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Il giudaismo nella musica
RICHARD WAGNER, Il giudaismo nella musica, a cura di Leonardo V. Distaso, MilanoUdine, Mimesis 2016, pp. 172.
Nel 1850, sulla rivista «Neue Zeitschrift für Musik» di Lipsia, diretta da Franz Brendel, appariva un articolo intitolato Il giudaismo nella musica, a firma di K. Freigedanke. In esso, l’autore esprimeva le proprie considerazioni in merito allo stato di decadenza in cui versava la musica tedesca contemporanea e individuava nell’attività artistica e culturale degli Ebrei tedeschi la causa determinante di tale situazione.
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Sedici anni dopo, nel 1869, il compositore Richard Wagner, in una lettera indirizzata alla contessa Marie Muchanoff Nesselrode, rivendicava la paternità dell’articolo pubblicato sotto pseudonimo nel 1850 e ne approfondiva i contenuti, chiarendo le proprie posizioni in merito alla questione giudaica e sostenendo le proprie convinzioni riguardo ad un risveglio del popolo (Volk) tedesco che, a suo avviso, sarebbe stato possibile soltanto attraverso «l’opera d’arte dell’avvenire».
I due scritti wagneriani sono ora leggibili congiuntamente nel volume Il giudaismo nella musica (Mimesis, 2016) curato da Leonardo V. Distaso, che è anche autore della traduzione in italiano.
Nella Premessa lo studioso, lungi dal voler gettare discredito su una figura imponente della storia della musica europea, esprime la necessità di fare luce su un aspetto oscuro e forse troppo spesso dimenticato del compositore tedesco, ossia l’antisemitismo, parte integrante – come verrà accuratamente dimostrato nella successiva Postfazione – del suo pensiero politico, artistico e religioso. A fronte, infatti, della sconfinata letteratura che è stata dedicata a Wagner nel corso del tempo, Distaso afferma che pochi sono stati i contributi che hanno posto l’attenzione su questo aspetto scabroso e ne ricorda, in particolare, due: quello del filosofo Theodor Wiesengrund Adorno, autore di un saggio su Wagner scritto nel 1938 (Versuch über Wagner, Suhrkamp, 1952), e quello del musicologo Enrico Fubini, che ha dedicato all’argomento alcune pagine nel volume Il pensiero musicale del Romanticismo (EDT, 2005).
Ritornare su un tema così spinoso entrando in contrasto con ogni tipo di retorica celebrativa – spiega lo studioso – ha lo scopo di dimostrare quanto le riflessioni artistiche e la produzione del musicista siano inscindibili dalle sue considerazioni politiche e sociali. Consente inoltre di ricostruire il clima culturale di una Germania al tempo in grave crisi identitaria e politica, nella quale si diffondevano idee antisemite e in cui prendeva piede la costituzione di una “questione ebraica” di cui Wagner si era, di fatto, autoproclamato portavoce in qualità di «traghettatore di valori e di idee che hanno segnato in maniera sciagurata la conseguente catastrofe del Novecento» (p. 170).
Già dall’incipit del primo dei due scritti (tradotto da Distaso sulla base dell'edizione tedesca curata da J. M. Fischer nel 2015) Wagner sosteneva di dover spiegare in cosa consistesse «il sentimento inconscio della più intima ripugnanza che si manifesta nei popoli nei confronti dell’essenza ebraica» (p. 19) e poneva l’esistenza di tale sentimento alla base delle proprie argomentazioni. Il musicista metteva addirittura in discussione quelle istanze illuministiche che avevano propugnato in Germania l’emancipazione degli Ebrei tedeschi, affermando che esse non erano state altro che il frutto di
«un’astratta concezione universale» che strideva con «l’involontaria repulsione» derivante dal «diretto e attivo contatto con loro» (p. 21). Il compositore proseguiva sostenendo che, a causa del loro «ripugnante aspetto», gli Ebrei fossero incapaci di concepire e di rappresentare il bello nelle arti figurative, e che, a ragione della cacofonia della loro lingua madre, non potessero esprimersi autenticamente nell’arte musicale. Per questo motivo, secondo Wagner, gli Ebrei non avevano mai avuto un’arte propria né avevano mai «posseduto un valore artistico» (p. 34).
A suo dire, essi, grazie alla loro ricchezza, avevano potuto istruirsi e imitare un’arte che, però, non apparteneva loro e ciò era stato possibile a causa dello stato di decadenza in cui il compositore riteneva si trovasse la musica tedesca del suo tempo. Egli parlava del «giudaismo nella musica» (Das Judentum in der Musik) per indicare l’influenza che il «gusto ebraico» avrebbe avuto, secondo lui, nella produzione musicale grazie alla capacità degli Ebrei di infiltrarsi nella tessitura culturale tedesca.
Nel saggio Wagner argomentava la propria convinzione che l’arte vera fosse, per necessità naturale, diretta espressione del popolo e che, anzi, proprio in essa risiedesse la possibilità di un risveglio politico del popolo tedesco. Di conseguenza, ogni elemento estraneo al Volk originario avrebbe dovuto essere sradicato, poiché indeboliva la forza del popolo e allontanava quest’ultimo dall’affermazione della propria identità nazionale.
Le gravi affermazioni espresse in conclusione del saggio evocano in noi – come osserva Distaso nella Postfazione – lo spettro della tristemente nota “soluzione finale” elaborata dai nazisti meno di un secolo dopo. Wagner sosteneva, infatti, che l’unica alternativa per l’Ebreo di redimersi fosse «cessare di essere ebreo» e che, anzi, l’unica redenzione possibile fosse «la rovina, la fine, la morte, la caduta» (p. 47).
Non sorprende, dunque, che le considerazioni del 1869 – qui proposte in traduzione italiana per la prima volta – si aprissero all’insegna delle giustificazioni e del vittimismo con cui il musicista cercava di difendersi dalle accuse di antisemitismo mosse contro di lui dopo il 1850 da parte della comunità intellettuale tedesca. Wagner sosteneva, infatti, di essere stato oggetto di una campagna persecutoria da parte degli Ebrei, i quali avrebbero detenuto, a suo dire, il monopolio delle più importanti testate giornalistiche e dei più influenti canali di informazione. Tali accuse avrebbero distolto il suo pubblico dalla seria considerazione della “questione ebraica” e gli avrebbero invece attirato antipatie ed attacchi personali.
Nelle pagine più recenti, Wagner tornava quindi ad approfondire la propria concezione dell’arte popolare («Volkskunst») facendo riferimento al patrimonio mitico-religioso germanico come punto di partenza per la creazione di un’«opera d’arte dell’avvenire». Nel presentare le proprie argomentazioni, il compositore non mancava di attaccare i propri colleghi musicisti e intellettuali di origine ebraica, tra cui Felix Mendelssohn-Bartholdy, Giacomo Meyerbeer (mai nominato espressamente) ed Edward Hanslick.
Nella densa Postfazione, Distaso analizza i testi wagneriani mettendo in risalto alcuni tratti della personalità e della psicologia del musicista. L’indagine dello studioso amplia le informazioni presenti nei due scritti sul giudaismo integrandole con quelle di
altri saggi dello stesso autore e dall’autobiografia e ricostruisce i diversi momenti di maturazione e di sviluppo delle sue idee artistiche, religiose e politiche.
Distaso si sofferma, in un primo momento, sulle vicende che caratterizzarono l’esperienza biografica di Wagner nel decennio 1840-1850, immediatamente precedente la stesura dell’articolo sul giudaismo. In questo periodo si manifestava l’insoddisfazione del musicista verso l’ambiente culturale di Riga, città nella quale egli era impegnato come direttore musicale di un teatro. Alla frustrazione, si accompagnava in Wagner il desiderio di cercare successo a Parigi, che, in quel momento, gli appariva come una «terra promessa».
Lo studioso pone l’accento sul tratto narcisistico della personalità del compositore, il quale si stupiva di come nessuno nella città lettone si fosse accorto della sua genialità, e si sofferma sull’atteggiamento pretenzioso con cui egli si rapportava a personaggi influenti per chiedere favori di non sempre facile realizzazione. In particolare, Distaso ritorna più volte sulla doppiezza di Wagner nel suo rapporto con il celebre operista di origine ebraica Giacomo Meyerbeer. Se, infatti, in un primo momento, bisognoso di essere introdotto nell’ambiente musicale parigino, Wagner aveva espresso ammirazione nei confronti del collega e addirittura aveva affermato che quest’ultimo si differenziava dagli altri Ebrei per una certa gradevolezza nell’aspetto, a fronte della delusione per la sua fallimentare esperienza nella capitale francese egli cominciò a criticarne la musica e la persona, pur continuando a chiedergli favori e raccomandazioni.
Lo studioso rileva una costante nel comportamento di Wagner verso coloro che egli individuava come suoi possibili benefattori: «più erano potenti e autorevoli, più insistenti erano le richieste e più marcato era il successivo disprezzo» (p. 84).
Queste osservazioni, evidenziando la stretta interrelazione tra le esperienze biografiche del musicista e le sue idee artistiche e politiche, diventano, per Distaso, la chiave di lettura attraverso cui interpretare le idee e le considerazioni espresse da Wagner nei suoi saggi e messe in pratica nelle sue opere musicali. Sulla base di alcuni testi come, ad esempio, Sulla musica tedesca, pubblicato sulla «Gazette Musicale» (1840), e il Pellegrinaggio da Beethoven (1840), nonché di alcune riflessioni presenti nell’autobiografia, lo studioso fornisce una lettura dell’Olandese Volante (1841) osservando come in tale opera esista una contrapposizione tra un «mondo diurno esteriore» e un «mondo notturno interiore» (p. 90), espressi l’uno nel canto lirico di Senta e l’altro nel canto dell’Olandese.
Distaso rileva un parallelismo tra il destino di redenzione dell’Olandese – che, attraverso la morte, abbandona la mondanità e la superficialità della vita terrena – e la concezione wagneriana del vero artista, la cui missione è quella di allontanarsi dalle mode e di comporre una musica che sia espressione naturale del Volk. Una simile contrapposizione viene individuata dallo studioso anche nel Tannhäuser, tra le figure di Venere e di Elisabetta, che rappresenterebbero l’una «il mondo terreno del paganesimo» e l’altra «quello celeste del cristianesimo spirituale» (pp. 102-103).
Sulla base degli studi di Hans Mayer,1 Distaso legge l’opera alla luce dell’esperienza biografica wagneriana: come il sacrificio di Tannhäuser, che porta alla sua redenzione,
1 HANS MAYER, Richard Wagner (1959), trad. it. Mondadori, Milano 1967.
avviene in nome della libertà dal mondo delle apparenze, così Wagner, in nome della stessa libertà dalle apparenze, fugge da Parigi per cercare la propria redenzione come artista sul suolo tedesco, attraverso la creazione di un’opera d’arte nuova.
Nella Postfazione vengono messi in rilievo altri elementi utili a comprendere a fondo le convinzioni antisemite (e alcune idee artistiche da esse derivate) che il compositore appuntava nella sua autobiografia: gli Ebrei rappresentavano un’ “infezione” per la musica tedesca; la modestia del collega ebreo Fromental Halevy derivava dalla consapevolezza dello scarso valore artistico delle proprie opere e ciò significava una conferma della mediocrità artistica di tutti gli Ebrei; l’opera del romanziere Berthold Auerbach era degna di ammirazione per la presenza di elementi afferenti al mondo contadino tedesco – espressione autentica del Volk originario -, ma le continue rivendicazioni ebraiche dell’autore ne corrompevano la genuinità.
La questione antisemita da cui prendono le mosse gli scritti wagneriani presentati nel volume di Mimesis è inquadrata da Distaso nel contesto di una più ampia articolazione della concezione wagneriana dell’arte, alla quale sono subordinate anche le istanze politiche e rivoluzionarie del compositore di Lipsia.
Infatti, tracciando un quadro delle vicende che vedono Wagner coinvolto nei moti di Dresda del 1849 e ponendosi come obiettivo quello di comprendere le motivazioni profonde di tale adesione alla rivoluzione, lo studioso ricostruisce il rapporto che lega, nella visione wagneriana, arte, popolo e natura. Le fonti di cui egli si serve per delineare questo fil-rouge sono, oltre alla già menzionata autobiografia del compositore, alcuni saggi scritti da Wagner negli stessi anni dell’articolo sul giudaismo, di cui qui ricordiamo alcuni titoli: La rivoluzione, La professione d’artista nel futuro, I Vibelunghi, Arte e rivoluzione, L’opera d’arte dell’avvenire.
Attraverso la sua indagine, quindi, Distaso definisce le idee a fondamento della concezione wagneriana dell’arte. Secondo il compositore, la vera arte sarebbe espressione autentica e diretta del Volk, unico creatore, e l’artista un suo semplice portavoce. Tuttavia, affinché il processo creativo possa compiersi – sostiene Wagner –, il Volk deve divenire consapevole delle proprie origini e del proprio legame con la natura.
Ovviamente, il popolo a cui si riferisce il musicista è quello tedesco e, in tale visione, gli Ebrei rappresenterebbero l’elemento di disturbo, non solo estraneo allo strato popolare originario e incapace di esprimerne artisticamente lo spirito, ma addirittura nocivo per la purezza della razza ariana.
Lo studioso insiste sul ruolo tutt’altro che marginale dell’antisemitismo in Wagner e dedica ad esso, a conclusione della sua Postfazione, un paragrafo in cui ne definisce i caratteri. Ripercorrendo tutti i testi analizzati, compresi i due scritti presentati nel volume, Distaso mette in luce tutti i pregiudizi e le considerazioni che il musicista tedesco esprime nei confronti degli Ebrei, soffermandosi sul lessico utilizzato e sulle argomentazioni addotte, e li inquadra nel contesto storico-sociale-politico della Germania del tempo. Le idee antisemite di cui Wagner si faceva portatore, osserva Distaso, già serpeggiavano in quel contesto, tanto che sarebbe bastato aspettare pochi decenni per trovarle sviluppate in vere e proprie teorie della razza.
A conclusione del saggio, il curatore ribadisce con forza quanto aveva già affermato nella Premessa, e cioè la necessità di tornare ad esaminare la figura del compositore