distance from the zero level of analytical painting, the constraint of the eye forces us to accept this painting as an object disembodied from obscurity. Scrolling the look on the room’s furnishing we are induced to identify it as a painter’s workshop, thus confirming the presence of the painting on the easel, and especially of the small drawing that we notice on the left side of the picture. The paper is not framed like the other two paintings shown, instead it is directly hung on the wall. Hanging in a sitting room or in any other room, with no doubt it would have been placed under a layer of glass; only a painter’s workshop had allowed such slovenliness, especially due to the curling of that corner without the fourth nail. The drawing is too small in order to guess the subject with precision, but from the few visible traits it would look like a person wearing a bizarre hat. Relying on those poor and meager marks one would think, even if only vaguely, to Marie-Antoinette conduite au suplice (1793) by Jacques-Louis David, who had portrayed, with rapid and sharp trait, the lofty queen just before her beheading. Quite a curious analogy considering that David’s drawing, drawn in pen, and Duchamp’s ready-made, adjusted by pencil, are both at the Musée du Louvre. Prancing from one suggestion to the other, it should not escape our attention the detail inserted between the painting on the easel and table with a vase of flowers. Does it not seem like a painter’s canvas the one the curtain falls on? The punching on the sides and its rigid rectangular shape would validate the hypothesis, unfortunately for us it is the backrest of a chair. Nevertheless, the contrast between the floppy curtain and the [painting’s] canvas drawn on the frame is rather curious. Examining now the table on the right side: covered by a finely crafted cloth, a vase of flowers containing a sparse, almost shabby bouquet, was placed. Roughly bundled, the floral arrangement is all but decorative, more likely an artist could have improvised it in order to then paint it. Nothing like the luxuriant and generous still lifes by Brueghel or Bosschaert, the simile is only possible with certain works by Cornelis de Heem, in which flowers bend downwards, announcing their biological decay. That the bouquet is just a pictorial artifice, instead of a domestic velleity, is secretly whispered by the jars, chalices and boxes that languish on the cupboard in the background. Arranged in line, following a scrupulous order, the containers are completely empty, without any use except the purely decorative one. One would believe that some scene objects were involved, interchangeable with the vase on the table, perfect for en pose still lifes. The precise, diligent attitude along the cupboard’s edge seems to decant its smoothness and sense of abandonment, establishing an unintentional comparison with Giorgio Morandi’s compositions. Yet it is not towards the Emilian master’s paintings that we have to turn our eyes, but to his graphic works, whose dense hatch agrees with the minuteness of Piloty and Schultheiß. In Morandi’s engravings, as
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pretext
Ferdinand Piloty Albrecht Furchtegott Schultheis Die Kleinen Kunstler cm16,8x15 1850 litografia
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fondo. Disposti in fila, secondo un ordine scrupoloso, i contenitori sono completamente vuoti, privi cioè di qualsivoglia utilità che non sia puramente esornativa. Verrebbe voglia di credere si tratti di oggetti di scena, intercambiabili con il vaso sul tavolo, perfetti per delle nature en pose. L’assetto preciso, diligente, lungo il cornicione dell’armadio pare decantarne la politezza e il senso di abbandono, stabilendo un involontario paragone con le composizioni di Giorgio Morandi. Eppure, non è ai dipinti del maestro emiliano che dobbiamo rivolgere il nostro sguardo, quanto semmai alle sue opere grafiche, il cui fitto tratteggio si accorda con la minuziosità di Piloty e Schultheiß. Nelle incisioni di Morandi, così come nella litografia di Die Kleinen Kunstler, le bottiglie agiscono e recitano la scena, disponendosi intorno a uno spazio – raccolto, giammai raccontato – che inclina all’intimismo. Infine, rimane un’ultima considerazione da fare. Impegnati nella loro perfida creatività, i “piccoli artisti” si sono messi al lavoro trascurando i giocattoli che stavano trascinando nella stanza. Il carretto con le bambole di pezza giace ora incustodito; una delle due bambole è riversa a terra, l’altra si abbandona all’indietro, come fosse in preda alla disperazione. Ma qual è il motivo della sua afflizione? Forse l’aver visto la propria controparte sbalzata fuori dal carretto? Oppure inorridisce di fronte allo scempio cagionato dai bambini? E se le sue braccia facessero più semplicemente segno di resa di fronte ai guai cagionati dall’età della puerizia? Ciò che [ci] sconcerta è l’analogia tra il pupazzo che si sbraccia e l’uomo che Francisco Goya dipinse nel suo celebre Il tres de Mayo (1814), ove vediamo le truppe napoleoniche giustiziare un gruppo di patrioti spagnoli. Assorte in un’ultima, estrema preghiera, le figure si stringono in se stesse, a eccezione di quest’unico uomo che con il proprio corpo fa da scudo agli altri. La postura è quella tipica del Cristo immolato sul Golgota, ma in questo particolare frangente il martirio avviene per mezzo della fucilazione… cruciforme è casomai il listello che permette al carro-giocattolo di essere trainato, simbolo involontario della Passio Christi, e più in generale della Passio hominis. Quando contrattai sull’acquisto della litografia di Piloty e Schultheiß non pensavo di trovarvi suggestioni o di riconoscervi vaghe concordanze con la storia dell’arte, tantomeno intuivo la possibilità di immaginare altre storie oltre a quella rappresentata. L’unica associazione che avevo fatto era con Duchamp, sennonché era stato proprio lui a dire che «lo spettatore fa l’opera», affermazione che mi trova particolarmente concorde a fronte delle divagazioni che l’immagine mi ha (suo malgrado) suggerito. Senza volerlo, mi sono ritrovato nella stessa situazione descritta da Ortega y Gasset nell’incipit della sua Meditazione sulla cornice, ossia: non soltanto i capolavori o i grandi nomi riescono a infiammare gli animi dei critici, perché «sono talmente meravigliose tutte le cose di questo mondo! Ci sono tante cose da dire [e da scoprire, aggiungiamo noi] sulla più piccola di esse!».
well as in the Die Kleinen Kunstler lithography, bottles act and play on the scene, arranging themselves around a space - told, or better narrated - which tends to intimacy. Eventually, only one last consideration remains to be done. Engaged in their malicious creativity, the “little artists” got to work neglecting the toys they were dragging in the room. The cart with the rag dolls lies now unattended; one of the two dolls has fallen down, the other one lies backwards, as if in despair. But what is the reason of her despair? Maybe having seen her counterpart knocked out of the cart? Or maybe she is horrified by the ruin caused by the children? And what if her arms would simply sign surrender facing the damages of childhood? What baffles us is the analogy between the doll waving her arms and the man Francisco Goya painted in his famous El tres de Mayo (1814), where one sees Napoleon’s troops executing a group of Spanish patriots. Absorbed in a last, extreme prayer, the characters gather together, except one last man who shields the others with his body. The posture is the typical one of Christ on the Golgotha, but in this particular situation the martyrdom occurs by shooting… if anything, cross-like is the lath the toycart is pulled with, unintentional symbol of Passio Christi, and more in general of Passio hominis. When I bargained the purchase of Piloty and Schultheiß’ lithography I did not think about finding any suggestions or recognise vague accordances with art history, nor guessed I the possibility to imagine other stories beyond the represented one. The only association I made was with Duchamp, although it was right him saying that «the viewer makes the work of art», statement that makes me agree considering the distractions that the picture had (against its will) suggested. Unwittingly, I found myself in the same situation described by Ortega y Gasset in the beginning of his Meditations on the frame, i.e.: not only masterpieces or great names can inflame the critics’ minds, because «all things in this world are so beautiful! There are many things to say [and to discover, we might add] about the tiniest of them!».
Drammaturgia quantistica. Un nuovo codice per un nuovo teatro. Quantum dramaturgy. A new code for a new theater. Dialogo fra Dialogue between Silvia Conta & Antonio C茅sar Mor贸n
inter view Silvia Conta: Drammaturgo, regista e ricercatore universitario presso l’Università di Granada, hai fondato un nuovo teatro basato sui principi della fisica quantistica. Da dove è nata la necessità di una nuova forma teatrale?
Silvia Conta: You are a playwright, a director and researcher at the University of Granada. You have established a new form of theater based on the principles of Quantum physics. Where comes from the necessity of a new theater?
Antonio César Morón: Dopo aver concluso il mio dottorato in teoria della Letteratura e Letteratura Comparata all’Università di Granada, in Spagna, sono entrato in un gruppo di ricerca dell’Università di Tolosa, in Francia, che stava studiando la relazione tra la messa in scena e la meccanica quantistica. Secondo la teoria elaborata da questi ricercatori, ogni opera teatrale può essere studiata e rappresentata attraverso una prospettiva di tipo meccanico-quantistico. Qui si inserisce il mio differente punto di vista poiché, secondo la mia opinione, tentare di analizzare l’opera di autori classici, come ad esempio Shakespeare, attraverso i principi della meccanica quantistica è un controsenso, semplicemente perché la drammaturgia shakespeariana non è stata creata secondo questa prospettiva ed è, quindi, molto lontana da essa. Ho così pensato che per impostare un’autentica mise en scène quantistica fosse necessario partire dalla drammaturgia stessa perché il testo è il solo elemento del teatro in cui è possibile trasferire dalla fisica al teatro le leggi e la prospettiva sul reale che la meccanica quantistica presuppone. Provare a fare del teatro quantistico senza un testo preparato secondo questo orientamento equivale meramente a traslare la teoria quantistica in metafora, ma non a realizzare del teatro quantistico. Non è possibile misurare il corpo e il movimento degli attori attraverso le leggi dei quanti ma solo attraverso la tradizionale fisica newtoniana. In seguito a queste riflessioni ho iniziato ad indagare la possibilità di creare un nuovo codice per i testi drammaturgici. Per arrivare a ciò ho studiato i fondamenti delle leggi della meccanica quantistica in relazione a tempo, spazio, forza, velocità… e ho creato delle regole e dei concetti per generare una drammaturgia quantistica. Ho illustrato questa teoria nel volume La dramaturgia cuántica. Teoría y práctica (2009), e poi l’ho declinata in Estado antimateria. Pentarquía de dramaturgia cuántica (2012), un libro che contiene cinque opere teatrali di drammaturgia quantistica [entrambi i volumi inediti in Italia, ndc]. Ho deciso di scrivere non solo la teoria, ma anche la pratica, perché ho voluto mostrare come sia possibile lavorare con questo nuovo codice. Ora sono molto soddisfatto quando differenti scrittori di teatro mi dicono che stanno applicando i principi della drammaturgia quantistica per scrivere i loro pezzi e che questo codice li aiuta a creare storie differenti o situazioni all’interno dei loro testi che risultavano difficoltosi utilizzando la drammaturgia tradizionale.
Antonio César Morón: As you said as well, after I finished my PhD in Theory of Literature and Comparative Literature, I went to the University of Toulouse in France with a research group which was studying the relationship between mise en scène and Quantum mechanics. They believed that any Play could be studied and staged under a Quantum mechanics perspective. And there my different point of view started because in my opinion to try to consider Playwrights as Shakespeare -for examplefrom Quantum mechanics theory represents a big problem, only because the dramaturgy of Shakespeare it’s not made under this perspective and it’s really far from that. So I thought that in order to create an authentic Quantum mise en scène are needs to start from dramaturgy, because the text is the only element of theater where it’s possible to translate the laws and perspectives that Quantum mechanics presupposes. To try to make a Quantum theater without a text prepared for that, will mean only to translate Quantum theory through metaphor, but not create Quantum Theater. It is not feasible to measure the body and the movement of the actors under the laws of Quantum particles but under a traditional Newton physics. So, I started to research about the possibility of making a new code drama text. For that, I studied fundamentals of Quantum mechanics laws and perspectives about time, space, force, speed… and I created drama laws and concepts to generate a Quantum dramaturgy. I set this theory in a book called La dramaturgia cuántica. Teoría y práctica, published in 2009. Then, in 2012, I published Estado antimateria. Pentarquía de dramaturgia cuántica, a book that contains five Plays of Quantum dramaturgy [both unpublished in Italy (editor’s note)]. I decided to make not only the theory but also to put it in practice, because I wanted to demonstrate it was possible to work with this new code. Now, I feel very happy when different Playwrights tell me that they are using the Quantum dramaturgy to make their Plays and this code is helping them to create different stories or situations in their Plays in which they had problems using a traditional dramaturgy.
SC: La teoria esposta in La dramaturgia cuántica. Teoría
SC: The theory you explained in La dramaturgia cuántica. Teoría y práctica has been catching a deep international interest. In what it is that your theater is different from the traditional one? You said that this theory is based on a new script shape, a new way of acting for the actors, a new approach by the director and that it leads to a new relationship with the public.
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inter view y práctica ha suscitato un profondo interesse a livello internazionale. In che cosa si differenzia - di fatto - dalle forme teatrali precedenti? Hai detto che questa teoria prevede una differente struttura del testo, un diverso modo di agire degli attori, un diverso approccio del regista e giunge ad una differente reazione del pubblico. Ci puoi spiegare questi aspetti? Possiamo partire dai principi fondamentali per la strutturazione della trama e dei personaggi che hai esposto in questo volume? ACM: La teoria fondamentale di questo libro può essere riassunta in tre principi concernenti la costruzione del plot e dei personaggi: a) La rottura del principio di continuità. Esso si basa sulle ricerche del fisico tedesco Max Planck, che scoprì che l’emissione o l’assorbimento dell’energia da parte della materia non avviene non in modo continuo ma secondo multipli di un numero che egli chiamò “quanto di energia”. Questo infrange il concetto di continuità della fisica tradizionale. Nella drammaturgia tradizionale l’azione si basa sulla continuità e questa nuova drammaturgia potrebbe permettere di alterare l’ordine degli eventi nell’intreccio ma non di mantenere la trama come continuità. La frattura con la possibilità di continuità per il drammaturgo, conseguentemente, espone la trama della storia alla casualità. Di conseguenza, il lettore non può mai individuare un’azione lineare. b) La cancellazione della velocità della luce come limite e logica. Un esperimento condotto nel 1982 presso la Sorbona di Parigi dal fisico Alain Aspect dimostra che le particelle subatomiche possono scambiarsi informazioni ad una velocità superiore a quella della luce. Questo contraddice la teoria di Einstein che pone la luce come costante insuperabile. Lo scambio di informazioni ad una velocità superiore a quella della luce implica che i personaggi non debbano rispondere al quesito “e io so questo perché…” al momento della presa di coscienza delle informazioni, ma c’è un infinito scambio di informazioni tra i personaggi. In ogni testo di drammaturgia tradizionale i personaggi ricevono informazioni solo in determinati momenti e sempre con limiti posti dalla causalità. Nella drammaturgia quantistica i personaggi dovrebbero conoscere tutte le informazioni in merito agli altri personaggi e al resto della storia, come se le informazioni non avessero un’origine. c) La dualità delle particelle-onda. Uno dei fenomeni che più attrae l’attenzione della fisica quantistica è il duplice comportamento delle particelle subatomiche: al momento della loro misurazione talvolta esse si comportano come onde e talvolta come particelle. Proviamo ad immaginare cosa potrebbe significare costruire un personaggio soggetto a questa prospettiva di dualità. Sarebbe necessario annullare il concetto di identità, che equivarrebbe ad infrangere il fondamento stesso della psicologia individuale. La prima e basilare rottura che si genera nella drammaturgia quantistica è, infatti, quella
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Can you please explain these points? Could we start from the basic principles of plot and character that you illustrated in your book? ACM: The fundamental theory of this book can be resumed in attention to three principles affecting the construction of the plot and the characters. a) Break with the principle of continuity. This is based in the research of the German physicist Max Planck, who discovered that emission or absorption of the energy doesn’t happen continuously but as multiples of a number he called ‘Quantum of energy’. So, this is contradicting the idea of continuity of traditional physics. In traditional dramaturgy the action has continuity and this dramaturgy could allow alter the order of events in the plot but not the plot as continuity. The break with the possibility of continuity by the Playwright exposes us to a plot of the story subject to randomness. So the reader could not establish a lineal action anytime. b) Cancellation of the speed of light as a limit and logic. An experiment carried out in 1982 in the University Sorbonne of Paris by the physicist Alain Aspect demonstrated that subatomic particles can exchange information at a speed exceeding the one of the light. This contradicts the theory of Einstein that posits light as an unsurpassable constant. The exchange of information at a speed exceeding the light speed implies that the characters don’t have to give the answer of and I know that because, at the time of knowing information, but there is an infinite exchange of information between them. In any text of traditional dramaturgy, characters get information only at certain times and always within limits set by causality. In Quantum dramaturgy characters should know all the information about the rest of characters and the same with respect to the story, as if the information did not have an origin. c) Wave-particle duality. One of the phenomena that most attracts attention to Quantum physicists is the dual behavior of subatomic particles; many times they behave as waves and many other times as particles, at the time of its measurement. Imagine what it would be to build a character subject to this perspective of duality. We should be breaking off with the identity, that would break with the establishment of an individual psychology. The first and fundamental break that is produced in Quantum dramaturgy is the traditional consideration of 1 character = 1 individual = 1 psychology. The character would become a body by which countless voices would be enunciated, as a continent that could be filled with different contents. So, it’s breaking with the logic of sense. Even the text can appear as a mass of energy, without the indication of the character who is saying it. Then it would be the observer, reader or director the one who would have to decide about the orientation of the character’s
della tradizionale considerazione che 1 personaggio = 1 individuo = 1 psicologia. Cancellando questa equazione ciascun personaggio diventa un corpo attraverso cui innumerevoli voci sono pronunciate, come un contenitore che può essere riempito con contenuti differenti. Ciò contrasta con la logica del senso. Il testo diviene una massa di energia, senza l’indicazione del carattere che la pronuncia, quindi l’osservatore, il lettore o il regista divengono coloro che devono decidere in merito all’orientamento delle parole del personaggio in ogni momento, seguendo una delle prospettive cognitive della meccanica quantistica secondo cui, al momento della “misurazione” – ovvero quando entrano in contatto con le parole - l’osservatore, il lettore o il regista modificano la realtà attraverso la loro osservazione. SC: Potresti portare un esempio di testo per il teatro quantistico? ACM: Una fittissima emicrania fende la tua speranza. Quanto fa male a colui che sente di non essere il padrone della propria vita. Quale filo di silenzio e quale repulsione prima delle tetre ore dell’agonia. Rotta all’alloro distante. Rotta all’alloro che ho ancora tra le mie labbra. Ore e nessuna memoria. Quale contagio di strade e principesse. Mi immagino riverso su una linea metallica coperta di fessure. E in ogni buco un rospo velenoso. E in ogni rospo velenoso un albero appuntito. Se torna il silenzio, noi ritireremo questi elefanti nudi. E i suoi ricordi? Venne a cercarmi tre volte, tre volte pieno di baci. Sono qui, non sono mai andati via. (Traduzione da Dámada, in Antonio César Morón, Estado antimateria. Pentarquía de dramaturgia cuántica, p.89.) Questo è un ammasso di parole senza nessun particolare personaggio che le pronunci. Sono il lettore, il regista o lo spettatore a dover assegnare al personaggio e alle parole una loro entità, nonché suddividere le parti del testo tra i personaggi. Ciò è strettamente correlato ad un altro dei principi fondamentali della meccanica quantistica di cui sopra: la modificazione della realtà da parte dell’osservatore. Il testo quantistico è lacunoso in merito alle indicazioni per la rappresentazione, perché esse limitano l’azione e la comprensione dei personaggi.
words in each moment, following one of the cognitive perspectives of Quantum mechanics according to which, at the moment of measurement, is she/he who modifies the reality through his observation. SC: Could you please give us an example of a Quantum dramaturgy text? ACM: A huge migraine cracks your hope. How much hurts the one who feels is not the owner of his life. What a strand of silence and what a revulsion before of the murky hours of agony. Heading to the distant laurel. Heading to the distant laurel that I still have between my lips. Hours and no memories. What a contagion of routes and princesses. I imagine myself dumped in a metallic line covered of slots. And in each slot a poisonous toad. And in each poisonous toad a pointed tree. If the silence comes back, we will withdraw those naked elephants. And their memories? Three times he came looking for me, three times full of kisses. They are here, they never left. (Translation from Dámada, in Antonio César Morón Estado antimateria. Pentarquía de dramaturgia cuántica, p.89.) This is a mass of words without any particular character emitting them. It is the reader, the director or the spectator the one who has to decide and give to the characters their entity to these words and distribute the text parts among the characters. This is closely related to another of the fundamental principles of the Quantum mechanics: the modification of reality by the observer. The Quantum drama lacks stage directions, because these are limiting the action and the understanding of the characters. Stage directions limit the randomness to which Quantum measurement is subjected. They also limit the interpretation and the modification of reality by the observer. SC: What does it means that the spectator modifies the reality through the observation? ACM: The spectator of this kind of dramaturgy is faced with a paradox that she/he resolves in two successive moments. The paradox is to seek a logical
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inter view Le indicazioni di scena limitano la casualità a cui la misurazione quantistica è soggetta. Esse inoltre limitano l’interpretazione e la modificazione della realtà da parte dell’osservatore. SC: Cosa significa che l’osservatore modifica la realtà attraverso l’osservazione? ACM: Lo spettatore di questo tipo di teatro si trova di fronte ad un paradosso che egli stesso risolve in due fasi successive. Il paradosso sta nel cercare una lettura logica all’interno di un teatro che annulla i limiti della logica stessa. I due momenti in cui lo spettatore fa esperienza in merito a questo paradosso possono essere definiti in relazione a due possibile vie percettive. È possibile individuare una via somatica e una via razionale. La prima si verifica mentre lo spettacolo basato sulla drammaturgia quantistica è in corso, la seconda avviene dopo la sua conclusione. La prima richiede un’accettazione obbligatoria, mentre l’altra una ricerca necessaria. L’ermeneutica dello spettacolo bastato sulla drammaturgia quantistica è soggetta alla casualità del primo momento: la casualità della via somatica. Tale ermeneutica diviene un “salvataggio” in senso casuale. Ciò implica l’ineludibile accettazione del fatto che non sarà mai possibile essere certi, come spettatori, dell’interpretazione razionale di questo genere di spettacoli, perché essi non possono essere contemplati ma solo esperiti. L’incertezza cattura lo spettatore in quanto tale e il corpo trattiene in sè questa esperienza come un segreto. SC: In cosa si differenzia l’approccio degli attori? ACM: In questo momento sto lavorando a diversi concetti che possono aiutare l’attore nella sua preparazione per interpretare la drammaturgia quantistica. Chiamo questo metodo “memoria emozionale distanziata e multipla”. Il primo e più importante concetto che l’attore di drammaturgia quantistica deve conoscere è quello del transit. Il transit presuppone una potenziale azione senza limiti. Ciò significa che l’impulso dell’attore non ha un corso predefinito perché ciò non è determinato da una circostanza lineare. Il transit soggioga l’attore ad un caos spazio-temporale e ad uno slittamento psicologico che rende impossibile la continuità di una costruzione lineare dell’azione del personaggio, e lo stesso avviene per la trama. La concezione circolare dei personaggi nella drammaturgia quantistica è particolarmente complesso a causa della sua molteplicità: il personaggio, infatti, in ogni intervento modifica le propriecredenziali. L’attore deve accettare il transit e rompere con la logica tradizionale dell’impulso e dell’emozione causali. L’interpretazione dell’attore nella drammaturgia quantistica cancella il processo di preparazione emotiva. Quindi non è presente un’origine da cui
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comprehension inside a dramaturgy that is breaking the limits of the logic. The two moments the spectator experience with regard to this paradox could be defined in relation to the two possible perceptive ways. We should find a somatic way and a rational way. The first one comes while the spectacle based on Quantum dramaturgy is happening; the second one comes when the spectacle has happened. One of these supposes an obligatory accepting; the other a necessary search. The hermeneutics of the spectacle based on Quantum dramaturgy is subject to randomness of the first moment: the random of the somatic way. This hermeneutics becomes a rescue in a randomness way. This implies the ineludible acceptation that we’ll never be certain, as spectators, of the rational interpretation of this kind of spectacles, because these can’t be contemplated but can be experimented. The uncertainty is capturing us as a viewers and it’s the body that keeps inside this experience like a secret. SC: In what is different the approach of the actors? ACM: I’m working now in different concepts that can help the actor for his preparation to interpret Quantum dramaturgy. I call this method a distanced and multiple emotional memory. The first and most important concept the actor of Quantum dramaturgy must know is the one of transit. The transit supposes a potential action without limits. That means the impulse of the actor doesn’t have a fixed course because this isn’t determined by a lineal circumstance. The transit subjects the actor to a spatial-temporal chaos and to a psychological shift that makes impossible the continuity of lineal construction of the character’s action and the same with the story. The circular conception of the character in Quantum dramaturgy is especially complex because of its multiplicity. In fact the character in each intervention is changing her/his circumstances. The actor must accept the transit and break with the traditional logic of the causal impulse and emotion. The interpretation of the actor in Quantum dramaturgy is erasing the emotional preparation process. So there is not an origin from where to start and continue generating a form moment to moment inside the interpretation, but the appearing and the disappearing of an emotion on stage is a swift. SC: Quantum dramaturgy is your most innovative and famous contribution to theater, but your whole body of works includes a wider approach. Where from your major influences are coming? AMC: It’s true my more recognized contribution to the dramaturgy is the Quantum theory. I have given conferences and workshops at places as prestigious as the University of Toulouse, the CUNY - The City University of New York - Graduate Center, and the
iniziare e continuare a generare una forma attimo dopo attimo all’interno dell’interpretazione, ma l’apparire e lo scomparire di un’emozione sul palcoscenico sono rapidi. SC: La drammaturgia quantistica è il tuo contributo più innovativo e noto al teatro, tuttavia la tua intera produzione comprende uno spettro più ampio. Da dove derivano la tue maggiori influenze? ACM: È vero che il mio contributo alla drammaturgia più riconosciuto è quello relativo alla teoria quanti-stica. Su esso ho fatto conferenze e workshop in contesti prestigiosi come l’Università di Tolosa, il Graduate Center della CUNY – The City University of New York e la New York New School. Diversi pezzi di drammaturgia quantistica sono stati rappresentati da diverse compagnie in Spagna e Stati Uniti. Inoltre, dopo il mio periodo di ricerca a New York nel 2011, ho analizzato l’influenza del teatro psicologico europeo sul teatro realista statunitense. Amo lavorare in diversi modi sulla drammaturgia. Il mio ultimo libro - apparso recentemente - Monólogos con maniquí è costituito da cinque monologhi in cui indago la profondità della psicologia umana in merito a ciò che realmente sappiamo di essere ma seppelliamo dentro la nostra mente perché odiamo questo aspetto di noi stessi. Uno di questi monologhi - Herencia de la desidia - è stato messo in scena recentemente alla Casa de la Cultura Navarrete di Manhattan per la regia di Walter Ventosilla e interpretato da Xiomara Cintrón. Penso di avere una tendenza verso il teatro grottesco, influenzato soprattutto da movimenti quali l’Espressionismo e il Teatro dell’Assurdo. Ne sono due esempi El metal y la carne, una trilogia di tragedie sul tema del traffico di donne, e Retórica del sueño de poder, una trilogia di commedie sul rapporto tra il potere e l’essenza umana [entrambi inediti in Italia, ndc]. Considero la drammaturgia una via d’accesso alla natura umana, alla sua realtà psicologica e sociale per vedere come entrambe interagiscono e mostrano contraddizioni. Gli esseri umani pensano di conoscere se stessi, ma ogni giorno essi scoprono quanto sono distanti da questa conoscenza. Penso che la realtà sia sempre nascosta. La principale causa di ciò è che tutti noi, nelle differenti società, cresciamo imparando a mostrare una maschera agli altri. E questa maschera ci ricopre ogni giorno al punto che abbiamo scordato la via per vivere senza di essa. In questo modo finiamo per mostrare questa maschera persino a noi stessi. Penso che la drammaturgia possa sempre aiutare gli esseri umani a guardare dentro loro stessi, attraverso le situazioni che i personaggi del teatro mostrano. Le maschere dei personaggi contribuiscono a rimuovere la nostra maschera.
New York New School. Various Plays of Quantum dramaturgy have been staged by different groups in Spain and USA. Moreover, after my stay for research in New York, I explored the realism theater of USA but under the influence of European psychological theater. But I really like to work in different ways with dramaturgy. My last and recently published book, Monólogos con maniquí is constituted by five monologue Plays where I explore the depth of human psychology, something like what we really are but we bury in our mind because we hate that about ourselves. One of the plays in this book - Herencia de la desidia – was recently showed in the Casa de la Cultura Navarrete in Manhattan, directed by Walter Ventosilla and interpreted by Xiomara Cintrón. the grotesque theater, influenced fundamentally by movements like the Expressionism and the Absurd Theatre. In this sense, I have published books completely different from the Quantum dramaturgy. I would like to highlight two of them: El metal y la carne - a trilogy of tragedies about the theme of trafficking women and Retórica del sueño de poder - a trilogy of comedies about the relationship between power domination and the human being - [both unpublished in Italy (editor’s note)]. I consider dramaturgy a way to access the nature of the human being, its psychological reality and its social reality in order to see how both of them are interacting and showing contradictions. Human beings consider that they know their self; but every day human beings discover how far they are from this knowledge. I think that reality is always hidden. The main cause of it is that all of us, in our different societies, grow up learning to show a mask to the others. And this mask is dressing us as much everyday that we have forgotten the way to leave it out. So finally we are showing this mask even to our self. I think dramaturgy can always help human beings to look into their self by the action and the circumstances that characters of theater are showing. Characters’ masks are contributing to remove our own mask.
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Codici. Codes.
p a s s e uArnaldo rs Pomodoro
Un viaggio nei segni dell’uomo. A journey into man’s signs.
Gino Fienga
passeurs Previous page Arnaldo Pomodoro Continuum X bronzo / bronze cm 80x198x35 2010 (Photo Dario Tettamanzi)
Arnaldo Pomodoro Rotativa di Babilonia bronzo / bronze ø cm 150x40 1991 (Photo Carlo Orsi)
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l discorso sul significato dei segni che compongono il Codice Pomodoro è una lettura che si srotola lentamente oltre il confine della pura percezione. Spesso si sono trovati i riferimenti arcaici della formascrittura di Arnaldo Pomodoro, cercando similitudini nella tradizione cuneiforme o, comunque, in quel lungo lavoro ‘a togliere’ di scalpellini che hanno lasciato alla storia narrazioni in pietra, racconti e storie di uomini e tempi lontani da noi. Sicuramente c’è questa suggestione: una nostalgia che attraversa il lavoro dell’artista nella volontà di mettere in relazione il mondo arcaico con un contemporaneo e futuribile matrix. Un linguaggio misterioso e remoto di cui si è persa la capacità interpretativa, che può però diventare sistema comunicativo universale del mondo tecnologico che verrà. È proprio una prima lettura estetica che trasmette allo spettatore sensazioni che vanno a scavare nel profondo, risvegliando idiomi simbolici che ancora fanno eco nella nostra memoria, facendo scattare una volontà di scoperta e di interpretazione di quelle cifre che, allo stesso tempo, danno dimensione alla forma e creano narrazione: enormi scrigni della memoria collettiva. Ma se andiamo oltre la superfice, l’originalità delle opere segniche di Arnaldo Pomodoro sta, piuttosto, nell’intenzione di andare oltre la ‘semplice’ trasmissione della sua concezione di materia e di forma - quindi della sua idea di arte - arrivando a configurare, soprattutto, una struttura dell’esperienza cognitiva, che ci consenta di decodificare l’alto valore espressivo della fusione che, quasi naturalmente, si compie tra forma e contenuto. In questo modo l’opera viene resa assolutamente autonoma, responsabilizzando il ruolo del fruitore che può cercare di riscattarsi da quello passivo di semplice ‘spettatore’ per entrare in relazione con essa, in una lettura ‘attiva’ e interpretativa che può svolgere in completa sim-patia con l’autore. Un inedito atteggiamento epistemologico, quindi, che porta a spostare l’attenzione dell’artista, nel momento stesso della creazione della sua struttura multidimensionale, dall’oggetto verso il soggetto che entrerà in relazione con esso e con la polisemia dei messaggi di cui si fa veicolo. Nel suo continuo gioco di ripetizioni e variazioni Pomodoro ci lascia liberi di filtrare l’interpretazione attraverso il nostro background, la nostra storia, le nostre categorie, lasciandoci proiettare sulla sua opera la nostra esperienza. Riattiva, però, il nostro ascolto interiore, senza cercare di commisurare la complessità del linguaggio alle nostre spesso limitate
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he discourse about the meaning of signs which make up Codice Pomodoro is a reading that slowly unrolls beyond the border of pure perception. Oftentimes one could find the archaic references of Arnaldo Pomodoro’s writing-form, searching for similitudes in the cuneiform tradition or, at least, in that long work ‘of deducting’ made with stonecutters that left to history stone narrations, tales, stories about men and times far from us. Surely there is this kind of suggestion: a nostalgia that crosses the artist’s work willing to relate the archaic world with a contemporary and futuristic matrix. A mysterious and remote language of which the interpretative capacity was lost, but which could become universal communicative system of the technological world of the future. It is really a first aesthetic reading that transmits to the viewer deep digging sensations, awakening symbolic idioms which still echo in our memory, triggering a will to discover and to interpret those figures that, at the same time, give dimension to the form and create narration: huge coffers of collective memory. But if we go beyond the surface, the originality of Arnaldo Pomodoro’s signic works lies rather in the intetion of going beyond the ‘simple’ transmission of his concept of matter and form - and so beyond his idea of art - getting to configure above all a structure of cognitive experience, which could let us decode the high expressive value of fusion that, almost naturally, is accomplished between form and content. By doing this the work of art is made absolutely autonomous, empowering the users’ role that now could try redeeming themselves from the passive one of simple ‘viewer’ to then enter in relation with the work, in an ‘active’ and interpretative reading which they could perform in complete sym-pathy with the author. An unprecedented epistemological behaviour that then brings to focus on the artist, right in the creation moment of his multidimensional structure, from the object towards the subject that will relate with it and with the polysemy of messages that it carries. In his continuous game of repetitions and variations Pomodoro leaves us free to filter interpretation through our own background, our story, our categories, letting us project on his work our experience. Although he reactivates our inner hearing, without trying to commensurate the complexity of language to our often limited perceptive and cognitive possibilities; instead he
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passeurs Previous pages Arnaldo Pomodoro Grande tavola della memoria piombo, bronzo, legno e stagno lead, bronze, wood and tin cm 225x325x60 1959-1965 (Photo Giorgio Boschetti) Arnaldo Pomodoro Continuum bronzo / bronze cm 187x430 2010 (Photo Dario Tettamanzi)
Arnaldo Pomodoro Grande tavola della memoria (part.) (Photo Aurelio Barbareschi)
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possibilità percettive e cognitive; ci spinge anzi ad inseguire le evoluzioni della tecnica e l’incontrarsi dei materiali, per ritrovare in noi stessi la capacità di ricordare: primo gradino verso la comprensione. Il linguaggio di Pomodoro contribuisce quindi ad educare quello che potremmo chiamare l’occhio contemporaneo - lo sguardo libero dalla visione romantica - indicandogli una via di fuga, una possibile soluzione a questa impasse culturale che tende a condurci all’asservimento del pensiero, all’assuefazione, al silenzio. Non c’è celebrazione retorica nella monumentalità di queste opere, ma volontà di irrompere nella sordità del mondo attraverso il tempo e lo spazio con messaggi tangibili, solo apparentemente muti, ma che invece si sommano in un continuum semantico quasi ossessivo: una scenografia di sintassi apparentemente complessa, che sembra trascinarci in un labirinto interiore articolato tra essenza ed esistenza ma che, in fondo, ci conduce a districarci nel difficile cammino verso una continua relazione fra il dentro e il fuori di noi.
pushes us to follow technique’s evolutions and the meeting of materials, in order to rediscover within ourselves the capacity to remember: first step towards comprehension. Thus Pomodoro’s language contributes educating what could be called the contemporary eye - the eye free from any romantic vision - pointing to a way out, a possible solution to this cultural deadlock which tends to lead us to thinking enslavement, to addiction, to silence. There is no rhetorical celebration in the monumentality of these works of art, but the will to break into the world’s deafness through time and space with tangible messages, only apparently mute, but actually adding up in a semantic almost obsessive continuum: an apparently complex syntactic scenography, that seems to drag us in an inner labyrinth articulated between essence and existence but which, in the end, leads us to disentangle ourselves into the difficult path towards a continuous relation between our inside and outside.
Arnaldo Pomodoro ha intrapreso questo viaggio nei segni dell’uomo fin dall’inizio del suo lavoro. Con il tempo, in qualche modo queste incisioni si sono complicate, intricate, fino a diventare superficie magmatica nelle fenditure intime della materia. Si è lentamente consumato un processo di destrutturazione di questo codice restituendo all’opera la facoltà di rimettere costantemente in discussione i fondamenti del proprio linguaggio, attraverso una complessità che ha sacrificato la soggettività a vantaggio dell’oggettività del metodo. Credo tuttavia che le tracce della scrittura non siano mai del tutto scomparse: probabilmente infilandoci nei crepacci delle opere a tutto tondo, toccando la materia esplosa al di là della superfice lucente, possiamo sempre ritrovare e sentire l’impronta parlante di questo linguaggio originario. Ma ecco che in una sorta di catartico e ciclico ritorno, negli ultimi anni, la superficie si rilassa i segni ritrovano leggibilità, quasi fosse il momento di fermarsi a catalogare tutto quello che fino ad oggi è stato scritto, in una sorta di volontà di autorganizzazione della struttura linguistica che possa spiegare cosa è successo, da dove siamo partiti e dove siamo oggi. Sembra il momento di ricominciare, una riga dopo l’altra, a raccontare quel viaggio all’interno della materia e dell’essenza dell’uomo cominciato secoli fa nella notte da cui tutti veniamo.
Arnaldo Pomodoro undertook this journey into man’s signs from the beginning of his work. With time, somehow these engravings became more complicated, intricate, until they became magmatic surface in the intimate gaps of matter. A process of destructuring this code has slowly consumed itself, returning to the work of art the faculty to constantly question the foundations of one’s own language, through a complexity which somehow has sacrified subjectivity for the benefit of the method’s objectivity. However I believe that writing traces never really disappeared: maybe crawling into the spherical works’ rifts, touching the exploded material beyond the shiny surface, we can always rediscover and feel, the speaking footprint of this native language. But here, in a sort of cathartic and cyclic recurrence in the last years, the surface relaxes, signs rediscover readability, almost as if it were the moment to stop cataloging everything that had been written until now, in a sort of self-organisation will of the linguistic structure that could explain what has happened, where we started from and where we are now. It seems like the moment to restart, one line after the other, to tell that inner journey of the matter and of man’s essence that started centuries ago in the night where we all come from.
p a s s e uIrene r s Kung
Tracce dall’ombra. Traces from the shadows.
Luciana Ricci Aliotta
passeurs Preview page: Irene Kung Ulivo Fara Sabina D-print on rag paper 39.3” x 55“ (cm 100x140) 2008
Irene Kung Arnaldo Pomodoro. La Grande sfera. D-print on rag paper
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eandri labirintici quelli del linguaggio, percorsi da verità e finzioni. Dialoghiamo su una base comune approssimata, tante sono le differenze di ‘sapore’ che una stessa parola, uno stesso segno, o colore o indice, assume per ognuno di noi. Ne consegue che nessun linguaggio è perfettamente traducibile. E l’arte? Comunicazione attraverso i sensi che deve penetrare nella mente come idea, o idea che prende forma passando per i sensi e caricandosi così della realtà? Idea e sensi, una fragile simbiosi che cerca voce soprattutto nelle ‘differenze’ delle modalità espressive. Così, nell’atto del fare, l’artista pone le basi per una forma il cui codice di lettura presuppone un attento ascolto degli echi di una voce che ha toni e risonanze diverse per ogni orecchio. Più ambigua ancora l’interpretabilità dei casi figurativi, perché il percorso più facile e deviante può essere proprio l’adesione alla rappresentazione realistica. Quando nell’arte compare la fotografia, infatti, l’apparenza puramente tecnica, che riconosce poca responsabilità all’autore, e l’istantaneità dello scatto, per molto tempo le nega il riconoscimento di un codice soggettivo. Per Roland Barthes è un messaggio senza codice: la foto isola l’istante dello scatto, nel passaggio fra l’oggetto e l’immagine non c’è trasformazione, il tempo è fermo. Più tardi, con i nuovi complessi procedimenti tecnologici e digitali verranno superati i traumi della discontinuità (fra oggetto e sua rappresentazione, fra assenza e presenza dell’autore) e l’interesse punterà sulla relazione enunciatore-enunciatario. L’analisi di un’opera non può avvenire che in minima parte per mezzo di una parcellizzazione che la vivisezioni in segni grafici o geometrici, o in indici ed icone, ma richiede atteggiamenti mentali trasfusi in una simbologia personalizzata che si esprima attraverso differenze, un sistema di relazioni più che un sistema di segni. Può sembrare in contrasto con il trend che distingue oggi gran parte degli artisti, e cioè la ricerca di accomunarsi in un lavoro, di convenire su certi temi e forme, di ‘condividere’. Condividere non vuol dire però trovare un luogo comune: spesso può, nella ricerca di una intesa efficace, significare accostarsi per fare meglio emergere le potenzialità espressive di diverse metodologie, che alla fine riflettano con nettezza
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azy meanders the ones of language, they are crossed by truths and deceits. We dialogue on an approximated common base, so many are the ‘taste’ differences that one single word, one single sign, or colour or index, takes on for each of us. As a result no language is perfectly translatable. And art then? Communication through senses that has to penetrate the mind like an idea, or an idea which is shaped passing through senses and so acquiring reality? Idea and senses, a fragile symbiosis which especially calls out in the ‘differences’ of the expressive modes. Thus, in the practical act, the artist puts the grounds for a shape whose reading code assumes a careful listening of echoes of a voice that has different tones and resonances to each ear. Even more ambiguous is the interpretability of the figurative cases, because the easiest and most deviant path could just be the adherence to the realistic representation. In fact when photography appears in art, the purely technical appearance which recognises little resposibility to the author, and the click’s instantaneity, for long time denies the acknowledgment of a subjective code. To Roland Barthes it is a message without code: photography isolates the click’s moment, in the passage between object and image there is no transformation, time is still. Later, with the new complex technological and digital processes the trauma of discontinuity (between the object and its representation, between the author’s absence and the presence) and the interest will focus on the enunciator-enunciatee relation. A work of art’s analysis can be done only in a minimal part through a fragmentation that would dissect it into graphic and geometric signs, or into indexes and icons, but this requires mental habits that are transfused into a personalised symbology which would express itself through differences, a system of relations more than one of signs. It could seem in contrast with that trend which nowadays differentiates most of the artists, i.e. the pursuit of joining together in one work, agreeing on certain themes and shapes, ‘sharing’. Although sharing does not mean to find a common place: in the pursuit of an efficient understanding, it can often mean to approach in order to let the expressive potentialities of different methodologies emerge better, so that in the end they would clearly
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passeurs la personalità inequivocabilmente unica dell’artista che opera. Questo intende Irene Kung quando si presenta a Capalbio nel 2009 con la mostra Oltre natura, in cui le sue foto di un realismo magico paiono scontrarsi con le pitture astratte di Matteo Montani. Un confronto ancora più eloquente ce lo offre la Gallery Fineart (Luoghi non convenzionali. Confronti fotografici tra Irene Kung e i grandi maestri del ‘900) nel 2010. L’iniziativa parte ancora da Irene Kung, un’artista che pare nascere dal silenzio solitario della notte, e arditamente espone sue fotografie accanto a quelle di fotografi come Michel Kenna, Sebastiao Salgado, Olivo Barbieri, Josef Koudelka, Paul Caponigro e altri grandi, creando accostamenti per assonanze e dissonanze, armonie e inattese analogie in codici diversissimi. Rara possibilità di captare in ben distinti umori e metodologie uno stesso fascino evasivo che porta le immagini a scivolare in una dimensione onirica analoga per equilibri tra luce ed ombra, superando qualsiasi definitiva distinzione fra reale, concreto e visionario. Straordinario poi il raffronto fra l’Iceberg di Salgado e il Iac Building di Fank Gehry ritratto dalla Kung. Pesaro città sospesa - Oltre natura - Oltre il reale, sono alcuni titoli di sue mostre in Italia, titoli già indicativi per il suo rapporto con il reale. Con mano ferma, di ottima grafica, Irene Kung estrae dal buio, creato digitalmente in laboratorio, ‘oggetti’ attentamente prescelti, isolandoli, cancellando attorno a loro ogni movimento e rumore di vita, idealizzandone le forme in armoniose o acute geometrie, senza falsarne i dati concreti. Una visione sospesa nel tempo, resa onirica e quanto mai enigmatica. E proprio questa sua enigmaticità sottrae le sue foto alla stasi, all’assenza. Perché l’oggetto ripreso, pur se noto, assume mille facce, mille risvolti sconosciuti, in un trascorrere di fasi e trapassi che ci inducono a indagare la presenza dell’autore, a scoprire quelle differenze che sono i veri i codici con cui si è costruito, che non ricadono sotto il numero, ma sotto la pensosità e l’avventura che propongono sommessamente. Leggerezza e profondità, solidità geometriche che diventano perfezioni platoniche perdendo ogni offuscamento di deperimento temporale. Un dipingere in cui l’ombra non agisce solo per togliere, negare, ma per rendere insondabili le radici, moltiplicare la profondità dei piani,
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reflect the unequivocally unique personality of the artist at work. This is what Irene Kung means when she introduces herself in Florence in 2009 with ther exhibition Oltre natura (Beyond nature), in which her photos showing a magical realism seems to clash with Matteo Montani’s abstract paintings. An even more eloquent comparison is offered at the Fineart Gallery (Luoghi non convenzionali. Confronti fotografici tra Irene Kung e i grandi maestri del 900) in 2010. Once again the initiative starts off from Irene Kung, an artist that seems to originates from the nigtht’s solitary silence, and she arbitrarily exhibites her photographies next to the ones of photographers like Michel Kenna, Sebastiao Salgado, Olivo Barbieri, Josef Koudelka, Paul Caponigro and other big ones, creating juxtapositions by assonances and dissonances, armonies and unexpected analogies in very different codes. A rare possibility to pick up in well-distincted humours and methodologies one single evasive fascination which makes images slipping into a dreamlike dimension similar to the balances between light and shadow, exceeding any definitive distinction between real, concrete and visionary. Impressive was the comparison between Salgado’s Iceberg and Frank Gehry’s Iac Building portrayed by Kung. Pesaro, hanging city - Beyond nature - Beyond reality, these are just a few titles of her exhibitions in Italy, titles which already are suggestive of her relationship with reality. With firm hand, great graphics, Irene Kung pulls out from the dark, digitally created in a laboratory, carefully chosen ‘objects’, isolating them, erasing around them any movements and sound of life, idealising their shapes into harmonious or sharp geometries, without distorting their concrete facts. A vision which is suspended in time, made dreamlike and enigmatic more than ever. And it is right this enigma that deducts her photos from stasis, from absence. Because the taken object, although known, takes on thousands of faces, of unknown aspects, in a lapse of phases and transitions which make us investigate the author’s presence, and discover those differences which are the real codes used to build it, which do not fall within numbers, but under the thoughtfulness and the adventure that they quietly offer. Lightness and depth, geometrical solidities that become Platonic perfections losing any blurring of temporal wasting. A painting style in which
trasformare ogni apparenza e renderla confinante ad altre, così da permettere l’emergere di sempre nuove analogie e raffronti. A Ludovico Pratesi che in una intervista le domanda quali siano i concetti che vuole sottolineare con le sue immagini, Irene Kung risponde: «Silenzio e immobilità. Fermarsi per vedere, sentire, pensare e sognare. Voglio dare una risposta nell’intimo di ognuno in questo momento di corsa del nostro mondo verso il suo declino. Il vuoto…. Oggi c’è troppo ovunque e io mi concentro sul togliere e creare vuoti. Il vuoto come possibilità di dare una dimensione al tempo». E a Sara Namias in altra intervista del 2011: «Io amo l’oscurità che mi permette di illuminare quello che voglio». Non è una notte naturale la sua, ma una creazione in laboratorio di tecnica digitale, dopo che con molto studio e attenzione ha ripreso di giorno le foto, studiando con cura clima e suggestioni dell’oggetto scelto. La parte più importante del suo lavoro è cancellare per privilegiare ciò che vuole portare alla luce in una nuova visione che ne dia l’essenza purificata. Oggi siamo assaliti ovunque dal troppo, ritrovare l’essenza delle cose è una necessità etica più ancora che estetica, è rigenerare la speranza della purezza. Anche un codice morale, quello di Irene: far rinascere dal buio ciò che vale, far riemergere una coscienza in chi è capace ancora di stupirsi e incantarsi di ciò che è stato fatto con valore. Nata a Berna nel 1958, prima di stabilirsi a Roma Irene Kung ha vissuto e lavorato a Madrid e New York come grafic designer, pittrice e infine fotografa. Curiosa e creativa, si insedia con passione dietro l’obiettivo, incoraggiata dalla gallerista Valentina Bonomo. Le sue immagini hanno un forte successo e vengono accolte in mostra a Roma, Milano, New York, Buenos Aires, Londra, Santa Fè, Pechino e in seguito in molti altri paesi. Nei suoi viaggi Irene si interessa soprattutto alle metropoli ritraendone le caratteristiche e rievocandone la memoria storica attraverso monumenti e palazzi che assumono nel loro isolamento notturno una grandiosità epica, rafforzata dal malinconico presagio della perdita dei valori che rappresentano. Quasi un ammonimento, nella mostra a Pesaro (Pesaro città sospesa - 2009) la Grande Sfera di Arnaldo Pomodoro, il monumento che più si proietta nel futuro: sospeso fra due grigi profondi, acqua e cielo, sembra portare il segno del rischio.
shadows do not only work in order to remove, to deny, but to make roots be unfathomable, to multiply the grounds’ depth, transforming each appearance and making it adjoining to the others, in order to let newer analogies and comparisons emerge. Answering to Ludovico Pratesi who during an interview asked her which concepts are the ones she tries to underline with her images, Irene Kung says: “Silence and immobility. Stop to look, feel, think and dream. I want to give an answer to everyone in this moment of rush of our world towards its decline. Emptiness… Today there is too much everywhere and I focus myself on removing and creating emptiness. Emptiness as a possibility to give time a dimension.” And to Sara Namias in another interview in 2011: “I love the darkness which allows me to illuminate what I want.” Hers is no natural night, but a creation in a technical digital laboratory, after much studying and care and having taken her photos during the day, carefully studying the climate and suggestions of the chosen object. The most important part of her work is to “erase” in order to privilege what she wants to focus on in a new vision that could transmit its purified essence. Nowadays we are attacked everywhere by excess, rediscover things’ essence is an ethical necessity more than an aesthetical one, it means regenerating hope in purity. Even a moral code, Irene’s one: to revive from the dark what is worthy, to revive a consciousness in the ones who still manage to be amazed and be enchanted by what has been done with value. Born in Bern in 1958, before settling down in Rome Irene Kung lived and worked in Madrid and New York as graphic designer, painter and finally as photographer. Curious and creative, she passionately established herself behind the lens, encouraged by the gallery owner Valentina Bonomo. Her images had great success and were shown in exhibitions in New York, Buenos Aires, London, Santa Fe and hereafter in many other places. In her trips Irene is especially interested by cities, portraying their characteristics and evoking their historical memory through monuments and palaces that acquire in their noctural isolation an epic magnificence, enhanced by the melancholic omen of losing the values they represent. Almost a warning, in the exhibition in Pesaro (Pesaro città sospesa - 2009) Arnaldo Pomodoro’s
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passeurs Previous pages: Irene Kung Calatrava Bridge D-print on rag paper 39.3” x 65” (cm 100x165) 2011
Irene Kung The Beekman Building D-print on rag paper 39.3” x 27.5“ (cm 100x70) 2011
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Lo spazio urbano guardato e rivisitato da Irene Kung diventa, attraverso il suo obiettivo, uno spazio diverso, silenzioso e immobile. Uno spazio che conosciamo, perché riconosciamo i monumenti che lo compongono – estratti dalla memoria delle città, dal loro passato o dal loro avveniristico futuro – e che in parte ci sorprende. Roma, New York, Londra, Madrid, Boston, Milano, Pechino… le città dove Irene Kung si muove sono luoghi magici, affascinanti, pieni di presenze enigmatiche; città invisibili eppure così concrete. (Ludovico Pratesi - catalogo - Irene Kung - Città invisibili). Una vita segreta pare trapelare dalla luce delle finestre di alcuni palazzi, indice di speranza ma forse accorgimenti tesi ad accentuare la verticalità di una costruzione o un suo percorso lineare. Non sempre oggetto delle sue foto sono le opere dell’uomo: a volte su sovrapposti piani di ombre perlacee si stagliano foglie d’ulivo, o frasche di palma (vedi Ulivo secolare di Fara Sabina 2009 o Trees) e magari nell’atmosfera brumosa sentiamo scorrere zoccoli infeltriti di cavalli argentini. Della pittura la Kung non ha dimenticato la duttilità di tocco e la delicatezza di certi trapassi di grigio come nel Duomo di Milano (Oltre il reale 2010) dove una luce quasi rosata spinge in primo piano gli aggetti della facciata lasciando nell’ombra appena visibile la massa dell’edificio, o nel Beekman building (2011) dove rinunciando alla linea retta la luce scivola sulle coste ondulate dell’edificio sottolineandone la forma astratta. Quasi un gioco il dorso della tigre, immagine di una astrazione perfetta in cui ogni traccia di ferocia si è perduta. Qui ciò che vale è la bellezza che ha saputo suggerire la natura: la belva non c’è più, svuotata di ogni animalità. Solo il gioco delle forme, che la rende complice dell’artista. Alla Kung piace anche giocare, ma giocare con arte avvolgendo in un dialogo in cui occorre aprire occhi e mente. Notiamo a una certa distanza una sua foto di raffinata astrazione che non sembra attingere ad alcuna cosa concreta: un insieme sfumato di tinte leggere che affiora da un grigio variante. Ci avviciniamo attratti dalla novità e l’immagine perde ogni astrattezza palesando il posteriore di un cavallo con una magnifica coda. Ingannati? No: vale l’uno e l’altro racconto, dobbiamo solo una volta di più fermarci a vedere e pensare Rare volte un colore sfocia da queste sue nebbie, magari una palma magica, quasi un leggero piumino sfumato in mille gradazioni grigio-rosa (Palma Rosa 2007) che non perde un dettaglio delle sue
large sphere, the monument which more than others projects itself into the future: hanging between two deep grays, water and the sky, seems to convey the sign of risk. “Urban space as seen and revisited by Irene Kung becomes, through her lens, a different space, silent and still. A space we know, because we recognise the monuments it is made of - extracted from the cities’ memory, from their past and their pioneering future - and which partly surprises us. Rome, New York, London, Madrid, Boston, Milan, Beijing… cities in which Irene Kung moves are magical places, fascinating, full of enigmatic presences; invisible cities yet so concrete.” (Ludovico Pratesi - Irene Kung’s catalogue - Città invisibili) A secret life seems to leak out from the light of a few buildings’ windows, sign of hope as well as devices to probably emphasise the verticality of a construction or its straightforward path. Not always the subjects of her photos are man’s works: sometimes on overlapping levels of pearl-like shadows olive leaves stand out, or palm branches (check Ulivo secolare di Fara Sabina 2009 or Trees) and maybe in the misty atmosphere we hear felted hooves of Argentine horses passing by. From painting she did not forget the touch ductility and the gentleness of certain gray transitions like in the Duomo di Milano (-Oltre il reale- 2010) where an almost pink-like light pushes in foreground the facade’s projections leaving in the shadow the barely visible mass of the building, or in the Beekman building (2011) where renouncing to straight lines the light flows on the wavy profile of the building underlining its abstract shape. Almost a game on the tiger’s back, image of perfect abstraction in which every trace of ferocity is lost. What really matters here is beauty that nature could suggest: there is no wild beast anymore, devoid of any animality. Just the game of shapes, that makes the artist accomplice. Kung likes to play as well, but playing with art wrapping in a dialogue in which one needs to open their eyes and mind. At a certain distance we notice one of her pictures of refined abstraction that does not seem to draw from anything concrete: a blurred ensemble of light shades that emerge out of a variable gray. As we approach attracted by the novelty the image loses any abstractiveness showing the back of a horse with a beautiful tail. Deceived? No: both stories have weight, we just have to stop once again to see and think. Rarely
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Tiziano Codoro Berlin - Untitled Conversation with De Chirico 2011 8.481.963 byte
Irene Kung Flat Iron Building 1 D-print on rag paper 39.3” x 27.5“ (100 x 70 cm) 2008
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forme concrete. Ma la luce più volte delinea come lama tagliente una immagine estrapolandola dalla sua funzione pratica per farne una visione astratta di perfezione geometrica quasi platonica (Ponte di Calatrava - Buenos Aires 2011) È come se presa da un suo sogno interiore di perfezione la Kung di colpo dimenticasse la funzione reale dell’oggetto per trarne delle essenze quasi aeree, forme geometriche non euclidee, ci verrebbe da dire, che mirano non più all’essenza dell’oggetto reale, ma a sembianze subliminali, sottese tuttavia da una precisa consapevolezza intellettiva (es FlatIron - untitled - 2010). Variazioni di un viaggio mai concluso, forse quell’avventura che Roland Barthes intuiva nelle foto che definiva ‘pensose’, e che oggi con la Kung generano una continuità di trasformazioni nell’immaginario della nostra mente. Viaggio, reale e mentale: per vedere, per sapere, per confrontarsi con ciò che ha conosciuto, perché solo dagli altri, “dalle differenze e dalle diversità originano le identità” (Massimo Olivetti –La parola al critico d’arte-2011 Ciclo Conferenze) ‘Il mio primo lavoro è cancellare’, dice la Kung, ed è lo stesso criterio con cui lo scultore agisce sulla pietra bruta o sul marmo frantumandolo per scoprire l’immagine perfetta che nasconde. Saper vedere, vedere attorno ma anche dentro, scavare per cogliere quello che è in noi, scavare anche crudelmente non per deformare la verità, ma per cercare tracce della nostra forma, ciò che in parte siamo stati e forse ancora potremo essere. In realtà nulla è fermo, fissato per sempre, nell’opera della Kung, il suo viaggio non finisce mai, e non solo per le terre visitate e la curiosità con cui ha ricercato incontri e confronti con uomini e opere, ma per la sua capacità di incidere con un bisturi e portare alla luce ciò che spesso non sappiamo vedere forse perché ci è troppo vicino.
a colour flows out of its fog, maybe a magical palm, almost a light feather shaded in thousands of pink-gray scales (Palma Rosa 2007) that does not lose a single detail of its concrete forms. But most times the light outlines an image like a sharp blade extrapolating it from its pratical function in order to make an abstract vision of geometric and almost Platonic perfection out of it (Ponte di Calatrava Buenos Aires 2011). It is like if taken from one of her interior dreams of perfection Kung suddenly forgets the object’s real use in order to draw the almost aerial essences of it, the non-Euclidean geometric shapes, we could almost say, which no longer aim to the real object’s essence, but to subliminal appearances, although underlying a precise intellectual awareness (ex. Flattering - untitled - 11 2007). Variations of a never ended journey, maybe that adventure which Roland Barthes perceived from the photos that he defined ‘thoughtful’, and which today with Kung try to generate a continuity of transformations in the imaginary of our mind. Real and mental journey: to see, to know, to confront with what she had known, because only from the others, “from differences and diversities identities originate” (Massimo Olivetti - La parola al critico d’arte - 2011 Conferences session). ‘The first thing is to erase’ says Kung, and it is the same principle with which the sculptor works on raw stone or on marble, smashing that in order to discover the perfect image hiding in it. Being able to see, see around but inside too, dig to catch what is inside us, dig cruelly not to twist the truth, but to look for traces of our form, what we in part had been and probably what we could still be. Actually nothing is still, fixed forever, in Kung’s works, her journey never ends, and not just for the visited countries and the curiosity with which she looked for meetings and confrontations with men and works, but for her capacity to engrave with a scalpel and unearth what we often cannot see maybe because it is too close.
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p a s s e uAnna r s Ramasco
Deep. Codici inversi Deep. Codes inverse
Cristina Fiore + Andrea Penzo
passeurs Previous page: Anna Ramasco Lettera emotiva
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A
nna Ramasco è stata allevata per fare l’artista, ingozzata di pastelli a cera e colori a olio. Luce accesa anche di notte perché i suoi occhi si nutrissero di concetti presi da ogni genere di libro. Allevamento intensivo. Tirata su a mostre e musei, chiusa vicino ad artisti, critici e galleristi perché si facesse le ossa. Ha undici anni quando inizia a “entrare nel giro”, posando per dei quadri, come modella, scavalca subito per andare dall’altra parte della tela: la pittrice da cui va usa colori molto accesi e lei si lascia suggestionare, creando orchi, figure improbabili, esplosioni vitali. Una persona che frequenta l’atelier li vede e decide di comprarne uno, giocando il ruolo del collezionista. Ora Anna è pronta, tiene il collo leggermente reclinato all’indietro quando la incontriamo e guarda in alto. Tra le dita una sigaretta da cui succhia fumo come se fosse una cannuccia da cui allattarsi. Sorride, ride croccante, le dita sporche di china nera lasciano tracce sulla carta del suo blocco e su quella che contiene il tabacco. Uscita dalla gabbia del suo allevamento, ora passa da una residenza all’altra. È durante una di queste che noi la incontriamo, a Venezia. Ci parla delle sue performance, tracciando nell’aria i confini netti e precisi di quelle figure che ha immaginato e che sembra proprio si siano materializzate direttamente da qualche parte della sua vita inconscia. “Dovrebbero essere tutte nello stesso spazio contemporaneamente. Una ragazza con un vestito giallo sole che si è buttata giù dal balcone ed è sul pavimento, così, un po’ scomposta. Poi ci sono due uomini nudi, uno ciccione e uno magrissimo, in ginocchio, pelati, che guardano verso l’alto, meglio se hanno gli occhi azzurri. C’è un nano che ha una torcia in mano, dei bermuda rossi e una maglia grigia con le maniche lunghe e un cappello, a punta, così, grigio, che cammina tipo militare, avanti e indietro su una linea con un passo molto meccanico, e accende delle torce che sono in fila sospese. Le accende tutte una dopo l’altra e poi ritorna indietro. Poi ci sono due prostitute che fumano. C’è una donna isterica che parla al telefono, una donna tipo d’affari, una gallerista potrebbe essere, che parla super concitata, agitatissima, camminando in mezzo allo spazio. Ancora un signore distinto che guarda dritto davanti a sé e un giocatore di rugby che lancia queste palle che rimbalzano strane perché sono a punta, quindi prendono tutte delle traiettorie improbabili. Poi ci sono due sorelle gemelle che camminano in direzioni opposte accarezzando la parete. E poi basta”.
A
nna Ramasco was raised to be an artist, fed with crayons and oil paint. The light on even at night so that her eyes could feed on concepts taken from all sorts of books. An intensive breeding. Raised with exhibitions and museums, left alone with artists, critics and gallerists so that she could gain experience. She is eleven years old when she first entered the field, posing as a model for paintings that she immediately overrides to be on the other side of the canvas: the painter she attends uses very bright colours and she is influenced by that, creating ogres, unlikely characters, vital explosions. Somebody that regularly visits the atelier sees them and playing the collector’s role he buys one. Anna is now ready, she leans her neck slightly backwards when we meet her and looks up. Between her fingers a cigarette from which she inhales smoke as if it were a straw to feed from. She smiles, soundly laughs, her fingers dirty from black ink leave traces on the pages of her notebook and on the paper that contains tobacco. Out of her breeding cage, she now passes from one residence to the other. And it is right in one of these that we meet her, in Venice. She talks about her performances, tracing in the air the definite and precise borders of those figures that she had imagined and that seem like having materialised right in some part of her unconscious life. “They should be all in the same space at the same time. A girl wearing a sun-like yellow dress who threw herself off a balcony and is now on the ground, slightly broken down. Then there are two naked men, one is fat and one is very thin, on their knees, bald, looking up, better if they have blue eyes. There is a dwarf holding a torch in his hands, wearing red bermudas and a grey shirt with long sleeves and a hat, a grey pointed hat, walking like a soldier, back and forth on a line and with a very mechanical pace, he lights torches in a row that are suspended. He lights them one after the other and then walks back. Then there are two prostitutes smoking. There is a woman who hysterically talks on the phone, a sort of businesswoman, she could maybe be a gallerist, she talks excitedly, hectically, walking in the centre of the room. And then again a distinguished man who looks in front of himself and a rugby player throwing these balls that bounce strangely because of their pointed shape, and so they all fly towards improbable directions. Then there are two twin sisters who walk in opposite directions caressing the wall. And that’s it”. It seems like seeing moving sculptures, we tell her, and so we discover that her academical studies had
Sembra di vedere delle sculture in movimento, le diciamo, e così scopriamo che i suoi studi accademici sono andati ad esplorare la scultura per completare quell’istinto pittorico che coltivava fin da bambina. Per questo i lavori di Anna, di cui potremmo parlare per ore, si compongono di affondi scultorei e di opere in carta, di progetti di architettura e di performance a volte solo pensate, a creare un piccolo universo di immaginazioni che prende forma a partire da sé. Eravamo in una casa di Torino arredata di ampi spazi e pezzi di design anni Settanta, quando abbiamo visto il primo lavoro di Anna Ramasco: una lettera incorniciata a cui ci siamo pian piano avvicinati per scoprire che era indecifrabile, ma non per questo non comunicativa. Le righe scritte erano tutte composte di parole impossibili, un segno che si fa disegno ma che non rinuncia ad essere calligrafia. Segnali di fumo fatti di inchiostro, dove la ragione lascia spazio alla sensazione, dove il contenuto non è veicolato da un codice ma dal segno che non si coagula mai in parola. A battezzare le “scritture emotive” è Jean Blanchaert, gallerista un tempo molto vicino a lei, unico interlocutore epistolare che da destinatario si fa mittente, rispondendole a tono. Nel 2002 le fa fare una performance durante la quale lei scrive dal vivo una serie di lettere in emotivo, commissionate direttamente dal pubblico. Lui è calligrafo, e la investe di una laurea tutta in emotivo. Jean Blanchaert è un gallerista con un’indole da artista, non esce dal gioco e la provoca per scatenare in lei emozioni più intense, che possano essere tradotte in lettere. Lei allora si arrabbia, si arrabbia molto, fino a far scrivere dal suo avvocato una lettere in emotivo che è tutta scarabocchi e collage, firmata dallo studio legale. Poi, non contenta, prende la bici col piglio del vandalo, riempie lo zaino di bombolette e decide di usare la galleria come supporto per i suoi segni. Però sotto luci e telecamere di sorveglianza batte in ritirata, tornando a casa sui suoi pedali arricchita di una storia in più. Sembra anche questa una delle sue performance soltanto raccontate, ma non per questo inesistenti. Le prime lettere scritte da Anna non sono un lavoro ma scarabocchi fatti per sé. “Erano un modo mio per rilassarmi. Poi un po’ di persone le hanno viste, si sono tutti interessati, tutti dicevano eh ma son belle, ma daccele, ma dai, facciamo, vieni, cose, le voglio anch’io, mandamene una, fammene una apposta... e allora alla fine è diventato un lavoro”. Vanno a ondate, a periodi. Ha iniziato nel 2001, poi ha ripreso nel 2005 e ancora nel 2008. È un’opera aperta. C’era stato un periodo, prima delle lettere,
explored sculpture in order to complete the pictorial instinct that she had been cultivating since she was a child. For this reason Anna’s works, which we could go on talking about for hours, are composed of sculptural thrusts and paper works, of architecture projects and performances that sometimes are just imagined, creating a small universe of imaginations that take shape starting from itself. We were in a house in Turin, furnished with large rooms and design pieces from the 70s, when we first saw Anna Ramasco’s first work: a framed letter that we slowly approached only to find that it was uncomprehensible, but nonetheless communicative. The written lines were composed of impossible words, a sign that drawings are made but they do not give up being calligraphy. Smoke signals made of ink, where reason leaves ground to sensation, where the content is not conveyed by a code but by a sign that never coagulates into a word. The one who baptises her “emotional writings” is Jean Blanchaert, a gallery owner who once was very attached to her, the only epistolary interlocutor that from recipient becomes sender, responding in kind. In 2002 he makes her perform live writing a few letters in emotivo, directly commissioned by the audience. He is a calligrapher and he awarded her an all emotional degree. Jean Blanchaert is a gallery owner with an artist’s nature, he does not abandon the game but keeps provoking her in order to trigger even more intense emotions, which then should be translated into letters. She then gets angry, more and more angry, until she gets her lawyer to write a letter in emotional, a letter which is all scribbles and collages, signed by the law firm. Then, not being satisfied, in a vandalistic-like mood she takes her bike, stuffs her backpack with spray paint cans and decides to use the art gallery as a support for her signs. But then, under the lights and the security cameras she flees on her bike, enriched by a new story. This seems another one of the performances told by her, but not for this it is non-existent. The first letters written by Anna are not a work but scribbles made for herself. “They were a way to relax. Then a few people saw them and they all became interested, they said ah they are beautiful, give them to us, let’s do one, come, things, I want one too, send me one of them, make one for me… and so it then became a work”. They follow tides, periods. She started in 2001, then resumed in 2005 and again in 2008. It is an open work. There was a period, before the letters, in which she became almost illiterate.
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passeurs in cui era diventata semianalfabeta. “Vivevo da sola, lavoravo da sola, guardavo solo immagini. Per fortuna avevo un gruppo di amici filosofi, per fortuna... perché sono dei gran chiacchieroni questi filosofi.”. Prima di scrivere una lettera Anna si immedesima in un’emozione. A volte attinge alla gamma di sfumature del sentire di un preciso momento. A volte però i personaggi che sceglie sono incompatibili con il suo vissuto, come quella volta che ha scritto la lettera di una nonna alla nipote con le massime per superare una vita. Quando le chiediamo se i destinatari delle sue lettere recepiscano le emozioni che comunica, lei ci parla di una serie scritta a se stessa, nel tentativo di mettere in comunicazione la sua parte conscia con quella inconscia. Qui la scrittura poco a poco si evolve fino al disegno. C’è sempre un mittente e un destinatario, “il mio inconscio mi ha risposto a un certo punto. Il destinatario ha preso il sopravvento sul mittente”. Di solito il codice serve per raccontare un’emozione, qui l’emozione invece se ne priva per mostrarsi in tutta la sua purezza. “C’è una calligrafia che si presenta a mia insaputa, decido se tenerla o meno solo in un secondo momento. Quello che inizio a produrre a contatto con l’emozione si trasforma, così nasce la lettera”. Non c’è più il portato semantico della parola, ma solo il suo puro simulacro. L’approccio alle lettere ora si sta trasformando. China nera su carta inglese per scrivere un vero e proprio romanzo. Dai frammenti tutti diversi e fatti di variazioni alla ricerca di una completezza, di una coerenza. “Strutturare un romanzo è difficile, non è così scontato. Una lettera dura una pagina, un pagina la controlli molto facilmente, è un’emozione che viene giù in un attimo, tac, ti immagini un mittente, ti immagini un destinatario, ti inventi un’emozione ed è facile”. Un romanzo è una tensione che dura nel tempo, bisogna trovare una relazione tra una pagina e l’altra. “Mi sono allenata leggendo molti libri. Prima ogni volta che avevo un momento libero andavo a vedere una mostra, ora leggo e spero che funzioni una trasmissione di sapere per empatia”. Le pagine che ci mostra sono belle, qui a Venezia sta lavorando proprio sulla calligrafia. Ci sembra che ci siano meno disegni che nelle lettere, l’oggetto è importante, la carta spessa, ragionata, avorio. Come andrà a finire questa storia? Anna Ramasco Lettera emotiva
“iewguuuuuuuuuuuuuuuuuRWBNKJKNVJnvnbdbfjbv, jdfdkssk.dkfjpdsjpnvnjevnjvbhhhhhb cbdnnnmwwwbrggrvvnnncnn<,<,,,,777VESRCFYGVUBHINJOKMPADFXCGB HJKMLEWZCFYGVUBHINJOKMZSXDRCTFGVYBH UINJMKAZESXDRCTFVGYBHUNIJ$%&/(“,
dice Anna Ramasco.
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“I was living alone, working alone, I only looked at images. Luckily I had groups of friends who were philosophers, luckily… because those philosophers are real chatterboxes.” Before she begins writing a letter Anna identifies herself with an emotion. Sometimes she draws on the range of feelings’ nouances of a precise moment. However sometimes the characters she chooses are not compatible with her experience, like that one time when she wrote the letter of a grandmother to her grandchild with adages to get through life. When we ask her whether the recipients of her letters actually get the emotions she communicates, she talks about a series that she wrote herself, in an attempt to make her conscious and unconscious parts communicate. In this series writings slowly evolve into drawings. There are still a sender and a recipient, “my unconscious part suddenly replied. The recipient has overcome the sender”. Normally the code is used to tell about an emotion, here instead the emotion refuses to use it in order to show itself in all its purity. “There is a calligraphy that introduces itself unbeknownst to me, I later choose whether to keep it or not. What I then start producing when I am in contact with the emotion transforms itself, in that way the letter originates”. The word’s semantic carrier does not exist anymore, only its pure simulacrum remains. The approach to letters is now changing. Black ink on British paper in order to write a real novel. From the different fragments, made with variations, to the research of a wholeness, of coherence. “Structuring a novel is difficult, it is not that foregone. A letter lasts one page, one can control a page very easily, it is a sudden emotion, there, you imagine a recipient, the sender, you make up an emotion and it is easy”. A novel is a strain that lasts in time, you need to find a relation between one page and the other. “I trained myself reading many books. Once, when I had some free time I went seeing exhibitions, now I read and I hope that some kind of knowledge trasmission through empathy will happen”. The pages she shows to us are beautiful, it is here in Venice that she is working on calligraphy. It seems to us that there are less drawings here than in the letters, the object is important, the thick paper, thought on, ivory. How is this story going to end up? “iewguuuuuuuuuuuuuuuuuRWBNKJKNVJnvnbdbfjbv, jdfdkssk.dkfjpdsjpnvnjevnjvbhhhhhb cbdnnnmwwwbrggrvvnnncnn<,<,,,,777VESRCFYGVUBHINJOKMPADFXCGBHJKMLEWZCF YGVUBHINJOKMZSXDRCTFGVYBHUINJMKAZESXDRCTFVGYBHUNIJ$%&/(“, Anna Ramasco says.
atelier
Mani di fata? ...ma anche no! Light touch? ...better not!
Veronika Aguglia
atelier Previous page: Katty Tagliatti, Graziano Spinosi Vie di Dialogo FAR fabbrica Arte Rimini
Graziano Spinosi Indus tondino di ferro foto Piero Delucca
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È
davvero solo nelle storie da cartone animato che la puntura di un fuso da telaio determina il destino di principi e principesse?... senza scomodare le figure mitologiche delle Parche romane, intente a tessere con intrepido e terrorifico fascino il destino degli uomini, io credo possa succedere anche nella realtà. Purché questa Sconfini nello spazio fantastico dell’arte, ecco che la citazione l’essere è tessere di Maria Lai (Ulassai,1919), da spunto di poetica, trova riscontro nelle opere dell’artista sarda che, iniziatrice profetica di un’arte sociale, mescola il gioco a fiabe e paesaggi che diventano trame creative della sua pittura. La tessitura della Lai si lega e lega tutti a un dove fisico e interpretativo, che usa il territorio come materia dell’arte (Legarsi alla montagna, 1981). Un legame con tradizione e terra, che non è solo quello dell’artista, ma di tutti coloro che portano il gene dell’appartenenza ancestrale a un luogo, levigato da usi, gesti e abitudini. I telai sardi che Maria Lai utilizza come codici di accesso a una comunicazione ludica dell’arte, compongono il dinamismo ritmico di tappeti, coperte, e libri “cuciti”. Lo stesso gioco, abitato da senso che sa di contestazione, si ritrova nelle opere di Clemen Parrocchetti (Milano,1923), artista il cui lavoro incide, e si cuce letteralmente su oggetti della tradizione tessile femminile: aghi, spilli, fili, rocchetti, spolette; il tutto per composizioni “conoscitive”, pitture materiche su arazzi di medie e grandi dimensioni che suggeriscono l’intento del disegno di schizzar via a suon di informale, per ricomporsi sotto le sembianze di purissima arte applicata. (Euridice rivuole i fiori dolci e i frutti vivi della vita, 1983). Così, nei pressi della Far/Fabbrica Arte Rimini, la mostra di Graziano Spinosi e Ketty Tagliatti, - Vie di dialogo - predispone all’ascolto di quel rumorìo tipico da fabbricazioni di nuovi codici. Opere Alfabeti materici che discorrono tra loro in opere che segnano il passaggio natura-cultura in un OLTRESINTESI che esalta la potenza generatrice del disegno a favore di florilegi e nidiate plurisensoriali. Proprio come la tessitura, l’incontro di trama e ordito, si fa incontro di opposti per dare vita a oggetti d’arte che si infiltrano gli uni negli altri poeticamente: tele di stoffa con disegno tracciato a spilli d’acciaio, arazzi cascanti, bozzoli in costruzione, composizioni in rattan (fibra vegetale di palma asiatica) e cera d’api. Allestimenti ambientali per forme pulsatili di “gigantesca fattura” in cui, oltre alla meticolosa smania artigianale, morbido e rigido si rincorrono nella penombra di grate da cui spiare il dato reale che
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s it really just in cartoons that the spindle of a weaving loom determines the destiny of princes and princesses?… without disturbing mythological characters like the Roman Parcae, weaving man’s destiny with dauntless and terrifying charm, I believe it could also happen in reality. As long as it trespasses into the fantastical world of art, it is here that Maria Lai’s quote (Ulassai, 1919) l’essere è tessere (being is weaving), from poetic hint, becomes reflected in the Sardinian artist’s works, a prophetic starter of social art, she mixes playing with fairy tales and landscapes that become creative plots of her painting. Lai’s weaving is linked and links everybody to a physical and interpretative place that uses the territory as art material (Legarsi alla montagna, 1981). A bond with tradition and the land, which is not just the artist’s one, but it is of everyone that carries on the gene of ancestral belonging to a place, smoothed by customs, gestures and habits. The Sardinian weaving looms that Maria Lai uses as access codes to a playful communication of art, make up the rhythmic dynamism of carpets, blankets and “sewn” books. The same game, inhabited by a sense that feels like protest, can be found in Clemen Parrocchetti’s works (Milano, 1923), an artist whose work is engraved and literally stitched to objects typical of feminine weaving traditions: needles, pins, threads, bobbins, fuses; and all is done for “cognitive” compositions, material paintings on medium and large-sized tapestries which suggest the drawing’s aim to flee away informally, to then recompose itself disguised as pure applied art. (Euridice rivuole i fiori dolci e i frutti vivi della vita, 1983). And so, near the Far/Fabbrica Arte Rimini, the exhibition by Graziano Spinosi and Ketty Tagliatti, - Vie di dialogo - prepares to listen That murmur typical of the making of new codes. Works and material Alphabets that converse with themselves in works that mark the natureculture passage in a BEYONDSYNTHESIS which celebrates the generating power of drawing in favour of florilegia and multisensorial broods. Precisely as weaving, the meeting between weft and warp, is also the meeting between the opposites in order to create objects of art that poetically infiltrates one in the other: cloth canvases with a drawing made of steel pins, sagging tapestries, cocoons under construction, compositions made of rattan (vegetable fiber of asian palm) and beeswax. Environmental preparations for pulsatile shapes of “enormous manufacture” in which, besides the meticulous handicraft restlessness, soft and rigid chase themselves in the dim light of grates from where it is
atelier
Ketty Tagliatti - Elisa Leonini Anamorfosi di una rosa nel mio giardino foto Piero Delucca
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si eclissa, per restituirsi alla primarietà multiforme di narrazioni materne. Forme inaspettate seppur archetipiche ed evocative di una natura che si ribadisce organicamente cristallizzandosi in covi di sculture “tragifragili”: tra il rattan e il ferro di Graziano Spinosi, (Bologna,1958), e le costellazioni floreali di Ketty Tagliatti (Ferrara,1955). L’artista ferrarese procede per composizioni polimateriche dove la rosa, motivo conducente, sembra insidiarsi autonoma su ogni superficie; da arazzi cascanti e aghiformi, (Sub-Rosa 01/05-2012 e Sur-Natura, 2011) a contenitori di cosmetici che, avvolti in matasse di filo di seta rosso, zigzagano seguendo un tracciato aereo che approda su parete in un graffito a rosa di dimensioni ambientali. (Ketty Tagliatti ed Elisa Leonini, Anamorfosi di una rosa del mio giardino 2008-2010). Frammenti calligrafici che se inizialmente simulano la casualità tipica dell’abbandono distratto degli oggetti di uso quotidiano, in un diverso tempo della fruizione, si dimostrano pronti ad accogliere, fasciandolo strenuamente, un senso altro rispetto alla tanto fagocitata “realtà oggettiva delle cose”. Opere che materializzano manufatti preziosissimi utilizzando l’eloquenza dei “ferri da mestiere” di quella pratica femminile che è la cultura tessile, e che in questo caso diventa esercizio di raffinata scrittura oltregenere. Il gesto manuale così impressivo dei ricami impervi sulle grandi estensioni di tessuto non riesce a prescindere delle installazioni naturali di Graziano Spinosi: maxi sculture-guscio realizzate in tondini di ferro lavorati a fiamma ossidrica; opere che come luoghi rituali sono poste tra il dentro e il fuori della galleria a totemica testimonianza di un sentimento di origine e provenienza. Accadimenti stranianti sono i Nidi di Spinosi, dove gli opposti non necessitano di convergere ma solo di esistere, tra successioni di tele profumate in cera d’api, molleiformi intrecci di rattan, e strutture in costruzione. Per entrambi gli artisti si tratta di sconfinamenti mediali, pluralità di linguaggi, estensioni di sensorialità. Lavori in cui il disegno ancora una volta supera il genere per tratteggiare intorno alle opere didascalie bene odoranti di cura, accoglienza, ascolto. È un dialogo ma anche turpiloquio formale e osmosi di intenti. Un discorso che ben si esprime nel “non dire ancora” potenziale della materia. Dalle nidiate alle mistiche e inaccoglienti rosespine, è la forze creatrice che si preserva e lo fa attraverso pungoli e grate in cui vale la pena sostare per intravedere un luogo di mezzo che ci porta dentro e fuori cavità. In uno spazio magico che è potenzialità per un continuo cambiamento di stato: il nostro.
possible to spy the real fact eclipsing, to then return to the manifold primacy of maternal tales. Unexpected shapes yet archetypal and evocative of a nature which organically reaffirms itself and crystallising itself in dens of “tragifragile” sculptures: between Graziano Spinosi’s rattan and iron, (Bologna, 1958), and Ketty Tagliatti’s floral constellations (Ferrara, 1955). The artist from Ferrara procedes by multimaterial compositions where the rose, leading motif, seems to independently sneak its way in every surface; from sagging and needle-like tapestries (Sub-Rosa 01/05-2012 and Sur-Natura, 2011), to makeup boxes which, wrapped in tangles of red silk thread, zigzag following a flying path that lands on the wall in a rose-like graffiti of landscape dimensions. (Ketty Tagliatti ed Elisa Leonini, Anamorfosi di una rosa del mio giardino 2008-2010). Calligraphic fragments which if initially simulate the typical randomness of the forgetful abandon of objects of daily use, in a different time of fruition, they show themselves ready to accept, vigorously wrapping it, a different feeling compared to the much swallowed “objective reality of things”. Works that materialise precious artefacts using the eloquence of the “working tools” of that feminine practice which is textile culture, and which in this case becomes exercise of refined beyond-the-gender writing. The so impressive manual gesture of impervious embroideries on large extent of fabric cannot leave aside Graziano Spinosi’s natural installations: giant shell-sculptures made with iron rods tooled using a blowtorch; works that like ritual areas are placed between the inside and outside of the gallery, totemlike evidence of a feeling of origin and source. Alienating occurences are Spinosi’s Nidi (Nests), where the opposites do not need to converge but just to exist, among series of canvases smelling like beeswax, soft-looking rattan weavings, and structures under construction. For both artists it is about media trespassing, plurality of speech, sensory extensions. Works in which the drawing once again overtakes the genre in order to outline around the works captions that smell well with cure, hospitality, listening. It is a dialogue but also a formal profanity and an osmosis of aims. A speech that is well expressed in the potential “not yet said” of the material. From broods to mystic and not so welcoming briar roses, it is the creating power that preserves itself through prickles and grates in which it is worth stopping to have a look in a middle-space that takes us inside and outside the pit. In a magical place which is potentiality for a continuous change of state: ours.
exlibris
Il frontespizio: il libro senza maschera. The frontispiece: the book without mask.
Mauro Carrera
exlibris Solcata ho fronte occhi incavati, intenti, labbri tumidi, arguti, al riso lenti, capo chino, bel collo, irsuto petto; membra esatte…
A furrowed brow, eyes staring and sunk deep, hair tawny, cheekbones showing through, bold-faced; lips that are full and red, with gleaming teeth, head bent, a fine-set neck and a broad chest; good limbs…
n epoca moderna con il termine frontespizio si designa un elemento nodale del paratesto, una delle prime pagine d’un libro, il recto di una carta che viene dopo la copertina e che può essere preceduta da pagine bianche o dall’occhiello. Composto con lo stesso carattere del testo, riporta le principali informazioni dell’opera: il nome dell’autore, il titolo, l’eventuale sottotitolo, l’argomento, il luogo e la data di pubblicazione, l’editore, il marchio tipografico ecc. Quasi del tutto assente nel manoscritto e raro negli incunaboli, esso appare nella seconda metà del XV secolo, dovuto alla necessità di identificare il libro quando il volume non è più commissionato in copia unica (manoscritto) ma per grandi tirature. Vero e proprio “protofrontespizio” a stampa è quello preposto dallo stampatore Fust alla Bulla cruciata sanctissimi domini nostri Papae contra Turchos, stampato a Magonza nel 1463. Il modello della editoria delle origini è però la prima pagina del Calendarium di “Iohanne de monte regio” stampato a Venezia nel 1476. Nel XVI secolo il frontespizio si arricchisce di nuovi elementi: la marca tipografica, il privilegio. Apprezzatane l’indubbia utilità pratica, gli stampatori prendono a impiegarlo finché non diviene obbligatorio ex lege e va arricchendosi di nuovi elementi come il ritratto dell’autore, fregi e decorazioni, finendo per uscire dalla sola pagina preposta a quella funzione, debordando in quella alla sua sinistra, chiamata anch’essa frontespizio. Nel Seicento questo, che ha la precipua funzione di abbellire l’opera, diviene antiporta e nell’età barocca costituisce una sorta di réclame pubblicitaria. Gli artisti più importanti hanno concepito preziose ed elaborate incisioni che raffiguravano paesaggi, emblemi araldici, scene mitologiche. Nel Settecento a Parma, con il tipografo Giovanni Battista Bodoni (1740 – 1813) il frontespizio torna con eleganza alla semplicità tipografica. Con l’avvento dell’editoria di massa, le sue caratteristiche passano alla copertina, portando quindi ad una evidente concorrenza dell’uno con l’altra. Tra Ottocento e Novecento si avvia una certa uniformazione della pagina di frontespizio, che è stata infranta solo dalle esperienze delle avanguardie storiche e delle neoavanguardie. Si è giunti infine alla normativa (legge 8/2/1948, n. 47) vigente in Italia che stabilisce quali elementi devono apparirvi.
n modern times the term frontispiece refers to a nodal element of the paratext, one of the first pages in a book, the recto of a sheet of paper that comes after the cover and which can be preceded by blank pages or by the half title. It is written in the same font of the text, it reports the principal information about the work: the author’s name, title, possible subtitle, topic, place and time of publication, publisher, printing label, etc. Almost completely absent in manuscripts and rare in incunables, it appears in the second half of the 15th century, maybe due to the necessity to identify a book when the volume was not commissioned in a single copy anymore (a manuscript), but in several editions. A truly printed “proto-frontispiece” is the one put by the printer Fust before the Bulla cruciata sanctissimi domini nostri Papae contra Turchos, printed in Mainz in 1463. Although the model for the origins of publishing is the first page of the Calendarium by “Iohanne de monte regio” printed in Venice in 1476. In the 16th century the frontispiece is enriched with new elements: the printing label, the privilege. Appreciating the undoubted convenience, printers start to use it until it becomes compulsory by law and acquires new elements like the author’s portrait, ornaments and decorations, eventually flooding out of the single page assigned to that function, overrunnig in the one on the left, that will also be called frontispiece. In the Sixteenth century the frontispiece, which has as main function the embellishment of the work, becomes an anteport and during the Baroque it is a sort of advertisement. The most important artists have conceived precious and elaborated engravings that portrayed landscapes, heraldic emblems, mythological scenes. In the Seventeeth century in Parma, the frontispiece goes elegantly back to typographical simplicity with the typographer Giovanni Battista Bodoni (1740 – 1813). With the arrival of mass publishing, its characteristics are taken by the cover, bringing to an evident competition between the two. Between the Eighteenth and Nineteenth centuries a sort of standardisation of the frontispiece page takes place, something which has only been disrupted by the historical avant-gardes and the new avant-gardes. We eventually got to the Italian law (law 8/2/1948, n. 47) that establishes which elements should be present. The renewed interest for the «object book» of a group of audience which is not nostalgic but rather exigent, is making bibliophily, refined disease of
Previous pages: Giosetta Fioroni
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Ugo Foscolo Solcata ho fronte, 1824
Il rinnovato interesse per l’«oggetto libro» da parte di un pubblico non nostalgico ma esigente sta rendendo la bibliofilia, raffinata malattia dalle mille affezioni, l’oggetto di numerosi eventi espositivi ed editoriali di grande rilevanza culturale. Proprio sul tema del frontespizio è uno dei più recenti, il progetto C_artelibro Il principio delle pagine, ospitato nell’Aula Magna della Biblioteca Universitaria di Bologna dal 13 settembre al 13 ottobre nella cornice di Artelibro Festival del Libro d’Arte. Il Festival, giunto ormai alla sua nona edizione, in collaborazione con la Biblioteca Universitaria di Bologna e con l’editore Danilo Montanari di Ravenna, offre al pubblico un’esposizione di libri bianchi di carte speciali fornite dalle Cartiere Magnani di Pescia, il cui frontespizio è stato progettato, disegnato o realizzato per l’occasione da una cinquantina di artisti italiani contemporanei: Carla Accardi, Francesco Arena, Stefano Arienti, Olivo Barbieri, Gianfranco Baruchello, Riccardo Benassi, Davide Benati, Pinuccia Bernardoni, Davide Bertocchi, Luca Bertolo, Sergio Breviario, Chiara Camoni, Francesco Carone, David Casini, Cristian Chironi, Teresa Cos, Pirro Cuniberti, Cuoghi e Corsello, Rä Di Martino, Flavio Favelli, Ettore Favini, Giosetta Fioroni, Luca Francesconi, Marco Gastini, Nicola Gobetto, goldiechiari, Paolo Gonzato, Franco Guerzoni, Paolo Icaro, Emilio Isgrò, Isola e Norzi, Renato Leotta, Deborah Ligorio, Loredana Longo, Claudia Losi, Margherita Manzelli, Gianruggero Manzoni, Eva Marisaldi, Samuele Menin, Sergio Monari, Margherita Moscardini, Maurizio Nannucci, Adriano Nasuti Wood, Elena Nemkova, Giulio Paolini, Chiara Pergola, Concetto Pozzati, Massimo Pulini, Marco Raparelli, Moira Ricci, Alessandro Roma, Marco Nereo Rotelli, Andrea Salvatori, Lorenzo Scotto di Luzio, Alessandra Tesi, Luca Trevisani, Nico Vascellari, Paolo Ventura, Serena Vestrucci, Antonio Violetta, William Xerra, Italo Zuffi. I frontespizi originali sono riprodotti nel volume C_artelibro. Il principio delle pagine (Danilo Montanari Editore, 2012), stampato anch’esso sulle carte speciali delle Cartiere Magnani. Commissionando ad alcuni tra i principali artisti visivi italiani la realizzazione dei frontespizi e non già delle copertine dei libri, si è forse inteso stimolare una nuova “lettura” del libro d’artista. Essendo il frontespizio una polaroid ad usum delphini del libro, la sua faccia enigmatica e ammiccante o semplice e composta, nulla di più sensato è il proposito di riconsegnare agli artisti (Oltralpe e Oltremanica l’uso non è mai stato abbandonato) il compito d’immaginare la prima
thousands of conditions, object of numerous expositive and editorial events of great cultural relevance. Right on the frontispiece theme, one of the most recent projects is C_artelibro Il principio delle pagine, hosted in the Aula Magna of the library of the University of Bologna from 13th September to 13th October as part of the Artelibro Festival of art books. The festival, at its ninth edition and in collaboration with the library of the University of Bologna and the publisher Danilo Montanari from Ravenna, offers to the visitors an exhibition of blank books made with special paper provided by Magnani Paper Mills from Pescia, whose frontispiece was projected, designed or specially made for the occasion by around fifty Italian contemporary artists: Carla Accardi, Francesco Arena, Stefano Arienti, Olivo Barbieri, Gianfranco Baruchello, Riccardo Benassi, Davide Benati, Pinuccia Bernardoni, Davide Bertocchi, Luca Bertolo, Sergio Breviario, Chiara Camoni, Francesco Carone, David Casini, Cristian Chironi, Teresa Cos, Pirro Cuniberti, Cuoghi and Corsello, Rä Di Martino, Flavio Favelli, Ettore Favini, Giosetta Fioroni, Luca Francesconi, Marco Gastini, Nicola Gobetto, goldiechiari, Paolo Gonzato, Franco Guerzoni, Paolo Icaro, Emilio Isgrò, Isola and Norzi, Renato Leotta, Deborah Ligorio, Loredana Longo, Claudia Losi, Margherita Manzelli, Gianruggero Manzoni, Eva Marisaldi, Samuele Menin, Sergio Monari, Margherita Moscardini, Maurizio Nannucci, Adriano Nasuti Wood, Elena Nemkova, Giulio Paolini, Chiara Pergola, Concetto Pozzati, Massimo Pulini, Marco Raparelli, Moira Ricci, Alessandro Roma, Marco Nereo Rotelli, Andrea Salvatori, Lorenzo Scotto di Luzio, Alessandra Tesi, Luca Trevisani, Nico Vascellari, Paolo Ventura, Serena Vestrucci, Antonio Violetta, William Xerra, Italo Zuffi. The original frontispieces were reproduced in the book C_artelibro. Il principio delle pagine (Danilo Montanari Editore, 2012), also printed on the special sheets of paper from Magnani Paper Mills. Commissioning the principal Italian visual artists to create frontispieces and not book covers, was probably meant to stimulate a new “reading” of the book of artist. Being the frontispiece a sort of polaroid ad usum delphini of the book, its enigmatic and alluring or simple and composed face, nothing makes more sense than the proposal to give back to the artists (while across the Alps and across the Channel this use was never lost) the task to imagine the first page of an ideal book, perfect synopsis of the favourite book or the one that is still to be written. In the learned and ironic text, written for the occasion and part of the aforementioned volume titled
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exlibris pagina del libro ideale, sinossi perfetta del proprio libro preferito o di quello ancora mai scritto. Nel dotto e ironico testo, scritto per l’occasione e contenuto nel volume succitato, dal titolo DEL FARE FRONTESPIZI ovvero MONTANARI CONTRO BODONI, Luigi Ballerini, docente di italianistica alla U.C.L.A di Los Angeles, introduce il lettore in questa curiosa questione. L’etimo contiene come sempre il senso profondo del termine: frontispicium, dal latino frons-frontis (fronte) + spicěre (osservare), è l’atto di guardare con attenzione quanto è davanti all’osservatore, al fine di comprenderne ciò che vi è celato. Impiegato in passato in fisiognomica ed architettura, il termine ha finito per appartenere quasi esclusivamente al lessico dell’editoria. A chi continua a temere o auspicare l’avvento massivo dell’e-book come epigono virtuale del libro (latu senso) in un percorso che dalla tavoletta d’argilla mesopotamica alla private press on demand è stato senza soluzione di continuità, ci sentiamo di dire – anacronisticamente o con chiaroveggenza – che no! No: il libro come supporto permanente di un contenuto determinato e fruibile più e più volte non sparirà così presto. Il compianto Bradbury ci conforta con un’extrema ratio, ma forse non ce ne sarà bisogno.
Sergio Monari Frontespizio
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DEL FARE FRONTESPIZI ovvero MONTANARI CONTRO BODONI, Luigi Ballerini, professor of Italian studies at UCLA, introduces the reader in this strange matter. The etymology contains as usual the deep sense of the term: frontispicium, from Latin frons-frontis (forehead) + spicēre (to observe), is the act of watching carefully what is before the observer, in order to understand what is hidden in it. It was used in the past in physiognomy and architecture, the term eventually came to be exclusive part of the publising vocabulary. To the ones who still fear or wish the massive arrival of the e-book as a virtual imitator of the book (latu senso) in a path starting from Mesopotamia’s clay tablet to the private press on demand, it has been with no resolution of continuity, we hear – anachronistically or with clairvoyance – no! No: the book as a permanent medium of a particular content, accessible more and more times, is not going to disappear so soon. The lamented Bradbury comforts us with an extrema ratio, but maybe there will be no need for that.
q u i d Alfio Giurato
Utopia e distopia tra nuovi codici opposti dellâ&#x20AC;&#x2122;arte di oggi. Utopia and dystopia between new codes opposed to nowadays art. Pippo Lombardo
quid Est in omni rerum genere unum primum ac rectum ad cuius tum normam, tum rationem caetera dirigenda sunt. (Giulio Cesare Scaligero - Poëtices)
Previous page: Alfio Giurato Profilo Oil on canvas cm 140x140 2010
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Luglio 1535: a Tower Hill Tommaso Moro veniva decapitato per aver difeso le sue idee contro un tirannico Enrico VIII che lo voleva costringere, tra le altre cose, al giuramento dell’ “Atto di successione”. Fu una morte così eroica che gli assicurò da subito fama imperitura fra cattolici e anglicani (sarà santo per gli uni e gli altri), nonostante la sua testa fosse stata esposta sul London Bridge per un mese, come severo monito contro ogni atto di ribellione nei confronti del sovrano. Ma ancor più la sua fama è legata a L’Utopia (1516 circa), rigorosamente in latino (Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia). Isola immaginaria (où-topos, cioè non-luogo), a cui approda Raffaele Itlodeo che la visita, ospita una società perfetta e nei suoi richiami si riallaccia alla repubblica di Platone e nei tempi a venire influenzerà diversi ambiti culturali che vanno dalla saggistica, alla letteratura, alla filosofia, al cinema. La France-Ville del dottor Sarrasin (dal romanzo I cinquecento milioni della Bégum di Jules Verne) ne rappresenta in parte il continuo anelito dell’uomo di fondare una società pacifica, in contrasto a una Stahlstadt (città dell’acciaio) del dottor Schultze che si oppone con ferocia e con ogni dispiego di forze militari altamente tecnologiche alla città ideale, tanto da spingersi alla progettazione di armi di distruzione di massa, ancora una volta rendendo Verne profeta di una società tecnologica novecentesca che sperimenterà ogni abominio. Era il 1879, quando questo romanzo invase le librerie d’Europa agitando lo spettro futuro di una società distopica, peggiore rispetto a quelle reali contro cui sempre gli intellettuali nel corso dei secoli hanno indirizzato aspre critiche. Però toccherà a Kafka angosciarci con la distopia (antiutopia) del suo memorabile romanzo Der Prozess (pubblicato postumo nel 1925), dove si realizza l’unico modello possibile di società futura (anticipando le atrocità nazifasciste, staliniane, ecc…) con più forza letteraria, cioè sottraendo Stahlstadt alla fantascienza, consegnandola a una realtà verosimile che fa vacillare le nostre certezze, infatti a questa “città d’acciaio” (nelle armi e nei cuori umani) non si contrappone più nessuna France-Ville possibile. Il pessimismo decadente raggiunge il baratro di una assoluta desolazione sociale, prima che esistenziale, incarnata da quel Josef K., un protagonista che rappresenta l’uomo
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th July 1535: in Tower Hill Thomas More was decapitated for having defended his ideas against a tyrannical Henry VIII who wanted to force him, among the other things, to swear loyalty to the “Act of supremacy”. It was such a heroic death that it had immediately secured imperishable fame among catholics and anglicans alike (he is saint for both of them), despite his head being exposed on the London bridge for a month, as a severe warning against any acts of rebellion towards the monarch. But even more so his fame is linked to the Utopia (circa 1516), rigorously written in Latin (Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia). The imaginary island (où-topos, i.e. no-place), which Raphael Hythloday visits after having landed there, harbours a perfect society and in its recalls it is similar to Plato’s republic and through the years it will influence various cultural environments from essays, to literature, philosophy, cinema. Doctor Sarrasin’s France-Ville (from Jules Verne’s novel The Begum’s Fortune) partly represents the ceaseless longing of man to found a pacific society, in contrast to a Stahlstadt (steel city) by Doctor Schultze who opposes to the ideal city strongly and using any technologically advanced military forces, to the point of designing weapons of mass destruction, once again making Verne a prophet of a 19th century highly technological society which will experiment any abomination. It was 1879, when this novel arrived into Europe’s libraries stirring the future spectrum of a dystopic society, a worse one compared to the real ones against which the intellectuals had addressed harsh criticism through the centuries. But it will be Kafka to distress us with the dystopia (anti-utopia) of his memorable novel Der Prozess (posthumously published in 1925), where the only possible model of future society occurs (anticipating the atrocities of Nazism, Stalinism, etc.) and with much more literary force, i.e. taking out the Stahlstadt from science fiction and addressing it to a convincing reality that makes our certainties falter, as a matter of fact this “steel city” (in human weapons and hearts) is not opposed to any possible France-Ville’s anymore. A decadent pessimism reaches the abyss of an absolute social, before being existential, desolation, embodied by that Josef K., protagonist who represents the
comune delle società moderne, sempre più votate allo sporco profitto contro il guadagno onesto, alla sopraffazione contro la tolleranza, al crimine contro la buona azione. E il debole soccombe senza scampo, mentre il prepotente di turno è dimentico di mono no aware, quello che per i giapponesi è l’essere consapevoli della precarietà dell’esistenza umana e di ogni cosa, e quell’ aware è il dolersi, è il provare pietà, è l’essere uomini e non bestie. E l’arte si dibatte fra questi estremi, sopprimendo codici ritenuti vetusti, elaborando segni sempre più criptici che alimentano sempre più codici, corrodendo la possibile interpretazione, che diventa sempre meno condivisibile, se non attraverso un profluvio di parole (quelle del critico) che tendono a convincere lo spettatore della forza dell’opera d’arte, soprattutto del valore commerciale, piuttosto che della forza dell’intelligenza dell’opera stessa, intelligenza che diventa emozione, scevra dall’interpretazione dell’artefice stesso, perché dogmatica e non dà alcuna possibilità di interazione anche allo spettatore più sprovveduto, eccetto che non lo spinga a una simulazione di partecipazione, eccetto che non appartenga ai nouveaux riches che oggi più che mai si allontanano sempre più dal modello di collezionista descritto da Walter Benjamin, cioè quello che …sogna non solo di trovarsi in un mondo lontano e passato, ma anche nello stesso tempo in uno migliore; nel quale, benché gli uomini siano sprovvisti del necessario come nel mondo reale, le cose sono state liberate dal bisogno di essere utili. Certo né utopia né distopia, quel luogo in cui l’arte sarà capace di mantenersi in equilibrio tra gli artisti sticomanti moderni, che alla sorte delegano il risultato della loro attività, e gli artisti “intossicati della trementina”, come definiva Duchamp certi pittori che non fossero Seurat, Braque, Matisse, che amava smisuratamente, né gli altri che ospitò nelle collezioni della Sociétè Anonyme, in qualità di primo direttore al mondo di un museo d’arte moderna. E I Burattini (olio su tela, cm 250 x cm180) di Alfio Giurato, sono compagni di viaggio di Josef K., come dei deportati di Auschwitz, di Buchenwald, di tutti coloro che hanno subìto una violenza bestiale, un tempo come ancora oggi nelle guerre, nella miseria, nella politica, nella religione, nella cultura, sempre imprigionati irrimediabilmente da un destino che li relega negli ambienti disumani in una Stahlstadt, città d’acciaio di sofisticate armi da fuoco, di rudimentali machete, di sbarre di prigione, di camere di tortura, dove molte volte si
common man in modern societies, more and more leant towards the filthy profit and opposed to the honest earning, towards oppression and opposed to tollerance, towards crime and opposed to good actions. And the weaks succumb with no escape, while the bullies of the moment forget about the mono no aware, what the Japanese perceive as being aware of the precariousness of human’s and of each thing’s existence, and that aware means to suffer, to feel pity, it means being human beings and not beasts. So art debates between these themes, abolishing codes thought to be too ancient, elaborating signs which are more and more cryptic and that generate even more codes, eroding any possible interpretation, which becomes less and less shareable, unless through a profusion of words (the ones of critics) which tend to convince the spectators about the work of art’s force, and especially about its commercial value, rather than the intelligence force of the work itself, intelligence which becomes emotion, devoid of interpretation of the maker self, because it is dogmatic and it gives no possibility of interpretation even to the most unprepared spectator, unless they are pushed into a simulated participation, unless they are part of those nouveaux riches that nowadays are more than ever far from Walter Benjamin’s model collector, i.e. the one that …not only dreams about finding himself in a far and past world, but at the same time also in a better one; in which, although men are devoid of the necessary things like in the real world, things have been freed from the need of being useful. Surely neither utopia nor dystopia, that place in which art will be able to remain in balance between modern stichomantic artists, who delegate to fortune the results of their activity, and the artists “intoxicated with turpentine”, like Duchamp called certain painters who were not Seurat, Braque, Matisse, whom he greatly loved, nor the ones he housed in the collections of the Sociétè Anonyme, as the world’s first director of a modern art museum. And I Burattini (oil on canvas, cm 250 x cm 180) by Alfio Giurato, are the travel companions of Josef K., as of the deported to Auschwitz, Buchenwald, of all the ones who suffered a beastly violence, in the past and in today’s wars alike, in misery, in politics, in religion, in culture, always and hopelessly imprisoned by a destiny which confines them in the inhuman settings of a Stahlstadt, steel cities of sofisticated firearms, of rudimentary machetes, of prison bars, of torture chambers, where in many occasions women and men who fight for human
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quid Previous page: Alfio Giurato I Burattini Oil on canvas cm 180x250 2010
Alfio Giurato Stanze Oil on canvas cm 100x100 2011
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lasciano marcire donne e uomini che lottano per i diritti umani. La pittura di Giurato è corrosiva come l’acido che scioglie i corpi delle vittime della mafia, che sfregia i volti delle ragazze del Pakistan, e la materia scorre sul supporto e mutila le figure anonime tese in uno sforzo di sottrazione a un destino che sembra, invece, ineluttabile. Ora il colore si addensa in ammassi di carne umana e animale, quale paradigma di ogni vittima dell’inquinamento che avanza inesorabile, distruggendo con cieca furia ciò che trova sul suo cammino, come in Senza titolo (olio su tela, cm 230 x cm 180). Eppure in quelle tenebre che avvolgono quei corpi sfigurati, quasi larve, saetta una luce che fa vibrare, pur se ancora di angoscia, quei nudi scaraventati sulla triste ribalta della vita, luce simbolo della ragione che indaga per tentare di lottare contro il male, alimentando nello spettatore quel mono no aware, la consapevolezza della precarietà dell’esistenza umana e di ogni cosa, per indirizzarla verso quell’eutopia (cioè luogo del bene) a cui anelava Tommaso Moro, ponendone l’esistenza, quindi, tra Utopia (non luogo, quindi luogo immaginario) e distopia (società indesiderabile, come quella di Stahlstadt), dove l’arte possa riappropriarsi con convinzione del bene, del bello e della verità.
rights are left to rot. Giurato’s painting is corrosive like the acid that dissolves the corpses of mafia’s victims, the acid that disfigures girls’ faces in Pakistan, and like the matter that flows on the holder and mutilates anonymous figures stretched in an effort to avoid a destiny that instead seems unavoidable. Otherwise the colour thickens in masses of human and animal flesh, as paradigm of each victim of pollution that inexorably pushes forward, destroying with blind fury everything on its path, like in Senza titolo (oil on canvas, cm 230 x cm 180). And yet in the darkness that surrounds those disfigured bodies, almost larvae, darts a light which makes those naked ones, thrown on life’s sad limelight, throb, although still in anguish, a light which is symbol of the reason that researches how to try to fight evil, fostering in the spectator that mono no aware, the awareness of precariousness of human’s and of each thing’s existence, to address it towards that eutopia (i.e. a good place) which Thomas More dreamed about, thereby placing it between Utopia (no-place, as to say an imaginary place) and dystopia (undesirable society, like the Stahlstadt one), where art could wholeheartedly regain what is good, beautiful and true.
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documenta (13)
Codici e stilemi del preambolo per una nuova epoca. Codes and styles of the preamble to a new era. Matteo Ber gamini
documenta (13) Previous page: Fabio Mauri L’universo, come l’infinito, lo vediamo a pezzi Doormat cuts installazione al Fridericianum cm 200x420 2009
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Le parole di Documenta devono far rima con il presente, con quelle che sono state le tensioni più recenti e con la chiaroveggenza del prossimo futuro. Come sia possibile mettere a fuoco tutto ciò, in gran parte lo si deve alla linea curatoriale del direttore artistico incaricato, quest’anno rappresentato da Carolyn Christov-Bakargiev, a cui è spettato il compito doppio, secondo chi scrive, di calare il sipario su un’epoca e alzare le serrande su ciò che da qualche tempo ci sta accompagnando in un nuovo corso. L’epoca che tramonta è quella dei crolli. É quella del dopo 11 settembre, dell’odio e della velocità, sia di caduta che del restringimento delle funzioni umane. Se ne vanno, con questa Documenta, tutti gli anni Ottanta e Novanta, e forse anche il nostro primo decennio del 2000. Non è più quello il solco da tracciare, non più lo stilema delle “città panico” o dei manager che precipitavano tracciati da Robert Longo. Sia chiaro, non si dimentica nulla! Nulla di ciò che è stato non ha portato al risultato attuale, ma l’onda che si agita sotto il nostro sguardo oggi porta a galla una serie di novità, i più cinici o superficiali diranno “d’antan”, che hanno in qualche modo elaborato il lutto del Novecento, nonostante spesso lo evochino. Eppure la Documenta di Christov-Bakargiev è positiva: quasi assenti le opere “funeste” messe in scena, la maggior parte delle quali mantiene un approccio decisamente lirico, poetico. E questo probabilmente è uno dei segni migliori: nonostante un buon parterre di lavori guardi all’economia, comprese le implicazioni di questa Europa che probabilmente solo ora riusciamo ad avere chiara davanti agli occhi, gli artisti sembrano tornare a misurarsi con “tutto”: una mostra “olistica”, come l’ha definita la curatrice, in maniera estetica, ma non estetizzante. Un’estetica intesa nell’accezione filosofica, partorita da Baumgarten nella metà del ‘700, come un componimento che indaga i rapporti tra filosofia e poesia, ma soprattutto come “una metafisica che permette di conoscere gli oggetti del mondo, senza per forza averne fede”, è la dimostrazione visibile che l’arte è reale strumento di conoscenza.
The words of Documenta must rhyme with the present, with those that have been the most recent tensions and with the clairvoyance of the nearest future. The possibility to focus on all this is mostly due to the curatorial approach of the appointed artistic director, represented this year by Carolyn Christov-Bakargiev, who, according to the writer of this article, also has the task of closing the curtains on one era and pulling up the shutter on what has been accompanying us in a new stream for quite some time. The one which is ending is the era of collapses. It is the era of post-Septermber 11th, of hatred and speed, both of the fall and the shrinking of human functions. The whole 80s and 90s depart with this Documenta, and maybe the first decade of 2000 too. That is not the furrow to draw anymore, not the “panic cities” kind of style anymore or of falling managers depicted by Robert Longo. To be precise, nothing is to be forgotten! Nothing that had been in the past has not taken us to the present result, but the wave that is moving under our eyes today is bringing to the surface a series of news, the most cynical or superficial ones would say in an old-fashioned way that they have finished mourning the Twentieth century, although they often evoke it. Nevertheless Christov-Bakargiev’s Documenta is positive: almost absent the “baleful” works put on stage, most of them follows a clearly lyrical and poetic approach. And this is probably one of the best signs: in spite of a substantial part of works leaning towards economy, including the implications of this Europe which only now we can probably see clear in front of us, artists seem to go back to confront themselves with “everything”: a “holistic” exhibition, as the curator defined it, in an aesthetic, not aestheticising way. Aesthetics meant in the philosophical way, as created by Baumgarten in the mid-Eighteenth century, as a composition that researches the relations between philosophy and poetry, but most of all as “metaphysics which allow to know the objects of the world, without necessarily having to trust in them”, this is the visible proof that art is a real tool of knowledge.
assel, piccola cittadina al centro della Germania, nel Land dell’Assia, ospita dal 1955 “Documenta”, la più impegnata delle rassegne d’arte contemporanea, che ogni lustro si pone l’obiettivo di fare il punto della situazione globale sull’attualità, sui suoi cambiamenti, ma soprattutto sul suo linguaggio, sui codici utilizzati dalle arti visive. Per tracciare una fotografia esaustiva del mondo che ci troviamo intorno, per mettere nero su bianco com’è cambiato l’approccio, come si può e come si deve, continuare a fare arte. In una modalità che rimette a fuoco il corpo diffuso dell’arte, che allontana sempre di più il clamore spettacolare ad uso e consumo delle masse.
assel, little city in the middle of Germany, in the state of Hesse, since 1955 hosts “Documenta”, the most enganged among contemporary art exhibitions, which every five years sets as its goal the global status review on current affairs, on its changes, but most of all on its language, on the codes used in visual arts. To take a comprehensive picture of the world we have all around us, to put down in black and white how changed our approach to how art could and should continue to be made. In a mode that focuses back on the widespread body of art and which turns away more and more the spectacular clamour catered to the masses.
Una 13esima edizione che, oltre ad essere olistica, è diffusa. Talmente diffusa che spesso si rasentavano situazioni simili a quelle sperimentate a Münster, che durante il suo decennale “Skulpture Projekte” fornisce al visitatore una piantina delle opere installate in città e in qualche modo augura gli “imbocca al lupo” per riuscire a scovarle tutte. Operazione che di primo acchito sfianca, ma che diventa ben presto, anche in questo caso, la rivelazione del pensiero della direttrice, che non solo ha utilizzato Kassel come palcoscenico, ma ha spostato Documenta in altri tre luoghi simbolo di questa “modernità”: Kabul, Alessandria d’Egitto e il piccolo centro canadese di Banff, dove sono state realizzate rispettivamente una mostra e diversi seminari, a partire da quattro domande: Cosa significa essere in uno stato di assedio? Cosa significa essere in uno stato di speranza? Cosa significa essere in ritirata, in ritiro? Cosa faccio quando sono in scena, quando mi sto esibendo? Ovvero le questioni fondamentali della rappresentazione e il suo continuo incontroscontro con la realtà. Non è un caso che la Christov-Bakargiev abbia preso accanto a sé una serie di “agenti” che hanno contribuito alla messa in scena della manifestazione: la lezione fondamentale, in questo caso, è che in questo nuovo corso, fortissimo diviene il desiderio di una cooperazione su tutti i fronti, dove davvero non sembra più necessario dividersi e dividere, dove ognuno può apportare il necessario contributo alla causa. Le arti non sono escluse, anzi. Se si guarda alla “Rotonda” del Fridericianum, quello che è stato ribadito dalla curatrice “il cervello della mostra”, si ha uno spaccato assolutamente eterogeneo di quello che l’arte dovrebbe sempre essere. E che forse è sempre stato, anche se spesso ce ne dimentichiamo, perché a volte il passato fa male, a volte sembra poco interessante, perché spesso il presente è miope come la nostra geografia. Christov-Bakargiev invece mixa tutto, dai reperti danneggiati durante la guerra del Libano, presi in prestito dal National Museum di Beirut, fino a Giorgio Morandi, letto sotto la chiave di vittima e “ribelle” rispetto ai dogmi fascisti: le sue nature morte, le sue bottiglie, i suoi toni che potrebbero essere definiti a-emozionali, dove “a” sta per alfa privativo, sono il rifiuto di riconoscere l’arte della propria epoca, e di rifugiarsi in un mondo arcaico e forse polveroso dove le forme semplici sono gli oggetti della silenziosa vendetta contro chi stava mettendo a ferro e fuoco l’Europa. Nel “cervello” del Fridericianum, mischiati, anche manufatti rappresentanti figure imperiali recuperate nell’Asia del Turkmenistan e del nord dell’Afghanistan risalenti tra il 2500 e il 1500 A.C e il vasellame dello spagnolo Antoni Cumella, con le forme archetipe delle paraguyane Juana Martha Rodas e Julia Isidrez, che insieme al precedente corpo di opere disseminano
A 13th edition which, in addition to being holistic, is also widespread. So widespread that it was often on the border of situations similar to the ones in Münster, where during the decennial “Skulpture Projekte” a map with the works installed in the city is given to the visitor almost as to say “good luck” in finding them all. Something which in the first place could be exhausting, but which soon becomes, in this case too, the revelation of the director’s thought, who not only used Kassel as a stage, but also moved Documenta in three other places, symbols of this “modernity”: Kabul, Alexandria and the small Canadian town of Banff, where respectively an exhibition and various seminars were put up, using four questions as starting point: What does it mean to be in state of siege? What does it mean to be in a state of hope? What does it mean to be in withdrawal, in retreat? What do I do when I am on stage, when I am performing? Or rather the fundamental questions of representation and its continuous clash-encounter with reality. It is no accident that Christov-Bakargiev took with her a few “agents” who contributed to the staging of the event: the fundamental lesson in this case is that in this new course, the desire of cooperation on all fronts becomes very strong, where it really does not seem necessary anymore to divide, where everyone can give the needed contribution to the cause. Arts are not excluded, on the contrary. If one looks at the “Rotunda” in the Fridericianum, described by the curator as “the brain of the exhibition”, one gets a clearly heterogeneous insight into what art should always be. And that maybe had always been, even if we often forget about it, because sometimes the past hurts, at times it does not seem very interesting, because it often happens that the present is blind, like our geography. Christov-Bakargiev instead mixes everything, from finds ruined during the Lebanon war and borrowed from the Beirut National Museum, to Giorgio Morandi, taken as a victim and a “rebel” against the fascist dogmas: his still lifes, his bottles, his tones that could be defined a-emotional, where “a” stands for privative alpha, they are the refusal to recognise the art of their own era, and so taking refuge in an archaic and maybe dusty world, where simple shapes are the objects of the silent revenge against the ones who were ravaging Europe. In the “brain” of the Fridericianum, mixed with the others, there are also manufacts representing imperial figures from Turkmenistan and from nothern Afghanistan dating between 2500 and 1500 BC, and also pottery by the Spanish Antoni Cumella, with the archetypal shapes by the Paraguayan Juana Martha Rodas and Julia Isidrez, whom together with the former corpus of works, scatter the doubt created by De Dominicis, for whom “the most contemporary art is the antediluvian one, because it is not overloaded by millennia of
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documenta (13)
Gustav Metzger veduta dell’installazione Too Extreme: A selection of drawing by Gustav Metzger Made from 1945 to 1959/60 alla Documenta Halle
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quel dubbio messo in atto da De Dominicis, per cui “l’arte più contemporanea è quella anti-diluviana, per il suo non essere caricata da millenni di storia”. Una storia che invece a Kassel è molto presente, e con la quale si fanno i conti in diverse occasioni, sia a partire dal contemporaneo che dagli episodi del Novecento, in primis dal Nazionalsocialismo. Che però non è mai affrontato con la retorica pomposa delle condannecelebrative, ma con lo sguardo tagliente di punti di vista che sono riusciti a scardinare sul campo l’idea del male. Stiamo parlando soprattutto, anch’essa presente nel “cervello”, di Lee Miller, fotografa newyorkese e musa di Man Ray, inviata per la rivista Life nelle zone dell’Europa in guerra che, nel 1945, pochi giorni prima del suicidio di Hitler nel suo bunker berlinese, si concede un bagno nella vasca da bagno del Führer, in quella che era la sua casa a Monaco. Il collega David E. Scherman la ritrae nella stanza del dittatore la notte del 30 aprile 1945: un’azione che rompe con qualsiasi piano di lettura; da un lato, simbolicamente, si tratta di lavare via la colpa del male, di rinascere a nuova vita dopo aver imbrattato il candido tappetino ai piedi della vasca del mostro con gli anfibi utilizzati per camminare, e fotografare, durante la stessa giornata, quello che era successo nel vicino campo di Dachau. E forse anche la necessità, proto-femminista, di espugnare il controllo maschile, militarizzato, colonizzandone uno dei simboli di benessere, senza scadere nell’osceno, ma facendosi guardare proprio dal piccolo ritratto di Hitler poggiato sul bordo della vasca. Fuori dalla Rotonda la storia continua, il passato riaffiora in diversi angolo del Museo di Kassel, e non è un caso che si siano scelti come nomi tutelari della mostra due italiani diversissimi per inclinazione ma che hanno avuto in maniera diversa un’influenza sulle nuove generazioni di artisti, che li hanno cercati e spesso citati. Da un lato Fabio Mauri, con la serie di zerbini “L’universo, come l’infinito, lo vediamo a pezzi”, in cui riporta su veri e propri tappeti da esterno gli aforismi di un’arte e di un mondo sul quale spesso ci si spazza i piedi, per via di una temperatura troppo rovente da sopportare e forse “complessa” da esperire senza sporcarsi le mani; lo stesso Mauri invece era solito rimarcare la sua posizione di “indagine”, affermando che aveva sentito l’esigenza di guardare al turpe per poterne raccontare. La storia dell’Europa, così come quella “minima”, messa insieme da Jimmie Durhan in una dependance al Karlsaue, dove il continente appare come una semplice appendice del continente asiatico, è passata ai raggi x, senza paura di essere scomodi, anzi. Non è un caso infatti che il secondo italiano che si scomoda è Alighiero Boetti e che in parallelo siano messe in mostra le ricerche condotte da Mario Garcia Torres sulle tracce del One Hotel di Kabul, che l’artista torinese aveva creato negli anni
history”. History that instead is much present in Kassel and something that one has to deal with in various occasions, both out of the contemporary and from episodes of the Twentieth century, foremost from the National Socialism. Something which is never addressed to in a pompous rhetoric typical of celebratory condemnations, but instead with a sharp eye in points of view which succeeded in scattering on the stage the idea of evil. We are mostly speaking about Lee Miller, her too present in the “brain”, Newyorker photographer and Man Ray’s muse, correspondent for Life magazine from the areas of Europe plagued by the war, who in 1945, few days before Hitler’s suicide in his Berlin bunker, enjoyed a bubble bath in the Führer’s tub, in his Munich residence. The colleague David E. Scherman portrays her in the dictator’s room during the night of 30th April 1945: something that crashes every possible reading; on one side, it is, symbolically, about washing away the guilt of evil, about being reborn to a new life after having soiled the monster’s candid bath mat with the boots used to walk during the same day and take photographs of what had happened in the nearby camp of Dachau. And maybe even the proto-feminist necessity to conquer the military, male control, by colonising one of the wealth symbols, without falling into the obscene, but instead allowing the little portrait of Hitler to peep from the edge of the tub. Outside the Rotunda history continues, the past emerges in various corners of the Museum of Kassel and it is no coincidence that as tutelary names of the exhibition two Italians were chosen, very different in their dispositions but who had, each in their own ways, an influence on the generations of artists, who both came looking for them and quoted them. On the one hand Fabio Mauri, with the door mats series “L’universo, come l’infinito, lo vediamo a pezzi” (We see the universe, like the inifite, in pieces), in which he reproduces on real door mats aphorisms about an art and a world which we often clean our feet on, because the temperature is too burning to stand and maybe even “difficult” to experience without getting our hands dirty; Mauri himself instead used to remark his position of “investigation”, stating that he had felt the urge to look at ugliness in order to tell about it. History of Europe like the “minimal” one put together by Jimmie Durhan in one of Karlsaue outbuildings, where the continent simply appears as an appendix of Asia, it has been passed under X-rays, with no fear about being inconvenient, on the contrary. There is no chance in finding Alighiero Boetti as the second Italian to be quoted and that these are shown at the same time with the researches by Mario Garcia Torres on the trail of One Hotel of Kabul, which the artist from Turin created in the 70s, before the Talibans invasion that culminated with the destruction of the
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documenta (13)
Emilio Isgrò La Costituzione cancellata veduta dell’allestimento in galleria, 2010 courtesy Boxart Galleria d’Arte Verona
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‘70, prima dell’invasione talebana, culminata con la distruzione dei Buddha di Bamyan nel 2001. Un storia che ritorna, e che ha visto inserite nelle opere della manifestazione anche la fontana di Horst Hoheisel: la struttura originaria, commissionata da un commerciante ebreo e posta nella piazza del Rathaus, il municipio della città, era stata distrutta dal Nazismo nel 1933; lo scultore di Kassel, nel 1987, invitato a ripristinare l’opera, progettò un anti-monumento, una fontana che mantenne intatta l’originale sagoma a forma di guglia, ma la cui altezza (dodici metri) si sviluppò in profondità, completamente interrata. Come si scriveva poco sopra, Documenta in questa edizione è vastissima e diffusa, prendendo in esame tutti gli ambiti della produzione. Pierre Huyghe in qualche modo è stato la vera star di Karlsaue, il parco cittadino che è stato trattato come un’enorme area espositiva, dove i progetti sono stati disseminati in decine e decine di postazioni. Huyghe è riuscito a focalizzare la visione del contemporaneo come un atto di riscrittura di uno spazio, come se la presenza dell’uomo fosse tangibile attraverso una serie di rovine che però non tradiscono una loro finitudine. L’artista in questo caso ha disseminato un gruppo di componenti edili che si presentano come tutt’altro che immortali, nudi e crudi nella loro non-storia, ma che restano sospesi come una spada di Damocle sopra la nostra testa. Cosa ci facciamo di questo ambiente? O forse sarebbe meglio dire “Che cosa abbiamo fatto e cosa fa l’arte di questo ambiente nel presente?” Altro caso emblematico è dato dal lavoro di un’altra italiana, Lara Favaretto, che con Huyghe, mette in scena uno dei lavori più visitati, ma forse non apprezzati, di Documenta. La Favaretto mantiene alto il livello di monumentalismo, gioca su uno strano piano che rasenta il sublime, senza riuscire ad afferrarlo, apparendo più vicina all’horror vacui di un’epoca industriale ormai arrugginita come le ferraglie che vengono messe in mostra. In questo la Favaretto, secondo il pensiero di Agamben intorno al tempo, potrebbe essere considerata contemporanea. La sua opera è in ritardo, certo, ma è ancora qui. E adesso, appunto, cosa ci facciamo di tutta questa ferraglia arrugginita, buona sola per il tetano, che capeggia in un’area a nord della Hauptbanhof di Kassel? Forse potrebbe essere sepolta sotto il cumulo fiorito che svettava davanti all’Orangerie, ad opera del cinese Song Dong. “Doing Nothing Garden” è una collinetta di sei metri di altezza sotto la quale sono stati stipati rifiuti organici che hanno contribuito a creare una sorta di bonsai artificiale e selvaggio in un ambiente già antropizzato. Già, perché oltre alla storia e alle idee di libertà e partecipazione, in questa edizione grande attenzione si è riservata anche allo stato di salute del pianeta, alla necessità di una riscrittura della salvaguardia, che non passa per lo stato brado, ma di
Buddhas in Bamyan in 2001. History that keeps coming back and that witnessed the presence of Horst Hoheisel’s fountain among the other pieces of the event: the original structure, commissioned by a Jewish merchant and placed in the Rathaus square, the town hall, was destroyed by Nazism in 1933; the Kassel sculptor was asked to rebuild it in 1987 but designed an anti-monument instead, a fountain that like the original was spireshaped, but its height (twelve metres) developed in depth, completely underground. As said, in this edition Documenta is very large and widespread, taking into account every production field. Pierre Huyghe was pretty much the real star of Karlsaue, the city park was used as a huge exhibition area, where works were scattered in several places. Huyghe succeeded in concentrating the vision of the contemporary as an act of rewriting of a space, as if the presence of man had been palpable through a series of ruins which, nevertheless do not betray their finitude. In this case the artist scattered groups of building components that are far from being presented as immortal, naked and raw in their non-history, they keep hanging like a sword of Damocles above our heads. What are we doing in this landscape? Or better, “What have we been doing and what has the art of this landscape been doing in the present?” Another emblematic case is the work by another Italian, Lara Favaretto, who according to Agamben’s thought about time, could be considered contemporary. Her piece is surely late, but it is still here. And now, what are we doing with all this rusty scrap, just good for tetanus, parked north of Kassel Hauptbahnhof? Maybe it could be buried under the flowery heap overlooking the Orangerie, created by the Chinese Song Dong. “Doing Nothing Garden” is a small hill, six metres high, under which some organic waste was placed and which contributed to create a sort of artifical and wild bonsai in an already man-made environment. Yes, because in addition to history and to the ideas of freedom and participation, this edition put great attention on the health condition of the Planet, on the necessity of rewriting the protection, without passing through the wild state, but re-using our necessities of disposal and of use of the waste. However, as there are many examples, we will get back to this point later. Still on the “scrap” current but with style, there is the big installation of mechanical components by Thomas Bayrle, leading protagonist at the Documenta-Halle, where the whole hall dedicated to his work “Carmageddon” hangs in the balance between human and artificial consciousness, with mechanical components that nearly resemble life activities, the heartbeat, mimicking the gestures and the performance of internal organs. Yet these
un riuso delle necessità di smaltimento e di utilizzo dello scarto. Ma su questo punto, visto che gli esempi sono molteplici, torneremo più avanti. Sempre sul filone “ferraglia”, ma con stile, è la grande installazione di componenti meccanici di Thomas Bayrle, grande protagonista alla Documentahalle, dove tutta la sala dedicatagli con l’opera “Carmageddon” è in bilico tra la coscienza umana e artificiale, con componenti meccanici che in qualche modo rasentano le attività della vita, il battito cardiaco, mimando i gesti e l’andamento degli organi interni. Eppure si tratta di macchine celibi, che mantengono qualcosa di duchampiano senza pero lasciarne tracce eccessivamente visibili. I riferimenti sono al cambiamento dei concetti dopo la seconda guerra mondiale, alla riscrittura dell’industria, alla riconversione, ma ciò che esercita sul pubblico di nicchia e non una forte pressione, è l’idea e la visione di un movimento perfetto e trasmissibile all’infinito; un’equazione che può proseguire perenne ma mai in potenza, sempre allineata sulla sua stessa velocità. L’incidenza del tempo è un altro nervo scoperto di questa rassegna, e di certo non tradisce gli innumerevoli discorsi che si sono costruiti in questi anni. E di cui sembra che gli italiani abbiano fatto il proprio cavallo di battaglia, senza però talvolta riuscire ad afferrarne la portata. Rossella Biscotti è un’altra artista che non fa un’ottima figura: la sua ricostruzione dell’archeologia della storia de “Il processo”, che è anche titolo dell’installazione, per Autonomia Operaia del 198384, in cui vennero accusati Antonio Negri e ad altri pensatori italiani di ideologia terrorista, atta a fomentare gli attacchi negli anni Settanta, non mette in scena nulla se non un ideale intervista al muro dell’aula bunker del foro italico -di cui alcuni pezzi sono in sala-, che non tradisce il vecchio adagio “Se i muri potessero parlare”. Infatti sta zitto. Eppure tutto, in questa Documenta, grida di conoscenza e coscienza, per quello che è stato e per quello che attualmente ci troviamo di fronte agli occhi, senza atti d’accusa tout court ma cercando di rielaborare il passato, come dolore e interrogazione, che aggalla in ogni angolo, facendo di questa mostra un coacervo di soglie su diversi punti di vista. Accade anche nel lavoro di Sanja Iecović, dedicato ai dissidenti e ai rivoluzionari che hanno costellato il XIX e XX secolo, idealmente raccolti sotto teca in forma di asini-pupazzetti: Pino Pinelli, ferroviere accusato di aver causato la strage di Piazza Fontana a Milano, nel 1968, e “caduto” da una finestra del commissariato di Piazza Beccaria dopo tre giorni di interrogatorio, Rosa Luxembourg, Carlo Giuliani e Primo Levi, sono solo alcuni di questi animali “cocciuti” che nonostante le avversità guardano avanti e assolvono al loro lavoro, molto spesso incuranti del ruolo di capro espiatorio che gli spetta. Non è un caso che a corredo
are single machines, which still have a Duchamp touch, but without leaving much of his visible traces. References are made to the switch of concepts after WWII, to the rewriting of industry, to reconversion, but on what these play on the niche audience and not a strong pressure, it is the idea and vision of a perfect movement, perpetually transmissible; an equation that could go on endlessly but never in potency, always set on the same speed. The incidence of time is another raw nerve of this event, and surely does not betray the countless speeches that have been built during these years. And which the Italians seem to have made their strong point, although without having understood its importance. Rossella Biscotti is another artist who does not seem to make a good impression: her reconstruction of the archeology of history in “Il processo” (the trial), which is also the installation’s title, made for Autonomia Operaia in 1983-84, in which Antonio Negri and other Italian thinkers of terrorist idelogy were accused, and it was created to foster attacks during the 70s, without staging anything more except an idealised interview to the bunker wall of the Foro Italico, whose excerpts are present in the hall, and which does not betray the old adage “if walls could talk”. And as a matter of fact it remains silent. Indeed, everything in this Documenta, screams knowledge and consciousness, for what had been and for what we presently have before our eyes, with no clear charges but trying to reprocess the past, as pain and inquiry, which floats in every corner, turning this exhibition into a patchwork of thresholds under many points of view. It also happens in Sanja Iecović’s work, dedicated to dissidents and revolutionaries that dotted the Nineteenth and Twentieth centuries, ideally collected in a showcase as plush donkeys: Pino Pinelli, railway worker accused of causing the Piazza Fontana massacre in Milan in 1968 and who “fell” out of a window of the police station in Piazza Beccaria after three days of questioning, Rosa Luxembourg, Carlo Giuliani and Primo Levi, they are just a few of these “stubborn” animals that despite the adversities, look forward and carry out their work, often regardless of their future role as scapegoats. It is no coincidence that together with the installation also came a picture from 1933, printed and reproduced on twenty billboards around the city, in which a donkey in a barbed wire enclosure is guarded by an SS soldier, before the eyes of the people of Kassel in Opernplatz, close to the Fridericianum. A warning to those “stubborn” Germans who, despite the anti-Jewish laws continued to buy in shops run by Jews. And again a pressing story heard in the park, in the sound installation by Janet Cardiff and Georges Bures Miller: a moment of “collective prayer”, beginning with dimmed and ambiguous sounds of steps in the woods, mixing in
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documenta (13) Previous page: Claire Pentecost When you step inside you see that is it filled with seed installazione all’Ottoneum Kassel, 2012
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dell’installazione vi fosse anche un’immagine del 1933, stampata e riportata in venti cartelloni pubblicitari in giro per la città, dove un asino in un recinto di filo spinato era tenuto a guardia da una SS, sotto gli occhi degli abitanti di Kassel raggruppati in Opernplatz, a due passi dal Fridericianum. Un ammonimento ai cittadini tedeschi “ostinati”, che nonostante le leggi razziali perseveravano a comprare in negozi gestiti da ebrei. Ecco ancora una storia scottante che si ode anche, di nuovo, nel parco, nell’installazione sonora di Janet Cardiff e Georges Bures Miller: un momento di “preghiera collettiva”, partendo dai toni soffusi e ambigui di passi in un bosco, mischiando nella mente l’idea che si tratti di alcuni amanti o di un’imboscata, e che ha il suo culmine in una sparatoria e nel boato di un attacco aereo e di legno spezzato. Non a caso “For a thousand years”, questo il titolo, è stata una delle operazioni su cui il pubblico ha passato più tempo. Seduto intorno ai suoni si è abbracciato e si è commosso. Sintomo della necessità di partecipare a un’azione che, seppur rarefatta, contenga in sé tutta la capacità intrinseca dell’arte di farsi empatia, terreno comune, ricordo collettivo e memoria storica. E segno che la poetica è sempre un gesto di azione politica. E nonostante a Documenta, com’è giusto che sia, non vi sia nulla di quello che si può considerare “l’arte per l’arte” o, peggio ancora, “l’arte per tutti”, in molti lavori si scorge una vena romantica, e sono diversi gli atti curatoriali che non prescindono dall’anima dei lavori e dalla loro natura. A proposito, di nuovo alla Documenta-Halle, il gabinetto dei lavori di Gustav Metzger sia stato occultato alla vista, disposto in teche su cui sono stati inseriti drappi di velluto che via via dovevano essere sollevati dai visitatori, impedendo una visione globale del corpus delle opere su carta dell’artista tedesco, realizzate dal 1945 al 1960, prima del periodo dell’Arte Auto-Distruttiva, iniziata proprio nel 1959 con il manifesto omonimo. Alzare il velo per poter osservare questo corpus di pittura informale, rimasto sepolto nella cantina di casa dell’artista fino al 2010, è una sorta di atto dovuto, non tradendo il rispetto per l’altro che questa Documenta ci insegna. E insieme alla storia arriva la denuncia e, altra nota di merito, si arriva al lavoro di Mark Lombardi, con “BCCI, ICIC & FAB”, quarta versione di un grafico che ricorda una costellazione, iniziato nel 1972 e completato nel 2000, poco prima del suo suicidio, avvenuto in circostanze misteriose nella casa di Williamsburg. Per tutta la vita Lombardi, una laurea in storia dell’arte all’università di Syracuse, ha ordinato e ordito le trame della politica internazionale e dei suoi scandali, del riciclo di denaro sporco, delle collusioni tra potere e mafie di ogni genere, imbrigliando nei suoi schemi scandali e figure chiave dei governi statunitensi e occidentali. Diventando più che scomodo.
the mind the idea that it could sound instead like lovers or an ambush, and which has its peak in a shooting and the roar of an air raid and the sound of broken wood. It is no chance if “For a thousand years”, the title, is one of the operations which the audience spent most time on. Sitting around these sounds people hugged each other and were moved by them. Sign of the necessity to take part in an action which, even if rarefied, would contain all the intrinsic capacity of art to create empathy, a common ground, collective remembrance and historical memory. And sign that the poetics are always a gesture of political action. And even if in Documenta, as it should be, there is nothing which could be considered “art for art” or worse “art for everybody”, in many works one could see a romantic mood, and there are various curatorial acts which are not irrespective of the works’ soul and of their nature. By the way, still at the DocumentaHalle, Gustav Metzger’s cabinet of works was placed in showcases where velvet drapes were inserted and which the visitors pulled up, preventing a global vision of the German artist’s corpus of paper works created between 1945 and 1960, before the Self-Destructive Art period, which began in 1959 with the manifest of the same name. Pulling up the veil to see this corpus of informal paintings that remained buried in the artist’s basement until 2010, is almost due, without betraying the respect to the other, something which this Documenta teaches to us. And together with history also comes the complaint and, other note of credit, we get to Mark Lombardi’s work, with “BCCI, ICIC & FAB”, fourth version of a chart that resembles a constellation, begun in 1972 and completed in 2000, just before his suicide, occured in his house in Williamsburg in mysterious circumstances. For all his life Lombardi, who had a degree in art history from Syracuse University, classified and plotted the threads of international politics and their scandals, of money laundering, of clashes between powers and mobs of all kinds, enclosing in his schemes scandals and key figures of American and Western governments. Becoming more than inconvenient. At the Ottoneum, the tiny natural history museum of Kassel, involved in Documenta like the rest, there was on show what probably was the closest tension to “nature”, topic which the event could not escape from dealing with. Not only poor materials –since among the other “stars” there were also Giuseppe Penone and his bronze tree in the Karlsaue and Mark Dion, who quotes Joseph Beuys and his seven thousand oaks planted in Kassel between 1982 and 1987, in his remake for the hexagonal library, on the third floor of the museum, completing the wood encyclopaedia begun by Schildbach- but also a very powerful
All’Ottoneum, il piccolo museo di storia naturale di Kassel, anch’esso coinvolto in Documenta, si è vista invece forse la tensione più vicina alla “natura” e all’ambiente, argomento al quale la manifestazione non poteva sottrarsi. Non solo materiali poveri -visto che tra le altre “star” ci sono anche Giuseppe Penone e il suo albero di bronzo al Karlsaue e Mark Dion, che cita Joseph Beuys e le sue 7mila querce piantate a Kassel tra il 1982 e l’87, nel suo remake per la biblioteca esagonale, al terzo piano del museo, completando l’enciclopedia di legname iniziata da Schildbach-, ma anche una fortissima denuncia ambientale e la volontà di ricostruire un discorso sociale, di diversità biologica e culturale a partire da una domanda che ritorna per la seconda volta dopo le “costruzioni” della Favaretto e di Huyghe: cosa facciamo con il nostro pianeta? Possiamo deliberatamente decidere di lasciarlo andare a quel paese, per usare il solito eufemismo, o possiamo cercare di integrare qualche soluzione “conservativa”? Mirabile la ricerca di Maria Thereza Alves sulla vicenda del lago Chalco, in Messico, che non solo inserisce in mostra una serie di plastici del bacino dissecato nel XIX secolo a causa del progetto di canalizzazione dell’imprenditore spagnolo Iñigo Noriesa Laso, ma anche un paio di esemplari vivi di Axolotl, una forma a metà tra il pesce e l’anfibio, ormai in via di estinzione, che vivevano nell’invaso disseccato, certamente orribili alla vista, ma che hanno il fascino dell’inferno o della natura tropicale, che decisamente si è sbizzarrita in forme e colori. E qui arriviamo ad un punto fondamentale, che ci pone nell’atto di prendere una decisione: estinzione o non estinzione? Sta finendo un’epoca o la nuova è già cominciata? Dipende da quale parte si guarda la medaglia: se si considera finito il tempo dell’abuso allora sarà il caso di evitare che si estinguano gli Axolotl, e di attuare un piano per salvaguardare quel poco che è rimasto in vita dei quattro laghi messicani di cui fa parte il Chalco, e non solo di questi; se invece è già cominciata la nuova era e le premesse sono verso uno sviluppo che non guarda minimamente alle problematiche che l’arte e la coscienza critica in genere segnalano, allora lasciamo che avvenga l’estinzione. Tanto, forse, nasceranno nuove specie in sostituzione. Anche se gli anfibi e i pesci di certo non potranno rinascere dalle crepe di un terreno arso. A sua volta Claire Pentecost, sempre all’Ottoneum, non ha scherzato sul tema ma anzi ha posto su tavoli dorati lingotti di terreno, come a raccontare che lo spazio della Terra su cui ci muoviamo è uno e unico, e oggi prezioso come l’oro. Lo sanno bene le popolazioni indigene, lo sanno bene gli indignados e lo sanno anche gli imprenditori, che invece di riconvertire o lasciare alla riqualificazione aggiungono cemento. Semi, terreno, animali, ambiente non fanno che aggiungere benzina sul fuoco a quello che sarà il
environmental protest and the will to rebuild a social conversation, of biological and cultural diversity that would start off from a question which comes back for the second time after Favaretto’s and Huyghe’s “constructions”: what are we doing with our Planet? Can we deliberately decide to let it go on its own course, or could we try to supplement with a few “conservative” solutions? Admirable Maria Thereza Alves’ research on lake Chalco, in Mexico, which not only includes in the exhibition a series of models of the lake, dried in the Nineteenth century thanks to the Spanish businessman Iñigo Noriesa Laso’s project to create canals out of it, but also showing a couple of live Axolotls, a kind of amphibious-fish, threatened to extinction, which used to live in the dried lake. Surely horrible to see but that also possess the charm of hell or tropical nature, which clearly indulged in extravagant shapes and colours. And here we come to a fundamental point which forces us to make a decision: extinction or not extinction? Is one era already ending or has the new one already begun? It depends on which side we look at the medal: if we consider the time of abuse ended then it would be better to prevent letting the Axolotls to die out and to implement the plan to protect what remains of the four Mexican lakes which the Chalco is part of, and not just these ones; if instead the new era has already begun and the preambles point towards a development that does not care about the problems which art and the critical consciousness at large underline, then let’s the extinction happen. Maybe new species will originate in replacement. Even if amphibians and fish will not come out from the cracks of a burnt ground. Claire Pentecost in turn, still at the Ottoneum, did not joke about that theme but instead put soil bars on golden tables, as if to tell that the Earth space on which we move is one and unique, and today it is as precious as gold. Indigenous peoples know that well, the indignados also know it and businessmen too, the ones that instead of redevelopping or leave areas to be requalified, keep on adding concrete on concrete. Seeds, soil, animals, environment just keep on pouring gasoline on fire on what will be the next universal Expo theme, due in Milan in 2015, whose founding theme will be “Feeding” itself. A paradox or a sudden moment of awareness, decades after the problem that plagues three quarters of the Planet came up, and which will be declined in who knows how many ways, but most of all who knows if it will bring a possible solution to that. Who knows if a new wind will blow again on these topics, like the wind that blows Ryan Gander in the Fridericianum entrance and in the Orangerie. A light and fresh breeze, not immediately recognisable as an artificial
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documenta (13) tema del prossimo Expo internazionale, previsto a Milano per il 2015, il cui tema fondante sarà proprio il “Nutrimento”. Un paradosso o forse una presa di coscienza a distanza di decine d’anni dalla venuta alla luce di un problema che attanaglia i tre quarti del pianeta, che chissà in quali chiavi sarà declinato, ma soprattutto se porterà qualche soluzione plausibile. Chissà se un nuovo vento tornerà a soffiare anche su questi punti, proprio come quello che fa soffiare Ryan Gander all’ingresso del Fridericianum e all’Orangerie. Una brezza leggera e fresca, non immediatamente riconoscibile come artificiale, incontro tra interno ed esterno, segno che oltre le quattro mura dobbiamo fare anche i conti con la natura del pianeta. Ultima nota per l’opera di Lea Porsager, concepita sul Monte Verità di Ascona, in Svizzera. In una piccola casetta del Karlsaue la ricerca di Porsanger, dedicata all’indagine del ruolo dell’occulto, delle culture alternative, degli spazi di resistenza e delle possibilità determinate dalla trasgressione del razionale, prende forma con “The Anatta Experiment”, dove l’artista danese riprende il filo storico e antropologico che accompagna dai primi del Novecento la piccola collina svizzera, covo negli anni di anarchici, dadaisti, promotori dell’amore libero, disertori e allergici alla società materiale, invitando sette amici per una rimessa in atto di un processo che richiama le leggi tantriche e i relativi processi oscurati dalle leggi della normalità, richiamando nella location proprio il piccolo ristoro del monte svizzero. Lavori creati per compiacere il pubblico? Probabilmente nessuno. Qualcosa che strizzi l’occhio e che sia disimpegnato, ironico, giocoso o che faccia rima con tutti i crismi che il contemporaneo più becero talvolta espone con successo? Nemmeno. Per il resto invece tutto è piuttosto denso, quando non multiforme. Lo sguardo ampliato della curatrice ha creato una Documenta che racconta il nuovo linguaggio, il codice prossimo venturo, in fieri in questo nuovo spicchio dell’inizio della seconda decade del nuovo millennio. Il presente è meno lontano, l’arte in qualche modo, come sempre, ci fa da guida nonostante le sue stesse asperità. E i nuovi termini sono lì, sul palcoscenico. Pronti a ricevere un nuovo benvenuto.
Alighiero Boetti Mappa embroidered tapestry made in Afghanistan, cm 147x228 1971
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one, a meeting between interior and exterior, a sign that even beyond our walls we need to deal with the Planet’s nature. A last note about Lea Porsager’s work, planned on Monte Verità in Ascona, Switzerland. In a small house in the Karlsaue Porsager’s research, dedicated to the investigation on the role of the occult, of alternative cultures, of the spaces of resistance and those possibilities defined by the breach of rationality, it takes form with “The Anatta Experiment”, where the Danish artist picks up again the historical and anthropological thread which follows the little Swiss hill’s history through the Twentieth century, that during the years had been a den for anarchists, dadaists, promoters of free love, deserters and the ones allergic to material society, inviting seven friends to reenact the process which evokes tantric laws and their trials that were obscured by normality, reminding in its location the little shelter on the Swiss mount. Any pieces created to please the audience? Probably none. Anything which would catch the eye or that is uncommitted, ironic, playful or that would rhyme with all the credentials of the most vulgar contemporary art which is often displayed and with success? Not even that. As for the rest instead, everything is pretty dense, or even manifold. The curator’s wide look created a Documenta which tells about a new language, the code of the near future, in progress in this new segment of the beginning of the second decade of the new millennium. Present is less far, art is, in a way, as always the guide, despite its own roughness. And the new terms are there, on the stage. Ready to receive a new welcome..
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con-fine rispetta lâ&#x20AC;&#x2122;ambiente respect enviroment tutte le pubblicazioni sono su carte certificate all pubblications are on certificated papers
-fine
I
l 2012 non è certo stato un anno facile e, tantomeno lo è stato per il mondo dell’arte e della cultura. Tuttavia nelle crisi, se affrontate anche come momenti di riflessione, si possono trovare - assieme alle difficoltà, alla fatica, al dolore, alle macerie - sicuramente anche insegnamenti e opportunità con cui, diversamente, non avremmo avuto modo di confrontarci. Anche per noi, questa è stata l’occasione di testare quanto ciò che abbiamo costruito in questi anni fosse in grado di reggere agli scossoni e, nonostante il terremoto sia stato decisamente forte, sembra che le mura di con-fine siano riuscite a tenersi in piedi. Credo che questo sia stato possibile perché la nostra è un esperienza costruita, da un lato, sulle solide fondamenta della serietà e della coerenza, da un altro sull’apertura e sulla condivisione. Entrambe queste cose hanno portato tutti coloro che hanno percorso anche solo un pezzettino di strada nel nostro perimetro a lasciare un proprio mattoncino in questo cantiere della cultura, contribuendo a tirare su, giorno dopo giorno, una costruzione stabile e resistente: un luogo dove poter con-dividere idee, confrontarsi su progetti artistici e culturali con la consapevolezza di muoversi su un percorso concreto e, soprattutto in una direzione chiara e trasparente, spinti da quella sana curiosità che ci costringe a cercare di capire il mondo che ci circonda, scomponendolo, indagandolo a fondo, ricercandone le ragioni e seguendone il movimento. Questo è l’unico modo che conosciamo, questo è l’unico modo che siamo e che continueremo ad essere, assumendoci la responsabilità di non andare mai incontro al gusto del pubblico - come purtoppo sempre più spesso fa il mondo dell’editoria - ma di continuare a lavorare per conoscere e far conoscere gli uomini e la loro intelligenza, quel volano della ruota che produce parole che valga la pena pubblicare e opere d’arte che valga la pena guardare. E continueremo a stimolarla, quell’intelligenza, con una critica sana e feroce affinché non si impigrisca mai assuefacendosi alle lusinghe del successo. Cercheremo di essere ancora di più catalizzatori di idee e di lavoro, per diffondere ciò che davvero ha peso e valore per introdurre le nuove tendenze della ricerca artistica e letteraria, per far emergere, dal magma del qualunquismo e della mercificazione, ciò che di profondo e vero c’è nella nostra società.
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012 was not an easy year at all, and nor it was for the art and culture world. However in crisis, if faced as moments of reflections as well, one could surely also find - together with difficulties, effort, pain, ruins - teachings and opportunities with which, otherwise, we would not have had the chance to confront. For us as well, this had been the occasion to test whether what we built through the years would have been capable to resist the jolts and, although the earthquake had been particularly strong, it would seem like con-fine’s walls managed to withstand. I believe that this had been possible due to the experience we gained, on the one hand, on the solid foundations of seriousness and coherence, on the other hand on the openness and sharing. Both these things had made everyone that travelled even for a short part of the way in our perimeter to leave one of their bricks in this culture construction site, contributing to build up, day after day, a firm and strong building: a place where it is possible to share ideas, confront others on artistic and cultural projects with the awareness of proceeding on a concrete path and, especially towards a clear and transparent direction, pushed by that healthy curiosity that forces us to try understanding the world around us, breaking it up to pieces, investigating it deeply, looking for its reasons and following its movement. This is the only way we know, this is the only the only way we are and that we will still be, taking on the responsibility not to clash with the readers’ taste like it is unfortunately often done in the publishing world - but instead keep working to know and let others know people and their intelligence, that flywheel which produces words worth publishing and works of art worh seeing. And we will keep stimulate that intelligence, with a healthy and fierce critique so that it will never get lazy accustoming to the flatteries of success. Thus turning the new year’s page we will try to be even more catalytic of ideas and of work, in order to spread what really has weight and value to introduce new artistic and literary research trends, in order to bring out from the magma of indifference and of commodification, what is deep and true in our society.. GF
Voltando pagina. Turning the page.
S EDE
V.le Regina Margherita n. 15 95125 Catania Tel. 095 327310 - 095 321401 brancati.carlevani@gmail.com www.admajora.net www.literary.it La Fondazione, diretta dalla Prof. Bianca Brancati Carlevani, è stata istituita a Catania il 13 Settembre 2007. Promuove attività di tutela e valorizzazione dei beni di interesse artistico e storico. A cadenza periodica promuove premi di letteratura dedicati a scrittori di rilevanza nazionale, nonché di personalità che si sono affermate e che si distinguono in campo letterario, musicale scientifico e artistico. In collaborazione con l’Università degli Studi di Catania vengono organizzate manifestazioni ed eventi, mostre d’arte, convegni, seminari, concorsi letterari e attività editoriali a contenuto artistico e letterario. Bianca Brancati Carlevani: Pittrice, grafica, scultrice, designer e poetessa, ha collaborato con vari periodici in qualità di critico d’arte. The Foundation, headed by Prof. Bianca Carlevani Brancati, was established in Catania on September 13, 2007. It promotes the protection and enhancement of artistic and historical interest. Periodically it promotes awards of literature dedicated to writers of national importance, and qualified persons who have established themselves and are distinguished in the literary, musical, scientific and artistic. In collaboration with the University of Catania it organizes exhibitions and events, art exhibitions, conferences, seminars, essay contests and publishing activities in artistic and literary content.
Parole e Segni
Equilibri compositivi, Collage, 24×36 cm. Cromatismi letterari, Collage, 25×35 cm.
Villa Luisa: Clinica della Scultura Laboratorio per l’Arte
e per il Restauro
Lucia Schiavone Il restauro del gruppo scultoreo policromo di S.Antonio da Padova in Bitonto. Edizioni Helicon, 2011
Caronte Bassorilievo in terracotta patinata cm 41x29x2 Anno 1991
Villa Luisa: Clinica della Scultura. Laboratorio per l’Arte e per il Restauro di Lucia Schiavone dott.ssa in Beni Culturali. Via F. Speranza n.18 - 70127 Bari - S. Spirito - Italia cell. +39 340 7799445 - lulu.schiavone@live.it
Lucia Schiavone San Pasquale di Baylòn. Il restauro del gruppo scultoreo policromo. Edizioni Helicon, 2010
Lucia Schiavone
Pubblicazioni:
Alessandro Ciralli Alessandro Ciralli nato a milano il 9 aprile 1964 ha cominciato inizialmente come autodidatta poi ha frequentato la scuola d’arte del prof. Ilario Bali’ a milano dal 1994 al 1998 esercitando gli studi di anatomia. Alessandro Ciralli born in Milan April 9, 1964 began initially as a self-taught then attended art school prof. Hilary Bali’ in milan 1994-1998 exerting studies anatomia.
www.alessandrociralli.com
Fantasmi Imperfetti Olio su Tela Oil on canvas
Piero Perrino Nei suoi quadri più astratti, l’irrompente gestualità e il ritmo dinamico delle pennellate evoca la pittura dell’action painting, in cui sia la potenza del colore che quella del segno si concentrano esclusivamente nell’azione, nel gesto istintivo. Il ritmo e la forza interiore di queste pennellate emanano spiritualità e mistero, là dove finisce il raziocinio dell’uomo subentra l’istinto irrazionale dell’artista...
C.da Colli, 69 - 86010 Ferrazzano (CB) Italy pieroperrino@gmail.com
In his paintings more abstract, the impetuous gesture and rhythm dynamic brushstrokes evokes the painting action painting, which is the power of color to that of the sign focused exclusively in action and instinctive. The pace and the inner strength of these brushstrokes radiate spirituality and mystery, where it ends reasoning man takes over the irrational instinct of the artist ...
Lorenzo Polimeno Quella di Polimeno è una pittura innovativa nello stile,fantasiosa via Galatina 122, 73010 Sogliano Cavour (LE) nei soggetti, contemporanea nelle tecniche….Ecco, dunque tel 0836 543274 la formula vincente dell’artista salentino:la realtà indagata nel profondo, spogliata del superfluo e dotata di una nuova vita, quella dell’intimismo. Impegnato da anni nell’elaborazione di proflorenzopolimeno@alice.it un linguaggio particolarissimo l’artista si muove all’insegna di quello che potremo definire ‘Marginalismo’, provocatoria proposta di un mondo policentrico, fatto di scambi tra centri paritetici e non subordinati. Polimeno’s painting is innovative in style, fantastic in his themes but contemporary in technics… the painter examines deeply the reality towards an inner new life. He works for presenting his marginal ideas about global world .He hopes a less subordinate world , in its political and social borders.
Antonella Stellini Assemblare vuol dire riconoscere una nuova ed inconsueta dignità agli oggetti che di volta in volta, diventano nuove realtà anche in grado di stupire. I rifiuti, gli scarti di vetreria (scoasse in veneziano), tutti i manufatti inutilizzabili ma senza un preciso ordine estetico, sono comparabili ad una tastiera di pianoforte oppure ad una tavolozza in grado di dare esaltazione creando nuove armonie. Assemble it means recognizing a new and unusual dignity to object which from time to time, become new realities in astounding. Waste, waste glass (scoasse in Venetian), all but useless artifacts without a definite aesthetic, are comparable to a piano keyboard or a palette that can give excitement creating new harmonies.
Via Stanga n.2 - 37139 Verona Telefono: 045/8904684 335/323788 antonella.stellini@hotmail.it
Rita Paola Roma - Italy arte.gallery@tiscali.it www.galleryart-ilcollezionista.it www.art-gallery-ilcollezionista.it Gioia Acrilico su tela Acrylic on canvas cm 80x60 - 2007
Rita PAOLA è di origini calabresi ma da molti anni vive e lavora a Roma. Rita PAOLA is from Calabria but since many years she lived and worked in Rome. Recenti esposizioni a / recent exhibitions in: Sanremo, Venezia, Barcellona, Berlino, New York, Parigi: Carrousel Du Louvre - Istituti Italiani di Cultura a: Stoccolma, Monaco di Baviera, Helsinki, Tallinn, Sydney - Permanenza: Roma: Galleria “Il Collezionista”, Museo “Guidi”, Vincitrice del: IV° Festival Internazionale dell’Arte di Roma ; Premio “Il Muro della Libertà” a Berlino
Clelia Cortemiglia Milano - Italy info@cleliacortemiglia.com www.cleliacortemiglia.com
Spazio-Luce Acrilico e oro Acrylic and goldleaf cm 50x70 - 2007
Clelia Cortemiglia vive e lavora a Milano. Clelia Cortemiglia lives and works in Milan. Esperienze lavorative con Lucio Fontana. She worked with Lucio Fontana. Mostre recenti / recent exhibitions: Madrid, Istituto Egipcio de Estudios Islámicos; Istituti Italiani di Cultura a: Stoccolma, Monaco di Baviera, Helsinki, Tallin, Sydney - Londra: Contemporary Arts Fondations; Washingt D.C. – The White House Paris - Espace Kiron, Torino - Biennale Roma - Galleria “Il Collezionista”
Sergio Muntoni info@sergiomuntoni.it www.sergiomuntoni.it
Con questo pittore del nuorese, finalmente si ricomincia a parlare di figurazione. Quella seria, in cui la realtà non può sfuggire dal suo destino o binario umano. Muntoni ama il paesaggio tipico della sua terra inquieta e malinconica, ma possiede anche la forza di rappresentare figure contadine. Egli è artista prettamente di scuola realista. At last with this painter from Nuoro we begin again to talk about figuration. That series in which reality can’t escape to its destiny of human track. Muntoni loves the typical land scape of his troubled and melancholy land but he also gets the strength to represent farmers, peasants, he is an artist melery of realistic school .
Vladimir Zibrov via Gregorio VII, 172 - ROMA vladimir.zibrov@fastwebnet.it
Nato a Mosca nel 1972. Sin dall'infanzia adorava disegnare le storie a fumetti. In età di 8-9 anni frequenta la scuola di pittura. Attualmente lavora a Roma come giornalista. Ha riscoperto la vecchia passione all’improvviso, ma questa volta per la pittura ad olio, alla quale si dedica con certa continuità dal 2000. Ha hartecipato a varie mostre collettive e personali presso l'associazione romana SpaziOfficina. He was born in Moscow in 1972. Since childhood, he loved drawing comics. In the age of 8-9 years at the school of painting. He currently works as a journalist in Rome. He suddenly rediscovered the old passion for oil painting, which devotes some continuity since 2000. He hartecipato in various group and solo exhibitions at the Roman association SpaziOfficina.
I.T.V. Holz-Art Gallery
Ensemble Sonnenburg Augenblicke cm 70x60 Öl Holztafel - olio su tavola 2012 …Sono paesaggi fantastici eppure reali (ma il “reale” è “fantastico”, ma anche viceversa), quelli di Annemarie Ambrosoli, dove la “riconoscibilità” eventuale dei luoghi non appartiene all’essenza della produzione artistica, ma in gioco, è, invece, la resa cromatica e delle forme… Ciò che conta, come si è detto, è altro, è una possibilità di ri-vedere noi stessi e l’ “altro”, offerta in forma visiva; ecco allora che l’aspetto “descrittivo” dei paesaggi (rapportati a determinati luoghi) della “tirolesità” rimane un aspetto meno importante, quasi inessenziale, se non forse per chi si diverta a riscoprire facili e “immediate” corrispondenze. Da valutare contestualmente, ossia riferendosi al macrotesto, da cui emerge una vera e profonda fragranza, quella fragranza che sa di ciò che è vero, fondamentale, slegato dalla/e contingenza/e. …They are fantastical yet real landscapes (although “real” is “fantastical”, but also the other way around), the ones of Annemarie Ambrosoli, where the possible “recognisability” of the places does not belong to the essence of artistic production, but in the game instead is the shapes’ chromatic return… What matters, as said, is something else, it is the possibility to re-view ourselves and the “other”, a possibility offered in a visual way; then here the “descriptive” appearance of landscapes (related to certain places) of “Tyrolesity” remains a less important aspect, almost inessential, if not maybe for the ones who delight themselves rediscovering easy and “immediate” matches. Something to simultaneously evaluate, i.e. referring to the macrotext, from which a real and deep fragrance emerges, that fragrance that smells like what is real, fundamental, detached from contingency. Prof. Eugen Galasso, docente universitario e istruttore di disegno onirico.
www.itv-holz-art.at A-9640 Kötschach-Mauthen Tel. +43 (0) 664 8558485
Annemarie Ambrosoli
L’a r t is t a s a r à pr e s e nt e ad A RT E PA DO VA d al 9 al 12. 11. 2012 - P ad. 1 - St a n d . 11 4
Invita gli appassionati ai suoi prossimi eventi artistici:
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dal 18 Settembre al 25 Ottobre 2012 Mostra Personale IL SOGNO DI UNA VITA Antologica dal 1955 a oggi Presso: SABRINA FALZONE Galleria Spazio Museale via Giorgio Pallavicino, 29 MILANO (Zona Pagano)
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dal 6 al 7 Ottobre 2012 Mostra Antologica Periodo Figurativo dal 1955 al 2008 - in occasione della Ottava Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI Presso: SYLVIA GIRO Studio di Arte Contemporanea Viale Monza 294, 20128 MILANO
as m alt o, or o ac ril ico ,t ec ni ca m ist as u te la, cm 10 0x 10 0x 4
Silvia Maria Teresa Giro, in arte Sylvia Giro, è nata a Milano dove vive e lavora. Ha iniziato ispirandosi all’Impressionismo francese ed è poi passata, lavorando solo con la spatola, al “Fauve” con l’utilizzo di colori molto vivaci; successivamente i suoi lavori si sono orientati all’Espressionismo figurativo.Nell’anno 2008 è passata all’Espressionismo astratto con “ACTION PAINTING”, un dripping a smalto e oro con uno stile assolutamente unico e personale che utilizza una tecnica mista unita ad un materiale da lei ideato e la cui composizione è segreta. Nella sua lunga attività artistica ha partecipato ad importanti Mostre e Concorsi in Italia ed all’Estero ottenendo ovunque ambiti riconoscimenti tra i quali “Bronzi di Riace” della Comunità Europea (2002) ed il Premio Internazionale “Art Majeur Silver Award 2009”.
dal 9 al 12 Novembre 2012 Partecipazione Contemporary Art Talents Show ArtePADOVA 2012 - PADOVA Pad. 1, Corridoio C, Stand 94
Silvia Maria Teresa Giro, in art Sylvia Giro she was born in Milan, where she currently lives and works. She began drawing inspiration from French Impressionism and then moved on, working only with the palette knife, the “Fauve” using very bright colors, then her works have been oriented figurative expressionism. In 2008 it passed with abstract expressionism “Action Painting”, a dripping enamel and gold with a unique and personal style that uses a mixed technique combined with a material designed by her and the composition of which is secret. In her long artìstic career she has taken part in significant Exhibitions and Contests both in ltaly and abroad, being awarded with highly coveted acknowledgements, such as the “Riace Bronzes” of the European Community and the International Prize“Art Majeur Silver Award 2009.
Silvia Maria Teresa Giro, in arte Sylvia Giro viale Monza 294, 20128 Milano MI per informazioni: +39 3395022459 sito Internet: www.girosylvia.it email: sylviagiro@alice.it
art collection 2012 Patrizia Polese Un’etica diversa A different ethic
Sfoglieggio - divento oro Fili di ferro, canapa e foglia d’oro tessuti a mano Wire, hemp and gold leaf hand-woven cm 120 x90 2011
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a collezione d’Arte di con-fine incontra, alla fine di quest’anno, la scultura leggera di Patrizia Polese. L’opera - Sfoglieggio - divento oro - andrà ad aggiungersi a quelle degli altri artisti che in questi anni abbiamo acquisito tramite la nostra selezione (Enzo Fabbiano, Andrea Tudini, Nicola Frangione, Milena Nicosia) e a quelle che abbiamo ricevuto in donazione grazie alla generosità di amici come Anna Boschi, Walter Materassi e Vicho. L’opera di Patrizia Polese è stata scelta non solo per la raffinatezza e la qualità del lavoro, ma per l’originalità del suo linguaggio leggero e delicato, che restituisce a tutto il suo percorso una cifra stilistica elegante e riconoscibile. A questo è da aggiungere una perizia tecnica rara che trova le sue radici nella tradizione tessile ma che diventa arte contemporanea in un sapiente accostamento di concetti che prendono forma nell’utilizzo equilibrato di materiali poveri e nobili, di fili e foglie d’oro, di vuoti e pieni. Un lavoro lento e delicato che ci rimette in contatto con quel bisogno di ritmi interiori differenti, che stiamo perdendo nella frenesia quotidiana e nella continua rincorsa verso la futilità. Patrizia Polese ci indica un’etica diversa del vivere e fare arte, seria, silenziosa e assolutamente affascinante.
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t the end of this year, the con-fine Art collection meets the light sculpture of Patrizia Polese. The work - Sfoglieggio - divento oro - will be added to those of other artists that we have acquired through our selection over the years (Enzo Fabbiano, Andrea Tudini, Nicola Frangione, Milena Nicosia) and those that we have received in donation through the generosity of friends like Anna Woods, Walter Mattresses and Vicho. The work of Patrizia Polese was chosen not only because of the sophistication and quality of work, but for the originality of her light and delicate language, which returns to its entire length elegant and recognisable stylistics. To this it can be added a rare technical expertise, which has its roots in the textile tradition but which becomes contemporary art in a skillful blend of concepts that take shape in the balanced use of poor and noble materials, of wires and goldleaves, of empty and full. A slow and delicate work that takes us back in touch with the needs of different internal rhythms, which are missing the daily grind and the continuous run-up to the futility. Patrizia Polese shows us a different ethic of living and of making art in a serious, quiet and absolutely fascinating way.
Annoiati dai soliti artisti... Bored by the usual artists...
...cerchiamo te! ...we are looking for you!
artcollection Proponi la tua opera alla Collezione di con-fine Submit your work to the con-fine art collection
www.con-fine.com/artcollection - info@con-fine.com
con-fine
Dati Opera - Data art work
submission form
Titolo - Title____________________________________________________________ Tecnica - Media__________________________________________________________ Dimensioni - Size________________________________________________________ Anno - Year:________________Quotazione - Value:_____________________________
artcollection
2013
Ogni anno con-fine nell’ambito della sua mission di promozione e sostegno dell’Arte Contemporanea seleziona l’opera di un artista fra tutti i lettori della rivista d’arte con-fine art magazine. L’opera verrà acquistata dalla casa editrice, entrerà a far parte della collezione permanente e verrà pubblicata sul numero invernale. Per partecipare compilare il presente modulo (esclusivamente l’originale), inserire un’immagine di ottima qualità dell’opera e spedirlo all’indirizzo:
Inserire qui un’immagine dell’opera Insert here an image of the art work Non inviare materiale via email Verranno selezionate solamente le opere che perverranno unitamente al presente modulo Do not send email We will select only those works that arrive together with this form
con-fine each year as part of its mission of promoting and supporting contemporary art, selects one work of an artist among all the of con-fine art magazine readers. The work will be purchased by the publisher, and it will become part of the permanent collection and it will be published in the winter issue.
con-fine art collection Via Garibaldi, 48 40063 Monghidoro (BO)
Dati Artista - Artist data Cognome - Last Name____________________________________________________________ Nome - Name___________________________________________________________________ Indirizzo - Address_______________________________________________________________ Città - City____________________________________Cap - ZIP Code_____________________ Prov. - State____________________________________________________________________ Tel. - Phone_________________________________Email_______________________________ Informativa sul trattamento dei dati personali. (art.13 Dlgs. 30 giugno 2003, n.196) con-fine edizioni effettua il trattamento dei dati personali con modalità e finalità connesse all’esecuzione dei rapporti contrattuali instaurati. I dati potranno essere comunicati a società del gruppo con-fine, ai soggetti coinvolti nelle attività di spedizione dei prodotti richiesti (es. società di spedizioni) e previo consenso dell’interessato, ad altre società di vendita diretta. Titolare del trattamento è confine edizioni al quale l’interessato potrà rivolgersi per l’esercizio dei diritti di cui all’art. 7 del D. lgs 196/03. In particolare, qualora l’interessato non desiderasse ricevere qualsiasi altra offerta da con-fine edizioni, può chiedere, in qualsiasi momento, la cancellazione dei propri dati, chiamando il numero 051 6555000 o inviando una email all’indirizzo privacy@con-fine.com Acconsento al trattamento dei miei dati personali per l’invio di comunicazioni e di altre offerte vantaggiose da parte di con-fine edizioni: Si No Autorizzo con-fine edizioni al trattamento dei miei dati personali al fine di farmi pervenire vantaggiose offerte commerciali da parte di altre aziende di vostra fiducia: Si No
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La raccolta Eugenio Balzan a Bellinzona 1944 | 2012
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MUSEO CIVICO 29.09.2012 VILLA DEI CEDRI — 20.01.2013 Museo Civico Villa dei Cedri piazza San Biagio 9 CH—6500 Bellinzona villacedri.ch Domenico Morelli La sultana torna dal bagno 1877 — 1883 circa, dettaglio Grafica Veruska Gennari www.monostudio.ch Fotografie Mauro Ranzani
Orari MA | VE 14 — 18 SA | DO e festivi 11 — 18 LU chiuso Aperture serali fino alle 20 primo GIO di ogni mese Ingresso 8.- chf | 6.00 eur Ridotti 5.- chf | 4.00 eur
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i s s u e 26 7 numero
A n n o 7 - W i n t e r 2 0 1 2 / 2 0 1 3 - c o n - f i n e e d i z i o n i - Poste Italiane s.p.a. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, CN/BO
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NUOVA APERTURA venerdì 16 novembre 2012
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