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Francesco Lambardi e il suo testamento olografo del 1638
NOTE D’ARCHIVIO
Ignacio Rodulfo Hazen
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FRANCESCO LAMBARDI E IL SUO TESTAMENTO OLOGRAFO DEL 1638*
Sfogliando i protocolli dei notai napoletani del Seicento, scorgiamo la vivace vita della città, con i suoi intercalari, il viavai di merci e denaro, lo sfarzo delle case nobiliari e le vicende biografiche di alcuni grandi personaggi della capitale vicereale. Tra queste carte è affiorato il testamento olografo d’uno dei grandi musicisti partenopei della prima metà del Seicento: Francesco Lambardi (1585-1642).1
Sono ben conosciute le sue opere a stampa e i dati fondamentali sulla sua carriera come protagonista dell’introduzione della monodia a Napoli,2 mancano però, come al solito, i dettagli sulla sua vita domestica, i suoi gusti, le difficoltà e le opportunità per l’artista nella grande capitale meridionale, e più d’ogni altra cosa, la sua ‘voce’ personale. Il testamento, come ultimo atto della vita umana – soprattutto scritto di proprio pugno da parte del testatore –, è il documento più determinante per entrare nell’intimo del suo autore, della sua vita familiare, amicale e professionale. Francesco Lambardi scrisse le ultime volontà verso la fine del 1638 consegnando il suo olografo ai notai Giovanni Mattia dello Santo e Giacomo Antonio de Auriemma il 2 gennaio del 1639. Il prezioso scritto fu quindi sigillato alla presenza dei previsti sette testimoni legali: don Giacomo Aniello Ricciardone, Salvatore d’Arcona, Francesco Scriva, don Domenico Antonio Ugolino, il musico-collega e clerico Bartolomeo Russo, Domenico Santoro e il musico-collega Giovanni Romano.
Accanto a Giovanni Maria Trabaci – il primo maestro di cappella regio italiano in quella carica dal 1614 al 1647, dopo una serie di musicisti spagnoli, borgognoni e franco-fiamminghi –, Lambardi simboleggia tutta un’epoca della musica a Napoli. Fu
* Ringrazio il professor Domenico Antonio D’Alessandro per il suo sostegno, la sua revisione della trascrizione del testamento e i numerosi dati e commenti che ha aggiunto a questo articolo. Queste ricerche sono state sostenute da un contratto di ricerca di post dottorato «Margarita Salas» del ministero dell’Università Spagnolo, presso il Dipartimento di Storia Moderna e Storia Contemporanea dell’Università Complutense e il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. 1 Si vedano i dati biografici più recenti in DOMENICO ANTONIO D’ALESSANDRO, Giovanni de Macque e i musici della Real Cappella napoletana. Nuovi documenti, precisazioni biografiche e una fonte musicale ritrovata, in La musica del Principe. Studi e prospettive per Carlo Gesualdo, a cura di Luisa Curinga, Lucca, LIM, 2008, pp. 21-156: 62-64. D’ora in poi D’ALESSANDRO 2008. Analizzando ora il suo testamento, il citato matrimonio documentato da D’Alessandro con la romana Maddalena Francese, potrebbe essere riferito ad un omonimo del musicista, vista la totale assenza nelle sue ultime volontà di un qualsivoglia riferimento ad una moglie precedente a Grazia Maria Corso. 2 Cfr. AGOSTINO ZIINO, Nota su Francesco Lambardi e l’introduzione della monodia a Napoli, in Centri e periferie del Barocco. Barocco Napoletano, a cura di Gaetana Cantone, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato-Libreria dello Stato, 1992, pp. 501-513.
figlio del tenore Camillo Lambardi, direttore musicale della Santa Casa dell’Annunziata tra il 1592 e il 1631 come successore del famoso Giovanni Domenico del Giovane da Nola, e con il benestare degli autorevoli organisti e compositori Scipione Stella e Jean de Macque. A 14 anni Francesco fu assunto come soprano in quella pia istituzione, continuando il mestiere di cantante per poi diventare organista presso le cappelle musicali più importanti della città, comprese quella della stessa Annunziata e quindi quella Reale.3 Il suo talento e le sue ambizioni oltrepassarono gli incarichi ufficiali, raggiungendo le stanze aristocratiche, dove portò villanelle e canzonette e impartì lezioni private.4 Lavorò anche nella camera “reservata” dei viceré, dove era chiamato familiarmente «Chico Lambardi», il che permetteva una notevole vicinanza coi luogotenenti della monarchia ispanica, allora molto interessati alla musica; lavorò inoltre fianco a fianco con il viceré don Pedro Téllez-Girón y Velasco, terzo duca di Osuna, mettendo in musica i suoi versi.5 Partecipò costantemente agli intrattenimenti della corte, da I lieti giorni di Napoli del 1612 che Girolamo Melcarne alias Montesardo dedicò a don Pedro Fernández de Castro, settimo conte di Lemos, ai balli per la viceregina Anna Carafa del 1639;6 ma nel frattempo, molto probabilmente, le sue condizioni di salute erano diventate così preoccupanti tanto da fare testamento verso la fine del 1638. Assistette quindi agli esordi del melodramma – sia nei primi tentativi napoletani, e forse le prime opere agiografiche provenienti da Roma –, 7 alla consacrazione di Posillipo come grande scenario degli “spassi” estivi e in generale al consolidamento dei grandi spettacoli cortigiani.
Percorse tutte le strade della vita musicale di quell’epoca: tra gli ambienti laici e quelli ecclesiastici – e tra lo stile italiano e quello spagnolo –, 8 componendo musica
3 Cfr. ULISSE PROTA-GIURLEO, Aggiunte ai “Documenti per la storia dell’arte a Napoli”, «Il Fuidoro», II/7-10 (1955), pp. 273-279: 275-276 (d’ora in poi PROTA-GIURLEO 1955), e D’ALESSANDRO 2008, pp. 33-34, 62-64. 4 Le sue Canzonette III pubblicate nel 1616 furono dedicate a Luigi Carafa, principe di Stigliano. Sulle edizioni a stampa di Lambardi e le loro dediche si veda KEITH AUSTIN LARSON –ANGELO POMPILIO, Cronologia delle edizioni musicali napoletane del Cinque-Seicento, in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di Lorenzo Bianconi – Renato Bossa, Firenze, Olschki, 1983, pp. 103-139: 121, 124, 125, 126, 135. Sappiamo anche che Lambardi diede lezioni «di sonare e cantare» presso la Principessa di Scilla, Maria Ruffo, sicuramente nel 1612: si veda DOMENICO ANTONIO D’ALESSANDRO, Mecenati e mecenatismo nella vita musicale napoletana del Seicento e condizione sociale del musicista. I casi di Giovanni Maria Trabaci e Francesco Provenzale, in Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Seicento, 2 voll., a cura di Francesco Cotticelli – Paologiovanni Maione, Napoli, Turchini, 2019, pp. 71-603, Appendice documentaria in cd-rom, pp. 132 (doc. 482), 136 (doc. 496). D’ora in poi D’ALESSANDRO 2019. 5 Cfr. IGNACIO RODULFO HAZEN, El aire español. Los usos musicales de la aristocracia española en Italia (1580-1640), Madrid, Centro de Estudios Europa Hispánica, in corso di stampa, Appendice I, 7. 6 Cfr. D’ALESSANDRO 2019, pp. 301-344, passim. 7 Cfr. ivi, pp. 344-346. 8 Oltre ai suddetti versi del viceré Osuna, il Lambardi mise in musica il canto spagnolo del Dio Pane, Lenguas son, nella ben nota “Festa a Ballo” del 1620; cfr. D’ALESSANDRO 2019, pp. 312-314. Il Ms. 17062 della Biblioteca del Conservatorio di Bruxelles, intitolato «Canzonette italiane e spagnole a tre 176
sacra secondo quando ci testimonia il suo testamento, e soprattutto canzonette, balli e qualche brano teatrale, oltre uno sconosciuto libro di madrigali del 1617 dedicato a Luigi Sanseverino, conte di Saponara.9 Particolarmente importante dovette essere il suo ignoto legame coi Girolamini, ai quali lasciò, a discrezione della moglie e della figlia, tutte le sue opere liturgiche a tutt’oggi sconosciute10 – «messe, vespere, compiete, motetti, inni, risponsorii, e tutte cose latine» –, e la cui chiesa scelse come luogo di sepoltura, nonostante che potesse essere seppellito, come musico regio, nella cappella dedicata a Santa Cecilia istituita nella chiesa della Solitaria dalla congregazione dei musici di Palazzo. «La sepoltura presso i seguaci napoletani di San Filippo Neri è confermata così dalla registrazione di morte del compositore sia dal suo parroco sia dai canonici di San Giovanni Maggiore il 25 luglio 1642: questi ultimi stimarono:11 questi ultimi stimarono in sei ducati i loro “diritti” per il funerale dalla sua abitazione fuori la porta di Chiaia – di proprietà degli eredi di Baldassarre Trabucco e sulla quale Lambardi aveva investito ben 250 ducati –, fino alla distante chiesa oratoriana intra moenia della città antica. Raggiunse, quindi, una posizione di grande solidità economica e un patrimonio considerevole. Scrivendo le sue ultime volontà fa riferimento al fatto di avere la fama di essere un uomo molto ricco, una diceria basata forse più sulle apparenze che nella sostanza: «molte persone hanno detto ch’io mi ritrovava vinti e trentamilia docati di robbe, e non è vero», ci tenne a precisare con forza. Si vantava in ogni caso di essersi fatto strada da solo, col proprio sforzo: «questi quattro carnini [= carlini] ch’io mi ho fatto di robbe, non me li lasciò né mio patre né mia matre bon anime, ma le ho stentato io, in sudore vultus».
Nel suo testamento, però, Lambardi delinea un mondo lontano dai grandi personaggi che lo avevano circondato, rivolgendosi ai suoi ristretti circoli di conoscenze. Innanzitutto la famiglia: la moglie Grazia Maria Corso – «donna di gran senno e bontà» –, con la quale viveva da ventinove anni; la sua unica figlia, Lucrezia Lambardi; e i due nipoti che essa ebbe con il dottore in legge di origine calabrese, Giovanni Leonardo Coscinà. L’erede universale fu la stessa Lucrezia, che tra il 1659 e il 1671 dovette sostenere una lunga causa presso il tribunale della Gran Corte della Vicaria per la successione ereditaria alla morte della madre (†1656), e ottenere quindi i beni che la Corso aveva ottenuto a sua volta nel legato testamentario dal marito Francesco, purché conservasse il
et quattro voci», dimostra la disinvoltura dei maestri napoletani della Cappella Reale verso le due lingue del Regno di Napoli. 9 Cfr. D’ALESSANDRO 2019, Appendice documentaria, p. 147 (doc. 537). 10 Cfr. SALVATORE DI GIACOMO, Catalogo generale delle opere musicali […] Città di Napoli. Archivio dell’Oratorio dei Filippini, Parma, Associazione dei musicologi italiani - Fresching, 1918. Probabilmente gli eredi non diedero seguito alle sue volontà; se avessero ottemperato ai desideri del testatore oggi avremmo a disposizione tutta la sua musica sacra, che avrebbe gettato nuova luce sulla sua attività complessiva di compositore. 11 Cfr. ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI NAPOLI, Parrocchia di San Giovanni Maggiore, Libri dei defunti, vol. 121, c. 72r: «Eodem die [25 luglio 1642] Fran(ces)co Lambardo marito di Gratia Corsa da Chiaia alli Geronomini con lontananza d(ocati) 6»: «La morte fu registrata dal suo parroco nel modo seguente: «A 25 di luglio 1642 morì Fran(ces)co Lombardo e fu sepelito alli Gerolimini, hab(ita)va alla porta di Chiaia, co(n) li s(antissi)mi sagram(en)ti, mar(it)o d(i) Gra(tia) Corso»; cfr. ivi, Parrocchia di Santa Maria della Neve a Chiaia, Libri dei defunti II-IV (1621-1703), sub data». 177
«letto viduale».12 Si aggiungevano poi le sorelle di Lambardi, Giulia e Felicia, del tutto sconosciute, il fratello Giacinto – anch’egli ben noto musicista –, 13 i Coscinà, parenti acquisiti, e un gruppo di amici stretti, quasi tutti musici, ossia: il liutista leccese Alessandro Cino, «compare carissimo»; Bartolomeo Russo, contralto prima nella cappella musicale dell’Annunziata, quindi alla corte del principe Carlo Gesualdo, poi nella Cappella reale,14 altrettanto «carissimo» a Lambardi e con il quale collaborò nella cappella musicale di Santa Maria la Nova nel 1628;15 e tre padri Girolamini: Camillo Giordano, il padre Vecchione e don Erasmo di Bartolo (il cosiddetto “padre Raimo”), anche lui famoso compositore, didatta e voce di basso nella Real Cappella e nella camera dei viceré.16
La Napoli abitata del maestro Lambardi si estendeva tra Chiaia, dove dimorava, fino alla strada di Toledo, la via in cui la moglie aveva il palazzo familiare; in altre zone, soprattutto a Monteoliveto, c’erano altre sue piccole stanze soppalcate e botteghe. Erano i luoghi per eccellenza della capitale vicereale dopo la sua grande riorganizzazione cinquecentesca, marcata dall’insediamento nobiliare e le riforme del viceré don Pedro de Toledo.17 Ancora una volta Francesco Lambardi è al centro, circondato dagli ambienti protagonisti della sua professione: i palazzi e le istituzioni della società aristocratica e vicereale. Ma per quanto riguardava i suoi affari privati, il musicista non si era abbandonato del tutto a quel contesto di grandezza e svago: mentre svolgeva la sua attività artistica si era preoccupato di guadagnare una posizione stabile per la propria famiglia. Come altri suoi famosi colleghi aveva investito dei capitali sulla gabella della seta e qualche «negotio» di mercanzia con suo genero. Lambardi seguì l’esempio del maestro di cappella regio Jean de Macque – che impose al figlio di non fare il musicista ma piuttosto di addottorarsi –, 18 e quindi fece sposare la figlia con un dottore in utroque iure e lasciò a suo nipote Giovanni Giacomo Coscinà «ducento docati, se però si vorrà adottorare in teologgia, o legge o medicina, e se ne comprino libri subbito che sarà adottorato», indirizzandolo così verso le opportunità che offriva il ceto civile. Ma più che a qualunque gruppo sociale, Lambardi apparteneva alle cappelle e alle istituzioni assistenziali napoletane dove era iniziata la sua carriera, spesso sostenute dagli stessi musicisti,19 non solo dall’aristocrazia: istituzioni che ebbero un’enorme importanza per lo sviluppo della pratica musicale seicentesca. A esse destinò infatti vari legati, tra i quali spiccano soprattutto le donazioni dei 750 ducati all’Annunziata – luogo delle origini professionali della sua famiglia musicale – e i cinquanta ducati lasciati alla Pietà dei Turchini – presso il cui conservatorio lavorò come primo maestro di cappella dal
12 Cfr. il protocollo notarile nelle carte che precedono il testamento: cc. 392r-394v. 13 Cfr. D’ALESSANDRO 2019, pp. 309-312. L’altro fratello Andrea, soprano all’Annunziata e poi tenore della Real Cappella, era già morto nel 1629; cfr. PROTA-GIURLEO 1955, p. 276. 14 Cfr. D’ALESSANDRO 2008, pp. 94-96. 15 Cfr. D’ALESSANDRO 2019, pp. 149-150. 16 Su Alessandro Cino, Bartolomeo Russo e padre Raimo, si veda ivi, pp. 149-150, 202, 211-214; Appendice documentaria, pp. 318-319, 324-325, 329. 17 Cfr. GÉRARD LABROT, Baroni in città. Residenze e comportamenti dell’aristocrazia napoletana 1530-1734, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1979, p. 39 e sgg. 18 Cfr. D’ALESSANDRO 2008, p. 118. 19 Cfr. D’ALESSANDRO 2019, p. 150. 178
1626 al 1630 –, e al quale già nel 1623 aveva donato l’ingente somma di 2750 ducati.20 Del tutto sconosciuto, invece, il suo rapporto con i Gesuiti e il suo ruolo come maestro di cappella del Gesù Nuovo; in quanto tale appariva nella loro Congregazione dei Nobili dedicata alla “Natività della Beata Vergine”.
Dei tratti personali, oltre all’avvedutezza nelle imprese e la fierezza per il proprio lavoro, non ci resta che la sua sensibilità estetica, sparsa tra le sue composizioni e negli oggetti d’arte menzionati nel testamento. Sappiamo, infatti, da questo documento, che Lambardi possedette tra l’altro un quadro piccolo con «una testa di Salvatore», e un «Cristo in croce grande, di mano di Carlo Sellitto pittore celebre»,21 entrambi donati a uno dei suoi cognati «per memoria mia», ma con il beneplacito della moglie Grazia e della figlia Lucrezia. Si conferma il legame tra l’allievo di Caravaggio e i musicisti della Cappella reale, che nel 1613 avevano commissionato la sua famosa Santa Cecilia per l’altare della loro confraternita presso la chiesa della Solitaria22. D’altronde, il quadro «grande» di Sellitto – pittore «molto ricercato in quegli anni dall’aristocrazia napoletana soprattutto come ritrattista»23 – ci permette d’immaginare la ricchezza della casa del maestro, una volta raggiunta la vetta della sua carriera. Come nel caso di Trabaci, circondarsi di oggetti d’arte, soprattutto quadri, fu per tutto il Seicento e oltre la tipica «espressione dell’agiatezza raggiunta con la professione del musicista».24 Il gusto per l’arte, accanto al complesso dei mecenati, delle istituzioni, e gli scenari urbani, le possibilità e i condizionamenti sociali del mestiere – spesso considerati erroneamente non in modo unitario tra i diversi ambiti disciplinari –, ci aiutano a restituire più compiutamente il quadro complessivo della vita a Napoli nel suo brillante capitolo seicentesco.
Il testamento redatto ancora «in vita cioè in salute»da Francesco Lambardi, fu aperto il 27 luglio del 1642, due giorni dopo la morte del compositore, alla presenza dei legali e di sette testimoni; ma solo quattro di essi erano i medesimi presenti alla sua chiusura. Tra questi vi fu ancora il tenore regio Giovanni Romano – presente anche all’apertura del testamento del suo maestro di cappella Jean de Macque nel 1614 –, 25 ma assente fu il suo carissimo amico Bartolomeo Russo, nel frattempo sicuramente defunto come Lambardi temeva che potesse accadere, essendo evidentemente a conoscenza del suo precario stato di salute.
La moglie Grazia Maria Corso mantenne amorevolmente il suo «letto vedovile», morendo durante la terribile peste del 1656. La figlia Lucrezia, vedova del dottor Giovan Leonardo Coscinà, morirà il primo maggio del 1680 a Sant’Anna di Palazzo.26
20 Cfr. ivi, p. 271. 21 Per avere un’idea della qualità del dipinto donato e della resa del tema iconografico della crocifissione da parte di Sellitto, si veda il suo Gesù crocifisso collocato fino al marzo del 1993 nella dismessa chiesa parrocchiale di Santa Maria in Cosmedin a Portanova, e poi trafugato; cfr. GIUSEPPE PORZIO, Carlo Sellitto 1580-1614, Napoli, arte’m, 2019, pp. 157-162, e la scheda relativa alle pp. 206-207. 22 Cfr. ivi, p. 204, e D’ALESSANDRO 2019, pp. 222-225, Appendice documentaria, p. 152 (nota 128). 23 D’ALESSANDRO 2019, p. 493. 24 Ibidem. 25 Cfr. D’ALESSANDRO 2008, pp. 94-95, 114. 26 Cfr. PROTA-GIURLEO 1955, p. 276.
APPENDICE
ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Archivi dei notai del secolo XVI, notaio Giacomo Antonio Auriemma, scheda 199, prot. 1, cc. 392r-404v. Testamento olografo di Francesco Lambardi, chiuso il 2 gennaio 1639 e aperto il 27 luglio 1642.
In nomine Patris e Filii e Spiritus Sancti Amen
Testamento chiuso ordinato e fatto da me Fran(ces)co Lambardi in vita cioè in salute, quale voglio che si osservi dalli miei eredi e successori. In primis, lascio l’anima mia al misericordioss(issi)mo Idio, e lo priego con la facce per terra e per il merito del pretiosissimo sangue del suo figliolo sacratissimo, e per l’amore del Spirito Santo et San(ti)ss(i)ma Trinità, P(adre), F(iglio) e S(piri)to, per li meriti di Maria se(m)pre Vergene, di S(an) Michele Arcangelo, di S(an)to Gioseppe, S(an)to Fran(ces)co, S(an)to Gio(vanni) e di tutti li santi e sante miei devoti mi vogli perdonare li miei peccati, così come spero certo, Amen. Renunciando Satanasso e suoi seguaci per tutta l’eternità. E voglio ch’el corpo mio sia sepellito alla chiesa delli patri Gelormini. Et perché l’istitution del erede, è capo e principio di qualsivoglia testamento, sensa [sic] la quale, [ripetuto] senza la quale il testame(n)to per disposition di legge si dice esser nullo, per questo io predetto Fran(ces)co testatore per ogni meglior via che posso, e devo, istituisco, ordino e fò, anzi con la mia propria bocca nomino a me mia erede oniversale e particolare Locretia Lambardi mia figlia leggitima et naturale, al presente moglie del sig(no)re Gio(vanni) Lonardo Coscinà, e dopo morte della detta Locretia a suoi eredi e successori sopra tutti e qualsivogliano miei beni mobbili e stabbili prese(n)ti e futuri, censi annui entrate, e nomi di debbitori dovunque siti e posti, et in qualsivoglia parte consistentino, et a me predetto testatore spettantino, e pertine(n)tino, in qualsivoglia modo con espresso vincolo, proibitione e conditione che ne | detta mia figlia et erede, né suoi eredi e successori possano né in tutto né in parte per qualsivoglia causa, etiam orgente et orgen(tiu)m che ci despensasse il Sacro Conseglio, il R(egi)o Collaterale o altro qualsivoglia tribbunale, la presente mia eredità e beni inpignare, vendere, né alienare, né in altro qualsivoglia modo oblicare, ipotecare, né trasferire, donare né altra cosa fare, ma sempre quella debbia restare sempre in perpetua(m) et infinitu(m), con la successione a beneficiio delli detti eredi e succes(so)ri della detta Lucretia mia figlia et erede, con li sudetti vinculi, proibitioni e conditioni, e così sempre si debba osservare ad eredes eredu(m) in infinitu(m), e no(n) altrimenti, né in altro modo, preter eccetto da l’infrascritti legati, e fidei com(m)issi. V(idelicet). Item declaro come a tempo che contrai matrimonio con la sig(nor)a Gratia Maria Corso mia moglie carissima mi furno promessi in dote da Aurelia di Nardino mia socera [ripetuto: mia socra] docati mille e ducento, delli quali me ne furno pagati docati cinquecento per lo Banco di Santo Eligio, e per li altri d(oca)ti settecento ncesi [depennato: per] corrispondeno tra di noi dalla istessa Gratia mia moglie tant’annui entrate alla raggione di sette per cento, così per conventione tra di noi havuta, e perciò voglio che subbito secuta mia morte se li restituischano li detti d(oca)ti cinquecento se così piacerà
a detta sig(no)ra Gratia mia car(issi)ma moglie, e questo, una con l’antifato deli detti d(oca)ti mille e ducento, che de iure li tocca servata la forma delli capitoli matrimoniali tra me predetto testatore e della s(i)g(no)ra Gratia | stipulati per mano di notar Pietro Antonio Rosanova che io testatore mi oblicai darli seicento d(oca)ti di antefato da consequirseli sopra li meglio effetti della presente mia eredità et in particulare sopra li d(oca)ti mille e cento che io sborzai in più volte, e furno da me pagati a diversi creditori sopra la casa che oggidì si possede per essa Gratia lasciatali per la quo(n)da(m) Aurelia di Nardino sua matre sita nella Strada di Toledo. E per haver conosciuto la buona et honorata compagnia havuta per spatio di vintinove anni con la detta s(igno)ra Gratia e ta(n)to più in remuneratione della donatione tra me e detta sig(no)ra Gratia fatta ad invice(m) de annui d(oca)ti settanta mediante strumento per mano del quonda(m) notaro Tomase Aniello d’Isch[i]a di Napoli abitante alli Banchi Novi, allo quale in omnibus si habbia relat(io)ne. Voglio per ciò che sequendo mia morte, siano dati alla detta Gratia mia moglie la mità dell’intrate della mia eredità, uniti però con li sudetti annui d(oca)ti settanta, e questo sua vita durante tantu(m), e per mentre guardarà il letto mio viduale da pagarnosi [depennato: per] detta mia erede, sì come dette entrate si andaranno esiggendo o di quello modo e maniera che tra di loro si conveneranno instituendola perciò alle cose predette la predetta Gratia, Gratia mia moglie, erede particulare, e questo lo fò no(n) per ligarla ma per star sì ben certo che per l’amore che mi ha portato, e porta, e per essere donna di gran senno e | bontà, credo no(n) si tornarà a maritare, e dato casu che per poco corrispondenza ch’havesse dalla Locretia e s(igno)r Gio(vanni) Lonardo e miei nepoti (il che no(n) credo) o per altre cause sua mente moventino, la detta Gratia volesse tornarsi a maritare, in tal caso li siano dati solamente le sue dote et antifato, e di più li sudetti d(oca)ti settanta annui continenti nella sudetta donatione con le sue dote et antifato, e di più tutti li moboli [sic] di mia casa, oro, argento e la terza parte delli danari che se ritrovaran(n)o o in banchi o in casa, e questo in segno della molta affettione et amorevole corrispondenza fra di noi. Item lascio e voglio che sia in libero arbitrio dispositione e voluntà della detta Lucretia mia figlia et erede di distribuire e lasciare detta eredità a chi lei piacerà e vorrà, e dare più ad uno che ad un altro, senza che si li possa opporre ostacolo né inpedimento alcuno, che così è la mia volontà. Lascio a Giulia Lambardi mia sorella d(oca)ti diece l’anno, quali si possano affrancare dalli miei eredi con centocinquanta d(oca)ti e ce li lascio liberi, di più li lascio altri d(oca)ti vinti per una vice tantu(m). Lascio a Felice Lambardi mia sorella d(oca)ti diece l’anno sua vita durante, e che stia a mia figlia Locretia se ce li volesse dare di capitale, cioè centocinquanta d(oca)ti di contanti per affrancare li sudetti diece d(oca)ti, anco li lascio altri d(oca)ti vinti p(er) una vice tantu(m). | Lascio a Iacinto Lambardi mio fratello d(oca)ti centocinquanta per una vice tantu(m) franchi e liberi, e se fra tre mesi dopo la morte mia li eredi no(n) pagano detta partita, da quello tempo in poi li corrano diece docati l’anno insino che li eredi sel’affra(n)cano. Lascio al sig(no)r Gio(vanni) Belardino Tartaglione mio cognato car(issi)mo dui, dico dui quatri, cioè il Cristo in croce grande, di mano di Carlo Sellitto pittore celebre, et un
altro quatro piccolo dipinta una testa di Salvatore, e ne pigli d(i) buon animo e li te(n)ga per memoria mia e ne stia a quel che ne dirà la sig(no)ra Gratia overo Locretia, che so faranno la volontà mia. Dico di più a tutti parenti et amici, che no(n) se meraviglino se io li ho lasciato poco, atteso che molte persone hanno detto ch’io mi ritrovava vinti e trentamilia d(oca)ti di robbe, e no(n) è vero, per quello che poco appresso si vedrà in questo testamento, e così ne piglino il buon animo di quel ch’io le lascio, poiché questi quattro carnini [recte: carlini] ch’io mi ho fatto di robbe, no(n) me li lasciò né mio patre né mia matre bon anime, ma le ho stentato io, in sudore vultus etc., e così sono oblicato a mia figlia et a mia moglie, che pure ho goduto delle robbe sue qualche poco molt’anni, e questo mi ha spirato Idio N(ostro) S(ignore). Lascio alla chiesa della Pietà di Turchini docati cinquanta per una vice tantu(m), e se fra tre mesi li eredi no(n) ce li pagano, li corrano tre d(oca)ti l’anno, e lassi li tre mesi fin che li eredi ce li danno contanti et mi dicano quindici messe per l’anima mia p(er) una vice tantu(m). | Lascio a la Casa Santa di Santo Eliggio allo Mercato d(oca)ti cinquanta per una vice tantu(m), e se li eredi no(n) li pagano fra sei mesi li corrano tre docati l’anno fin che l’eredi ce li dan(n)o di contanti. Lascio alla sacristia del Giesù Novo d(oca)ti vinticinque per una vice tantu(m), et si habbia tempo tre mesi a pagarli, e lascio ancora a detta sacristia li d(oca)ti quarantaquattro e tarì ch’io restai ad havere dalla Congregatione de nobili quand’io era maestro di cappella del Giesù li anni passati. Lascio alli patri di Santa Maria Maggiore d(oca)ti vinti per una vice tantu(m) quali vadano per servitio della musica che fu posta in detta chiesa da monsig(no)r Pignatello, e si habbia te(m)po tre mesi a pagarli. Lascio d(oca)ti diece a Bartolomeo Russo mio compare car(issi)mo per amor(e)volezza, se però sopravive a me testatore, per una vice ta(n)tu(m). Lascio alli patri scalzi di Santo Agostino sopra li Studii, d(oca)ti diece per carità, e mi dicano sette messe per l’anima mia. Lascio che si dicano cento d(oca)ti di messe per l’anima mia cioè melle [recte: mille] messe subito che son morto, e che li eredi li pagano in due volte. Lascio ad Alisandro Cino mio compare car(issi)mo d(oca)ti quindici p(er) amor(e)volezza. Lascio alli rev(eren)di patri delli Gelormini tutte l’opere di [cancellatura] musica, cioè cose ecclesiastiche come messe, vespere, compiete, motetti, inni, risponsorii, e tutte cose latine, e ne piglino d(i) buon animo, che so che no(n) li manchano cose assai meglio, e li priego in visceribus Christi vogliano pregare per l’anima mia, et in part(icola)re ne priego assai assai il patre Camillo Giordano, et il | patre Raimo di Bartolo, et il patre Vecchione, miei car(issi)mi patroni; e dell’opere di musica, ne stiano a detto de mia moglie e figlia e si contentino di quello che loro li darà, che so che faranno la volontà mia. Lascio al[l]’opera delli malati che cominciò a fare d(on) Vicenzo Califano, e credo la facci mastro Tiberio Melfi, barbiero, d(oca)ti dudici de carità per soggiovare in qualche cosa li poveri malati.
Lascio la trentuna e la quarant’una a la chiesa de la Pietà. Lascio a lo notaro che aprirà questo testamento d(oca)ti sette con che n’habbia da dar copia alli miei eredi autenticha. Lascio a Benedetta Coscinà mia nepote dicedotto d(oca)ti l’anno per lazzi e spingole, tanto se si vol far monacha quanto se maritasse, e questo ab estra dote che li darà suo patre, e li corrano quando essa sarà de dicessetti anni finiti. Lascio a Gio(vanni) Iacovo Coscinà mio nepote ducento docati, se però si vorrà adottorare in teologgia, o legge o medicina, e se ne conprino libri subbito che sarà adottorato, e se li diano quando sarà il tempo.
Le robbe che lascia lo testatore sono queste sottoscritte. Sopra la massaria Foregrotta del sig(no)r Scipone [sic] Grimaldo ci sono ottocento d(oca)ti di capitale a otto per cento, e si deveno havere molte annate. | Sopra la casa di Toledo della sig(no)ra Gratia Corso mia moglie ci sono di capitale mille e cento di capitale ad otto per cento, quali furno pagati da me per levare alcuni debbiti ch’erano sopra la sudetta casa. A Monte Oliveto dove si fanno le carozze, vi è una camara et un intersuolo che con levare sei do(ca)ti di censo l’anno, e certi altri debbiti, rende da vintidui d(oca)ti l’anno in circa. Alli travarchari di Monte Oliveto ci è una pottecha che s’alloga trentatre d(oca)ti l’anno, quale potecha fu di Andrea Scarpato. Alla porta piccola di Santo Gioseppe ci è una casa che fu del quonda(m) Gio(vanni) Lonardo Cavalluccio, nella quale ci sono d(oca)ti trecento di capitale, a otto per cento, e si deveno havere molte an(n)ate. Sopra le case di Gio(vanni) Trabbucco for la porta di Chiaia ci sono ducento cinquanta d(oca)ti di capitale a otto p(er) cento. Sopra lo negotio delle merchantie, che tieneno insieme, cioè Fran(ces)co Gentile, notar Ignatio Carlo Marcaldo e Gio(vanni) Lonardo Coscinà mio gennero [= genero], ci sono d(oca)ti mille quali se negotiano sopra detta negotio e mercantia, quali detti d(oca)ti mille li furno dati a detto Gio(vanni) Lonardo per lo Banco del Spirito Santo l’ultimo d’agosto mille e seicento trentasei dico trentasei. | Sopra la gabbella della sete di Calabria ci sono di capitale dumilia cinquantatre, tarì dui e grana a sette per cento. Con la Casa e Banco della Santissima Annu(n)tiata ci sono d(oca)ti tremilia a …[omissis]. Con l’istessa Casa Santa della Annu(n)tiata ci sono altri settecento cinquanta d(oca)ti però sono a 12 per cento in vita mia, quali [depennato: quali] si estingueno in beneficio di detta Casa Santa. Con il sig(no)r Gio(vanni) Lonardo Coscinà ci sono ducento vinticinque d(oca)ti quali ce li pagai per mano di notar Ignatio Carlo Marcaldo, acciò pagasse il detto Gio(vanni) Lonardo li tridici d(oca)ti l’anno a Reggina Celi, e già va con(facen)do detto pagam(en)to. Sopra la casa di Fran(ces)co e Gioseppe Burrello ci sono trecento cinqua(n)ta d(oca)ti di capitale a 8 per cento, si deveno havere molte annate.
Nomi delli creditori che deveno havere dal testatore, sono videlicet. Sopra quella camara et intersuolo a Monte Oliveto alli fa carozze ci sono sei d(oca)ti di censo l’anno al sig(no)r duca di Gravina. Sopra l’istessa camara et intersuolo ci deve havere quattro d(oca)ti et un tarì l’anno Ottavio Scalso che li furno assegnati dal S(acr)o Conseglio. Sopra l’istessa ci sono otto carlini l’anno che si pagano a chi ordinarà il Sacro Conseglio, vedasi allo libro. Alli eredi di Gio(vanni) Donato de Grecis se li pagano docati tre l’anno. | A tale Turina, è figliola, e per essi al monasterio di Reggina Celi, si pagano ogni anno d(oca)ti tredici e mezzo, però declaro che questa partita la deve pagare Gio(vanni) Lonardo Coscinà mio gen(ne)ro atteso che l’anno 1634 overo tre(n)tacinque, che no(n) mi ricordo, io testatore diedi ducento vinticinque d(oca)ti al detto Gio(vanni) Lonardo per mano di notar Ignatio Carlo Marcaldo, e lui promise di pagare questi tredici d(oca)ti e mezzo l’anno al detto monasterio; questi tridici d(oca)ti so(no) sopra la massaria alla Conochia. Sopra la potecha alli travarchari a Monte Oliveto si pagano dui d(oca)ti e mezzo l’anno, a chi dirà il Sacro Conseglio.
Lascio esecutori di questo testamento il sig(no)r Fran(ces)co Coscinà mio caro patrone e parente, e ne lo priego quanto più posso, et il sig(no)r Fran(ces)co Antonio Brocca mio cognato car(issi)mo, vogliono far la carità. Lascio alle revere(n)da fabrica di San Pietro di Roma docati quattro pro malis oblatis et incertis. Io Fran(ces)co Lambardo affirmo qua(n)to di sopra