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CTU e il principio dispositivo: non desiderare il ruolo altrui

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alle buone prassi

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giuris prudenza Giurisprudenza Giurisprudenza Cass. civ., III sez., 6.12.2019, n. 31886 Cassa App. Perugia, 29.9.2016 Poteri istruttori del CTU – Limiti – Principio dispositivo – Nullità d’ufficio (Cost., art. 111; c.p.c., artt. 112, 115, 183, 194)

È preclusa al CTU l’indagine su fatti mai allegati dalle parti, nei termini perentori di cui all’art. 183, comma 6°, c.p.c. né lo stesso può acquisire di propria iniziativa la prova dei fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione oppure acquisire dalle stesse parti o da terzi documenti che forniscano una prova a riguardo. Pertanto – salvo che la prova acquisita non riguardi fatti tecnici accessori e secondari, oppure elementi di riscontro della veridicità delle prove già prodotte dalle parti – la violazione di tali principi comporta la nullità della CTU per violazione del principio dispositivo delle prove e tale nullità è rilevabile ex officio e non sanabile neppure dall’acquiescenza delle parti.

Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista

La CTU e il principio dispositivo: non desiderare il ruolo altrui

Italo Partenza Avvocato in Milano

Sommario: 1. La decisione: le ragioni argomentative ed i principi di diritto. – 2. Il ruolo del CTU: “unicuique suum”. – 3. I principi che tutti dovrebbero condividere.

Abstract: La sentenza pone una serie di limiti ai poteri istruttori dei CTU ed a taluni eccessi che risultano lesivi degli oneri probatori a carico delle parti e delle preclusioni previste dall’art. 183, comma 6°, c.p.c., prevedendo la nullità della CTU – rilevabile ex officio – che svolga indagini su fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione mai ritualmente allegati dalle parti negli atti precedenti la CTU stessa.

The judgement limits the investigating power of the Expert appointed by the judge who is not allowed to investigate about facts relevant for the decision that parties have not introduced in the trial. CTU in these case is void and it can be ascertained ex officio by the judge in any phase of the trial.

1.

La decisione: Le ragioni argomentative ed i principi di diritto

Oggetto della pronuncia della Terza Sezione Civile della Suprema Corte è un tema di assoluta rilevanza nel processo civile, in quanto coinvolge i principi fondanti dello stesso, fino ad orientarne – sovente – l’esito. La questione attiene alla interpretazione dell’art. 194 c.p.c. e, conseguentemente, alla definizione dei poteri istruttori del consulente tecnico d’ufficio alla luce di tale articolo e, in particolare: –Quali siano ambiti e limiti degli stessi; –Quando possano essere derogati; –Quali le conseguenze processuali della loro violazione. La pronuncia ha ricordato l’esistenza di tre differenti orientamenti interpretativi dell’art. 194 c.p.c. Secondo il primo di essi – diremmo più “lasco” e più risalente – il CTU avrebbe il potere di compiere “ogni e qualsiasi indagine ritenga utile per l’esaustivo svolgimento del proprio incarico” e, quindi, spingersi all’accertamento dei fatti storici prospettati dalle parti, assumendo “di sua iniziativa informazioni” anche esaminando “documenti non prodotti in causa, anche senza l’espressa autorizzazione del Giudice” 1 . A questo riguardo la pronuncia ricorda precedenti che riconobbero il potere del consulente tecnico d’ufficio di acquisire documenti dai terzi e dalle parti e di raccoglierne la confessione ex art. 2733 c.c., anche qualora i termini per le produzioni documentali fossero spirati. L’unico limite istruttorio, quindi, secondo tale interpretazione dell’art. 194 c.p.c., sarebbe il confine delineato dall’oggetto dell’accertamento demandato dal Giudice. Il secondo orientamento, ricordato nella pronuncia in esame introduce una distinzione fra consulenza “deducente”, in base alla quale al consulente d’ufficio è demandata la mera valutazione di fatti già accertati dal Giudice e incontroversi fra le parti, e consulenza percipiente, nella quale al consulente è chiesto di accertare “determinate situazioni di fatto non ancora dimostrate in giudizio, e che è possibile accertare solo con l’ausilio di speciali cognizioni tecniche”. Nel primo caso, essendo già avvenuta l’assunzione dei mezzi di prova o, comunque, non sussistendo contestazioni sui fatti, non vi sarebbero problemi di limitazione dei poteri del CTU, in quanto di per sé già limitati dall’avvenuta formazione della prova. Nel secondo caso, invece, il CTU avrebbe il potere di accertare fatti anche costitutivi della pretesa attorea, potendosi spingere ad approfondimenti delle indagini, che altrimenti parte attrice non avrebbe le competenze tecniche per attuare, fino al “raggiungimento di un accertabile grado di certezza” 2 . Il terzo orientamento comporta, invece, che il consulente non possa mai svolgere attività istruttorie su questioni mai prospettate dalle parti, poiché in tal modo vi sarebbe una palese violazione del principio dispositivo vigente nel processo civile che comporta l’onere di allegazione dei fatti secondo l’antico brocardo “ne procedat iudex ex officio, ne eat iudex ultra petita partium” 3 . Secondo tale più recente orientamento il CTU potrebbe dare una valutazione scientifica o comunque tecnica di fatti già provati o riscontrare la veridicità di fatti comunque documentati dalle parti nei termini previsti dall’art. 183, comma 6°, c.p.c., senza mai poter introdurre nel processo fatti nuovi o ricercare di propria iniziativa l’evidenza di fatti costitutivi della domanda o della eccezione. La Terza Sezione della Suprema Corte, con la pronuncia in esame, sceglie – senza se e senza ma

1 La pronuncia annotata ricorda a riguardo Cass., 12.12.1977, n. 5388; Cass., 30.5.1983, n. 3734, in Mass. Giust. civ., 1983; Cass., 24.2.1984, n. 1325, ivi, 1984; Cass., 7.11.1987, n. 1987; Cass., 30.5.1988, n. 3734; nonché Cass., 15.10.2003, n. 15448, ivi, 2003, in ambito di acquisizioni documentali a termini ex art. 183, comma 6°, scaduti e Cass., 27.8.2012, n. 14652, ivi, 2012, 1048, in tema di raccolta da parte del CTU di confessione ex art. 2733 c.c.

2 Cass., 4.11.1996, n. 9522, in Danno e resp., 1997, 15 con nota di Carbone.

3 La Corte ricorda espressamente in questo senso Cass., 19.1.2006, n. 1020, in Mass. Giust. civ., 2006; Cass., 10.8.2004, n. 15411, ivi, 2004; Cass., 14.7.2004, n. 13015, ivi; Cass., 10.3.2015, n. 4729, ivi, 2015.

– il terzo orientamento e, per le ragioni che si argomenteranno in seguito, qualsiasi giurista non può che essere grato di ciò, posto che finalmente si riporta il processo civile al suo effettivo ruolo ed alla sua effettiva funzione, depurandolo da intromissioni e prevaricazioni che sovente hanno svilito un patrimonio di cultura giuridica di cui il nostro ordinamento deve andare fiero. La pronuncia in esame, soprattutto perché declinata in un caso di responsabilità sanitaria, rappresenta una manifestazione di manzoniana Provvidenza, ponendo un freno inequivocabile ed insuperabile a talune improprie derive, che anche in questa Rivista sono state oggetto di esame 4 . Gli argomenti utilizzati dalla Terza Sezione sono quantomai ineccepibili ed illuminanti. In particolare, si afferma: (i) L’orientamento scelto è, secondo gli Ermellini, l’unico coerente con i principi di parità delle parti di fronte al Giudice e di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., art. 6, p. 1, CEDU, al quale rinvia l’art. 6, comma 3°, del Trattato sull’Unione Europea. Infatti l’idea stessa di un CTU che svolga una propria attività istruttoria di fronte alla quale le parti non abbiano alcun potere di replica, essendo i termini dell’art. 183, comma 6°, c.p.c. già decorsi, fa rabbrividire anche uno studente di giurisprudenza che abbia con profitto superato l’esame di procedura civile (si badi, le note critiche dei consulenti di parte non sono certamente una replica, in quanto possono contenere osservazioni tecniche, ma non possono fornire prove contrarie a quelle arbitrariamente introdotte dai CTU, non avendo le parti stesse tali poteri).

4 “[…] Accade invece, purtroppo non raramente, che taluni CTU nell’esprimere il loro parere su temi di responsabilità professionale, si approprino, impropriamente (perdona il bisticcio di parole), di quegli aspetti di competenza giuridica che dovrebbero rimanere oggetto di valutazione dei difensori e del giudice e inseriscano nelle loro risposte espressioni tratte dal linguaggio forense e prive di contenuti scientifici di natura tecnico-biologica”. Aprile, Quando il CTU vuole fare il Giudice, in questa Rivista, 2019, 370 ed anche Pucell a, Giudice che è medico legale: necessità di un dialogo tra funzioni distinte, ivi, 373.

(ii)L’art. 194 c.p.c., laddove prevede che il CTU, se autorizzato dal Giudice, possa chiedere chiarimenti alle parti o assumere informazioni da terzi, debba necessariamente coordinarsi con il principio dispositivo previsto dagli artt. 112 e 115 c.p.c., pena altrimenti la conseguente abrogazione di fatto dell’art. 183, comma 6°, c.p.c., i cui termini, perentori per le parti, potrebbero essere aggirati ad libitum da un consulente del Giudice che finirebbe di fatto per avere più poteri del Giudice stesso, al quale infatti è precluso acquisire prove d’ufficio, salvi i casi di legge. Pertanto, dopo tale pronuncia, risulta inequivocabile che le indagini che il Giudice può richiedere al CTU consistono esclusivamente nella valutazione di fatti materiali già dedotti dalle parti (consulenza deducente) o l’accertamento degli stessi (consulenza percipiente). I chiarimenti che possono essere chiesti alle parti devono riguardare soltanto fatti oscuri e mai introduttivi di nuovi temi di indagine e le informazioni che il consulente può richiedere a terzi non possono divenire l’occasione per l’escussione di testimoni o consentire l’ingresso nel giudizio di documenti che era onere delle parti introdurre, salvo i casi previsti dall’art. 198 c.p.c. A tali principi corrispondono due limitate e giustificabili deroghe: la prima è in favore della parte che sia impossibilitata a provare il fatto costitutivo della sua domanda o della sua reiezione, se non ricorrendo a cognizioni tecnico scientifiche non possedute, l’altra riguarda fatti “accessori e secondari” che servano esclusivamente a consentire un riscontro o una verifica di quanto affermato da un punto di vista tecnico (ad esempio una verifica delle caratteristiche tecniche di un macchinario mediante informazioni alla ditta costruttrice o venditrice, come esemplificato in sentenza). La conseguenza della violazione di tali principi, ora da parte del Giudice in sede di affidamento dell’incarico, ora da parte del CTU, è la nullità della CTU stessa. Afferma infatti a riguardo la Terza Sezione che “Non v’è dubbio che molte delle nullità in cui possa incorrere l’ausiliario conservino la natura di nullità relative (l’omissione di avvisi alle parti, l’omesso invio della bozza di consulenza ai difenso-

ri delle parti; l’ammissione alle operazioni peritali di un difensore privo di mandato o di un consulente di parte privo di nomina), come tali sanabili se non eccepite nella prima difesa successiva al compimento dell’atto nullo. Tra queste nullità, però, non possono più farsi rientrare quelle consistite nella violazione, da parte del c.t.u., del principio dispositivo, commessa vuoi indagando su fatti mai prospettati dalle parti, vuoi acquisendo da queste ultime o da terzi documenti che erano nella disponibilità delle parti, e che non furono tempestivamente prodotti. Quest’ultimo tipo di nullità, infatti, consiste nella violazione di norme (gli artt. 112, 115 e 183 c.p.c.) dettate a tutela di interessi generali, come sopra ricordato: si tratta dunque di nullità assolute e non relative; non sanabili dall’acquiescenza delle parti; sempre rilevabili d’ufficio (salvo il giudicato), a nulla rilevando che non siano state eccepite nella prima difesa successiva ai compimento dell’atto nullo”.

2.

Il ruolo del CTU: “unicuique suum”

I principi di diritto enunciati dalla Terza Sezione con la pronuncia annotata costituiscono un forte ed autorevole richiamo ad un altro principio di fondamentale importanza nel nostro ordinamento processuale, la cui protezione non deve mai venir meno, costituendo esso – al pari dell’integrità del contraddittorio – uno dei fondamenti del processo civile. La “regola” generale richiamata dalla Suprema Corte nega al CTU quegli stessi poteri e facoltà che sono negati anche al Giudice, tenuto a giudicare, conformemente a quanto previsto dall’art. 115 c.p.c., sulla base dei fatti allegati dalle parti, con le limitate eccezioni di poteri istruttori riconosciuti al Magistrato (l’interrogatorio non formale delle parti – cfr. art. 117 c.p.c. – l’ispezione di persone e di cose – cfr. art. 118 c.p.c. – la richiesta di informazioni alla P.A. – cfr. art. 213 c.p.c. – l’assunzione di nuovi testimoni – cfr. art. 257 c.p.c. – il giuramento suppletorio – cfr. art. 240 c.p.c.), che ovviamente non sono estesi al CTU. Fanno da corollario a quanto ribadito dalla Cassazione altrettanti orientamenti circa l’inammissibilità di una CTU esplorativa ed il suo non poter essere considerata un mezzo di prova. È orientamento consolidato, infatti, che la consulenza disposta dal Giudice abbia la finalità di adiuvare il Giudice stesso nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze, e non quella di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume o di supplire alla lacuna delle proprie allegazioni o offerta di prove, ovvero a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati 5 . Proprio per tali ragioni la CTU non è mezzo di prova e quindi non può costituire lo strumento per fare entrare nel giudizio fatti e circostanze fondanti la domanda o l’eccezione, che avrebbero invece dovuto varcare la soglia del processo entro il termine previsto dall’art. 183, comma 6°, c.p.c. È assolutamente ineccepibile, fin quasi a sembrar scontato – se di scontato ci può esser qualcosa nel diritto – quanto evidenziato dalla Corte, ovverosia che la natura perentoria del termine fissato dall’art. 183, comma 6°, c.p.c. non può essere aggirata ed affievolita dalla previsione di una sorta di scappatoia processuale attraverso la quale la CTU divenga il modo per rimediare a termini elassi. Ciò a tutela non soltanto dell’esigenza pubblicistica della durata del processo, ma anche della evidente alterazione del contraddittorio che in tal modo si verifica, poiché le stesse memorie di replica dei consulenti di parte – previste a garanzia del contraddittorio medesimo – non potrebbero porre rimedio alla lesione del diritto dell’altra parte che si veda opporre fatti in merito alla cui

5 Ex multis Cass., 15.12.2017, n. 30218, in Mass. Giust. civ., 2018, a mente della quale “La consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati.”.

esistenza o veridicità o rilevanza non abbia più modo processualmente per controbattere. Il limite alle indagini del CTU è anche un elemento indispensabile ad evitare un outsourcing della Giustizia che sottragga al Magistrato il potere/dovere di valutare le prove allegate dalle parti. Nulla di meno, nulla di più. La CTU non è l’entrata di servizio di un nobile palazzo dalla quale far passare di sottecchi ciò che altrimenti non potrebbe entrare. Tali principi – e non è un caso che la sentenza annotata riguardi un caso di responsabilità medica che ha visto il CTU acquisire da una parte una cartella clinica mai prodotta – marchiando col fuoco l’invalicabile limite al quale il CTU medico legale deve attenersi, sancisce – non avrebbe dovuto essercene bisogno, ma così non è – un chiaro e non superabile confine fra la consulenza tecnica d’ufficio e l’arbitrato irrituale o, se si vuole, la perizia collegiale, così in uso nel mondo assicurativo per decidere in ambito di polizza rischio infortuni. La nobile esigenza di accertare la verità non attribuisce al CTU medico legale poteri del Giudicante, anche se si sta trattando di fatti medici che richiedono una specifica competenza tecnica: la CTU medico legale inevitabilmente riguarda l’accertamento di fatti e circostanze, soprattutto comportamentali, che necessitano di una qualificazione in termini di adeguatezza, che il Giudice non può dare ed in questo senso al CTU medico legale è sempre “percipiente”, ma un conto è l’accertamento di fatti allegati dalle parti (con autorizzata acquisizione di circostanze secondarie a chiarimento dei fatti medesimi), un altro è l’indagine su fatti ulteriori, sulla base dei quali il CTU, una volta che li abbia impropriamente acquisiti, elabori anche le sue conclusioni in punto colpevolezza. Su questo punto ci si richiama anche ad una delle sentenze di San Martino 2.0, che qualche settimana prima della pubblicazione di questa pronuncia aveva chiarito molto bene come non spetti al CTU di pronunciarsi, neppure sul tema della causalità giuridica, ovverosia delle conseguenze giuridiche di un fatto la cui causalità materiale sia stata accertata dal CTU stesso 6 . E se due sentenze della Suprema Corte in meno di un mese sui limiti del CTU in ambito di responsabilità medica hanno stimolato il dibattito giuridico e se la questione – come già visto in nota 4 – è oggetto di dibattito in dottrina, la questione sembra acquisire i connotati caratteristici di una presunzione semplice, ovverosia di fatti e circostanze gravi, precisi e concordanti. Sembra a chi scrive che una qualche responsabilità per talune tracimazioni istruttorie dei CTU medico legali, come quella rappresentata nel giudizio che ha dato luogo alla sentenza della Cassazione qui in esame, oltre a trovare un lontano fondamento nel precedente orientamento giurisprudenziale citato, siano divenute in qualche modo assai più frequenti anche grazie alla Legge Gelli 7 . Parrebbe che sia indiscutibile la circostanza che la stessa introduzione dell’ATP conciliativo ex lege dell’art. 696 bis c.p.c. come condizione di procedibilità di un’azione di responsabilità medica sia divenuto il principale grimaldello per sottrarre di fatto alle regole previste dall’art. 115 c.p.c. ed ai principi in tema di ripartizione dell’onere probatorio sanciti dalla Suprema Corte a partire dalle sentenze del gennaio 2008 8 .

6 “[…] Nella stima del danno alla salute al medico-legale si demanda il prezioso compito di misurare l’incidenza della menomazione sulla vita della vittima, misurazione che come detto avviene, per risalente tradizione (oggi recepita dalla legge), in punti percentuali. Ma non va mai dimenticato che il grado percentuale di invalidità permanente non è che una unità di misura del danno, non la sua liquidazione. Quella misurazione non può dunque che avvenire al netto di qualsiasi valutazione giuridica circa l’area della risarcibilità […]”. Cass., 11.11.2019, n. 28986, in Guida al dir., 2019, 25.

7 Chi scrive ha già pubblicato articoli in questa Rivista fortemente critici su tale normativa, uno fra tutti Partenza, Buon compleanno legge Gelli, in questa Rivista, 2019, 195, ma non si tratta in realtà di una ossessione, bensì della necessità di rendere evidenti talune conseguenze – da chi scrive ritenute nefaste – di un principio che parrebbe sotteso alle prescrizioni di tale norma, ovverosia che la giustizia nell’ambito della responsabilità medica sia meglio tutelata se gestita da medici e non lasciata nelle mani di Giudici ed Avvocati.

8 Cass., sez. un., 11.2.2008, n. 577, ex multis in Resp. civ. e prev., 2008, 849 con nota di Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al

Lo spirito conciliativo, che tutto avvolge, tutto copre, tutto permea, diviene il mezzo più evidente non già per ridurre i tempi di un processo o per deflazionare il contenzioso giudiziario in ambito sanitario 9 , quanto piuttosto per creare dei veri e propri arbitrati irrituali nei quali il CTU ambisce alla facoltà/potere di tentare la transazione e nessun vaglio sembra formalmente previsto circa il rispetto da parte del CTU di quei principi sacrosanti che la Suprema Corte ha con questa sentenza ribadito. Anzi, la CTU formatasi in questa vera e propria perizia collegiale, benedetta dall’illuminato Legislatore, entra a pieno diritto nel processo civile, con la conseguente ed inaccettabile partenza in salita della parte che si trovi a voler stigmatizzare eventuali accertamenti ex officio eventualmente eseguiti dal CTU. Ed invero, non si può non rilevare come la Suprema Corte abbia accomunato nell’applicazione della sanzione della nullità rilevabile d’ufficio – anche a prescindere dall’acquiescenza delle parti – due vizi della CTU, ovverosia la violazione dei succitati poteri istruttori e la presenza nella CTU di valutazioni di natura giuridica. Ricorda infatti a riguardo la Suprema Corte “[…] l’affidamento per contro al c.t.u. di quesiti concernenti fatti mai dedotti dalle parti o, peggio, di valutazioni giuridiche, sarebbe quesito nullo dal punto di vista processuale e, nel secondo caso, fonte sinanche di responsabilità disciplinare per il magistrato (Sez. Un., Sentenza n. 6495 del 31/03/2015, Rv. 634785) […]”. In realtà parrebbe che la questione posta così chiaramente dalla Suprema Corte altro non sia che la manifestazione di un epifenomeno in virtù del quale il CTU rischi di svolgere un ruolo di supplenza giudiziale con poteri ancora maggiori dello stesso Giudicante, il tutto nello spirito di deflazionare un contenzioso che evidentemente è

superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzo/risultato.

9 Sul punto – sempre per citare l’art. 115 c.p.c. si può ritenere fatto notorio che l’ATP in questione non ha affatto ridotto né i tempi del processo, né il numero degli stessi.

vissuto da taluni non già come metodo di tutela dei diritti, ma come mera speculazione. In questa ottica, liberato il tema della lesione del diritto alla salute da lacci e lacciuoli rappresentati dai sofismi giuridici, finalmente il mondo medico può giudicare sulle pretese dei pazienti con competenza, saggezza e sapienza. A questa visione, senza certo nulla voler togliere al fondamentale ruolo della medicina legale, chi scrive si oppone con tutte le limitate forze in suo possesso: non è questione di metter confini sui ruoli professionali (cosa questa che non sarebbe poi tanto male), quanto piuttosto di difendere a tutti i costi la civiltà giuridica di un sistema a tutela della quale la Corte di Cassazione si vede costretta a porre dei paletti che mai avrebbe dovuto dover porre, perché mai si sarebbe potuto ipotizzare che un CTU traesse conclusioni giuridiche dai suoi accertamenti scientifici o che interrogasse le parti o che acquisisse documenti mai allegati dalle parti stesse. La Corte di Cassazione è intervenuta perché qualcosa di grave sta accadendo nel nostro ordinamento. Questo “qualcosa di grave” è il superamento di fatto dei principi di ripartizione degli oneri probatori nel processo civile in nome di un ADR ante litteram nel quale rischia di trasformarsi il processo in ambito di responsabilità medica, nel quale il medico legale accerta, valuta, propone, conclude. A questa visione tutti gli attori del processo, tutti gli operatori del diritto, tutti i cittadini devono opporsi perché la giurisdizionalizzazione della lite e anche tutte le forme di ADR devono rispettare i principi fondamentali del nostro ordinamento, fra i quali vi è quello per cui il Giudice deve giudicare iuxta alligata. Il processo non è dei Giudici, né degli avvocati, ma è sempre e soltanto delle parti, alle quali è affidata la richiesta di giustizia ed il potere dispositivo delle prove. Non spetta al CTU e neppure al Giudice la ricerca nel processo civile di una verità “altra” rispetto a quanto portato nel processo. Vi è in questo senso la necessità di un indispensabile richiamo alle differenze fra giudizio civile e

penale 10 , sicché le zone grigie che inevitabilmente si presentano nell’accertamento della responsabilità sanitaria devono tassativamente e necessariamente essere valutate nell’ambito della rigorosa ripartizione degli oneri probatori sanciti dalla Suprema Corte, in virtù dei quali spetta all’attore l’allegazione dell’astratto qualificato inadempimento e la prova (ovviamente non definitiva, non potendo in questo senso l’attore essere anche Giudice) del nesso di causalità materiale fra inadempimento e fatto, ed al convenuto la prova del corretto adempimento o quella dell’impossibilità dovuta ad una causa a sé non imputabile.

3. I principi che tutti dovrebbero condividere

Nel rispetto dei necessari ruoli di tutti gli attori di un processo civile in ambito di responsabilità sanitaria ed in attuazione di un necessario dialogo professionale fra Giudici, medici ed avvocati per l’accertamento dell’eventuale lesione del diritto alla salute del paziente, è indispensabile che vi sia una piena condivisione dei principi fondanti della responsabilità civile in ambito sanitario e

10 “[…] si è da questa Corte costantemente posto in rilievo come sia ormai da tempo tramontata la concezione etica della responsabilità civile informata sulla concezione psicologica della colpa, propria invero del diritto penale, rilevando essa (non solo nell’adempimento delle obbligazioni ma anche nei comuni rapporti della vita di relazione: cfr. Cass., 27/8/2014, n. 18304, e, da ultimo, Cass., 20/2/2015, n. 3367; Cass., 8/5/2015, n. 9294) in termini di colpa obiettiva, e cioè quale violazione del modello di condotta cui il debitore del rapporto obbligatorio e il soggetto dei comuni rapporti della vita di relazione sono tenuti ad improntare la propria condotta (v. sent. Cass., 27/10/2015, n 21782; Cass., 20/2/2015, n. 3367; Cass., 8/5/2015, n. 9294; Cass., 27/8/2014, n. 18304); in altri termini, quale violazione dello sforzo diligente dovuto in relazione alle circostanze del caso concreto adeguato ad evitare che la prestazione di adempimento o il comportamento da mantenersi arrechino danno (anche) a terzi (cfr. Cass., 6/5/2015, n. 8989; e, in diverso ambito, Cass., 20/2/2006, n. 3651). Con particolare riferimento al nesso di causalità è d’altro canto noto che, mentre nel processo penale vige la regola della prova ‘oltre il ragionevole dubbio’, in materia civile opera la diversa regola della preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che non’ (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576; Cass., 16/10/2007, n. 21619)”. Cass., 21.4.2016, n. 8035, in Mass. Giust. civ., 2016.

del processo civile in genere, condivisione questa non sempre attuata in pieno. La CTU non è il luogo – e non dovrà mai diventarlo – ove tentare bonarie composizioni di conflitti, oppure ricercare una verità extraprocessuale o disperdersi in considerazioni tecnico scientifiche per valutare le conseguenze nel processo e gli accertamenti eseguiti. I confini entro i quali la CTU deve mantenersi sono proprio quelli tracciati dalla Suprema Corte e che ben possano essere riassunti in due divieti, uno in comune con il Giudice, l’altro proprio del CTU: –non prendere in considerazione fatti, documenti, prove in genere, non allegati tempestivamente dalle parti nel giudizio; –non formulare conclusioni sulle conseguenze giuridiche dei propri accertamenti. Quest’ultimo divieto è altrettanto importante quanto il primo, poiché non è l’esperto medico – come non lo è qualsiasi altro esperto di qualsiasi altra materia – ad essere chiamato a rispondere alla domanda di giustizia rivolta al Giudice: il CTU medico legale deve rispondere ad una domanda di “accertamento”, non ad una domanda sulla fondatezza o meno di una pretesa risarcitoria. Troppe volte capita di leggere nelle CTU conclusioni in punto responsabilità fondate sulla impossibilità ad adempiere, sulla prevedibilità o imprevedibilità di una determinata conseguenza, sulla adeguatezza dell’eventuale consenso. È di tutta evidenza che su tali aspetti non può comunque mancare un pronunciamento medico legale, ma in termini di accertamento scientifico e mai di valutazione giuridica. Tutte le parti del processo, in ambito di responsabilità sanitaria, sono chiamate a condividere a livello culturale, prima ancora che giuridico, alcune “miles stones”, delle quali le principali sembrano essere le seguenti: (i) L’impossibilità esimente prevista dall’art. 1218 c.c. comporta che non sia sufficiente che per il convenuto fosse impossibile adempiere, bensì che tale impossibilità – oltre a sussistere – dipenda da una causa a sé non imputabile: la circostanza non è di poco conto e la valutazione sulla imputabilità spetta al Giudice e non al CTU, che è invece chiamato ad accertare sotto

un profilo scientifico se l’impossibilità sussisteva o meno. (ii)Prevedibilità ed imprevedibilità attengono al nesso causale e non al profilo soggettivo, dovendo tenere distinta l’impossibilità ad adempiere dal tema della colpa. Ricorda in questo senso la Suprema Corte che “Al riguardo deve essere ribadito il principio secondo cui nel giudizio di responsabilità medica, per superare la presunzione di cui all’art. 1218 cod. civ. non è sufficiente dimostrare che l’evento dannoso per il paziente costituisca una ‘complicanza’, rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione (indicativa nella lettura medica di un evento, insorto nel corso dell’iter terapeutico, astrattamente prevedibile ma non evitabile) priva di rilievo sul piano giuridico, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile (CFR. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13328 del 30/06/2015)” 11 . (iii)Chi opera nel mondo del diritto deve accettare che non vi è posto per volenterosi ma biasimevoli tentativi di ricerca della verità oggettiva o di quella che appare tale alla luce di proprie convinzioni personali: gli operatori del diritto – fra i quali entra inevitabilmente il medico che accetta di svolgere un ruolo di consulente nel processo – condividono inevitabilmente il fondante principio democratico in virtù del quale

“quod non est in actis non est in mundo”. Su questi punti occorre rafforzare una fratellanza fra mondo forense, giudiziale e medico legale, nella consapevolezza che i differenti ruoli che l’ordinamento riconosce a ciascuno assolvono ad una funzione non certo limitante delle competenze di ognuno, bensì esaltante la democraticità della tutela dei diritti. Non vi è posto nel processo per “scavallamenti” di ruoli. Valga un nuovo comandamento: “non desiderare il ruolo altrui”.

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