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Le origini del Museo Storico Musicale del Conservatorio San Pietro a Majella

Chiara Macor

LE ORIGINI DEL MUSEO STORICO MUSICALE DEL CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA

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Il Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli possiede al suo interno un’importante Biblioteca ed un Museo storico musicale di grande interesse culturale.

Il punto di partenza e l’incremento di questi due organismi si ascrive a quel particolare spaccato storico sociale di fine Settecento, che vide la necessità di far nascere, grazie all’opera di Saverio Mattei e Giuseppe Sigismondo una “Biblioteca Musica”, al fine di meglio supportare la formazione degli alunni; sarà poi nell’Ottocento e nel primo Novecento, grazie all’operato di Francesco Florimo e Rocco Pagliara, che la “Biblioteca Musica” verrà ampliata fino a comprendere non solo materiale librario ma anche un’ampia collezione di strumenti musicali ed altri manufatti artistici che saranno alla base di quello che nel 1925 verrà battezzato, sotto il direttore Francesco Cilea, il “Museo Storico Musicale” di San Pietro a Majella.1

Le collezioni del Conservatorio napoletano si distinguono per essere composte da un corpus variegato che comprende cimeli dei più importanti musicisti di scuola napoletana e di importanti interpreti di tutta Europa, strumenti musicali di inestimabile valore documentario ed artistico, fotografie e stampe, medaglie ed anche sculture e ritratti.

In particolare fu Francesco Florimo, bibliotecario dal 1826 al 1888, il fautore del nucleo collezionistico più antico; durante la sua lunga carriera di «archivario» provvederà infatti ad incamerare un’importante numero di ritratti di musicisti, commissionando opere ad artisti a lui contemporanei, quali Domenico Morelli, Saverio Altamura, Filippo Palizzi, Andrea Cefaly e molti altri, avviando peraltro un processo di decorazione degli ambienti della stessa biblioteca, trasformando quelle sale in un vero e proprio tempio della musica.

Francesco Florimo, di origini calabresi (San Giorgio Morgeto, presso Polistena), si era formato all’interno del Regio Collegio di Musica di San Sebastiano,2 dove strinse una solida e duratura amicizia con Vincenzo Bellini. Una volta insediatosi nel suo

1Per il Museo Storico Musicale del Conservatorio venne stilato un importante catalogo dall’Economo dell’Istituto, che rappresenta una delle fonti principali per gli studi sulle collezioni. Si veda dunque ETTORE SANTAGATA, Il Museo storico musicale di “S. Pietro a Majella”, Napoli, Giannini & figli, 1930. Segue a questo catalogo una seconda e piuttosto recente pubblicazione, che però non contiene tutto il corpus dei beni del San Pietro a Majella, rimandando ad un secondo catalogo (mai dato alle stampe) che avrebbe dovuto comprendere la collezione di medaglie, stampe e fotografie. Si veda GEMMA CAUTELA -LUIGI SISTO -LORELLA STARITA, Dal segno al suono. Il Conservatorio di musica San Pietro a Majella. Repertorio del patrimonio storico-artistico e degli strumenti musicali, Napoli, Arte’m 2010. 2 Florimo risulta iscritto presso il Collegio nel novembre del 1817. Qui studiò con G. Elia il pianoforte, con G. Furno partimento, con G. Crescentini canto, con G. Tritto e N. Zingarelli contrappunto. Cfr. ROSA CAFIERO, Florimo, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLVIII, Torino, Treccani, 1997.

nuovo ruolo il suo impegno si indirizzò immediatamente verso la cura della biblioteca dell’istituto, in linea con quanto fatto dal suo predecessore,

Uomo di grande cultura, un musicista innamorato della musica, dedicò la sua intera esistenza all’Istituzione, con la quale aveva instaurato un rapporto quasi osmotico. Florimo viveva infatti in un appartamento all’interno del Convitto (dove venne ritrovato morto il 18 dicembre 1888) e in cui si circondava dei suoi tesori, di opere d’arte e di cimeli. Stendardo, in una cronaca del tempo, ci racconta come doveva apparire l’appartamento del bibliotecario, fornendoci una descrizione non solo dell’ambiente di vita di questo straordinario personaggio della cultura napoletana, ma un vero e proprio spaccato di vita, una caratterizzazione che ci permette di introdurre fin da ora il suo spirito da vero collezionista:

Il comm. Florimo abita una bella casa al secondo piano dell’edifizio di S. Pietro a Majella; c’è un salotto tutto ninnoli, tutto fronzoli di caminetto, pieno zeppo d’oggetti d’arte e di archeologia, un ricco ed elegante bazar, un piccolo museo in miniatura, disposto con quella specie di sapiente confusione di un antiquario buongustaio e conoscitore. E il suo tavolino da lavoro serba il medesimo apparente disordine del salotto, perché c’è sparpagliati qua e là libri, carte, opuscoli, giornali, lettere, biglietti da visita, un calamaio elegante, tagliacarte, fermacarte, e tutti quei piccoli nonnulla da gabinetto, e, curioso particolare, c’è una piccola zucca di un bel color giallo che mette una nota allegra in mezzo a tutti quei colori svariati.3

Questo rapporto osmotico con il Conservatorio sarà un elemento fondamentale per comprendere da quale spirito fosse animato l’archivario: egli, infatti, così come aveva arredato le sue stanze, così cerco di arredare anche gli ambienti di lavoro. La “Biblioteca Musica”, sotto di lui, diventerà un vero e proprio viaggio esperienziale all’interno della storia della musica.

Continuando sulla linea tracciata dai suoi predecessori Mattei e Sigismondo, Florimo infatti tenta di arricchire la biblioteca e di acquisire quanto più materiale possibile per sopperire alla poca rappresentanza della musica e della sua storia all’interno del panorama culturale partenopeo che, da qualche anno (dapprima con i Borbone e poi sotto il dominio Napoleonico, e di nuovo sotto i Borbone) aveva cercato di ricostruire una narrazione sull’arte e la cultura napoletana.

Florimo, dunque, colleziona quanto resta di un ricordo (la grande “Scuola Napoletana” che aveva determinato le sorti del Settecento musicale di tutta Europa), lo mastica e lo definisce in una visione che, da quanto si evince dai suoi stessi scritti, è finalizzata alla creazione di un’identità “nazionale” napoletana, e ciò lo rende, di fatto, un vero e proprio figlio del suo tempo. Il fermento culturale che animava Napoli e l’Italia nel “secolo dei musei” doveva aver indotto Florimo a tentare di entrare di forza in dialogo con l’ambiente erudito, a lui così familiare, cercando di ritagliare la stessa dignità riconosciuta alle altre arti anche alla sua tanto adorata musica. Questo percorso, che lo portò ad indagare dal punto di vista storico musicale la realtà napoletana e a raffrontarla con quella italiana ed europea, lo condusse quasi in maniera naturale a collezionare

3 FRANCESCO STENDARDO, Francesco Florimo. Schizzo a penna, «Gazzetta Musicale di Milano», 32, 1880, p. 260.

anche partiture, cimeli, dipinti: tutti feticci che gli permettessero di fermare in qualcosa di visivo, materiale e perenne quella che, di fatto, è ancora oggi considerata l’arte effimera per eccellenza.4

Il progetto sostenuto da Florimo era dunque fortemente finalizzato al supporto della didattica:5

Affin di tramandare alla posterità sì care e preziose memorie, ho stabilito, prima che i miei giorni giungano al termine, di farne dono al Collegio, essendo sicuro che in nessun altro luogo potranno essere meglio conservati alla gloria dell’arte ed all’ammirazione della posterità, che in questo santuario dell’armonia. Siano essi di sprone agli alunni che vanno colà a perfezionarsi, per emulare sì grandi ingegni, che con le loro sublimi creazioni tanto in alto salirono e si gran fama acquistarono, perché si possa poi nutrire speranza che un dì anche ad essi saranno simili onori riservati.6

Ma oltre a ciò, nelle sue parole riecheggia un ulteriore bisogno, cioè quello di recuperare un’identità “nazionale” ad una Napoli che ormai non è più una capitale. Il progetto di Florimo infatti si inscrive all’interno del particolare clima culturale vissuto dall’Italia del tempo, intrisa di ideali risorgimentali che avevano spinto verso la costituzione, in tutta la penisola, di musei civici che tendevano ad esaltare le peculiarità della storia locale. Nel farlo sottolinea quanto sia importante che la sua collezione resti per sempre nei luoghi per i quali era stata pensata, legandola indissolubilmente al Conservatorio e alla città, dimostrando peraltro un profondo rispetto anche verso la volontà di quegli artisti che, da lui sollecitati, avevano fatto dono della loro opera al Conservatorio.7

4 Così scriveva Michele Ruta in un libro che riportava una serie di suoi spunti e riflessioni sullo stato della musica a Napoli, in un paragrafo espressamente dedicato ad un ipotetico museo di strumenti musicali: «Quella che tra le arti che maggiormente ha bisogno di un museo per essere documentata è la musica». MICHELE RUTA, Storia critica delle condizioni della musica in Italia e del Conservatorio di S. Pietro a Majella di Napoli, Napoli, Libreria Detken & Rocholl, 1877, p. 64. 5 Un modello cui Florimo dovette probabilmente ispirarsi per il suo progetto fu senz’altro quello offerto da Padre Giovan Battista Martini da Bologna, compositore e teorico della musica, che già un secolo prima del nostro Bibliotecario aveva avviato una collezione di ritratti e partiture poi donate al Liceo Musicale di Bologna, che aveva sede presso l’ex convento degli Agostiniani di San Giacomo Maggiore e che oggi ospita ancora il Conservatorio della città. Il fondo bibliografico donato da Padre Martini si trova ancora presso l’Istituto, mentre la pinacoteca è entrata a far parte del nuovo Museo Internazionale e Biblioteca della Musica costituitosi nel 2004 nel Palazzo Sanguinetti. Si veda sull’argomento LORELLA STARITA, Il museo storico-musicale, in Il Conservatorio di San Pietro a Majella. La tradizione musicale e il patrimonio storico-artistico, a cura di Id., Napoli, Mondadori Electa, 2008,

p. 92; LORENZO BIANCONI -MARIA CRISTINA CASALI PEDRELLI -GIOVANNA DEGLI ESPOSTI -ANGELO MAZZA -NICOLA URSULA -ALFREDO VITOLO, I ritratti del museo della musica di Bologna. Da padre Martini al Liceo musicale, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2018. 6 FRANCESCO FLORIMO, La scuola musicale di Napoli e i suoi Conservatorii. Con uno sguardo sulla Storia della musica in Italia. Cenno storico sulla scuola musicale di Napoli e i Suoi Conservatorii, con le Biografie dei maestri usciti dai medesimi, Napoli, Stabilimento Tipografico Vinc. Morano, 1882, p. 70. 7 Nel suo testamento Florimo parla chiaro: «Ripeto, poi, che nel caso il Ciel non voglia si abolisse il Collegio di Musica, o si traslocasse per superiori disposizioni in altra città d’Italia qualunque; […] tutti i ritratti ad olio dei grandi Maestri, al numero di 130 e più da me acquistati, od a me donati da Artisti Napolitani o Stranieri, come sopra legati all’Archivio del Collegio, voglio che siano dati al

Animato da questo spirito egli avvia una ricerca a tappeto di tutto quello che potesse aiutarlo nel suo intento di riscattare la “sua” musica dal triste destino dell’oblio, creando così una collezione che non prevedeva solamente, come sarebbe stato ovvio, l’acquisizione di musica in senso stretto (le partiture) o gli oggetti che servono a produrla (strumenti musicali di pregio), ma anche reliquie dei musicisti e dipinti, fotografie, litografie, lettere che provvedessero e preservare la memoria di quegli artefici che avevano resa grande l’arte.

Una collezione che fin dalla sua concezione si presenta decisamente variegata, volta all’abbellimento dei locali delle biblioteca, anche questi ultimi vissuti forse dall’archivario non solo come un luogo di lavoro o come una seconda casa, ma come un vero e proprio tempio soffuso di un’area di sacralità, in cui celebrare il culto degli antichi lustri della musica napoletana (nello specifico) ma anche della musica a lui contemporanea.8 Infatti le sale della biblioteca vennero investite di un vero e proprio progetto iconografico. L’arredo dei locali doveva presentarsi come un grandissimo catalogo di volti e cimeli dei più importanti musicisti di tutti i tempi, posti sullo sfondo di un’architettura esaltata da decorazioni allegoriche.

A dare il la a questa complessa operazione, che ha determinato il primo nucleo formativo della collezione della pinacoteca, fu la donazione che lo stesso archivario fece al Collegio di Musica, nel novembre del 1868, di 18 dipinti collezionati dallo stesso inarrestabile bibliotecario. 9

Da una lettera dello stesso novembre di quell’anno indirizzata a Florimo da Gonsalvo Carelli, un personaggio determinante per le scelte artistiche dell’archivario,10 ci appare chiaro che era già nelle intenzioni del Florimo ampliare questa collezione, richiamando (si parla di un vero e proprio «appello») i più valenti artisti contemporanei a partecipare all’accrescimento del repertorio, come per la creazione di una grande opera aperta volta a esaltare la musica italiana. 11

Museo Nazionale, e conservati in quella Pinacoteca, a patto ed espressa condizione che non sortissero mai da Napoli, essendo stata anche questa la volontà degli artisti che a mie preghiere, persuasioni e continue insistenze li dipinsero per l’Archivio del Collegio in Napoli e non altrove». Il testamento di Florimo è riportato in CAUTELA -SISTO -STARITA, Dal segno al suono cit., pp. 180-186. 8 In buona parte dei testi che trattano dell’archivio riallestito da Florimo si utilizzano termini derivanti dal linguaggio religioso. L’archivio viene definito «tempio», o ancora «santuario». Come vedremo più avanti, inoltre, gli stessi oggetti custoditi al suo interno sono investiti di una sorta di venerazione, tanto da essere equiparati a vere e proprie reliquie. 9 Di questa donazione parla lo stesso Florimo nella descrizione che fa dell’archivio all’interno de La Scuola Musicale di Napoli e i suoi Conservatori FLORIMO, La scuola musicale di Napoli cit., p. 69. 10 Gonsalvo Carelli è una figura già posta in luce da Gemma Cautela e Lorella Starita nell’ultimo catalogo pubblicato delle collezioni del Conservatorio. Il pittore napoletano, grande animatore della vita culturale della città in quegli anni, si rivela nella corrispondenza di Florimo un vero punto di riferimento per gli acquisti artistici del bibliotecario, tant’è che fu anche curatore di alcune stime dei dipinti del Collegio di Musica. Cfr. CAUTELA -SISTO -STARITA, Dal segno al suono cit., p. 19. 11 Le parole di Gonsalvo Carelli sono emblematiche circa la possibilità di ritrarre persone già morte da tempo. La questione del fare un ritratto da un modello già esistente, proveniente da una reference fotografica o dagherrotipi, bozze, incisioni ecc., è uno dei temi ricorrenti in buona parte della corrispondenza del bibliotecario con i più grandi artisti cui commissionava le opere per il Conservatorio. Carelli sosteneva «[…] Un appello circolare a tutti gli artisti Italiani, come dite nella lettera di ieri,

Come sappiamo furono in molti a rispondere a questa chiamata, ed infatti nelle collezioni del San Pietro a Majella risultano ancora presenti molti dei ritratti fatti da grandi esponenti della pittura e della scultura contemporanea, tutti artisti di cui rimane traccia nella corrispondenza con il bibliotecario,12 che si sono dimostrati entusiasti della sua idea e, soprattutto, che si sono fatti a loro volta carico di ampliare la collezione, senza dunque percepire alcun compenso per il loro lavoro.

Questa seconda gettata di dipinti, dunque, conserva una caratteristica specifica, quella, cioè, di non essere mai finita sul mercato e di essere stata creata appositamente per una destinazione specifica con uno scopo ben definito.13 Florimo, nel commissionare i ritratti, infatti, provvedeva talvolta anche a procurare agli artisti le reference visive necessarie a rendere il più verosimile possibile il soma dei musicisti.

Ed infatti sono molte le epistole in cui alcuni artefici prendevano questa marcata necessità di dedicarsi alla verosimiglianza come una scusante per la scarsa qualità del dipinto (magari derivante da una brutta fotografia prestata dallo stesso Florimo) o anche come giustifica per il ritardo della consegna.14

La necessità di preservare il soma del musicista alla memoria dei posteri sembra comunque emergere come leitmotiv della corrispondenza del bibliotecario, divenendo un elemento fondamentale per definire la qualità stessa del dipinto. Appaiono emblematiche in tal senso le parole, ancora una volta, di Gonsalvo Carelli che tratta di un dipinto di Gennaro Ruo raffigurante Gaetano Donizetti (ancora conservato nel museo del Conservatorio): «Io conosco questo ritratto ed è bellissimo, e forse più somigliante del Goghetti, perché fatto nello splendore della sua gloria, quando qui scrisse la Lucia, nel più bel momento della sua armoniosa ispirazione».15

Il dipinto, dunque, in questo caso acquisisce maggiore importanza se si presenta come più somigliante possibile al personaggio reale, tanto più che esso è stato prodotto dal vero ed in un momento di maggior fortuna del musicista, rappresentandolo all’apice della carriera, quando era per di più sul suolo napoletano, dove scrisse uno dei suoi più importanti capolavori.

non so come si potrebbe riuscire, perché questi geni essendo morti, ove andrebbero a pescare i modelli, per fare dei ritratti e dovete persuadervi, che tutti questi magnati artisti, mal volentieri si prestano ad eseguire ritratti da reminiscenze, da bozzi, e da fotografie, ed altri ritratti se non sul vero stesso, essendo opere che ordinariamente fanno i giovani perché più pazienti, ed amorosi del copiare le altrui opere per istruirsi e progredire […]» I-Nc Rari lettere 19.17/30. 12 Florimo, da incallito collezionista, conserva la sua corrispondenza intercorsa con le più importanti personalità a lui contemporanee (musicisti, politici, artisti) e le rilega insieme, donando poi il tutto alla biblioteca del Conservatorio di Musica. In particolare la raccolta della corrispondenza con gli artisti si apre con un foglio scritto a mano nel primo di ottobre del 1887 dallo stesso bibliotecario, ormai anziano, che si firma «il vecchio Florimo»: «Queste lettere che mi sono state scritte nella mia lunga vita, invece di bruciarle, mi fu consigliato di donarle a questo archivio musicale come documenti della Storia musicale di questa Scuola. Io lo fo volentieri sperando che non paia un atto di vanità senile» I-Nc Rari lettere 19.17, fol. 1r. 13 Peraltro per questi ritratti il Bibliotecario si curò personalmente di far costruire quelle cornici che ancora oggi vediamo esposte in Conservatorio, con l’indicazione del nome di ciascun musicista. 14 Un variegato esempio di queste problematiche ci viene offerto da alcune delle lettere di Florimo nella raccolta già citata e custodita presso il Conservatorio di Musica. Cfr. I-Nc, Rari lettere 19.17. 15 I-Nc Rari lettere 19.17/18.

Appare evidente che era intenzione di Florimo fare in modo che il musicista ritratto in ciascun dipinto fosse rappresentato così come doveva essere stato in vita, come se anche i suoi tratti somatici, la sua pelle, il colore dei suoi capelli e degli occhi, l’espressione, divenissero a loro volta cimelio e memoria da dover preservare e riportare ai posteri. Scrive lo stesso Florimo, infatti, nella Scuola Musicale:

Quei grandi maestri ora non sono più, sono scomparsi dalla scena del mondo; ma essi vivono nella memoria dei posteri, vivono nelle opere loro e vivono pure nelle effigie che ci tramandano le loro sembianze. E i ritratti, i busti, i bassirilievi ci ricordano quelle fisionomie, ora dolci, ora severe, ora serene, ora malinconiche, ma tutte illuminate da un lampo di genio, circondate d’un’aureola di gloria imperitura.16

Questo orrore della perdita, questa necessità di preservare in eterno il ricordo dei musicisti e della musica, appare ancora più violentemente nell’attenzione, quasi morbosa, riservata agli oggetti appartenuti a grandi compositori. Uno struggente spaccato delle emozioni che la collezione dell’archivio doveva suscitare nei tanti sensibili amatori della musica, si ritrova nel Calamajo dell’armonia, un articolo della penna di Cesare Malpica pubblicato nel «Poliorama Pittoresco» nel dicembre del 1839:

E mentre commosso andava contemplando le immagini dipinte intorno intorno de’ vari maestri che fecero immortale la nostra musica, sul grande scrittoio che è nel mezzo vidi, volgendovi l’occhio a caso, una piccola vaschetta di marmo avente nel centro una seconda vaschetta più piccola di forma circolare. E’l marmo era fatto scuro dal tempo, avea acquistata quella tinta particolare che imprimono gli anni sulle pietre … era un calamajo. Oh dissi al mio Florimo, donde traesti questa veneranda reliquie! Fa di procurarti qualche cosa che risponda al gusto moderno, o amico; questa che veggo m’ha un’aria di prosa che uccide! Sì! Rispose gravemente e fissamente guardandomi: ma sai tu la storia di quel Calamaio? … Egli fu in prima posseduto da Scarlatti. Da Scarlatti! Ah lascia che io lo baci …. E perdona la mia ignoranza … da Scarlatti! … ah fa che io lo tocchi, o amico … Memoria siffatta merita d’esser serbata in una scatola gemmata.17

Ma la storia del calamaio non finisce qui. Infatti, questo oggetto risulta così importante e così carico di significato proprio perché frutto di una storia collezionistica che, da sola, sembra descrivere tutta la parabola formativa della scuola musicale napoletana:

Aspetta, che non è tutto ancora. Scarlatti ne fece dono a Durante: e questi lo dava a Pergolesi: e Pergolesi a Jommelli: e da questi era donato a Zingarelli, che in ultimo il lasciava a me come una sacra memoria … Or dimmi ancora se puoi, che io debba fare acquisto d’una cosa moderna invece di questa! Dimmi … ma Florimo non proseguì perché mi lesse sul sembiante la commozione che invadea il mio cuore. E come non esser commosso! Quel calamaio per me valea più di quello in cui Napoleone tingea la penna che scrivea i piani delle sue battaglie. Sciogliere i problemi a cui tenea la morte di migliaia di uomini, facea del suo calamaio il calice delle amarezze … e questo invece fu fonte di cento e cento melodie. In esso era l’inchiostro, con cui Scarlatti vergava i perfezionamenti della grammatica musicale; e aggiungea grazia e chiarezza al contrappunto: con esso

16 FLORIMO, La scuola musicale di Napoli cit., p. 70. 17 CESARE MALPICA, Il calamajo dell’armonia, «Poliorama Pittoresco», 4, 1839, pp. 138-140.

Durante fissava i tuoni, dava norme alla modulazione e scrivea que’ partimenti che furon classici in tutta Europa e formarono i Duni i Latilla i Piccini i Gglielmi i Finaroli i Sacchini gli Anfossi i Paisiello i Cimarosa: con esso il Raffaello della Musica, il Pergolesi, dava vita a que’ concenti che vivranno quanto il mondo lontano; vergava la Serva padrona, L’Olimpiade, l’Orfeo, l’Achille in Sciro[..].18

In un solo oggetto si incarnava, dunque il simbolo di tutta l’operazione che Florimo stesso aveva posto in essere con la collezione dell’«archivio». La visita alla collezione, dunque, da queste parole sembrava assumere la valenza di una visita ad un sacrario, ad un reliquiario, che prevedeva (seppure descritta con le tipiche esagerazioni fiorite del lessico ottocentesco) una sorta di rituale, di omaggio ai tempi che furono:

E mentre io pronunziava il nome del Catanese, Florimo mi mostrava l’originale del Pirata… Baciai quelle carte… Piangemmo insieme. Così pure m’appressai alle labbra tremanti l’originale del Demetrio di Jommelli, quello della Capricciosa del Piccinni, le musiche sacre del Pergolesi, le carte originali della Gazzetta del Pesarese e quelle ove sta scritto originalmente la Nina di Paisiello. Quando nell’ultimo suo viaggio fra noi, questo originale fu mostrato a Rossini, l’autor di Semiramide e del Barbiere si cavò il cappello, e chinò il capo. Io dopo aver baciate quelle note pregai Florimo a non continuare nella sua cortesia. La mia commozione era giunta al sommo, mi facea troppo patire: e in mezzo alla mia sofferenza io era anche scorato pensando alla gloria da coloro conquistata […].19

Questo scritto risulta tanto più interessante perché rappresenta una precoce descrizione, seppur non troppo dettagliata, di come doveva apparire l’archivio prima del 1868, anno in cui Florimo formalizza la donazione della sua collezione di dipinti al Collegio. Malpica ci descrive dunque un luogo che già nel ’39 si dimostra bene avviato a divenire il tempio della musica, con i suoi dipinti, le sue partiture originali ed i suoi strabilianti cimeli. Ma probabilmente uno dei nuclei fondamentali di questa collezione di reliquie è quella degli oggetti appartenuti a Vincenzo Bellini. Il musicista catanese, morto prematuramente e fortemente idealizzato dall’amico/ammiratore Florimo, venne investito post mortem di un processo di laica santificazione. Lo stesso Bibliotecario del San Pietro a Majella sarà in prima fila per far erigere nella piazza antistante al Conservatorio quel monumento che darà il nome anche alla Piazza Bellini, e portando avanti tutta una serie di ulteriori iniziative (anche di decorazione nello stesso Istituto) volte alla celebrazione dell’eccezionale compositore defunto.20

Ma come si articolava l’esposizione voluta da Florimo? In quante sale della biblioteca si distribuivano, e come erano disposti questi ritratti, i cimeli, gli strumenti

18 Ibidem. 19 Ibidem. 20 Il rapporto di Florimo con Vincenzo Bellini è stato oggetto di molte pubblicazioni. Di seguito si rimanda agli scritti dello stesso bibliotecario che testimoniano questa fortissimo legame: FRANCESCO FLORIMO, Traslazione delle ceneri di Vincenzo Bellini: memorie ed impressioni, Napoli, Stabilimento tipografico Vin. Morano, 1877; ID., Bellini. Memorie e lettere, Firenze, G. Barbera, 1882; ID.

- MICHELE SCHERILLO, Album Bellini, Napoli, Stabilimento Tipografico A. Tocco & C., 1886; FRIEDRICH LIPPMANN, Il ritratto belliniano di Francesco Florimo, in Francesco Florimo e l’Ottocento musicale, a cura di Rosa Cafiero e Marina Marino, Reggio Calabria, Jason Editrice 1999, I, pp. 63-74.

musicali, i libri e le partiture? E in che modo dialogavano tra loro, e con le decorazioni in stucco e ad affresco pensate dallo stesso instancabile archivario?

In effetti spulciando negli stessi scritti di Florimo e nelle cronache dell’epoca possiamo rintracciare una serie di testimonianze che ci permettono di avere un’idea generale piuttosto precisa di come dovevano presentarsi le sale dell’archivio, almeno per ciò che riguarda la disposizione dei dipinti e dei busti e di alcuni dei cimeli più importanti.21

Le stanze dell’attuale biblioteca del Conservatorio sono state interessate, nel corso dei secoli, da una serie di modifiche degli spazi; talvolta sono andate perdute le decorazioni delle volte, che ci avrebbero aiutato ad orientarci meglio nelle descrizioni antiche, e soprattutto quasi tutte le opere in essa contenute hanno perso la loro collocazione originaria. Tuttavia possiamo immaginare che fin dall’insediamento del Collegio di Musica nella sede di San Pietro a Majella la biblioteca (che al tempo nelle fonti poteva prendere anche il nome di «archivio») sorgeva, come ancora oggi, al primo piano, e doveva svilupparsi, almeno nel 1876, in sole sette sale. Una volta salito lo scalone che collegava il piano terra del Conservatorio con il primo piano ci si avviava in quello che, con ogni probabilità, è tuttora l’ingresso della biblioteca.

Polidoro ci fornisce una descrizione di questa prima sala mostrandocela piuttosto ingombra, con ben 31 dipinti disposti sulle pareti:

Nella prima [sala] di esse trovansi i ritratti dell’Handel, del Durante, del Mozart, del Porpora, dell’Haydn, del Sacchini, dello Scarlatti Alessandro, del Zingarelli, del Piccinni, del Pergolesi, di Francesco Di Maio, del Mayr, di Nicola Jommelli, del Glock, del Bellini (dipinto da Pelagio Palagi), del Leo, del Guglielmi e del Cimarosa. Questi diciotto ritratti sono stati regalati dal Florimo; gli altri sono stati donati dà singoli pittori che hanno riprodotto le sembianze de’ grandi artisti. Sono questi il ritratto del Rossini effigiato dal Morelli, quello del Pacini dipinto dal Mancinelli Giuseppe, l’altro del Mercadante pel Palizzi, quello del Beethoven dall’Altamura, del Gaunod dal Mardarelli, del Fenaroli dal Barbieri, del Ricci Luigi dal Vittozzi, del Chopin dal Giusti, del Donizetti dal Ruo, del Verdi dal Simonetti Alfonso, di Lauro Rossi fatto dallo stesso, dello Schubert dal Pagniano. V’è pure il ritratto del Paisiello, dipinto dalla Lebrun e regalato al Collegio dal R. Istituto di Belle Arti.22

Un elenco, questo, che non ci fornisce dati specifici sull’effettivo ordine espositivo, che invece, ci viene suggerito dal Lazzaro riportando i quadri con «Bellini, Rossini, Cimarosa e Paisiello nei quattro centri delle pareti».23

21 I testi di riferimento sullo stato dei luoghi attorno al 1876 sono: il capitolo sull’archivio di pugno dello stesso Florimo nella Scuola Musicale Napoletana (FLORIMO, La scuola musicale di Napoli cit., pp. 63-74.), un articolo del 1876 scritto dal giornalista Federico Polidoro, alias Acuto, corrispondente della «Gazzetta Musicale di Milano» (ACUTO (FEDERICO POLIDORO), Corrispondenze, «Gazzetta Musicale di Milano», 21, 1876, pp. 182-183.), che fornisce nel dettaglio, sala per sala, l’allestimento della biblioteca, e di un ulteriore scritto dello stesso anno di Nicola Lazzaro, pubblicato ne «L’Illustrazione Italiana» (NICOLA LAZZARO, Il Collegio di Musica a Napoli. Detto di S. Pietro a Majella, «L’Illustrazione Italiana», 58, 1876, pp. 425-426). 22 ACUTO, Corrispondenze cit., p.182. 23 LAZZARO, Il Collegio di Musica a Napoli cit., p. 425.

Ai «quattro cantoni» della stanza, poi, v’erano quattro busti in gesso di Paisiello, Spontini, Donizetti e Lablache (donati da Florimo) ed inoltre:

A destra entrando, attaccato alle pareti vi è una specie di tavolino rettangolare in legno noce, lungo circa due metri e largo quasi ottanta centimetri; è il pianoforte regalato nel 1774 dall’imperatore d’Austria Giuseppe II al Conservatorio di Musica della Pietà dei Turchini di Napoli. Questo pianoforte ha due tastiere, anzi tre; una alla estremità inferiore del mobile, e le altre due, una sovrapposta all’altra, una a penna e l’altra a martello al lato opposto. Quest’istrumento fu posseduto prima da Paisiello, poi da Fenaroli, indi dal Tritto che lo lasciò al collegio di S. Pietro a Majella. Di fronte havvi, a sinistra entrando, altro pianoforte, dono dell’imperatrice di Russia Caterina II al Cimarosa; è un piccolo mobile pure di legno di forma anche rettangolare, quasi della lunghezza e larghezza degli attuali pianoforti verticali: però non ha che cinque ottave. Ciò non pertanto Cimarosa l’avea carissimo, ed è un fatto storico che incendiandosi un giorno la sua dimora pensasse prima a salvare l’instrumento e poi la sua persona.24

Un elemento però cui Lazzaro non pone attenzione è invece la decorazione delle sale. In questo caso è Florimo che ci offre una testimonianza più attendibile, sia perché ben conosceva gli ambienti, sia perché committente e mente pensante del progetto. Nel descrivere questa prima sala il bibliotecario ci dice che vi era dipinta l’Apoteosi di Bellini, opera di Vincenzo Paliotti, che mostrava «Degli angioletti che aleggiano intorno al busto del cigno catanese, ed uno incide sul piedistallo i titoli delle opere di lui».25

Oltre alla perdita dell’apparato decorativo con l’Apoteosi di Bellini, si segnala che attualmente si conservano ancora solo sei dei 18 dipinti donati dal Florimo.26 Degli altri 13 quadri descritti ne rimangono 10 ed i busti invece sono tutti irrintracciabili. Tutte queste opere erano ancora presenti nel catalogo stilato da Santagata, economo del San Pietro a Majella, nel 1930.27

È piuttosto interessante notare come qui fosse stato esposto il nucleo primitivo della donazione di Florimo, che evidentemente in tal caso potrebbe aver seguito un criterio di allestimento per acquisizioni, non riuscendo a trovarvi alcun ordine sia per quanto riguarda l’appartenenza dei vari musicisti alle scuole (così ben descritte dal Florimo nel suo testo) né tanto meno per formare una narrazione cronologica. Il fatto che, invece, la biblioteca si aprisse con uno specifico omaggio a Vincenzo Bellini attesta, ancora una volta, la grande stima di Florimo per il suo vecchio amico consegnandolo, ancora di più, alla gloria dei posteri. Questa è l’unica sala che Florimo di fatto dedica ad un musicista specifico (anche se, come vedremo, intendeva farne almeno un’altra,

24 Ibidem. 25 FLORIMO, La scuola musicale di Napoli cit., p. 71. Acuto inserisce questa decorazione nella descrizione della seconda sala, andando di fatto in urto con la presenza, descritta sempre nella stessa stanza, del dipinto allegorico «nello stile del secolo XIV fatto dal Galloppi», riportato da Florimo nella seconda sala (Cfr. ACUTO, Corrispondenze cit., p. 182). 26 Della donazione Florimo sono andati perduti i ritratti di Mozart, Mayr, Gluck, Bellini, Guglielmi e Cimarosa. Ciò viene denunciato già in CAUTELA - SISTO - STARITA, Dal segno al suono cit. pp. 136144. 27 Cfr. Ibidem; ETTORE SANTAGATA, Il Museo storico musicale cit.

da dedicare a Pergolesi), ed è l’unica sala in cui ci viene segnalata esplicitamente dalle fonti qui analizzate la presenza di strumenti musicali: il clavicembalo di Cimarosa ed il pianoforte identificato con il vis a vis, ancora presenti nelle collezioni del Conservatorio.

Nella seconda sala, poi:

[…] vi sono i ritratti di Guido d’Arezzo, del Pierluigi da Palestrina, del Clementi, dello Scarlatti Domenico, del Marcello, del Bach Sebastiano; il primo dipinto dal Simonetti Raimondo, il secondo dal Punzo, il terzo dal Ponticelli, il quarto dal Planeta, il quinto dal Ruggiero ed il sesto dallo Sciuti. Nella volta poi c’è un dipinto allegorico nello stile del secolo XIV fatto dal Galloppi […].28

Lazzaro, che definisce questa stanza «assai piccina» vi inserisce solo cinque ritratti: Guido d’Arezzo, Scarlatti, Palestrina e «Clemente Marcello», una probabile svista dell’autore.29

Anche in questo caso la collezione ha subito delle perdite: i quadri raffiguranti Guido d’Arezzo e Johan Sebastian Bach.30 I pochi riferimenti al tema allegorico scelto dal Galloppi per la volta di questa seconda sala indicano che non doveva aver riscosso particolare interesse nei cronisti del tempo e nello stesso Florimo. Le decorazioni descritte sono state identificate e si sono preservate fino ai giorni nostri. Sebbene descritti in uno stile del XIV secolo, i dipinti sembrano piuttosto in stile pompeiano. La volta, suddivisa in quattro settori, presenta al centro di ciascun lato un quadrato di un rosso scuro delimitato da due telamoni. Al centro si aprono dei medaglioni che raffigurano putti, in ciascun lato rappresentati in attività inerenti la musica. Negli spicchi figure femminili sospese in uno sfondo giallo (che ricordano in effetti la Flora proveniente da Stabia conservata al Museo Archeologico di Napoli), si dilettano con altre attività musicali: alcune leggono spartiti che tengono tra le mani, altre suonano strumenti a corda (una lira e un mandolino), altre ancora suonano strumenti a fiato.

La terza sala «piena di scaffali»31 (che presumo essere l’attuale sala Pergolesi) è quella destinata alla biblioteca di letteratura musicale: «Tre scaffali sono pieni di libri riguardanti l’arte musicale, che si vanno acquistando giorno per giorno; ed un quarto scaffale è destinato ai libri che, dietro una mia circolare, mi mandarono, e ricevo continuamente in dono, gli editori esteri e nazionali, e gli autori».32

Qui, nella volta, erano stati dipinti da Galloppi i medaglioni in chiaroscuro di Rossini, Bellini, Donizetti e Mercadante, oggi perduti, ed inoltre doveva esservi esposto

28 Cfr. ACUTO, Corrispondenze cit., p.182. La volta con il dipinto di Galloppi in stile secolo XIV è riportato anche dal Florimo quasi parola per parola. Cfr. FLORIMO, La scuola musicale di Napoli cit., p. 71. 29 Probabilmente, per quest’ultimo caso troviamo un refuso, poiché non esiste un musicista con questo nome: lo scrittore voleva forse scrivere di un ritratto di Clementi e di uno di Benedetto Marcello. 30 Anche in questo caso le opere erano ancora in Conservatorio al tempo di Santagata. Cfr. CAUTELA -SISTO -STARITA, Dal segno al suono cit. pp. 136-144. 31 LAZZARO, Il Collegio di Musica a Napoli cit., p. 425. 32 FLORIMO, La scuola musicale di Napoli cit., p. 69.

anche il busto in bronzo di Michele Costa.33 Ancora una volta, dunque, la decorazione della sala, che questa volta si presenta carica di scaffali tanto da impedirvi l’esposizione di quadri, acquisisce un significato iconografico specifico, dedicandola ai quattro più importanti operisti dell’Ottocento, tutti, in qualche modo, anche strettamente legati all’ambiente musicale napoletano.34

Da qui si accedeva, a sinistra, alla quarta sala (che ho identificato con quella attualmente dedicata a Paisiello), dove doveva esserci lo studio di Florimo. Ne «L’Illustrazione Italiana» si ritrova, proprio nella pagina antecedente l’articolo, com’era d’uso per la rivista, un piccolo disegno che ritrae Florimo seduto su di una poltrona, in quella che doveva essere la sua postazione. Alle sue spalle doveva ergersi il busto raffigurante Lablache ed una serie di quadretti di piccolo formato di cui non ci viene fornita descrizione. Queste le parole scelte dal Lazzaro per tratteggiare la stanza:

Alle mura sonvi 35 ritratti ad olio di grandezza naturale, posti tutti in alto, al di sopra degli scafali; i ritratti dei sommi maestri, mancanti nelle prime sale, sono qui, e quindi si scorgono le interessanti fisionomie di Mendelsson, Carafa, Tritto, Paisiello, Pergolese, Fenaroli, Lilla [Lully], Leo, Handel, Beethoven, Halevy, David, Wagner, Thomas ed altri. Dietro allo scrittoio del Florimo vi è un bellissimo busto di Lablache: di fronte i busti di Thalberg e di Erard. In un angolo poi e proprio davanti una finestra, coverto da una campana di cristallo, vedesi lo storico e famoso calamaio dello Scarlatti con tre penne d’oca, da lui adoperate poco prima di morire.35

Come appare evidente Florimo sceglie di avere a portata di mano, potremmo dire quasi sempre con sé, quello che doveva essere il simbolo della continuità, tramandata da maestro ad allievo, della scuola napoletana: il calamaio di Scarlatti.

Ma tornando alla descrizione dello studio di Florimo, ancora più dettagliato nell’enunciarne il contenuto figurativo è Acuto, che ci fornisce, oltre ad un elenco di vari dipinti, ancora una volta i nomi degli artisti che li hanno creati. Si sottolinea che queste tele sono tutte state donate dagli stessi autori alla biblioteca e, qualora così non fosse, è Polidoro stesso a precisarlo, come in questo caso:

Un busto in marmo del Lablache ed un altro del Thalberg trovansi nella quarta sala; questo è dono dell’ex Ministro Correnti, quello della signora Thalberg-Lablache; il primo è lavoro dello scultore Angelini, il secondo del Pasarelli [Pasquarelli]. In questa stessa sala vedansi le fattezze del Berlioz ritratte dal Cefali, quelle del Wagner dell’Altamura; il Mendelssohn fu dipinto dal Talarico, dal Martorana il Paer; Spontini fu disegnato dal Nicoli, dal De Nigris il Meyerbeer; Simonetti Alfonso riprodusse il Monteverde, il Montefusco il Cherubini; il ritratto del Manfroce devensi al Paliotti, quello di Lulli a Del Re,

33 Il busto è ancora presente nelle collezioni. 34 Nell’ordine Rossini diventò direttore artistico al Teatro San Carlo nel 1815 e la sua presenza sul territorio rappresentò l’avvio di una ricerca più “moderna” per gli stessi autori napoletani; Bellini, come abbiamo visto, si formò proprio nel Conservatorio di Napoli; Donizetti, nello stesso istituto, fu chiamato ad insegnare composizione mentre Mercadante, alunno del Conservatorio stesso, ne diventò poi direttore. 35 LAZZARO, Il Collegio di Musica a Napoli cit., p. 425. Di questi dipinti citati mancano all’appello quello di Beethoven di Saverio Altamura, anche questo ancora presente nel catalogo di Santagata.

quello del Duni a Caldara, l’altro del Salieri al Marinelli, quello di Gesualdo, principe di Venosa, al Mancini; il Tomaini effigiò Traetta, il D’Agostino Stradella, il cavaliere De Vico [De Vivo] Pietro Raimondi, il grande ma arido contrappuntista. Vi è pure un Halèvy del Costa, un Carafa del Martelli e un Méhul del Ragione. Il Vinci è fatto dal Volpi, dal Giusti l’Anfossi, Boieldieu dal Postiglione, Herold dal cavaliere Francia, Perez dal Ravel, il padre Martini dal Venditti, il Sala dal Punzo, dallo Scognamiglio Pietro Generali, Fioravanti Valentino dal Talarico, dal Cefalì il Paganini, il Gretry dal Reina; il pittore Corsibono dipinse Fetis ed Auber. Fra questi v’è pure un ritratto di Federico Ricci, donato dallo stesso e dipinto del 1834 da Orazio Vernet, ed un altro del Tritto, regalato dalla famiglia.36

Dalla terza andando a destra si accedeva alla sala, oggi dedicata ad Alessandro Scarlatti, in cui appare nella volta, seppure non si sia conservata integra, una suggestiva raffigurazione: «E in quella [volta] della quarta sala a destra è un dipinto allegorico, opera del cav. Casanova: un’aquila, che, in un nembo di fiori, trasporta in cielo delle carte di musica arrotolate, su cui sono scritti i titoli delle più pregiate opere ed i nomi degli autori».37

Questo dipinto allegorico si trova nel riquadro centrale del soffitto. Benché parte della decorazione sia andata perduta, appare comunque degna di nota l’alternanza di nature morte di fiori con grisaglie di puttini, che dovevano rappresentare un’interessante serie di bambini paffuti intenti in attività musicali quali il canto, la danza, il suonare uno strumento (il mandolino o anche la lira).

Dalla stessa, poi, si poteva accedere all’attuale Sala Rossini, al tempo detta «Sala delle Accademie», ed alla saletta «degli Autografi». Quest’ultima, un vero sacello colmo di aura sacra, rappresentava forse il cuore dell’archivio e la perfetta unione tra l’attività del bibliotecario e quella del collezionista di cimeli: al suo interno, infatti, erano custodite tutte le partiture originali (autografe, appunto) dei più importanti musicisti napoletani, italiani e stranieri.38 Come a voler sottolineare un senso di eternità simbolica a questi importanti manoscritti, vi era la decorazione apposta al soffitto, particolarmente apprezzata dallo stesso Florimo e messa in atto da Gaetano d’Agostino:

E bellissima sopra ogni altra è la volta della piccola cameretta dove si conservano gli autografi: è dipinta dal d’Agostino ed è un vero capolavoro. È divisa in quattro scompartimenti, e la musica sacra è raffigurata da Santa Cecilia che suona l’organo, sulle canne del quale due angeli suonano anch’essi, mentre dietro l’organo cantano degli angeli in coro; giù in un angolo c’è un altro coro di frati; bellissimo il fondo dorato della scena, su

36 Cfr. ACUTO, Corrispondenze cit., p. 182. Di questi dipinti non risultano più presenti nelle collezioni quello di Paër, Méhul, Grétry (attribuito a Reina, ma in realtà di Eugenio Gioia), Perez. Ci sono anche delle differenze di attribuzione: il Cherubini risulta essere opera di Achille Vittozzi e non di Montefusco; il Meyerbeer è invece di Ciro Punzo. CAUTELA -SISTO -STARITA, Dal segno al suono cit. 37 FLORIMO, La scuola musicale di Napoli cit., p. 71. 38 Degna di nota è la volontà di Florimo di valorizzare queste partiture pregiatissime. È ancora conservato nella biblioteca un volume di fotografie di alcuni dei più importanti spartiti volute espressamente dall’archivario per aiutare i giovani nello studio e, contemporaneamente, preservarne la conservazione nel tempo: una digitalizzazione ante litteram. Sul fusto del leggio di legno si legge «Queste reliquie/ di grandi musicisti/ da lui/ con lungo amore raccolte/ Francesco Florimo/ volle qui deposte/ a culto reverente dei giovani/ cui l’arte è vita/ e raggio sublime la ricordanza/ di quanti ne fûr gloria».

cui si svolge a spirale il fumo delle candele; ed è sublime l’atteggiamento celeste, ispirato, estatico della santa; - e la musica primitiva, da un pastore che emette dei suoni da alcune canne; e il potere della musica è rappresentato da Orfeo che attira le belve e che poi scende nell’inferno per salvare Euridice; - e la musica moderna, da un’orchestra: delle donne seminude, dalle movenze voluttuose, raffigurano le note di quella musica, quelle onde sonore.39

Questo sacello oggi è andato perduto a causa di alcuni lavori di ampliamento dei locali della biblioteca portati avanti negli anni ’60, e si custodiscono solo poche fotografie in bianco e nero di queste opere perdute.40 In questo ambiente, infatti, il soffitto venne sfondato per poterci costruire una scala che conducesse ai piani superiori, acquisiti dalla biblioteca per creare nuovi locali per la consultazione.

Anche in questa sala non dovevano essere presenti ulteriori opere d’arte, tra busti e dipinti. La Sala delle Accademie, invece, custodiva due busti molto importanti, quelli di Bellini e di Rossini, i due autori più stimati dallo stesso Florimo, che vedeva in entrambi gli interpreti di diverse modalità di espressione, altrettanto grandi, della musica italiana.

La decorazione dell’attuale sala Rossini non presenta cambiamenti rispetto alla descrizione che ne fa lo stesso Florimo:

Dei grandi maestri, da Alessandro Scarlatti, fondatore della scuola, in poi, che compiti i loro studi nei nostri Conservatorii, furono della classica scuola napoletana lustro e decoro, ci sono, a perpetuo ricordo, i bassirilievi intorno intorno al fregio della cornice della sala maggiore dell’archivio, col nome e il luogo e l’anno in cui sono morti.41

La disposizione dei vari musicisti segue un ordine cronologico, iniziando con Alessandro Scarlatti, deceduto nel 1725, identificato dallo stesso Florimo come il capostipite della scuola musicale napoletana, finendo poi con l’effige di Enrico Petrella, morto nel 1875.

La «Sala delle Accademie», appare evidente, nasce dalla volontà di rendere omaggio ad alcune delle figure più importanti della tradizione musicale partenopea, e dallo stesso nome possiamo immaginare che fosse usata per lezioni pubbliche o eventi di rappresentanza. Ha un impianto neoclassico, ed è forse per questo che si distingue particolarmente dalle altre. In effetti questa differenza è giustificata proprio dal fatto che la decorazione dell’archivio è avvenuta in due differenti fasi di allestimento. La prima fase, e forse l’idea principale da cui poi Florimo ha preso le mosse, è rappresentata proprio da questo ambiente, che fu terminato in tempo per il VII Congresso degli scienziati, tenutosi a Napoli nel 1845.42 La seconda fase di realizzazione delle decorazioni

39 FLORIMO, La scuola musicale di Napoli cit., p. 71. 40 Sul retro della fotografia che ritrae Santa Cecilia ho trovato scritto a matita da ignoto il seguente appunto: «Mattia Preti: gli angeli trasportano in cielo S. Caterina | Affresco della Sala Autografi | (prima del deperimento) | da scegliere». Probabilmente note scritte da qualcuno interessato ad inserire le fotografie all’interno di una pubblicazione, pur sbagliandone l’attribuzione. 41 FLORIMO, La scuola musicale di Napoli cit., p. 70. 42 Florimo dice «III congresso degli scienziati». Ivi, p. 71, nota 1.

si può invece datare verso gli anni ’70 dell’800.43 I lavori sulla sala Rossini vennero affidati a docenti dell’Accademia di Belle Arti, nomi illustri come Tito Angelini, Gennaro Aveta (che realizza le decorazioni in gesso) e Francesco Liberti (cui sono attribuiti i medaglioni in gesso con i profili dei musicisti).44

Come sappiamo da quanto lo stesso Florimo afferma mentre completava la seconda stesura della sua scuola musicale di Napoli l’«archivio» si era ingrandito, arrivando a coprire «un’ala intera del fabbricato», sviluppandosi in dieci sale. Nelle intenzioni del bibliotecario intanto v’era già la volontà di decorare gli ambienti da poco acquisiti: «Il d’Agostino e il Casanova mi han promesso di dipingere anche qualche altra vôlta delle nuove stanze testé decorate. In una di queste il d’Agostino dipingerà gli ultimi istanti della vita di Pergolesi».45

Ancora nel 1888 Florimo, forse abbandonando l’intenzione di dedicare una sala a Pergolesi, aveva in animo di aumentare le aree decorate della sua biblioteca, nonché di aggiungere ulteriori ritratti, questa volta riservando maggiore attenzione agli artisti ancora viventi.46

Da tutto quello che abbiamo fin qui esaminato l’elemento che appare evidente è la volontà, da parte di Florimo, di acquisire quanti più beni possibili per l’accrescimento del suo «archivio». I dipinti e la decorazione delle sale erano, di fatto, niente più che un abbellimento per degli ambienti altrimenti spogli, come se fossero parte dell’arredo. Ciononostante, come abbiamo visto, i ritratti avevano l’ulteriore funzione di dare un volto e, così, una consistenza fisica a delle idee, a degli autori ormai scomparsi; dunque, grazie alla verosimiglianza con il modello, assumevano anche la funzione di cimelio, di reliquia. A questi, poi, si aggiungevano gli oggetti stessi appartenuti ai grandi

43 La biblioteca del Conservatorio venne dunque inaugurata in più occasioni. Nel 1845 si aprì la “Sala delle Accademie”, come ci spiega Florimo stesso (ivi, p. 71). Al 1874, invece, dovrebbe risalire l’inaugurazione del nuovo allestimento delle sale, come ci avverte Caputo alla voce «Francesco Florimo» dell’Annuario generale della Musica: «[Florimo] ha regalato 18 ritratti antichi de’ più grandi maestri, e con la sua influenza personale ottenuto da’ più illustri pittori napoletani il dono all’Archivio di altri 30 e più ritratti, appositamente lavorati pel Museo che andrà ad inaugurarsi prima della fine del 1874 nelle due sale ove è l’Apoteosi di Bellini dipinta espressamente a fresco da V. Paliotti». Cfr. MICHELE CARLO CAPUTO, Annuario Generale della Musica, I, Napoli, Salvatore de Angeli, 1875, pp. 90-91. 44 Nel 1845 la sala delle Accademie doveva presentarsi ancora incompleta, arrivando, nei profili dei musicisti fino a Niccolò Zingarelli, deceduto nel ’53. Al tempo della visita di Polidoro e di Lazzaro, invece, i busti arrivavano fino a Petrella, così come è oggi. Cfr. ALESSANDRA STANCO, Le volte della biblioteca, in CAUTELA - LUIGI SISTO -LORELLA STARITA, Dal segno al suono cit., p. 71. 45 FLORIMO, La scuola musicale di Napoli cit., p. 71. 46 Ciò si evince dalla bozza di una circolare del 14 aprile: «[…] Questa biblioteca è ornata da N. 140 ritratti ad olio di rinomati maestri antichi e di celebri maestri moderni, stranieri e italiani, defunti e viventi. A completare la collezione dei ritratti di celebri maestri moderni viventi manca quello della S. V. I. Epperò non volendo privare questo Archivio d’un tale ornamento tanto desiderato anche dalla gioventù studiosa, mi permetto pregarla direttamente di inviare a me una sua fotografia dalla quale io curerò di far ritrarre ad olio su tela […]». La bozza è riportata in TIZIANA GRANDE, Lettere dalla biblioteca. La corrispondenza di Francesco Florimo dalla Biblioteca di San Pietro a Majella (18861888), in Napoli Musicalissima. Studi in onore di Renato Di Benedetto, a cura di Enrico Careri e Pier Paolo De Martino, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2005, p. 202.

personaggi della storia della musica. Quando questi oggetti erano addirittura delle partiture manoscritte, il cimelio acquisiva ancora più valore.

Tuttavia nei suoi scritti Florimo non definisce mai la sua collezione un museo, un termine che compare nelle parole dell’archivario solo quando tratta degli strumenti musicali. In questo caso, infatti, il discorso assume delle sfumature ben più complesse e l’intento di Florimo si configura quasi come un investimento a lungo termine, per un futuro progetto.

Parlando dei pochi strumenti da lui iniziati a collezionare (tra i quali ricordiamo il pianoforte di Cimarosa, il vis a vis, l’arpetta Stradivari), specifica che questi «Formano come i primi germi di un museo di strumenti musicali, che ho iniziato e che m’auguro che venga sempre più accresciuto».47

La necessità di rappresentare, all’interno del panorama storico-artistico italiano, l’arte dei suoni attraverso la costituzione di un museo specifico che trattasse proprio degli strumenti musicali, sembra rientrare in un dibattito piuttosto sentito dall’ambiente musicale napoletano di fine Ottocento. Le stesse speranze di Florimo (e probabilmente animate da lui stesso) riecheggiano nelle parole di Michele Ruta (pianista e compositore, oltre che saggista) che affronta l’argomento in un suo libro redatto sulle «Condizioni della musica in Italia e del Conservatorio di S. Pietro a Majella di Napoli» del 1877.48

Il piccolo trafiletto di Ruta sull’occorrenza di un museo di strumenti musicali segue quello che descrive l’archivio del Conservatorio, trattato proprio come il fiore all’occhiello dell’intero Istituto, che, al di fuori delle stanze allestite da Florimo, si dimostra invece piuttosto trascurato.

Il fatto che la trattazione sul museo segua quella dell’archivio fa supporre che la consequenzialità di tale ragionamento possa essere stata avviata dallo stesso Florimo. «Trovandomi a parlare dell’Archivio» dice infatti Ruta, «voglio esporre un mio desiderio» e dunque continua:

Io vorrei che a quest’opera fosse aggiunta quella di un Museo musicale, ove si conservassero tutti gli strumenti antichi, e che a memoria della posterità si depositasse ogni nuovo istrumento. Tutte le scienze e tutte le arti hanno le loro collezioni che ne illustrano la storia. Solamente la musica in Italia non ha una speciale e propria collezione di strumenti antichi che potesse testimoniare la storia di quest’arte, che pur è di tanta gloria per la nostra Italia.49

47 FLORIMO, La scuola musicale di Napoli cit., p. 72. 48 Cfr. RUTA, Storia critica delle condizioni della musica in Italia cit. pp. 63-68. La copia del testo che ho avuto modo di consultare alla biblioteca del Conservatorio, scritta a penna dallo stesso Ruta, presenta una dedica a Florimo che viene definito «Maestro ed Amico», un elemento che fa emergere chiaramente i rapporti di amicizia esistenti tra questi due personaggi, che in qualche modo devono essersi influenzati a vicenda circa le questioni del Conservatorio, oltre che sull’opportunità di creare un museo degli strumenti musicali. Elena Ferrari Barassi ritiene sia proprio Ruta a suggerire a Florimo di allestire un museo di strumenti musicali. Cfr. ELENA FERRARI BARASSI, Il Museo del Conservatorio di S. Pietro a Majella e i suoi strumenti musicali: spunti storici, in Il Museo della Musica. Strumenti Antichi e Documenti del Conservatorio di S. Pietro a Majella, a cura di Emanuele Cardi, Luigi Sisto, Sergio Tassi, Battipaglia, Accademia Organistica Campana, 2002, p. VI. 49 Cfr. RUTA, Storia critica delle condizioni della musica in Italia cit. p. 63.

La musica, come l’arte, come la scienza, come la storia naturale, hanno tutte, di fatto, un luogo in cui catalogare ed archiviare i loro strumenti. Ruta descrive questo attardarsi della musica nel raccogliere l’esempio delle altre discipline sottolineando come il fatto stesso che non vi sia un luogo specifico per questo genere di esposizioni non faccia altro che svilire la stessa disciplina.50

Perché dunque creare un museo degli strumenti? Perché semplicemente questi strumenti devono essere studiati dalle generazioni future, per capire il loro funzionamento, affinché i posteri possano conoscere la loro storia, recuperando tutte le informazioni necessarie per comprendere come questi oggetti, materiale imprescindibile per il dato musicale e vero e proprio supporto per questa particolarissima forma d’arte, fossero costituiti, che suono producessero e in che modo:

Gli antichi strumenti di questa arte sono veri trofei dell’ingegno umano, che ha saputo inventare un’arte tutta spirituale con mirabile congegno […]. Lo studio del graduato perfezionamento di ciascun istrumento musicale, e della loro trasformazione è non solamente uno studio di curiosità storica, ma ancora di grande utilità pratica per le future innovazioni e i miglioramenti da praticarsi.51

In sostanza questi oggetti, questi strumenti atti a produrre suono, risultano delle vere e proprie invenzioni, degli attrezzi frutto della ricerca e dell’intelligenza umana. Posseggono dunque un valore storico, sì, ma anche costruttivo, una bellezza nella forma, ma anche una funzione specifica che va attivata seguendo dei meccanismi complessi, che pure non vanno dimenticati.52

Il museo degli strumenti musicali immaginato da Florimo, tuttavia, non venne portato a compimento durante il corso della sua vita. La sua opera ciononostante è rimasta un punto di partenza fondamentale per le generazioni successive, proprio come lui auspicava. La sua eredità venne raccolta da Rocco Pagliara e dai direttori del Conservatorio che si sono succeduti nel tempo. In particolare sarà con Francesco Cilea (direttore dal 1916 al 1935) che si istituzionalizzerà, per la prima volta, la collezione posta all’interno di un museo.

Sebbene Florimo vivesse la sua raccolta come parte dell’«archivio» e intendesse allestire un museo degli strumenti musicali, evidentemente immaginandole come due cose distinte, Francesco Cilea si troverà ad inaugurare un «Museo storico musicale» comprendente tutto ciò che era stato immagazzinato nel corso dell’Ottocento, trattando tutti i beni che compongono questa particolare raccolta come un unico e inscindibile corpus, strettamente connesso alla storia della musica, in particolare napoletana, e all’ultimo superstite di quei Conservatori che tanto aveva resa grande Napoli, una delle più importanti capitali europee della musica.

50 «Si veggono per i musei d’Italia vari strumenti musicali, appartenenti a diversi periodi storici, ma senza ordine e senza criterio artistico classificati, in modo che giacciono come inutile ornamento, senza che lo studioso potesse trarne quei vantaggi che le altre arti traggono dallo studio delle cose antiche». Ibidem. 51 Ivi, p. 65. 52 Si sottolinea che questa necessità sentita da Ruta di costituire un museo di strumenti musicali, si riferiva ad una realtà pubblica, fruibile da tutti, e non certamente alle collezioni organologiche private che esistevano e tuttora esistono. Cfr. FERRARI BARASSI, Il Museo del Conservatorio cit., p. VI.

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