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Mazzola (Carmelo Rosario Viola, di Tito Cauchi, pag

Il Leopardi viene considerato un filosofo, un poeta moderno, un conoscitore delle scienze astronomiche, ma anche un autore attuale, dato che in lui convogliano molte delle numerose paure, irrequietezze e tutti quei dubbi che fanno parte dell’universo umano di tutte le epoche, compresa la nostra.

Le Operette morali, secondo la critica, facilitano l’interpretazione filosofica che unisce anche i temi presenti nei Canti e nello Zibaldone. In queste opere il poeta insorge contro la natura in nome dell’immaginazione, dell’intuizione poetica, della magnanimità, della pietà e della misericordia e della sua partecipazione alle pene umane.

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“Uno degli aspetti più interessanti, espressi di recente sul dibattito critico, è la prospettiva antropologica, cui il Centro Nazionale di Studi Leopardiani ha dedicato il convegno del 2008. In esso si segnalano numerosi spunti e rilievi, che concordano nell’individuare nel Recanatese un ruolo centrale per la storia del pensiero umano”. Viene messo in rilievo un ulteriore aspettonuovo, ossia una sorta di antropologia originaria, anche se ancora non vi era una vera e propria differenziazione tra geografia, filosofia, cultura e corpo.

Giuseppe Manitta chiude l’esaustivo studio affermando: “Dopo aver delineato una breve rassegna di studi sul leopardismo, un dato emerge in modo preponderante. A parte pochi validi interventi, si nota una ricerca forzata da parte di alcuni ‘studiosi’ nell’individuazione di connessioni tematiche con il Recanatese, fornendo alle volte semplicemente consonanze tematiche (che potrebbero confluire anche in raffronti con altri autori) piuttosto che prove filologiche e testuali”.

Un’analisi interessante, che dà spunti ulteriori di lettura, a chi fosse interessato, grazie alla notevole bibliografia posta nella seconda parte del volume.

Giuseppe Manitta, partendo da interessi leopardiani, ha esteso le sue ricerche da Boccaccio al Novecento. Si è occupato del petrarchismo cinquecentesco di Antonio Filoteo Omodei, del quale ha individuato il corpus autografo delle «Rime» in un codice vaticano. Ha pubblicato: “A partire da Boccaccio” (Mursia, gruppo Mondadori, nona edizione nel 2020); “Noi e il mondo. La novella italiana da Pirandello a Calvino” (Mursia, gruppo Mondadori, terza edizione nel 2011); “Carducci contemporaneo” (2013); “Boccaccio e la Sicilia” (2015); “Mihai Eminescu e la «letteratura italiana»” (Il Convivio, 2017). Per gli studi inseriti in quest’ultimo volume il Presidente della Repubblica Moldova, gli ha assegnato il Premio Eminescu per meriti culturali nel dialogo intereuropeo. È il direttore della rivista accademica “Letteratura e Pensiero”, è caporedattore della rivista “Il Convivio” (Classe A dell’Anvur); cura, inoltre, la bibliografia leopardiana del “Laboratorio Leopardi” dell’Università La Sapienza di Roma ed è critico letterario del settimanale “Via Po Cultura” del quotidiano “Conquiste del lavoro”.

Manuela Mazzola

TITO CAUCHI

CARMELO ROSARIO VIOLA Vita, Politica, Sociologia

Editrice Totem 2021, Pagg. 232, € 15,00

Il saggio, Carmelo Rosario Viola, è diviso in quattro parti: Opere Autobiografiche, Sociologiche, Politiche, In memoria di Carmelo Rosario Viola.

Il prof. Tito Cauchi, con la sua nota professionalità e sensibilità d’animo, ha redatto il saggio con lo scopo di far conoscere meglio un altro talento italiano, nato a Milazzo in provincia di Messina, nella nostra Sicilia, fucina di talenti e poi trasferitosi a Tripoli in Libia.

Cauchi conosce per caso lo scrittore attraverso gli articoli che pubblica su Pomezia-Notizie e grazie alla frequentazione dello studioso sardo Salvatore Porcu.

Dunque, inizia a recensire le sue opere e solo dopo, instaura con il Viola una corrispondenza epistolare che si trova nell’appendice.

Carmelo Rosario è stato il fondatore della Biologia Sociale, si è ispirato allo Stato Etico, dichiarandosi anarchico solitario ed è noto nel mondo letterario come un uomo di indubbia onestà intellettuale.

Infatti, su Pomezia-Notizie del febbraio 2012, il direttore Domenico Defelice scrive dopo la sua dipartita: “Ora il grande mistero per lui s’è squarciato e siamo certi ch’è stato accolto nella Casa del Padre,

perché è fede profondissima quella di chi ama la giustizia, la pace, la fratellanza nei popoli e lotta tutta una vita per la rinascita e la sana crescita dell’Umanità. Proprio quello che lui ha sempre fatto”.

Quella di Viola è stata una vita particolare, non ha mai manifestato sentimenti contro qualcuno né a favore della guerra; è rimasto per alcuni anni solo con i nonni, poi ha raggiunto i genitori a Tripoli, dove ha concluso il suo percorso scolastico.

“Carmelo Rosario Viola – scrive il professore – ribadisce che la Biologia Sociale intende essere interdisciplinare, puntando ad essere realistica, come “arte-scienza della vita”, e a non misurare il progresso con il numero di telefonini, computer, vetture e altri strumenti vari del consumismo”.

“L’autoidentificanza (la quarta dimensione bio-sociale) è il momento finale di ogni rapporto (di affetto e di memoria) che consente al soggetto di ‘sentirsi io’. Io mi sento me stesso”, così affermava il Viola.

Trovo che il lavoro intellettuale che sta facendo il Cauchi sia lodevole e importantissimo per la cultura dell’Italia. Il nostro paese è pieno di talenti che troppo spesso, per un motivo o per l’altro, non vengono messi nella giusta luce. L’opera del professore è meritevole poiché i testi scritti vanno a comporre quella memoria necessaria per una nazione che si definisce democratica e civile.

Manuela Mazzola

IL TRAGUARDO

Il traguardo è lì manca poco alla cima cammino con piedi di pietra ogni passo un infinito tempo come ci fosse una ribellione al mio comando mentale.

Mi fermo guardo indietro ho attraversato deserti ho riempito un vuoto di speranze ho proiettato un traguardo di amore mi hanno colpita più volte al cuore ho rimarginato le ferite ho mandato un sorriso a chi incontravo.

Poi c’eri tu a prendermi per mano per camminare insieme meno difficile superare le difficoltà abbiamo fatto tanta strada abbiamo raccolto le more del gelso abbiamo sognato lo stesso sogno ti ho accarezzato il viso tu mi hai stretta tra le tue braccia.

Sapevamo che il cammino era irto e lungo a volte tu mi precedevi perché io poi potessi seguirti dove tu mi aspettavi: Tu eri il mio traguardo.

Ma ora hai preceduto tutto tu sei oltre il traguardo e i miei piedi sono pietre che bloccano.

Sento la tua voce che mi chiama al tuo richiamo faccio qualche passo.

Chiamami sempre!

Il Traguardo saranno le tue braccia dove il mio cammino avrà fine ma prima guarderò quanta strada si è fatta difficile ed agevole a volte, lascio questo bagaglio con ricordi che mi trattengono

E finalmente corro… corro ….

Wilma Minotti Cerini

Pallanza, VB

IL MIO QUARTIERE

Il mio quartiere era un tranquillo quartiere di periferia. Nelle sue lunghe, larghe strade giuocavano i bambini a nascondino o al pallone ed i più grandi alla lippa, nel mezzo della via. Le bambine saltavano alla corda o nei riquadri del giuoco del mondo, tracciati con un sasso nella sabbia del marciapiede o, più tardi, col gesso sull’asfalto.

Non passavano automobili. Soltanto, lenti passavano i carri che trainati da cavalli portavano il grano al mulino e ritornavano con sacchi di farina o di riso ripulito dalle macine.

D’inverno, a volte sul ghiaccio un cavallo scivolava e cadeva, e allora era un affollarsi di persone per strada e alle finestre (rumori e grida arrivavano chiari nelle case, nel silenzio di allora) per osservare i carradori che, aiutati da sacchi vuoti stesi sul ghiaccio, dopo lunga fatica sollevavano da terra il cavallo.

D’autunno, arrivavano le greggi coi pastori, ed era tutto un belare di quel mare di bianca lana ondeggiante. La gente accorreva coi recipienti per comprare il caldo latte appena munto.

In primavera passavano, tornando dalle manovre, i soldati, a volte bersaglieri. Al fondo della strada si schieravano ai comandi del sergente ed arrivavano marciando in bell’ordine, o di corsa al suono della fanfara, fra la gioia dei bambini e l’orgoglio dei grandi. Passavano l’arrotino, il venditore di rane chiuse in sacchetti neri ove danzavano ancora vive (“Rane, le belle rane! “) e l’acciugaio dai calzoni di velluto col barile di acciughe sul carrettino … Poi d’estate passava anche il carro del ghiaccio. Arrivava coi lunghi parallelepipedi gelati e il carradore trasportandoli a spalle su di un sacco li portava ai negozi suoi clienti abituali, o rompendoli a pezzi con un ferro uncinato li consegnava agli abitanti della strada che li compravano per la casalinga ghiacciaia.

Venivano all’inizio dell’estate nelle belle serate i grandi carri esposizione degli ambulanti e alla luce di mille lampadine appese ai bordi e accese con una centralina mobile splendevano le sete ed i damaschi dei tappeti esposti per la vendita in uno sfarfallio di falene danzanti tutto intorno. Nel tepore serale profumavano le robinie e il sambuco delle vicine siepi e passeggiavano gli abitanti del quartiere salutandosi e chiacchierando in serena amicizia, perché allora era la strada un piccolo paese dove tutti si conoscevano, dove uscendo di casa si lasciava sotto lo zerbino la chiave dell’uscio, e il garzone del fornaio fischiettava passando in bicicletta.

Come era bello il mio quartiere e come bella era la mia via! La mia via Villoresi inizia incrociando la Ripa Ticinese del Naviglio Grande, sulle cui acque silenziosi di giorno scivolavano le file dei barconi, chiatte che dai monti trasportavano sabbia, ghiaia e pietre (un tempo i marmi del Duomo) fino ai depositi della Darsena. Da qui a notte fonda vuoti ripartivano controcorrente, guidati lungo l’Alzaia da coppie di cavalli aggiogati al primo barcone della fila.

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