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I 24 Caprichos di Mario Castelnuovo-Tedesco: rapporto con i Caprichos di Goya e il legame tra opera e vissuto

Giuseppe Vastarella

I 24 CAPRICHOS DI MARIO CASTELNUOVO-TEDESCO: RAPPORTO CON I CAPRICHOS DE GOYA E IL LEGAME TRA OPERA E VISSUTO1

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I 24 Caprichos de Goya op. 195 sono una serie di brani per chitarra composti da Mario Castelnuovo-Tedesco nel 1961, dedicati alla celebre serie di incisioni di Francisco Goya i Caprichos. Sebbene il compositore fiorentino si ispiri per ogni brano ad una raffigurazione, e ne mantiene il titolo, un’attenta analisi ci porta a dedurre che quello di Castelnuovo non sia soltanto un lavoro di musica per immagini, bensì un’occasione per continuare, con il suo personale stile perlopiù ironico e leggero, il lavoro di critica iniziato da Goya nella fine del Settecento.

L’opera di Castelnuovo diventa quindi una stratificazione, un’esperienza trasversale tra immagini e musica che coinvolge il compositore quanto il pittore, e si presta ad un gioco di ricerca vastissimo per scovare dettagli e riferimenti biografici. È importante notare che degli 80 Caprichos di Goya non tutti hanno un’interpretazione chiara ed univoca, e lo stesso vale per l’opera di Castelnuovo. Entrambe le opere fanno parte della produzione matura dei due artisti: per Goya si parla di “maniera scura”, cioè di quel periodo particolarmente buio in cui il cattivo stato di salute del pittore e l’esperienza della guerra si ripercuotono nella sua produzione artistica. Altre opere importanti di questo periodo sono le Pitture nere e I disastri della guerra.

Castelnuovo-Tedesco durante la stesura di quest’opera aveva maturato un bagaglio di esperienze tutto sommato simili a quelle del pittore: aveva vissuto la guerra sotto forma di discriminazione, i problemi di salute, ma anche la delusione degli amici e dei maestri. Tutto questo trova posto nelle due opere, talvolta in maniera evidente, altre volte con riferimenti velati.

1 Per stilare questo mio articolo ho consultato: ANGELO GILARDINO, Un fiorentino a Beverly Hills, Roma, Curci, 2018; ID., Andrés Segovia, Caro Mario, lettere a Castelnuovo-Tedesco, Roma, Curci, 2018; JAMES WESTBY, Catalogo delle opere di Mario Castelnuovo-Tedesco: composizioni, bibliografia, filmografia, Firenze, Cadmo, 2005; MARCO RIBONI, La nascita degli Appunti nel carteggio tra Chiesa e Castelnuovo-Tedesco, «Il Fronimo» 90, gennaio 1995, pp. 12-22, ivi 91, aprile 1995, pp. 13-21 e ivi 92, luglio 1995, pp. 28-38; LILY AFSHAR, I 24 Caprichos de Goya per chitarra op. 195 di Mario Castelnuovo-Tedesco e il loro rapporto con le incisioni di Goya, «Il Fronimo» 73, ottobre 1990, pp. 11-26 e ivi 74, gennaio 1991, pp. 7-28; MARIO CASTELNUOVO-TEDESCO, Una vita di musica: un libro di ricordi, a cura di James Westby con un’introduzione di Mila De Sanctis, Firenze, Cadmo, 2005; ID., The Guitar, that Beautiful and Mysterious Instrument, manoscritto inedito, 1958; RUGGERO CHIESA, Mario Castelnuovo-Tedesco, 24 Caprichos de Goya, «Il Fronimo» 3, aprile 1973, pp. 33-34; KRISTJAN STOPAR, Mario Castelnuovo-Tedesco e la chitarra (2011), http://www.chitarrainitalia.it/pdf/Ricerca_Stopar_Castelnuovo-Tedesco.pdf (ultima consultazione 17 aprile 2021). Si vedano anche i siti: https://www.museodelprado.es/ - https://fundaciongoyaenaragon.es/ - https://mariocastelnuovotedesco.com/ (ultima consultazione 17 aprile 2021).

Francisco Goya y Lucientes, Pintor

Figura 1: Francisco Goya, Autorretrato. Francisco Goya y Lucientes, pintor (1797-1799) (acquaforte e acquatinta, 30,6x20,1 cm., museo del Prado, Madrid).

L’incisione a cui si ispira questo brano è l’autoritratto del pittore, che è usato per aprire l’opera. Il soggetto è in posa di profilo, vestito in maniera elegante, con un cappello a cilindro. Lo sguardo è ‘sdegnato’, e l’espressione del viso, sprezzante, sembra un giudizio dei vizi rappresentati nei Caprichos che seguiranno. Sebbene sia stato costretto, a causa della censura inquisitoria, a ritirare dalla circolazione le sue stampe, precisando che il lavoro fosse “di pura fantasia”, l’autoritratto del pittore come prima

immagine della serie ci fornisce un’ovvia chiave di lettura: i Caprichos sono il punto di vista di Goya sulla realtà.

Esempio 1: Francisco Goya y Lucientes, Pintor, esposizione del tema.

Il brano si apre con l’esposizione del tema, che è accompagnato dal motto «Francisco Goya y Lucientes».

Possiamo dividere il tema in due semifrasi: la prima semifrase sarà ripresa nella parte del fugato, mentre la seconda semifrase, che è una fioritura in semicrome, viene elaborata in tutta la prima parte del brano.

La sezione Fugato - Allegretto moderato occupa tutta la parte centrale del brano e vede il primo tema fugato, accompagnato da numerosi cromatismi che sottolineano l’instabilità armonica dell’intero brano, il quale gioca con ambiguità tonali per tutta la sua durata. Il breve episodio Allegramente alla Marcia presenta un nuovo tema che continua il fugato.

La ripresa della prima sezione Allegramente vede protagonista ancora la seconda semifrase del tema iniziale, riproposta con una struttura accordale più densa. Il primo Caprichos si conclude con la ripresa del motto iniziale con l’aggiunta della parola “Pintor” sui bicordi conclusivi.

Conoscendo la biografia e lo stile musicale dell’autore, si ha l’impressione che Castelnuovo-Tedesco abbia messo in opera, similmente a quanto fatto da Goya, un “Autoritratto musicale”,2 soprattutto per due motivi: lo sviluppo tematico tramite fuga, e la presenza del motto che accompagna il tema. Entrambi tratti caratteristici della produzione del compositore; la fuga è una forma particolarmente amata da Castelnuovo-Tedesco, ed è interessante guardare alla sua autobiografia per comprendere quanto questa forma sia stata assiduamente studiata dal compositore.

Castelnuovo studiava composizione con il maestro Ildebrando Pizzetti al conservatorio di Firenze e posticipò di un anno il suo diploma perché riteneva di non essere pronto alla prova della fuga. Si prefissò l’obiettivo, per meglio padroneggiare la tecnica, di scrivere una fuga al giorno, tutti i giorni per un anno.

L’esame fruttò il massimo dei voti in tutte le prove, all’infuori di una, proprio la prova di fuga! Castelnuovo, trovando banale il tema propostogli, lo trattò in maniera inusuale, dimostrando così la sua abilità, ma rompendo il modello scolastico.

Il commissario che aveva scritto il tema, indispettito, gli negò il voto massimo.

2 L’interpretazione secondo cui il primo Caprichos sia un’autobiografia in musica è già avanzata nella tesi di Lily Afshar sui 24 Caprichos de Goya, e fa riferimento ad un’intervista di Angelo Gilardino. Tuttavia nel testo non viene approfondito il motivo di questa interpretazione

La fuga a dire il vero non mi dette alcuna preoccupazione: solo che il tema [...] era così stupido e convenzionale che, per renderlo interessante, gli giuocai un brutto tiro: il tema era in ritmo binario, ed io vi applicai un controsoggetto in ritmo ternario, sviluppandolo (imperterrito) per tutta la fuga (la cosa portò poi a grandi discussioni perché il vecchio Mattioli3 sosteneva che questo procedimento non era “in stile”; e , per quanto la Fuga fosse ineccepibile, non volle darmi più di 9).4

Questa esperienza, insieme ad altre, sicuramente contribuisce alla bassa considerazione che Castelnuovo avrà degli insegnanti di Conservatorio, rifiutando nel dopoguerra la possibilità di diventare direttore del Conservatorio di Napoli.

Il motto iniziale è un chiaro riferimento alla passione del compositore per il canto. Spesso il compositore ha composto associando la voce alla chitarra come nel Romancero Gitano (per coro e chitarra), Ballata dell’esilio e The Divan of Moses-Ibn-Ezra (voce e chitarra), Platero y yo (voce recitante e chitarra).

Per non parlare della produzione vocale e operistica, che rappresenta un’importante fetta della produzione del compositore. A riguardo della sua passione per l’opera, e della sua concezione musicale e filosofica, la ricca autobiografia del compositore ne dà un quadro dettagliato:

Era inevitabile che, prima o poi, dovessi scrivere un’opera: gli italiani, l’opera, ce l’hanno nel sangue; la musica operistica era la prima che avevo ascoltato (e cantato!). [...] A me il “balletto puro” (pur riconoscendone i pregi sintetici e stilistici) non persuadeva, soprattutto per la mancanza del canto, che lo lasciava incompleto, e ne faceva quasi “un’opera per sordomuti”. D’altra parte anche il dramma musicale, quale l’aveva concepito e realizzato Pizzetti, era lontano da me, sotto un duplice aspetto: prima di tutto quello della declamazione: avevo imparato dallo stile di Pizzetti moltissimo, in quanto ad espressione e proprietà di accenti, ma quella sillabazione continua e rapidissima mi stancava, e sentivo il bisogno di una forma più cantata e distesa, di una linea vocale musicalmente più “disegnata”(questo è stato sempre argomento di molte discussioni fra me e il Maestro). In secondo luogo, la concezione teatrale di Pizzetti era un dramma moraleggiante, che della vita non vedeva se non l’aspetto tragico; mentre io (già lontano per natura dalle violente passioni e dai conflitti) vedevo nella vita, alternati e commisti (anzi addirittura inseparabili) aspetti tragici e aspetti comici, e di questi ultimi amavo sorridere, garbatamente (il che non esclude un giudizio morale: poiché ridendo castigat).5 Mi sentivo quindi piuttosto portato verso la commedia: non l’opera buffa, beninteso! ma la commedia, in quanto sintesi di elementi patetici e di elementi umoristici.6

3 Guglielmo Mattioli, (1857-1924) maestro di contrappunto. 4 CASTELNUOVO-TEDESCO, Una vita di musica cit., pp. 119-120. 5 La locuzione è incompleta nel testo originale: Castigat ridendo mores, cioè correggere i costumi con ironia. Dare insegnamenti morali attraverso forme letterarie apparentemente leggere e, comunque, divertenti. Utilizzata dal poeta francese del XVII sec., Jean de Santeuil, noto come Santolius, che la compose per un busto di Arlecchino destinato a decorare il proscenio della Comédie Italienne a Parigi. 6 CASTELNUOVO-TEDESCO, Una vita di musica cit., pp. 145-147.

Un altro elemento che emerge da questi passaggi, oltre alla passione per il canto, è la concezione poetica che Castelnuovo ha dell’opera, se Pizzetti, suo storico maestro, sceglie il dramma moraleggiante, lui è più orientato ad una commedia che è sì pronta a dare un giudizio morale sugli avvenimenti, ma a farlo con ironia.

Se nei Caprichos di Goya possiamo vedere una critica cinica e dura, nei Caprichos di Castelnuovo-Tedesco la «sintesi di elementi patetici e di elementi umoristici» è perfettamente rappresentata, in particolar modo nell’equilibrio tra brani spiccatamente ironici come Obsequio á el maestro e Si sabrá mas el discipulo? e brani drammatici come El sueño de la razón produce monstruos.

Obsequio á el maestro

Figura 2: Francisco Goya, Obsequio á el maestro, pintor (1797-1799) (acquaforte e acquatinta, 30,6x20,1 cm, museo del Prado, Madrid).

Il Caprichos n. 47 dell’opera di Goya fa parte della serie di opere che criticano superstizione e stregoneria: tema molto caro al pittore spagnolo, che riprende in altri numeri di quest’opera, tra cui il n. 60 Ensayos, n. 68 Linda Maestra, il n. 70 Devota profesion.

Un gruppo di cinque persone adoranti, porgono a una figura, probabilmente una strega, un feto. La figura sulla destra ha un viso umano, ma il corpo da capra. Ciò è più evidente nello schizzo preparatorio, in cui la figura al centro dell’immagine le bacia la zampa. Il pittore quindi ha un ripensamento e rende un semplice ossequio al maestro, un vero e proprio sacrificio umano.

Il brano, numero 20 di 24, è un dissacrante collage di citazioni ai lavori di Ildebrando Pizzetti, maestro di Castelnuovo-Tedesco.

Esempio 2: Obsequio á el maestro, tema iniziale.

L’apertura è affidata al tema de I pastori, ripreso senza nessuna variazione. La seconda frase che compone il primo periodo, è invece materiale tematico di Castelnuovo. La seconda sezione è una citazione alla Preghiera per gl’innocenti, dalla Sonata per violino e pianoforte. Se ad iniziare il brano abbiamo trovato una melodia cantabile e serena, la seconda citazione introduce una scena più solenne, mentre il Moderato - funebre, con indicazione “p espressivo e lamentoso” rappresenta il culmine drammatico del brano. Questa sezione cita la Trenodia per Ippolito morto dalla Fedra di Pizzetti. Se le precedenti sezioni sono state una discesa drammatica graduale, il breve Allegretto scherzando che inizia improvvisamente appare chiaramente come una ridicolizzazione della drammaticità precedentemente esposta.

Esempio 3: Obsequio á el maestro, chiusura

Successivamente viene ripreso il tempo primo, che sembra voler chiudere il brano, ma un’ultima codetta, che cita la Sonata per violino e pianoforte Vivo e fresco, cambia nuovamente direzione, dando una conclusione che nasce dal nulla e non è contestualizzata all’interno del brano: si tratta ovviamente dell’ultimo sberleffo, che vuole canzonare non solo l’amato maestro Pizzetti, ma anche molti accademici.

Vale la pena, per meglio capire l’astio che Castelnuovo nutriva nei confronti di una certa categoria di insegnanti, approfondire il suo rapporto con il maestro Scontrino:

I miei rapporti con lui furono, dal primo momento, tempestosi. Disapprovò senz’altro tutto quello che avevo fatto, e si mise in testa di «raddrizzarmi»! Ma, per far questo, invece di darmi dei contrappunti (che certo mi sarebbero stati molto utili) mi faceva svolgere delle composizioni su tema dato: i temi, in principio, erano miei, ma, siccome questi gli parevano troppo «originali», cominciò a impormi dei temi suoi, banalissimi […] ed io mi divertivo a camuffarli nei

modi più impensati e stravaganti (pur di contraddirlo non so cosa avrei fatto!). Egli, da canto suo, si indispettiva, si faceva giuoco dei miei «gusti raffinati» […]. I nostri gusti erano agli antipodi: aveva, sì, per Strauss, una grande ammirazione [...] ma detestava Debussy, che definiva un corruttore! Mi ricordo che, quando fu pubblicato il Martirio di San Sebastiano e vidi lo spartito sul suo pianoforte, egli mi ammonì: «questa è musica che tu non devi leggere!». Gli risposi altezzosamente che l’avevo letta prima di lui! (ed era la verità!). Un’altra volta, in Conservatorio, mentre egli era uscito di classe, mi divertì a suonare per i miei compagni (che, ligi delle sue proibizioni, non avevano mai letto una pagina di Debussy!) alcuni Preludi, egli rientrò nella stanza proprio mentre un suo scolaro prediletto stava dicendo «ma non è poi musica tanto brutta come dice il Maestro!». Mi fece una scenata, e mi accusò di corrompergli la classe!7

Castelnuovo capì che doveva cercare altrove il suo maestro di composizione e quando seppe dell’entrata in conservatorio di Ildebrando Pizzetti (1880-1968), si presentò a lui e fu accolto con grande piacere nella nuova classe, benché il passaggio burocratico verso quest’ultima fu molto spinoso. Scontrino non voleva perdere il suo allievo e si oppose con fermezza, arrivando persino a fare ricorso al ministero per cercare di impedire il cambio di classe.

Il merito di Pizzetti fu grande soprattutto per la sua abilità nel dividere i due lati dell’insegnamento della composizione: rigore massimo quando si trattava di correggere gli esercizi ma apertura totale nell’analisi delle composizioni degli allievi, che venivano analizzate insieme al maestro, e mai corrette.

Ben presto Castelnuovo divenne l’allievo prediletto di Pizzetti che lo invitava a casa sua dove si radunavano tutti i personaggi di spicco della Firenze dell’epoca, e dove assisteva in anteprima alla stesura delle opere più importanti del suo maestro, tra cui Fedra.

Molti anni dopo, in occasione del concorso Campari del 1958 Castelnuovo ebbe una grande delusione: vinse sì il concorso con l’opera Il mercante di Venezia, ma Pizzetti, che in qualità di giudice gli aveva assegnato la vittoria, si oppose alla rappresentazione della partitura in quanto consulente artistico del Teatro alla Scala di Milano.

Finalmente, l’11 aprile 1958, seppi della vittoria. [...] Ricevetti qualche giorno dopo anche la relazione della commissione giudicatrice; e questa [...] era stata scritta da Pizzetti stesso. [...] Quanto alla musica, ne lodava «... la coerenza stilistica, l’abbondanza di temi di vario carattere, sia in quando disegno melodico sia in quanto ritmo...»; «... la tessitura armonistica e contrappuntistica che rivela una maestria tecnica non comune, chiarezza di linguaggio vocale e strumentale...»; e, «... in alcuni episodi una sicura efficacia drammatica[...]». Mi faceva anche due critiche: «... certi temi, o motivi o melodie, sono spesso di una semplicità di disegno che scade in faciloneria...», e, «... la costruzione dei pezzi è non di rado di un troppo scoperto e abusato scolasticismo». [...] Rispondendo al Maestro (ed accettando umilmente il verdetto) gliene domandai più precise spiegazioni (ma a questo Pizzetti non rispose mai).8

7 Ivi, p. 85. 8 Ivi, pp. 589-600.

Inizialmente la rappresentazione dell’opera fu fissata per il 26 gennaio 1959, ma poi fu disdetta.

Il 22 aprile ci fu la cerimonia per la consegna del premio, che Castelnuovo ricorda per essere stata molto commovente.

Ma della rappresentazione del “Mercante” alla Scala (almeno ufficialmente) non si parlò più. Poterono esservi coefficenti vari, ma la causa determinante fu, senza dubbio, l’atteggiamento assunto dal mio Maestro, Pizzetti: il quale, nominato proprio in quell’anno consulente artistico della Scala, si dichiarò (come seppi in modo positivo) contrario alla rappresentazione della mia opera. Ne rimasi (questa volta si) sorpreso e addolorato! [...] Ma, alla fine dell’anno, quando (come facevo sempre) gli scrissi per mandargli gli auguri, gliene mandai una copia, domandandogli «come potesse riconciliare, nella sua coscienza di uomo e di artista, il fatto di avere prima assegnato il premio all’opera e poi di essersi dichiarato contrario alla rappresentazione». Pizzetti mi rispose [...] E la lettera (in parte) diceva: «Io son sempre stato del parere, e lo confermo, che l’opera potesse essere premiata come la migliore fra tutte quelle presentate al Concorso [...]; ma ho pur sempre pensato che i meriti dell’opera non fossero tanti e tali per cui la Commissione potesse assumere in proprio la responsabilità della sua presentazione alla Scala». Al che replicai [...]: «Caro Maestro, la risposta è, press’a poco, quella che mi attendevo; ma non posso dire che il Suo ragionamento mi abbia convinto. [...] Se Ella pensava (e ne aveva perfettamente il diritto!) che i meriti dell’opera non fossero nè tanti nè tali per cui la Commissione potesse assumere in proprio la responsabilità della sua presentazione alla Scala, allora sarebbe stato più onesto e più coerente se il premio non fosse stato assegnato affatto». A quest’ultima lettera Pizzetti non rispose. E questa è stata la fine dei miei rapporti con lui: fine triste e miserevole di una così lunga e (almeno per parte mia) così devota amicizia: che certo non tocca l’ammirazione che ho sempre avuto per lui come artista, né la riconoscenza che gli serbo per gl’insegnamenti ricevuti negli anni giovanili; ma che è certo stata, da un punto di vista umano, la più grande delusione ch’io abbia avuto in vita mia.9

Sicuramente il maestro Scontrino, insieme al commissario per la prova di fuga di cui abbiamo già parlato, fa parte della categoria di insegnanti che Castelnuovo vuole parodiare.

Un maestro che si propone di “raddrizzare” uno studente, solo perché ha dei gusti che escono fuori dai propri canoni estetici, e che vieta ai propri allievi di leggere musiche che secondo lui sono addirittura corruttive.

Possiamo tracciare un parallelismo tra il circolo di streghe adoranti satana, pronte a sacrificare la propria prole, alla classe di un maestro con i suoi allievi prediletti, mentre gli cedono la loro musica, che è piegata non alla loro estetica, ma a quella del loro insegnante.

Sicuramente Pizzetti aveva il merito di essere un ottimo insegnante in quanto i compiti erano corretti con severità, ma le composizioni originali erano analizzate insieme all’alunno senza che il maestro ci mettesse mano.

9 Ivi, pp 600-603.

Tuttavia, nell’ultimo scambio con quello che una volta era il suo allievo prediletto, sembra di leggere tra le righe (e forse anche Castelnuovo lo ha fatto) che il lavoro del suo alunno è si ottimo, ma ha l’unico difetto di scostarsi dal suo ideale estetico.

Si sabrá mas el discipulo?

Figura 3: Francisco Goya, Si sabrá mas el discipulo? (1797-1799) (acquaforte e acquatinta, 30,6x20,1 cm, museo del Prado, Madrid).

Questa incisione apre la serie di Caprichos detta Asnerías con protagonisti gli asini, il ciclo va dal numero 37 al numero 42. Il mulo, molto presente nell’iconografia di Goya, simboleggia l’ignoranza e la stupidità.

L’incisione è dominata da un asino adulto, dai tratti umanizzati (nell’incisione finale ha un cappello che gli copre le orecchie, mentre nel disegno preparatorio il copricapo non era presente). Si sta svolgendo una lezione, e l’asino adulto insegna a leggere ad altri asini più giovani. Tutti indossano abiti ed hanno connotazione umana.

Questa rappresentazione è una chiara critica che Goya, illuminista, rivolge ai falsi maestri, cioè a coloro che non hanno alcuna conoscenza da trasmettere, eppure si trovano nel ruolo di insegnanti, e se il maestro è asino, Si sabrá mas el discipulo?

Esempio 4: Si sabrá mas el discipulo? Introduzione.

Il brano, numero 15 della raccolta, si apre con un’introduzione “f” di due battute che ripete tre volte la stessa terzina di semicrome discendente seguita dall’accordo di sol. In base all’ispirazione del brano, non è difficile interpretare questa figurazione come il raglio di un asino.

Segue l’esposizione di una serie dodecafonica che termina di nuovo su una terzina discendente e accordo, seguito da un Tempo di gavotta, in cui il tema dato è armonizzato con semplicità. Successivamente il tema viene sottoposto alle tipiche trasformazioni della scuola dodecafonica e trattato in maniera simile a quanto già visto. Terminata l’esplorazione delle trasformazioni del tema in ambito dodecafonico, vi è una Musette 1: breve sezione senza segni di trattamento dodecafonico, la quale termina con la terzina di crome discendente vista all’inizio. Viene ripreso dunque il tema iniziale, ma sul suo termine nasce una nuova Musette 2, che come prima non ha elementi della serie dodecafonica, e termina con l’ormai consueto raglio. L’ultima ripresa della Gavotta ci conduce alla Coda. Il brano termina con l’alternanza delle terzine ascendenti e discendenti suonate “ff”, seguite da una cadenza in do.

È chiaro che Castelnuovo-Tedesco abbia messo in scena lo svolgimento di una lezione, in cui sono protagonisti i due asini dell’incisione di Goya: il maestro spiega la dodecafonia e assegna una serie (questo ci ricorda anche le tediose, per Castelnuovo, lezioni con il Maestro Scontrino, che era solito affidare delle composizioni su un tema dato), l’allievo svolge il compito ma poi si distrae e scrive delle Musette, perdendo di vista il tema dodecafonico. A quel punto si fa viva la solita terzina discendente, che non è altro che il raglio del maestro che lo riporta sul tema dodecafonico. La situazione si ripete più volte, finché non arriviamo alla coda, che con le terzine alternate discendenti e ascendenti mette in scena un battibecco tra i due asini. Il brano potrebbe facilmente essere interpretato come una presa in giro del sistema dodecafonico, ma la realtà è più complessa.

Castelnuovo è scettico sull’utilizzo di un sistema che mette al primo posto il processo di scrittura più che il risultato musicale, ma è comunque rispettoso del sistema dodecafonico e di Schönberg, e sebbene non apprezzi questo tipo di musica (a parte i lavori di Berg), è consapevole dell’importanza che ricopre. La vera critica di questo brano è indirizzata a tutti quei musicisti ignoranti, che hanno trovato nella dodecafonia la possibilità di scrivere delle partiture senza una solida preparazione.

Schönberg era un’intelligenza troppo acuta e sagace per non accorgersi degli equivoci, dei sotterfugi a cui si prestava il “sistema”; e probabilmente era annoiato lui stesso di vedere tanti musicisti senza talento (che non sarebbero mai riusciti a scrivere una pagina

di musica “normale”) adottare il sistema dodecafonico come il mezzo più semplice e sicuro per scrivere della musica “moderna”! E poi, sì, il sistema è importante, ma fino a un certo punto: il problema rimane sempre (con questo come con qualsiasi altro sistema) quello di “metterci dentro della musica”!10 Ma non si creda con questo ch’io voglia sottovalutare l’importanza di Schönberg e del suo contributo alla teoria musicale: nella sua orgogliosa solitudine, nella sua fede senza compromessi, egli rimane, almeno moralmente, una delle più ammirevoli figura nella storia dell’arte musicale11

Parlando dell’incontro con De Falla, autore che Castelnuovo stimava profondamente, abbiamo un’altra conferma della ricerca di una scrittura essenziale che l’autore fiorentino considera di massima importanza.

E fu lui il primo a mettermi in guardia contro le complicazioni grafiche della musica moderna: «Troppo spesso» – mi disse – i compositori contemporanei si compiacciono di artifici che sono interessanti a vedersi sulla carta, ma che poi non risultano all’audizione: mentre la musica è fatta per esser sentita!» (anzi, per correggere i musicisti da questa cattiva abitudine, da questo “peccato mortale”, auspicava che un giorno la musica non fosse più scritta, ma soltanto registrata: il che può parere anche eccessivo). Ad ogni modo questo è in aperto contrasto con un aneddoto che mi raccontò recentemente Toch, il quale, invitato un giorno da Schönberg ad assistere a una prova del suo terzo Quartetto, espresse all’autore il desiderio di ascoltarlo, senza seguirlo sulla partitura: al che Schönberg, irato, rispose: «Ma questa è musica scritta per essere letta, non per essere sentita!» E in questo contrasto di tendenze è riassunta, mi pare, tutta la “tragedia” della musica contemporanea! È superfluo ch’io dica da quale parte vadano le mie preferenze; e, almeno per me, sempre più incline alla chiarezza e alla semplificazione, il monito di De Falla non è andato perduto.12

10 Castelnuovo si riferisce ad una frase pronunciata da Schönberg, che durante una conversazione fu informato del fatto che molti musicisti francesi componevano utilizzando il sistema dodecafonico. Schönberg chiese al suo interlocutore: «E ci mettono dentro anche della musica?» 11 CASTELNUOVO-TEDESCO, Una vita di musica cit., pp. 397-408. 12 Ivi, pp. 266-269.

El sueño de la razón produce monstruos

Figura 4: Francisco Goya, El sueño de la razón produce monstruos (1797-1799) (acquaforte e acquatinta, 30,6x20,1 cm, museo del Prado, Madrid).

L’incisione vede ritratto un uomo, probabilmente Goya stesso. La testa è poggiata sulla scrivania, le mani nascondono il viso. Sulla scrivania sono poggiati alcuni fogli e una penna. Dalle spalle del personaggio si alza in volo un grande numero di uccelli notturni: gufi e pipistrelli, simbolo di stregoneria e superstizione. Accanto alla sedia dove giace l’uomo, vi è una lince, con gli occhi vigili, composta e maestosa. A differenza dei rapaci che hanno espressioni spaventate, la lince mantiene il suo carattere composto. Sulla scrivania troviamo la scritta El sueño de la razón produce monstruos (Il sonno della ragione genera mostri).

Questa incisione vede protagonista un uomo e i suoi incubi: mentre l’uomo dorme, lasciando cadere la penna e quindi abbandonando un simbolo di conoscenza e ragione, alle sue spalle si fanno avanti due tipologie di animali notturni dalla connotazione negativa: i gufi, che nella Spagna del Settecento erano simbolo di follia, stupidità e paure

irrazionali, e i pipistrelli che erano simbolo di stregoneria e superstizione; questi ultimi sono molto spesso presenti nelle opere di Goya. Accanto all’uomo siede composta e regale una grossa lince, che invece simboleggia, con il suo sguardo acuto e penetrante, l’ultimo barlume di coscienza, che può aiutare l’uomo a destarsi e sconfiggere i propri demoni. Originariamente questa incisione doveva essere il frontespizio dei Caprichos, infatti nel disegno preparatorio, sulla scrivania la scritta recita Ydioma universal. Dibujado y Grabado por Fco. de Goya, año 1797 (Linguaggio universale. Disegnato e inciso da Fco. De Goya, anno 1797).

In basso, al di fuori dello spazio riservato all’incisione, aveva appuntato una sintesi degli intenti dell’intera opera El autor soñando. Su yntento solo es desterrar bulgaridades perjudiciales, y perpetuar con esta obra de caprichos, el testimonio solido de la verdad (L’autore sogna. La sua intenzione è solo di bandire le volgarità dannose e di perpetuare con questa opera di capricci, la solida testimonianza della verità).

Esempio 5: El sueño de la razón produce monstruos, tema iniziale.

Il brano, numero 18, è in forma di Chaconne con cinque variazioni e coda. L’esposizione del tema, in re minore, è indicato con Lento e grave (Chaconne).

La prima variazione vede un arpeggio della parte armonica a coppie di terzine, mentre nella seconda variazione il tema si sposta al basso. La terza variazione Molto mosso e deciso inizia a mutare il carattere del brano: il ritmo è incalzante e alterna una croma a coppie di semicrome, inizia ad aumentare l’intensità (compare il primo “f” del brano) ed esplora il registro più acuto dello strumento. Il tema si trova ancora al basso, ed è accompagnato da un tema secondario che muove per moto retto e scandisce il ritmo della variazione. La quarta variazione (Lo stesso tempo - con impeto) vede continuare la progressione verso un carattere più mosso e passionale del brano: il tema viene riportato al registro acuto ed al basso c’è uno sviluppo fittissimo di rielaborazioni tematiche. La quinta variazione vede l’entrata del tema per diminuzione ed è l’unica variazione che presenta sostanziali differenze nell’esposizione del tema. Dopo l’esposizione della prima frase, che pure se diminuita e variata resta ancora ben riconoscibile, dalla seconda frase nasce una divagazione in cui l’autore fa largo uso di cromatismi. L’ultima parte “ff” termina con una cadenza autentica la quale porta alla riesposizione del tema, Tempo I. (Riepilogo e Coda) con indicazione “ff grave e solenne”. Al termine del riepilogo il tema diventa più tranquillo con indicazione “più dolce”. La coda riporta gradualmente il carattere del brano alla sua origine tranquilla e cantabile, parte dai toni acuti “p dolcissimo e lontano” e termina il brano con “pp dolce ma sonoro”, sull’accordo di re maggiore.

Il brano parte da un tema cantabile e sereno che raggiunge gradualmente toni impetuosi e tormentati. La coda del brano però ci riporta alla prima atmosfera, e chiude con un accordo perfetto maggiore.

L’intero brano può essere interpretato come una discesa verso l’incubo e ritorno, ma anche come metafora della manipolazione del racconto. L’utilizzo di un tema variato è molto indicativo: se guardiamo al tema come ad una verità di fatto, le variazioni ad essa legato sono il racconto che viene fatto della verità, e che quindi può essere distorto, modificato, privato del suo senso originale, pur mantenendo gli stessi assunti di base. La stessa idea può essere proposta in maniera differente, può far leva su diversi aspetti, e se l’uditore non ha una viva ragione a guidarlo, può accettare qualsiasi messaggio, indipendentemente da quanto violento esso sia. I temi che divagano rispetto a quello principale, soprattutto a partire dalla variazione 4, possono simboleggiare lo stormo di mostri che nascono dal sonno della ragione.

Una delle persone che maggiormente rappresenta il sonno della ragione che genera mostri, è sicuramente Alessandro Pavolini. Il gerarca fascista, da giovane era un insospettabile e gentile amico di Castelnuovo-Tedesco. Si unì prima allo squadrismo fascista (cosa che Castelnuovo nella sua autobiografia giustifica scrivendo «credo in buona fede e con giovanile entusiasmo»), poi ricoprì incarichi governativi nel governo fascista, e infine fu comandante delle Brigate nere.

Avevo fatto molta amicizia, a Castiglioncello, col minore dei ragazzi Pavolini, Alessandro, (di una decina d’anni più giovane di me) e, quando eravamo lontani, ci scrivevamo di frequente. Frattanto Alessandro era diventato (credo in buona fede e con giovanile entusiasmo) quello che allora si chiamava “un fascista della prima ora”: seguiva le nuove ideologie, era “squadrista” e prendeva parte alle cosiddette spedizioni punitive: tutte cose che io disapprovavo (e glie lo dissi francamente).13

Quando alcuni anni dopo, la sua musica, e quella degli altri compositori ebrei fu bandita da tutte le radio italiane, Castelnuovo-Tedesco scrisse, a quello che ingenuamente credeva ancora amico, e che nel frattempo aveva ricoperto la carica di presidente della “Confederazione fascista dei professionisti e artisti” (carica che ricoprì dal 1934 al 1939), una lettera in cui chiedeva che la sua musica e quella di altri artisti di fede ebraica fosse di nuovo ammessa nelle radio italiane.

Di che si accusano i compositori ebrei? So che in recenti polemiche giornalistiche, svoltesi sui giornali romani a proposito delle varie tendenze nella musica italiana contemporanea (e rivolte contro compositori non ebrei), si è parlato vagamente di un “ebraismo musicale bolscevizzante e sovversivo” (che nessuno sa esattamente cosa significhi); ma neppure in tali polemiche, a cui per abitudine non prendo parte, si è mai fatto il nome di un solo compositore ebreo italiano. [...] Per me e per i miei colleghi io non richiedo favori d’alcun genere: chiedo solo il libero esercizio della mia Arte e della mia Professione, in piena ed assoluta parità di doveri, ma anche di diritti, con gli altri artisti italiani.14

13 Ivi, pp. 174-175. 14 Lettera ad Alessandro Pavolini, 27 Gennaio 1938.

Naturalmente non riceverà dal gerarca fascista la risposta che sperava ma continuò a tollerare la discriminazione per alcuni mesi, fino all’approvazione della prima legge razziale che escludeva i bambini ebrei dalla frequentazione delle scuole pubbliche. Quando lesse la notizia per la prima volta, si trovava con suo figlio Pietro, che all’epoca aveva circa 13 anni.

Leggemmo li, sui giornali, la prima delle cosiddette leggi razziali: era contro i ragazzi”, era quella che vietava ai fanciulli ebrei di frequentare le scuole pubbliche, e ne faceva, fin dall’infanzia, dei paria, dei fuorilegge” Neanche in Germania si era cominciato così” E fu un colpo terribile: qualunque cosa avrei potuto sopportare, la fine della mia attività professionale, l’esproprio dei beni, ma non questo.

Castelnuovo scelse di partire per l’America, ma non fu cosa semplice ottenere i documenti necessari per l’espatrio. Dovette stabilire un primo contatto con i suoi amici dalla Svizzera, visto che le lettere passavano attraverso la censura, e successivamente si scrissero in codice. Scrisse a Jascha Heifetz, Albert Spalding e Arturo Toscanini e tutti furono di supporto, sia per quanto riguarda la burocrazia, sia per la ricerca di un nuovo lavoro sul posto. Tuttavia in quel periodo il governo italiano cercava in tutti i modi di evitare l’espatrio «agli Ebrei dicendo che i posti della “quota” erano riservati agli Ariani e viceversa». Questo gli costò mesi di viaggi in tutti gli uffici, e solo alla fine, grazie all’aiuto di un musicista amico, ricevette il permesso. L’amicizia con Heifetz fu preziosa anche una volta arrivato in America, visto che grazie alle conoscenze del violinista ebbe modo di lavorare presso la casa cinematografica Metro Goldwyn Mayer come compositore di musiche per film. Descrive così, nella sua autobiografia il momento della partenza dall’Italia:

Quel che provai in quel momento non lo saprei ridire; e chi non conosce l’amarezza dell’espatrio non la può immaginare. Non si può parlare di dolore, di rimpianto, di sofferenza morale: fu quasi uno strazio fisico, uno strappo, una mutilazione (mi parve quasi la prova generale della morte); e da allora qualche cosa è definitivamente morta in me: non la speranza, ma l’illusione; e se qualche cosa mi ha tenuto in vita è stato l’amore per i miei cari e l’amore per la musica. [...] Eppure, se torno col pensiero a quella dura esperienza, devo esser grato al destino, che (portandomi in un paese nobile, generoso, ospitale) mi ha permesso di continuare nel mio lavoro e di dare ai miei figliuoli un’educazione sana, libera e giusta: devo benedire la sorte, che (tenendomi lontano dagli orrori della guerra, dalle crudeltà delle persecuzioni, dalle follie degli animi esasperati) mi ha concesso il più grande privilegio che possa toccare ad un essere umano: quello di non odiare.15

La chitarra nel linguaggio maturo di Castelnuovo-Tedesco

Castelnuovo-Tedesco conosce la chitarra grazie ad Andrés Segovia, ed il rapporto che i due stringeranno rappresenta un sodalizio artistico e umano tra i più importanti nella vita del Compositore.

15 CASTELNUOVO-TEDESCO, Una vita di musica cit., pp. 306-307.

Nonostante la fortuna riscossa con tutti i grandi interpreti già citati, la sua musica durante gli anni americani quasi sparì dalle programmazioni, e fu proprio Segovia, che con la sua intensissima attività concertistica in cui erano sempre presenti brani del compositore, a tenere la sua musica viva.

Io non avrei certo scritto per la chitarra, se non avessi conosciuto Segovia: è lui che me l’ha rivelata; ed è “per colpa sua” se oggi la mia musica chitarristica forma una delle sezioni più notevoli della mia produzione; ed anche se in futuro dovesse esser poco (o punto) eseguita, sono lieto e orgoglioso di averla scritta per lui.16

Col passare del tempo la chitarra assume un ruolo sempre più ampio nella musica del compositore, che esprime la sua più matura cifra stilistica proprio su questo strumento, preferendolo a qualsiasi altro organico.

Quali sono le ragioni della predilezione di Castelnuovo-Tedesco per la chitarra? Sicuramente subì il fascino di Segovia, visto che apprezzava il virtuoso della chitarra e non esitò a scrivere per lui non appena gli fu chiesto, ma non solo, visto che si divertì molto a scrivere per altri chitarristi. Un esempio è la sua ricca produzione per due chitarre in dedica al duo Presti-Lagoya (Sonatina Canonica, Les guitarres bien tempérées, Concerto per due chitarre e orchestra, Fuga elegiaca), e le Greeting Cards, brani che Castelnuovo “regalava” in dedica ai propri amici, tra cui i chitarristi: Siegfried Behrend, Bruno Tonazzi, Oscar Ghiglia, Mario Gangi, Alirio Diaz, Ruggero Chiesa, e altri ancora. La sua produzione dunque, non era dedicata in maniera esclusiva a Segovia, sebbene la maggior parte delle sue opere più importanti lo sono.

Sicuramente era attratto dal suono intimo di uno strumento capace di una infinità di timbri diversi, ma il motivo della sua scelta era più profondo, e fu dettato dal suo stile musicale che andava maturando e dal fatto che contemporaneamente mentre egli lavorava sulla scrittura chitarristica, la chitarra nella sua richiesta di “semplicità” lo aiutava ad eliminare il superfluo e giungere all’essenza del suo stile musicale.

Sì, da giovane scrivevo in modo piuttosto complicato, ma poi mi sono gradatamente e “consapevolmente” semplificato; ma le caratteristiche melodiche, ritmiche e armoniche, sono sempre quelle. Ed è proprio per questo che io amo tanto la Chitarra! Non solo per la bellezza del suono, ma perché tutto deve essere essenziale! È tanto facile “darla a bere” con il Pianoforte (che una volta era il mio strumento prediletto) e ancora di più (si figuri!) colla grande Orchestra (con tutta la sua ricchezza e varietà di colori). Ma colla Chitarra no! Bisogna esser “semplici” e bisogna esser “veri”!17

Guardando agli aspetti musicali sopra esposti, in relazione alle complicazioni grafiche della musica moderna ed alla loro resa sonora, diventa chiaro il motivo della scelta della chitarra per i 24 Caprichos. La chitarra, per sua natura, richiede al compositore di scrivere in partitura solo ciò che è fondamentale, eliminando il superfluo, e ritornando sulla chiave di lettura che vede nell’opera una sorta di “Autoritratto musicale”,

16 Ivi, pp. 261-266. 17 Lettera ad Angelo Gilardino, 23 febbraio 1967.

diviene ancora più plausibile quando l’opera è dedicata allo strumento prediletto del compositore.

In questi ultimi mesi ho scritto dei nuovi pezzi per chitarra sola; ma questi escono dai limiti cronologici che mi sono imposto per questo libro (che mi pare gia illimitato!).18 Mi contenterò dunque di dire che (per quell’amore che ho portato per tanti anni alla chitarra e alla Spagna) potrei far mio quella specie di epitaffio che Garcìa Lorca ha dettato, con tanta malinconica dolcezza, in Memento (la più breve fra le poesie del Romancero): Cuando yo me muero, entiérrame con mi guitarra bajo la arena, entre los naranjos y la hierba buena...19

18 Si riferisce alla propria autobiografia. 19 CASTELNUOVO-TEDESCO, Una vita di musica cit., p. 516.

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