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Dialogo medici-giuristi

dialogo giuristi medici Dialogo medici-giuristi Dialogo medici-giuristi E se il paziente chiede al medico di essere ‘aiutato a morire’? Aiuto al suicidio e relazione terapeutica dopo Corte cost. n. 242/2019

Paolo Malacarne Direttore dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione P.S. presso l’Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana

Barbara Pezzini Professoressa presso l’Università di Bergamo

Paolo Malacarne “Dottore, ma ora dopo la decisione della Corte costituzionale non c’è più bisogno che io vada in Svizzera per smettere di soffrire? Lei mi aiuterà vero?”. Una domanda, quella della malata, fattami con un filo di voce, ma con uno sguardo che esprimeva nel contempo la speranza in una mia risposta affermativa, la disperazione in caso di una mia risposta non affermativa e la certezza che io, medico, non la lascerò sola in questa scelta. Io prendo tempo e rimango d’accordo con la malata (e i suoi familiari) che ritornerò da loro nei giorni successivi. Intanto mi leggo con attenzione la sentenza della Corte, per cercare di capire come questa sentenza può incidere sul mio lavoro e sulla relazione di cura, avendo ben presente la malata e la sua richiesta.

Barbara Pezzini Per cercare una risposta a questo ed agli altri impegnativi interrogativi posti con tanta attenzione da Malacarne – e, prima ancora, dalla stessa relazione tra Malacarne e la malata che gli affida con un filo di voce sofferenza, aspettative e speranza (c’è speranza anche nell’attesa della morte) – anch’io ho dovuto rileggere, scoprendo un’emozione diversa, la sequenza costituita dall’ordinanza 207/2018 e dalla sentenza 242/2019, trovando una volta di più inesauribile materia di riflessione di fronte agli interrogativi di fondo che il tema del fine vita ci obbliga ad affrontare, che mostrano tutta la loro complessità ogni volta che spostiamo, anche solo di poco, il nostro punto di vista. Prima di entrare direttamente in confronto con le questioni sollevate, penso che due premesse, pur sintetiche, siano utili al nostro procedere. La prima.

La sentenza 242/2019 e, prima ancora, l’ordinanza 207/2018 poggiano su costruzioni giuridiche complesse e non certo prive di criticità, ampiamente rimarcate e discusse dalla dottrina alluvionale che le ha commentate; tra tali criticità penso di dover sottolineare quella che a me pare più rilevante e che, nello specifico, può gettare luce anche sulla difficoltà di ricavare indirizzi applicativi sufficientemente chiari. Riproponendo “la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.”, la Corte costituzionale sembra porsi in linea di continuità con l’indirizzo dottrinale e giurisprudenziale che – nel quadro della relazione medico-paziente e, più nello specifico, dei processi di costruzione del consenso informato ai trattamenti sanitari 1 – ha visto negli articoli 2, 13 e 32 Cost. un intreccio virtuoso al servizio dell’autodeterminazione della persona in materia di salute, che viene spinta oggi sino a ricomprendere la scelta delle terapie finalizzate a liberare dalle sofferenze. Ma, in realtà, i contenuti dell’ordinanza presentano indubbie discontinuità rispetto alla serie dei precedenti, rendendo problematica la distinzione tra ciò che trova fondamento nell’art. 32 e ciò che è invece garantito dall’art. 13 Cost.: vale a dire, rispettivamente, il diritto alla salute come fondamentale diritto dell’individuo, da cui non può essere assente una componente pretensiva (diritto a ottenere le prestazioni essenziali al fine della

1 Sul consenso informato come processo volto a consentire una consapevole volizione: Pizzolato, Autodeterminazione e relazionalità nella tutela della salute, in Corti supreme e salute, 2018, 439; Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in www.rivistaresponsabilitamedica.it, 31.1.2018, 2-3; la stessa qualificazione del consenso come “informato” ne postula il carattere e la dimensione relazionale: Pucell a, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 12. Sull’“inderogabile esigenza di fornire al singolo un’informazione corretta e comprensibile” a garanzia dell’“effettiva possibilità di uno svolgimento corretto e compiuto del procedimento di formazione della volontà” di sottoporsi a un trattamento terapeutico v. già Pezzini, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Dir. soc., 1983, 42.

tutela della propria salute), e la libertà personale, che tutela una dimensione di assenza di ingerenze e interferenze. Di fronte al tema del suicidio medicalmente assistito, infatti, il richiamo degli artt. 2 e 13 acquista un autonomo spessore, non potendo più essere inteso come semplicemente ad adiuvandum rispetto all’art. 32 2 , già di per sé in grado di dare fondamento e garanzia costituzionale all’autodeterminazione del malato 3 . Trasformando il caso Cappato (la condotta di chi, aiutando una persona gravemente malata a realizzare il proposito di suicidio medicalmente assistito) nel caso Antoniani (il malato irreversibile e sofferente che ha liberamente e in piena consapevolezza voluto accedere al suicidio medicalmente assistito e ha dovuto farlo in Svizzera), la Corte costituzionale ha intrecciato, e per certi versi sovrapposto, il tema della libertà e autodeterminazione del malato al tema del fondamento costituzionale del reato di aiuto al suicidio. E, allargando i confini della relazione terapeutica a garanzia della sfera di libertà di un particolare malato che si trovi in talune limitate e ben determinate ipotesi di peculiare prossimità alla morte, ha individuato, negli artt. 32, 2 e 13 Cost., il fondamento comune a pratiche mediche di accompagnamento nel processo del morire con cure palliative, terapia del dolore e SPPC, da un lato, e di somministrazione di un farmaco letale, dall’altro. Ma così facendo ha superato, nell’ambito della relazione terapeutica e propriamente dell’art. 32 Cost., la distinzione tra killing e letting die che, pur concernendo situazioni che nella pratica clinica e nell’esperienza esistenziale possono risultare contigue, sul piano giuridico conserva, a me pare, una sua sostanza e capacità di selezionare comportamenti (quelle distinzioni tanto impor

2 Con riferimento alla sent. 438/2008 v. Balduzzi, Paris, Corte costituzionale e consenso informato tra diritti fondamentali e ripartizione delle competenze legislative, in Giur. cost., 2008, 4963.

3 Ordinanza CC 207/2018 “la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.” (p.to 9 cons. in dir.).

tanti per la funzione del diritto di orientare comportamenti limitando l’incertezza). Il richiamo dell’art. 32, che l’argomentazione della Corte costituzionale ripropone come centrale nel suo ragionamento, finisce per essere poco convincente e fonte di ambiguità, tanto più che non sarebbe neppure necessario. Quando la valutazione di medico e paziente, maturando ed esprimendosi nel contesto di una relazione terapeutica che ne resta l’ineliminabile presupposto (relazione che appartiene interamente alla sfera costituzionalmente definita dall’art. 32), dovesse convergere nel riconoscere l’intollerabilità della sofferenza cui resterebbe esposto il malato rifiutando le cure salvavita ed il percorso palliativo 4 , sarebbero i valori della dignità e autodeterminazione della persona in quanto tali, che trovano fondamento negli articoli 2 e 13 Cost., a prendere – indipendentemente dall’art. 32 – il centro della scena. Dignità e autodeterminazione personale si rendono autonome dalla sfera della tutela della salute e determinano una discontinuità della relazione terapeutica, che colloca le relazioni interpersonali in una dimensione diversa da quella precedente: si afferma e prevale la necessità di riconoscere e garantire la dignità della persona, fuoriuscendo dalla sfera propria del diritto alla salute per approdare interamente nella diversa dimensione del riconoscimento della libertà del paziente nella dignità del morire. Siamo di fronte a una dimensione di libertà costituzionalmente presidiata in cui, osserva la Corte costituzionale, alla possibilità di autodeterminazione in ordine al percorso individuale di incontro con l’evento finale e ineluttabile della morte non si contrappone – nel contesto specificamente considerato – alcun altro interesse costituzionale da tutelare 5 , dal momento che la vulnerabilità dei

4

Si intende quanto la legge 219/2017 già prevede.

5 Dice l’ordinanza in conclusione del punto 9: “entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicido finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza

soggetti particolarmente fragili è saldamente presidiata (come vedremo, dalle condizioni complessivamente individuate dalla giurisprudenza costituzionale, innanzitutto ancorando l’accertamento delle condizioni di intollerabilità delle sofferenze alla esistenza ed alle forme della relazione terapeutica). Così ricostruito il quadro costituzionale – ma, lo ripeto, si tratta di una ricostruzione che muove dalla critica al diverso e meno persuasivo sviluppo argomentativo delle due pronunce della Corte costituzionale –, ci si può meglio orientare nel quadro ordinamentale definito dalla giurisprudenza costituzionale, risolvendo alcuni dubbi ed evitando sia di ricondurre all’art. 32 Cost. e alla relazione medico-paziente condotte ampiamente ritenute estranee alla sfera propriamente della cura 6 , sia di mettere a rischio il consolidamento della dimensione sostenibile 7 della relazione terapeutica, per come è stata finalmente – e, come è noto, con grande fatica politica – definita dalla l. n. 219/2017. La seconda premessa. Siamo di fronte a un modulo decisionale nuovo, che la Corte costituzionale ha sperimentato nella consapevolezza di trovarsi di fronte ad una materia la cui regolamentazione spetterebbe innanzitutto al legislatore. Un nuovo modulo monitorio 8 , una sola decisione costruita in due tempi e

che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”.

6 Repetto, La Corte, il caso Cappato e la “parola che squadra da ogni lato”, in Forum di Quad. cost., 24.6.2019, 3, osserva esservi “un ampio consenso sul fatto che il diritto al suicidio assistito non è da ritenersi costituzionalmente dovuto sulla base della corretta interpretazione da dare, in particolare, all’art. 32”.

7 Sostenibilità come “equilibrio tra le istanze dell’autonomia individuale e la dimensione relazionale del diritto alla salute”, v. Busatta, La sostenibilità costituzionale della relazione di cura, in La relazione di cura dopo la l. 219/2017, a cura di Foglia, Pisa, 2019, 152.

due atti 9 che, per precisa scelta, trasforma in una sequenza necessaria la mera eventualità di una “doppia pronuncia” (cioè di una dichiarazione di inammissibilità della questione per rispetto della discrezionalità del legislatore, seguita eventualmente nel tempo – di fronte al protrarsi dell’inerzia legislativa – da una sentenza di accoglimento). Questo ci costringe a leggere le due pronunce tenendo conto del fatto che le argomentazioni della prima (l’ord. 207/2017) si saldano a quelle della seconda (la sent. 242/2018): le prime servono a chiarire il quadro e individuare un’area di incostituzionalità prospettata (accertata ma non ancora dichiarata) e si indirizzano principalmente al legislatore, sollecitato a intervenire; le seconde – una volta preso atto che l’intervento del legislatore non c’è stato – determinano gli effetti dell’incostituzionalità in precedenza accertata. L’accertamento dell’incostituzionalità non produce immediatamente una sentenza di accoglimento perché la Corte ha riconosciuto e già puntualmente individuato interessi costituzionalmente rilevanti messi a rischio dal vuoto normativo determinato dall’incostituzionalità, rilevando, nel contempo, una sfera di discrezionalità del legislatore, al quale ha primariamente rimesso la regolazione della materia entro il termine dell’udienza di rinvio. La sentenza che segue “si salda, in consecuzione logica” con il precedente accertamento, occupandosi degli effetti che ne derivano. Da un lato (pars destruens), dichiarandola formalmente, rimuove l’incostituzionalità accertata e, dall’altro (pars construens), introducendo una disciplina provvisoria (sentenza additiva cedevole), previene l’incostituzionalità che potrebbe derivare dalla mera rimozione della norma incostituzionale. Questo per dire della complessità di lettura, che deriva dall’intertestualità delle due pronunce, e della difficoltà di ricavare da esse i contenuti della disciplina creata dalla sentenza additiva cedevole,

9 Pezzini, Dal caso Cappato al caso Fabiano Antoniani e ritorno: i vincoli di coerenza imposti dalla ordinanza 207/2018, in Libertà fondamentali alla fine della vita. Riflessioni a margine dell’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale, Firenze, goWare, 2019, 92.

attualmente vigente e che tale resterà sino all’intervento del legislatore (che resta, comunque, fortemente auspicato nel par. 9).

Paolo Malacarne Nel paragrafo 2.2 della sentenza della Corte leggo una serie di affermazioni di principio molto chiare: “- dal diritto alla vita non può derivare il diritto a rinunciare a vivere, un vero e proprio diritto a morire; - non si può derivare dalla Costituzione il dovere di riconosce all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto al morire; - lo Stato ha il dovere di tutelare la vita di ogni individuo, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili; - l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile come quella del suicidio”. Sono affermazioni che fanno oggi da cornice generale alla relazione tra me e i malati, ma che, pur nella loro importanza, lasciano comunque a me, alla malata e ai suoi familiari il compito di decidere qui ed oggi della vita e della morte di una persona?

Barbara Pezzini Tenendo conto di quanto detto nella seconda premessa, le affermazioni del par. 2.2 CID sono il primo passaggio argomentativo che conduce verso il dispositivo, ma sono anche la sintesi di tutta quella prima parte dell’ord. 207/2018 che respinge la prospettazione della incostituzionalità come formulata dal giudice a quo, cioè come tesi dell’incostituzionalità del reato previsto dall’art. 580 c.p. Sono quindi innanzitutto argomenti a conferma del perdurante divieto penale di aiuto al suicidio. In questo senso, direi piuttosto che qualsiasi relazione interpersonale (non solo quella del medico) con una persona che intende decidere attivamente della propria morte (suicidio) si trova collocata “nella cornice generale” del permanente divieto penale di aiuto al suicidio, ancorché si tratti di forme di aiuto non rafforzativo del proposito della persona stessa. La sentenza ribadisce che non vi sono ragioni per ritenere tale divieto di per sé incostituzionale, anzi, trova fondamento nella

necessità di tutela dei soggetti in particolari condizioni di fragilità e vulnerabilità. È il successivo par. 2.3 a erodere – nell’ambito di tale generale divieto – una “circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa”, vale a dire un’area (un ambito di condotte) in cui la punibilità generalmente prevista viene esclusa. Un’area definita dalle condizioni in cui si trovava Fabiano Antoniani quando Marco Cappato l’ha aiutato a compiere il suicidio (l’aiuto fornito da Cappato è, in realtà, consistito nell’accompagnarlo in Svizzera, nella clinica ove a Fabiano Antoniani è stato possibile compiere un suicidio medicalmente assistito), che la Corte generalizza in quattro condizioni (ai casi in cui l’aspirante suicida sia persona: “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”).

Paolo Malacarne In modo del tutto corretto la Corte riconosce che queste condizioni vengono a delineare “situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice (art. 580 c.p.) fu introdotta, portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte i pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”: la Corte sta parlando proprio di me, del mio lavoro di rianimatore e degli esiti che questo mio lavoro ha sui malati. La Corte mi sta dicendo che non posso, una volta che con la mia competenza e la tecnologia che ho a disposizione ho generato una persona viva, lucida e consapevole ma non più in grado di vivere autonomamente senza l’aiuto irreversibile di macchine, cateteri, tubi, ecc., voltarmi dall’altra parte e lasciare il malato a sé stesso?

Barbara Pezzini Prendendo in considerazione “gli sviluppi della scienza medica e della tecnologia … capaci di strappare alla morte … ma non di restituire … sufficienza di funzioni vitali”, la Corte osserva, con riferimento alla norma penale, il sopraggiungere di un vero e proprio “anacronismo legislativo” (quel fenomeno per cui quanto in passato/in origine non risultava in contrasto con le garanzie costituzionali può successivamente diventare incompatibile con la Costituzione), che attrae fuori dal campo di applicazione della norma penale “le situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma fu introdotta” e delimita l’incostituzionalità dell’art. 580 c.p. A dire che il medico non può lasciare a sé stesso il malato – condotto dalla tecnologia a una condizione di esistenza lucida e consapevole ma irreversibilmente dipendente da ausili e macchinari – è stata già la legge n. 219 /2017 e, in realtà, prima ancora e direttamente, lo dice l’art. 32 Cost.; il malato in quelle condizioni può, infatti, per il suo fondamentale diritto individuale alla salute e avvalendosi dell’esplicita garanzia che ora fornisce la l. 219, sottrarsi a un mantenimento artificiale in vita e “accogliere la morte”, rifiutando o chiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e associando la richiesta di SPPC e terapia del dolore. Quello che la sequenza decisionale ordinanza 207 – sentenza 242 aggiunge è il riconoscimento della possibilità che il malato non ritenga una soluzione accettabile per se stesso l’“annullamento totale e definitivo della coscienza e della volontà” conseguente alla SPPC e intenda per questo “accogliere la morte” avvalendosi di un “aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento”: negargli questa possibilità di aiuto significherebbe “limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente” la sua libertà di autodeterminazione nella scelta delle terapie. Se anche non dice espressamente che l’aiuto diretto a morire (somministrazione di un farmaco letale) rientra tra le terapie esigibili, ci va molto vicino (aprendo, tuttavia, come vedremo, anche una serie di contraddizioni); ma l’espressione potrebbe essere intesa nel senso che una persona non sarebbe realmente in condizioni di autodeterminarsi nel rifiuto o nell’interruzione di una terapia vitale se, in conseguenza di ciò, non potesse sottrarsi a sofferenze da lei ritenute intollerabili.

Paolo Malacarne Penso alla mia malata, e mi fermo a riflettere sulla questione dei trattamenti di sostegno vitale: oggi

la mia malata non è tenuta in vita da alcun trattamento; ma quel trattamento, nella fattispecie la ventilazione meccanica non invasiva, ha una indicazione nella condizione della malata, e quel trattamento è stato prescritto dai medici: se la malata non lo pratica, ella non muore in pochi minuti (come accadrebbe ad esempio ad un malato di S.L.A. in fase molto più avanzata e sottoposto a ventilazione meccanica invasiva continua mediante tracheotomia a permanenza con assenza totale di possibilità di respiro spontaneo) ma se non lo pratica, innanzitutto patisce maggiormente la dispnea, cioè quella bruttissima sensazione di “fame di aria” che caratterizza la condizione clinica di chi non può aumentare per nulla la sua capacità di ventilazione respirando già costantemente al limite delle sue possibilità; e in secondo luogo, se non lo pratica, la sua evoluzione verso la insufficienza respiratoria terminale, e quindi verso la morte, è molto più rapida: posso considerare quindi la sola appropriata indicazione clinica alla ventilazione meccanica non invasiva un trattamento di sostegno vitale che tiene in vita la mia malata?

Barbara Pezzini Tutta la sequenza decisionale è stata costruita ruotando intorno al caso Cappato-Antoniani. La Corte sottolinea ripetutamente che il presupposto è “l’interruzione di trattamenti di sostegno vitale”: è in questo scenario – di una morte che si avvicina per l’interruzione di cure che il paziente ha il diritto di pretendere – che ritiene irragionevole che, da un lato, la possibilità di essere medicalmente assistiti tramite una serie di interventi che accompagnano alla morte (cure palliative, terapia del dolore, SPPC) sia affermata e tutelata come un diritto e che invece, dall’altro, la possibilità di ricevere un diretto aiuto a morire (a sottrarsi a un decorso più lento e più lungo nel tempo e alla perdita di coscienza e volontà nel momento della morte) sia addirittura impedita dall’esistenza di un divieto penale. Le due situazioni (in cui si potrebbe trovare un malato nelle condizioni analoghe a Fabiano Antoniani una volta interrotte le cure) vengono messe a confronto per rilevare l’irragionevolezza del trattamento attualmente riservato alla seconda, senza che vi sia una netta affermazione di equivalenza tra di esse. Tuttavia, quando introduce i richiami specifici alla l. n. 219/2017 per costruire quella disciplina cedevole che serve a evitare “intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti” (par. 5), la sentenza sottolinea che la declaratoria di incostituzionalità riguarda l’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti “che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti necessari alla loro sopravvivenza”; e, del resto, nel richiamato art. 1, rifiuto e revoca (interruzione) dei trattamenti sono disciplinati insieme. Il momento dell’opzione alternativa tra: 1: accettare l’accompagnamento alla morte con SPPC che comporta un decorso più lungo e la perdita di coscienza; 2: ottenere un aiuto diretto a morire, più rapido e in piena coscienza fino al momento della morte, ha come presupposto la dipendenza della persona da trattamenti di sostegno vitale, che può rifiutare dall’inizio o accettare e poi chiedere di interrompere (o, anche rifiutare in una certa fase e successivamente accettare: la sentenza pone specificamente l’accento sulla reversibilità della decisione del malato, v. al par. 5, richiamando la necessità che al paziente sia possibile modificare la volontà precedentemente espressa, notando anche che ciò “nel caso dell’aiuto al suicidio, è insito nel fatto stesso che l’interessato conserva, per definizione, il dominio sull’atto finale che innesca il processo letale”). La differenza tra le ipotesi riguarda l’accertamento della condizione di dipendenza: mentre l’interruzione di trattamenti salva-vita rende manifesta la condizione di dipendenza dagli stessi (dimostrando fattualmente l’esistenza della condizione posta dalla Corte costituzionale alla lettera c), in altre ipotesi la condizione di dipendenza (requisito giuridico) richiede di essere accertata per mezzo di valutazioni di carattere prettamente tecnico-medico (richiede una dimostrazione argomentativa di carattere tecnico-scientifico).

Paolo Malacarne E se no, non si crea nei fatti una discriminazione tra quei malati che sono sottoposti a trattamenti e quindi rientrano nella fattispecie delle condizioni che permettono di adire al percorso dell’aiuto al

suicidio rispetto quelli che non sono di fatto sottoposti a quei trattamenti o perché li rifiutano o perché medici meno prudenti non li prescrivono in una fase precoce di malattia? E per quanto tempo nell’arco della giornata o della settimana (penso ad es. alla dialisi tri-settimanale) il trattamento di sostegno vitale in atto è da considerare rientrante nelle condizioni previste dalla sentenza?

Barbara Pezzini Sul piano del diritto costituzionale la questione della discriminazione fra situazioni dipende dalla loro comparabilità. La disciplina sostitutiva introdotta dalla sentenza 242 con dispositivo di additiva (una disciplina costituzionalmente necessaria ma a contenuto non costituzionalmente vincolato, ricavabile dalle coordinate del sistema vigente) cedevole (fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento) che oggi regola questi casi introduce una causa di non punibilità in presenza di determinate e specifiche condizioni. Potrebbe diventare a sua volta un termine di paragone per altri casi, che ampliano e/o riconfigurano dette condizioni? Forse è proprio la “cedevolezza” che, almeno per il momento, lo esclude, per lo meno sino a che non sarà trascorso un lasso di tempo significativo nel silenzio del legislatore.

Paolo Malacarne Due parti della sentenza (quella relativa ai trattamenti di sostegno vitale già discussa e quella introdotta al punto 2.4 relativa alle cure palliative) mi interrogano non tanto sul piano della relazione di cura quanto su un piano “procedurale”, nelle cui pieghe si possono nascondere molte criticità: certamente la sentenza non può entrare nel merito di queste questioni, ma dal momento che oggi non c’è nulla di definito da parte della legislazione né nazionale né regionale, la mia difficoltà è grande: che significa “coinvolgimento in un percorso di cure palliative”?

Barbara Pezzini Il punto è effettivamente cruciale, anche perché la sentenza assegna un ruolo determinante alla garanzia di un percorso di cure palliative: dicendo che l’“accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita” (par. 5), mostra, infatti, di attribuire alle cure palliative una funzione potenzialmente disincentivante del suicidio. Mi pare che questo richieda una particolare attenzione nel documentare non solo la proposta e la effettiva disponibilità delle cure palliative, ma anche la valutazione dell’idoneità a eliminare quel tipo e/o livello di sofferenza fisica o psichica che il paziente ritiene intollerabile.

Paolo Malacarne Chi e con quali modalità deve attuare la verifica della sussistenza dei presupposti? Che significa, in pratica, la funzione consultiva e di riferimento del Comitato etico? Deve il Comitato etico dare solo un parere non vincolante o autorizzare la procedura? E se oggi il Comitato etico territorialmente competente mi mette per iscritto che non è al suo interno “munito delle adeguate competenze” per esercitare quella funzione di organo collegiale terzo? E in quale struttura del S.S.N. posso andare oggi ad effettuare la procedura? Deve esserci una autorizzazione formale del Direttore generale?

Barbara Pezzini Su questi aspetti mi pare valga, innanzitutto, un implicito richiamo all’art. 1 comma 9°, l. n. 219/2017 al netto delle specifiche modalità eventualmente adottate nella struttura sanitaria interessata, mi sembra sufficiente che la relazione terapeutica – rispetto alla quale si documenta nelle forme prescritte (cartella clinica e fascicolo sanitario elettronico) la volontà del paziente e l’adeguata informazione ecc. da parte del medico – si svolga nel contesto di una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale. Richiamando gli artt. 1 e 2 della l. n. 219/2017 la sentenza sembra ritenere che tali disposizioni soddisfino già le esigenze di tutela ritenute indispensabili; non c’è nulla nella sentenza che faccia pensare alla necessità di una specifica autorizzazione ed i soggetti rilevanti per la relazione

di cura e di fiducia sono indicati nel 2° comma dell’art. 1. Al quadro della l. n. 219/2017 resta estraneo l’ulteriore requisito previsto dalla sentenza 242, vale a dire l’intervento del Comitato etico territorialmente competente: richiamato per “la delicatezza del valore in gioco”, in quanto “organo terzo” in grado di garantire “la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità”. A parte la perplessità che mi suscita la definizione di terzietà (terzo fra quali parti contrapposte? rimanda a una visione oppositiva, anziché strutturalmente collaborativa fra medico e paziente? da chi si intende proteggere il malato – che è evidentemente il soggetto che potrebbe trovarsi in situazioni di particolare vulnerabilità? da chi è eventualmente in grado di proteggerlo il Comitato etico?), mi sembra che l’inserimento del Comitato etico sia di tipo procedurale e non sostanziale; che il suo sia un parere (il dispositivo lo qualifica espressamente tale, e la motivazione fa riferimento al possesso di “funzioni consultive” richiamando la legislazione vigente), certamente obbligatorio, ma non un’autorizzazione (a prescindere dal fatto che taluni pareri resi in ambiti diversi dallo specifico contesto del suicidio medicalmente assistito possano essere configurati nella legislazione vigente come vincolanti); mi sembra che potrebbe, piuttosto, rilevare il mancato o non sufficiente approfondimento di taluni aspetti del processo in cui ha preso forma la volontà del malato di richiedere l’aiuto medico a morire. La previsione di un organo collegiale terzo munito di adeguate competenze è suggerita al legislatore e, nelle more del suo intervento, il compito è direttamente affidato ai CET in quanto ritenuti e qualificati dalla Corte costituzionale come “organi terzi e collegiali con adeguate competenze”; il modo stesso in cui la sentenza li investe attribuisce loro, direttamente, anche la competenza adeguata, che non deve più essere oggetto di qualsivoglia verifica (o autoverifica). Dubito, pertanto, che un Comitato etico possa declinare la propria competenza, e, se dovesse farlo, la condizione procedurale prescritta (acquisirne il parere) sarebbe comunque soddisfatta (non è il parere che costituisce le condizioni da rispettare, semmai il fatto che il parere del CET ne attesti il rispetto agevola la prova della loro ricorrenza). È importante sottolineare che il parere del CET è richiesto al fine di tutelare le situazioni di particolare vulnerabilità: dovrà, di conseguenza, essere posto nelle condizioni di poter escludere interferenze indebite sulla volontà della persona interessata.

Paolo Malacarne Sempre per il mio lavoro è fondamentale il paragrafo 6 della sentenza che esplicita che “resta affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi o no a esaudire la richiesta del malato”, garantendo quindi l’obiezione di coscienza o, per meglio dire, la “clausola di coscienza” dal momento che la sentenza “si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici” Ma se la scelta è affidata alla “coscienza”, rimango perplesso di fronte al fatto che la mia “coscienza” potrebbe non essere trattata allo stesso modo della coscienza di chi rispetterà l’art. 17 del Codice Deontologico Medico scegliendo di “non prestarsi”: infatti, quando io mi “presterò” ad esaudire la richiesta, da un lato, non trattandosi di “morte naturale” la salma del malato finirà all’obitorio della “Medicina Legale” a disposizione della Magistratura Inquirente che, trattandosi di morte da “causa violenta” potrebbe aprire una indagine nella quale io rimarrei sicuramente coinvolto (con la necessità ad es. di nominare un legale e di essere interrogato dagli inquirenti) anche se poi verrei scagionato (passatemi il termine poco ortodosso); dall’altro, il mio Ordine dei Medici, in base alla recente decisione del 6 febbraio 2020, potrebbe comunque aprire nei miei confronti un procedimento disciplinare, visto che la mia “libera scelta di agevolare il proposito di suicidio ….va sempre valutata caso per caso”; due conseguenze, quella penale e quella deontologica, che, se da un lato non arriveranno a condanna, dall’altro però saranno un “deterrente” alla mia scelta di “coscienza” (mi ricorda, perdonate il riferimento alla mia esperienza personale di vita, quando per il fatto di aver scelto di essere obiettore di coscienza al servizio militare feci due anni di servizio civile anziché il canonico unico anno di servizio militare).

Barbara Pezzini A fronte di diversi orientamenti emersi in dottrina 10 , ritengo che una volta che la Corte costituzionale abbia ritenuto che la presenza di specifiche condizioni valga ad escludere la responsabilità penale del medico che metta a disposizione di un paziente un farmaco letale, a maggior ragione le stesse condizioni debbano valere ad escludere la responsabilità deontologica del medico. E a tali conclusioni mi sembra essere approdato anche l’Ordine dei medici, approvando il 6 febbraio scorso gli indirizzi applicativi dell’art. 17 del codice deontologico 11 ; per quanto prevedendo “sempre” una valutazione caso per caso, tali indirizzi finiscano per gravare l’aiuto medico al suicidio di un’ulteriore forma di controllo delle procedure in sede deontologica, non prevista dalla Corte costituzionale. Quanto all’obiezione di coscienza, viene sbrigativamente liquidata nella brevissima argomentazione sub par. 6, in cui sostanzialmente si esclude l’esistenza di un problema di obiezione, dal momento che “resta alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi o no a esaudire la richiesta del malato” e, dunque, non c’è alcuna obbligatorietà di prestazioni. Personalmente mi sembra che proprio questo aspetto contribuisca a rendere evidente l’esistenza, nella sequenza decisionale, di quella indubbia discontinuità rispetto alla giurisprudenza costitu

10 Bresciani, Il lungo anno dell’art. 580 cod. pen.: l’art. 17 Codice Deontologia Medica può precludere la partecipazione del medico ai suicidi assistiti?, in www. forumcostituzionale. it, 2.5.2019; Pulice, Autonomia e responsabilità medica: la scelta deontologicamente (dis)orientata, in BioLaw Journa l– Riv. BioDiritto, 2019.

11 Delibera adottata dal Consiglio nazionale FNOMCeO: “La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare”.

zionale sul consenso informato segnalata in premessa 12 , nonostante la Corte costituzionale l’abbia sfumata, o persino dissimulata nel richiamo sintetico dei propri precedenti. L’evocazione, pur indiretta, dell’obiezione, significativamente rimasta estranea alla legge n. 219/2017, rappresenta un ulteriore indicatore del superamento del perimetro costituzionale propriamente definito dall’art. 32 Cost.: l’obiezione di coscienza introduce una configurazione oppositiva dei ruoli del paziente e del medico – proposti come portatori originari di posizioni e interessi contrapponibili anziché convergenti – che incide sulla possibilità stessa di riconoscere nel rapporto in cui opera una autentica relazione terapeutica nel senso ricostruito sulla base dell’art. 32 Cost., secondo cui il medico assume nella relazione terapeutica un ruolo finalizzato al e orientato dal formarsi di decisioni consapevoli di altri sulla propria salute e sulle proprie complessive condizioni di vita (secondo la ampia definizione di salute dell’OMS) e, di conseguenza, al realizzarsi di conseguenti pratiche terapeutiche da altri subite sul proprio corpo. La sentenza non sfugge alla contraddizione di lasciare privi di garanzia i diritti fondamentali del malato da cui pure ha preso le mosse (dignità e autodeterminazione nella scelta delle terapie finalizzate a liberare dalle sofferenze), dal momento che la sua richiesta non diventa una pretesa esigibile. La discrezionalità riconosciuta al medico – diversa dalla competenza e autonomia professionale costituzionalmente presidiata dall’art. 33 Cost. 13 – porta, a mio avviso, fuori dalla relazione di cura, dove c’è obbligo: perché, appunto, la prestazione richiesta non è propriamente di cura, certamente non come l’assistenza doverosa in caso di interruzione o rifiuto negli artt. 1 e 2 della l. n. 219/2017.

12 Criticamente discussa in Pezzini, Oltre il perimetro della rilevanza della questione affrontata dall’ordinanza 207/2019: ancora nel solco dell’autodeterminazione in materia di salute?, in Forum di Quad. cost., 22.6.2019.

Rivelando ulteriormente la difficoltà di considerare davvero omogenee le condotte che un paziente, dopo avere a pieno diritto rifiutato o richiesto l’interruzione di trattamenti salvavita, può esigere dal medico che lo assiste: il doveroso accompagnamento con cure palliative, da un lato (per le quali non è prevista l’ipotesi di alcuna obiezione di coscienza), e la discrezionale somministrazione di un farmaco che determina la morte, dall’altro (per la quale, invece, si lascia al medico la possibilità di scegliere in piena autonomia e secondo la propria coscienza “se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”); per quanto contigue, mostrano chiaramente tutta la loro diversità. Ciò che la sentenza in definitiva riconosce è una sfera di libertà del singolo costituzionalmente presidiata in via diretta dagli artt. 2 e 13 Cost., ma solo indirettamente connessa all’art. 32; quindi l’atto finale di somministrazione del farmaco letale, per quanto compiuto da un medico in un contesto fortemente medicalizzato (strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, alle quali spetta un controllo anche delle modalità di esecuzione) non è trattato come un’attività terapeutica, ma è visto essenzialmente nella sua natura di atto puramente solidale, compiuto spontaneamente, che eccezionalmente, per la cornice di condizioni che ne attestano la assoluta gratuità e direzione puramente altruistica, non risulta punibile in sede penale, né rilevante in sede deontologica.

Paolo Malacarne Io penso da medico che il malato che sceglie di porre fine alla propria vita (ottemperando alle condizioni dettate dalla sentenza) abbia il diritto ad una assistenza medica massimale proprio in questa ultima fase di vita, per garantire la assoluta mancanza di sofferenza e la gestione rapida e ottimale di ogni possibile complicazione durante la procedura: la sentenza garantisce questo? Che cosa potrò dire alla malata e ai suoi familiari quando tornerò da loro?

Barbara Pezzini Come sopra accennato, la sentenza affida alla struttura pubblica del servizio sanitario di verificare che l’aiuto al suicidio avvenga con modalità di esecuzione tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità e evitare sofferenze. Non garantisce però il diritto a ricevere tale aiuto da un medico, né la possibilità di pretenderlo. Certo, la giurisprudenza costituzionale rivela proprio in ciò una contraddizione, dal momento che, sino a che la richiesta del malato non diventa una pretesa nei confronti del medico e del servizio, non garantisce fino in fondo quei diritti fondamentali del malato da cui muove. Nel contempo, quando il percorso decisionale della persona malata sia giunto al punto estremo in cui si danno effettivamente le due alternative prese in considerazione dalla decisione nata dal caso Cappato-Antoniani, è l’intera struttura che, scongiurato il rischio di abusi in danno di persone vulnerabili, deve garantire dignità ed evitare sofferenze ulteriori al malato. E a me sembra che questo lasci intendere che non devono frapporsi ostacoli e dilazioni non necessari al compimento della volontà del malato, una volta che questa risulti formata nel rispetto delle condizioni prescritte; e che, dunque, si ponga a carico della struttura di assicurare che – a prescindere da chi sia il soggetto che collaborerà in concreto all’aiuto fornendo al malato il farmaco o il trattamento opportuno (dal momento che tale comportamento non può essere preteso, né coartato) – venga comunque complessivamente garantita quella assistenza ottimale alla quale la domanda di Paolo Malacarne fa riferimento.

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