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L’identità di mutazione
di RICCARDORIGATO, fotoF.O.I. e S. GIANNETTI
Quando in una specie compare una nuova mutazione, sicuramente viene stimolato l’entusiasmo per la riproduzione e la se lezione della neonata variante cromatica. All’esordio, l’esigenza primaria degli allevatori in possesso del nuovo pool genetico è quella di garantirne la sopravvivenza. Vi sono specie difficili da allevare che richiedono grande impegno e dedizione, supportati da strutture idonee e da un buon bagaglio di esperienza. A volte gli sforzi non sono sufficienti a garantire un futuro alle nuove cromie (fanelli opale, cantori d’africa bruni, per esempio) ma una delle problematiche che spesso si verifica è una selezione che non rispecchia l’attività mutante del gene o dell’insieme di geni in questione. L’indirizzo selettivo, a mio avviso, non deve essere dettato da uno standard frutto del gusto personale degli estensori dello stesso. Uno standard, che dovrà guidare gli sforzi selettivi degli allevatori e che dovrà anche essere lo strumento in pos sesso dei giudici per effettuare una perizia il più oggettiva possibile, è frutto di una accurata analisi di come il genotipo mutato sia in grado di modificare il fenotipo rispetto al riferimento ancestrale. Si è abbondantemente dissertato in un precedente lavoro sull’importanza del punto di repere; di non minore importanza deve essere l’attenta analisi di come agiscono i nuovi fattori mutanti sul corredo sia melaninico che lipocromico, avendo il coraggio di accettare fenotipi che a volte si possono discostare dal gusto personale, ma che sono aderenti alle modificazioni operate dal nuovo genoma.
Verdone lutino maschio
Un esempio che può illuminarci su tale tematica è la mutazione lutino. È questa una mutazione di forte impatto visivo, perché aggredisce in maniera decisa il corredo melaninico senza intaccare i lipocromi. Anzi, per un meccanismo di compensazione, i lipocromi spesso risultano amplificati.
Il verdone è stata forse la prima specie tra i fringillidi ad essere interessata da questo eclatante fenotipo. I soggetti appaiono fondamentalmente gialli (perciò lutino, dal latino luteus) con iride quasi totalmente depigmentata da far apparire l’occhio color rubino per evidenziazione della trama vascolare sottostante. L’entusiasmo è stato notevole nell’allevamento di tale variante cromatica. Ci sono voluti anni però per essere d’accordo su come deve essere un soggetto che esprime in maniera corretta la mutazione. Dopo lunghi confronti tra tecni ci, errori selettivi ed approcci em pirici, og gi si è giunti ad un modello se let tivo condiviso dai più.
È stato raggiunto tale traguardo dopo aver intrapreso strade tecnicamente non aderenti alle caratteristiche del gene mutante, non considerando l’effettiva capacità inibente sulle melanine, ma aspirando ad un modello teorizzato in maniera soggettiva. Venivano selezionati, ed erano apprezzati a livello espositivo, i soggetti che non palesavano residui melaninici. Tale fenotipo però non è aderente all’azione del gene sul fenotipo. La mutazione lutino aggredisce in maniera decisa il corredo melaninico, ma non lo azzera. A livello fenotipico la feomelanina pare venga inibita totalmente, l’eumelanina nera, che sembrerebbe scomparire, può essere rilevata nel sottopiuma in forma ridotta, determinando una colorazione grigio perla (frutto pertanto della diluizione del nero e non del bruno). Il pigmento melaninico che subisce in minor misura l’azione inibente è l’eumelanina bruna. Quando si è presa piena coscienza di ciò (grazie anche all’analisi di come la mutazione si comporta in altre specie come il cardellino) si è cominciata ad apprezzare la presenza di un residuo eumelani nico bruno su remiganti e timoniere.
Cardellino lutino L’esperienza del verdone ha fatto sì che non venissero ripetuti gli stessi errori in altre specie. Nel diamante di gould lutino è fortemente apprezzata la presenza del residuo eumelaninico bruno. Il concetto di “più chiaro più bello” non è stato minimamente pre so in considerazione. Lo standard è stato redatto nel rispetto di come effettivamente si esprime il genotipo sul risultato fenotipico. Nella comprensione dell’attività di modificazione dei pigmenti della mutazione lutino, è stata di grande contributo l’interazione con la mutazione bruno che ha dato come risultato la combinazione che, nel settore EFI, viene definita satiné ovvero lutino bruno. Quando il gene inibente l’eumelanina bruna del lutino anziché agire su un substrato ancestrale si trova a dover inibire una quota di eumelanina bruna pressoché doppia (tipica della mutazione bruno) non riesce ad esprimere appieno il suo potere inibente, così che il re siduo eumelaninico bruno appare nei satiné in maggior misura. Il lutino a base bruna è quindi paradossalmente più ricco di pigmento melaninico rispetto a quello su base ancestrale. Risulta pertanto di vitale importanza riuscire a capire come ogni nuova mutazione esprima il suo potere di modificazione dei pigmenti rispetto all’ancestrale, rispettando la sua identità e non rincorrendo un fenotipo idealizzato. Del resto, con il tempo, coloro i quali si sono adoperati inutilmente per selezionare dei lutini privi di residuo melaninico sono stati lo stesso accontentati dalla natura. È infatti comparsa nel verdone una mutazione in grado di azzerare i pigmenti melaninici lasciando intatto il lipocromo. Il verdone battezzato citrino è infatti del tutto privo di melanine in virtù del fatto che è in possesso del gene che determina l’inibizione della tirosinasi, un enzima che, agendo sulla tiroide, è responsabile tra le tante cose della sintesi melaninica. Tale fenomeno studiato in medicina, nella branca della teratologia, è detto albinismo. Ogni mutazione ha dunque una sua identità. A noi non spetta il compito di decidere come deve esprimersi fenotipicamente, ma scoprire co me agiscono i geni mutati sull’e spressione di ciascun pigmento del substrato originario affinché venga rispettata l’agognata identità di mutazione.
Diamante di Gould ino testa rossa, foto: S. Giannetti