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Fabio Dainotti, pag. 41); Isabella Michela Affinito (Voci, di Giannicola Ceccarossi, pag

Nell’ultima parte del libro ci sono i Racconti in versi, vetrina di testi poetici abbastanza elaborati dove la verità dei fatti è stata messa a nudo, troppo denudata da stridere con l’ambientazione ricercata di prima.

L’autore sembra sia tornato nel tragico presente, o meglio nel passato della nostra contemporaneità per raccontarci stralci di vita intrecciata ad esistenze meno fortunate. L’ultima poesia del florilegio è dedicata a Renato e il contenuto della narrazione poetica non è dei più felici: storia squallida di un piccolo appartamento concesso ad una ex-professoressa diventata clochard e che, per via legale o non, doveva tornare al legittimo proprietario, anche grazie all’aiuto dell’amico che ha usato maniere non proprio gentili. I protagonisti non assaporeranno il lieto fine e questo lascerà il lettore come estraniato e confuso, forse per indurlo a risalire davvero il fiume, suo malgrado, controcorrente… «[…] Sfondasti con un pugno la porta,/ cambiasti la serratura,/ dopo avere buttato i ‟quattro stracci”/ della donna nell’atrio.// Perciò quel giorno sotto casa/ quando eri già un malato terminale,/ ma io non lo sapevo, m’imploravi/ di non litigare:/ ‟Fabio, non te ne andare, forse è l’ultima/ volta che ci vediamo”.» (Pag. 59).

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Isabella Michela Affinito

GIANNICOLA CECCAROSSI

VOCI (tre poemetti)

Ibiskos Ulivieri di Empoli (FI), Anno 2018, Euro 12,00, pagg. 55.

La necessità di proseguire oltre il perimetro, che può essere più o meno ampio, di una poesia per sconfinare nell’ambiente poematico può accadere quando si hanno più cose da dire in versi – esiste anche il poema sinfonico quale composizione orchestrale ispirata a qualcosa di artistico o letterario.

Nel poema, essendo una distesa indefinita, c’è l’occasione di esporre una parte dell’esistenza trascorsa intessuta di riflessioni, altri accadimenti con la consapevolezza di poter andare avanti, appunto, quasi all’infinito e, perciò, il senso di libertà versificatoria è più assaporabile, più godibile.

Il poeta torinese, Giannicola Ceccarossi, residente nella capitale, dopo diverse sue esperienze editoriali tra poesia e diaristica, ha voluto regalarci tre suoi poemetti sotto l’unica titolazione di Voci, per raccontarci del suo tempo quale patchwork di pensieri eterogenei, tra il reale e il come sarebbe stato o il come dovrebbe essere, spostandosi dall’io al noi alla terza persona plurale sempre col suo stile letterario che sa di finestre spalancate, senza la punteggiatura, che in fondo lo rimarca.

Il prefatore dell’opera poematica in questione, Emerico Giachery, è come se avesse fatto tre/quattro premesse insieme per aver separato con lo spazio bianco il suo testo di presentazione, quasi un proporzionato rispetto d’esamina verso i tre ‘lungometraggi’ in versi, i quali posseggono un’autonomia grazie al proprio sottotitolo: Barche nel cielo, Noi siamo i giovani di questo tempo distorto e Pace. Ancora, ciascun poemetto ha un’immagine “sua” di copertina che sono delle riproduzioni a colori di dipinti d’artisti del passato, come Vasilij Kandinskij, Natalia Goncharova ed Edvard Munch. «[…] Il ribollire delle inquietudini del nostro Novecento postbellico si manifesta e trasfigura in un germinare ininterrotto di immagini. Il continuum che fonda e caratterizza il discorso poetico parrebbe offrirsi, anzitutto, come suggestiva icona del fluire degli anni e della storia. Al lettore spetterà l’impegno di affidarsi ad esso, entrare in sintonia con esso, assaporando come musica le singole immagini e sinestesie, e la misura, sempre giusta, della scansione e del ritmo. » (Dalla Prefazione di Emerico Giachery, pag. 5).

Il primo poemetto ‘scaturisce’ dalla libertà compositiva di un quadro astratto di Kandinskij, il padre diremmo dell’astrattismo lirico, autore d’importanti opere letterarie anche a sfondo pedagogico: Lo spirituale nell’arte del 1912 e Punto, linea, superficie del 1926.

Non fu solo puro astrattismo quello di Kandinskij, bensì tutto uno studio sui simboli e i colori ognuno interpretato con una specifica personalità, finanche col suono in abbinamento.

Il poeta Ceccarossi si pone tante domande col chiaro punto interrogativo durante il suo primo monologo-poema e va avanti spedito, prendendo in considerazione il modo di vivere che s’è espletato finora, il suo e quello degli altri, per poi aggiungere dei consigli che sanno d’evangelizzazione –negli ultimi versi c’è un bellissimo effluvio proveniente dai meravigliosi messaggi della Madonna di Medjugorje – comunque di bene per migliorare sé stesso e gli altri. «[…] Porgete le vostre mani al fratello più debole/ non aspettate che il tempo sani le ferite/ ma risvegliate i sensi/ e facendo sentire acuta la voce/ sarete dannati per le idee/ per l’amore che porterete agli invisibili/ Non rinunciate alla libertà!/ Difendetela come ultimo baluardo/ e non cedete alle lusinghe degli stregoni! […] Non lasciate che il vostro amore/ vi distolga dagli abbracci del sole/ e dallo sconvolgersi degli uragani/ Non aspettate che si separino gli umori/ ma lottate per le vostre intuizioni/ Sarete così liberi di piangere dormire/ entusiasmarvi esprimervi vivere!» (Pagg. 18-21).

Da un vivace quadro di contadine danzanti della pittrice russa, traferitasi a Parigi, Natalia Gončarova, il cui stile pittorico vide la fusione di cubismo futurismo e orfismo insieme, ebbene, diparte il secondo poemetto del Ceccarossi, Noi siamo i giovani di questo tempo distorto, dove l’autore, in effetti, disvela un po’ della sua giovinezza costellata da false promesse, sbagli, accadimenti rovinosi, l’epoca degli slogan e delle prime folle che manifestarono contro qualcuno o qualcosa, e in alcuni tratti sembra che lo stesso Ceccarossi, sulla scia di un redivivo sessantottino all’epoca anche contro la guerra in Vietnam, stia ancora manifestando a pieni polmoni per diffondere il suo credo poetico. «[…] Anche se incontreremo bui profondi/ noi avremo sempre il sole negli occhi/ E urleremo urleremo le nostre età/ il nostro vivere cercando altri cammini/ Non ci arrenderemo mai!/ Se molti di noi si legheranno alla terra/ altri si avvolgeranno ai sogni/ Non lasciate che il nostro sangue si contamini/ Non lasciate che i frutti marciscano nei campi/ Non lasciate che gli stridi rimangano inascoltati/ Ma di nuovo canteremo/ e canteremo a voce alta la gioia degli uccelli/ ascolteremo in silenzio le preghiere dei morti/ benediremo con la croce la fronte dei fratelli/ e con la leggerezza del cuore/ assaporeremo la brezza del giorno/ Noi siamo i giovani di ieri/ Noi siamo i giovani di oggi/ Noi siamo i giovani di domani/ Che Dio ci benedica!/ Sempre» (Pagg. 41-42).

L’ultima narrazione in versi origina, invece, da un quadro del pittore e incisore norvegese Edvard Munch, artista colpito da molti lutti familiari che, purtroppo, gli segnarono il carattere in maniera fortemente negativa e che, ovviamente, trasferì nei suoi lavori artistici anche per il senso drammatico di cui è pervasa la stessa letteratura scandinava, da Henrik Ibsen a August Strindberg.

Anche lui, Munch, compose un poema, da lui arricchito coi suoi lavori artistici, Alpha e Omega, ed illustrò anche la raccolta di poesia di Charles Baudelaire, I fiori del male.

Nella terza e ultima parte del volume di Ceccarossi, si riscontrano termini che anche Edvard Munch ha fatto suoi artisticamente: morti, malinconia, paura, inquietudine, spettri, dolore, fantasmi, notte, terrore, sdegno, anime, luna, passato…, proprio perché l’artista norvegese sviluppò uno stile prettamente contrassegnato carico di simbolismo, con la radice innestata nella sofferenza personale provata fin dalla perdita della madre per tubercolosi quando lui aveva appena cinque anni e, poi, lui stesso ebbe una salute cagionevole.

Addirittura, sul finale dell’ultimo poemetto di Ceccarossi c’è evidente una ‘profezia’ di quello che è accaduto a noi in tempi recenti, a seguito della pandemia mondiale di quando, come gli animali che escono dal lungo letargo, siamo potuti riandare per le strade delle nostre città, ripopolandole. «[…] Abbiamo gridato il nostro dolore/ soffocato il nostro sdegno/ sepolto dentro le nostre anime/ quanto avevamo vissuto/ in quegli interminabili istanti/ Non distoglieremo la vista/ da quei luoghi di terrore/ Noi usciremo dalle nostre case/ Ritroveremo il profumo delle notti/ con i suoni a inseguire i sogni/ e nulla ci impedirà di guardare la luna/ No, non avremo paura del buio! […]» (Pag. 54).

Isabella Michela Affinito

ANTONIO CRECCHIA ECCIDIO IN CASA DRUSCO Dramma in cinque atti Ed. ac ˂˃ Quarta edizione 2019, Stampato in proprio Fuori commercio, pagg. 122.

Ci sono luoghi con edifici ‘fossilizzati’ nella memoria collettiva di una regione o di un’intera nazione perché vi sono accadute delle scomode vicende familiari, quindi, segnati da una colpa e già il drammaturgo attore poeta, William Shakespeare, nel suo tempo inglese del ‘600, raccogliendone testimonianza dalle cronache reali, immortalò nella letteratura teatrale, ad esempio, la storia d’amore non a

lieto fine di Giulietta e Romeo dell’allora Verona –di cui ancora oggi è meta di visitatori la casa di lei col memorabile balcone – di quando erano in forte contrasto le due rispettive famiglie degli innamorati: i Capuleti e i Montecchi. Ma anche la strage della famiglia reale del Castello d’Elsinore in Danimarca, entrata nella celebrità del suo (di Shakespeare) Amleto e, spostandoci altrove col poemetto popolare d’autore anonimo in dialetto siciliano (tradotto dopo in italiano e in francese), la regione siciliana del XVI secolo, in particolar modo Palermo e Siracusa, piansero per la drammatica sorte capitataa La Baronessa di Carini, uccisa per mano paterna alfine di vendicare l’onore offeso dalla figlia Caterina.

Quando un autore di qualsiasi epoca decide di mettere mano ad una storia del genere realmente accaduta per farla ‘viaggiare’ nei secoli in forma teatrale o in poema, in prosa, allora, anche il luogo della vicenda acquista fama se non a livello mondiale almeno in quello regionale.

E così, senza andare geograficamente molto lontano, nella regione molisana del professore Antonio Crecchia, dalle innumerevoli pubblicazioni di vario genere, di preciso nel suo piccolo paese natio di Tavenna, all’epoca della vigilia del Congresso di Vienna, quindi nel 1913 – standoci nell’aria la possibile caduta dell’impero napoleonico e come conseguenza del dominio francese in Italia col Vicereame di Gioacchino Murat, che prese il posto dei Borboni cacciati via dal Regno di Napoli – era palpabile il vivo fermento anche della gente di Tavenna, nonostante piccolo comune, scissa nei rispettivi favoreggiamenti: chi stava dalla parte dei francesi, denominati ‟infrancesati” che riscuotevano le tasse del popolo locale per consegnarle ai francesi occupanti e chi caldeggiava il ritorno dei Borboni compiendo veri e propri atti di brigantaggio, a cui parteciparono anche coloro che avevano disertato l’esercito ufficiale di Napoleone. Insomma, erano anni difficili in tutta Europa e i dissidi si avvertivano ovunque, fino a giungere, appunto, nei piccoli borghi con pochi abitanti perlopiù imparentati fra essi, con l’insorgenza di lotte intestine persino nel medesimo casato.

Questo è successo alla famiglia Drusco, divisasi in due tronconi: quella di Don Antonio Drusco, il più ricco proprietario del paese, i cui figli, Nicola, Alessandro e Marianna, e la moglie Girolama Borgitti, parteggiavano per i francesi, riscuotendo i tributi per loro; mentre il fratello di Antonio, Diego Drusco, dottore in legge, morì improvvisamente lasciando la famiglia indebitata e fortemente inasprita (invidiosa) di quella del fratello, anche per motivi di diritti di cappellania sulla chiesa Incoronata e sull’altare di S. Giovanni, nella chiesa madre.

Potremmo avvalerci benissimo del titolo dell’opera letteraria del premio Nobel per la letteratura, Gabriel García Márquez, del 1982, Cronaca di una morte annunciata, per introdurre i colori funesti aleggianti tra le pareti domestiche della famiglia di Antonio Drusco, sensibile ed intelligente tanto da arrivare ad ammettere un giorno dinanzi ai propri congiunti questa sua preoccupazione: « Io temo che i nuovi governanti non staranno ancora a lungo al potere. Dopo la sconfitta di Napoleone in Russia e la distruzione della Grande Armata, non costerà molta fatica agli Inglesi, Prussiani, Austriaci e Russi, occupare la Francia e l’Italia e riportare sui troni i vecchi monarchi. Noi ci siamo compromessi abbastanza e ho paura che ci saranno in futuro spiacevoli ripercussioni.» (Pag. 22).

L’abilità drammaturgica di Antonio Crecchia è stata l’aver conferito sonorità ragguardevole a coloro che subirono l’eccidio in casa propria, con un’appropriata sua immedesimazione nei rispettivi personaggi (numerosi) entrati a far parte della vicenda, tra gli uccisi e gli uccisori.

In quarta di copertina del presente dramma, c’è un breve giudizio critico del compianto professore Silvano Demarchi, del 25 giugno 2007 a Bolzano, esemplificativo ed esaustivo al tempo stesso, che vale la pena riportare. «… a parte la vena versatile, il dialogo procede concitato e stimolante così che il lettore non si annoia mai; indovinata l’inserzione di poesie dal tono alto e solenne, che richiamano i cori dell’antica tragedia greca. Penso che il libro avrà successo, anche per la vicenda storica rievocata. Mi sembrava eccessivo il numero dei personaggi, ma poi ho visto che nell’azione non complicano l’andamento generale.»

Infatti, testi di poesia aulica composti da Antonio Crecchia hanno intramezzato lo scorrere della tragica vicenda, amplificandone l’eventuale fenomeno catartico in mezzo al trambusto della casa ‘ferita’ per l’uccisione di tre componenti nella notte fatidica tra l’11 e il 12 aprile 1813.

Con questo lavoro letterario e teatrale si è ridata ‘vita’ ad un palazzo, ad un’abitazione che senz’altro sarà ancora visibile oggigiorno a Tavenna e, a chi sa già la storia o a chi la leggerà da questo libro, sembrerà di ‘udire’ realmente le voci dei familiari sconvolti di Antonio Drusco insieme agli spari di quella malaugurata notte, compartecipando all’eccidio con sofferta emozione e non solo.

Coinvolgimento più che umano dovuto, affinché si possa magari fare ulteriore chiarezza su quell’evento tumultuoso anche a distanza di oltre due secoli e perché la mano della giustizia possa donare pace a quei remoti defunti, forse per consegnare l’unica verità ad una cittadina che ancora aspetta il meritato conforto.

Isabella Michela Affinito

MARINA CARACCIOLO

VERSO LONTANI ORIZZONTI L’itinerario lirico di Imperia Tognacci

BastogiLibri/Testimonianze, 2020, pagg. 82 € 10,00

Il volumetto di Marina Caracciolo ripercorre l’itinerario lirico di Imperia Tognacci, poetessa sensibile e delicata, nata a San Mauro Pascoli, che ha iniziato la sua attività letteraria nel 1996.

La Caracciolo, segue passo passo l’opera letteraria della Tognacci, soffermandosi a fondo su di essa, cercando di analizzarla al meglio per descrivere la suggestiva bellezza dei suoi lavori.

Quelli della Tognacci sono versi ricchi di musica e ritmo, in ottima simbiosi tra contenuto e forma scritta. In “Natale a Zollara” per esempio, la lettura anche se scorrevole, cela un messaggio complesso e sottile; in “Odissea Pascoliana” si vede la passione della poetessa per Giovanni Pascoli, che inserisce questa grande ed importante figura della letteratura italiana nell’ambiente vissuto, nel dolore e nella morte, per portare in rilievo la psicologia e la complessità del poeta – uomo. Invece “La porta socchiusa” è ispirato ad un viaggio in Terra Santa, un pellegrinaggio immerso nel silenzio e nella natura, tra pastori, carovane, polvere, sabbia e cieli stellati.

Insomma, un vero e proprio viaggio nella lirica e nella mente della Tognacci, che è sempre stata un’anima in cammino, vogliosa di carpire conoscenze, pensieri e sensazioni per cercare di avvicinarsi il più possibile a capire il mistero dell’Essere, attraverso una scrittura attenta e al ritmo di essa. Uno sguardo diverso, da quello che può sfuggire a noi esseri umani, che corriamo tutto il giorno e, spesso, non ci accorgiamo di particolari che renderebbero la nostra esistenza certamente più serena e in armonioso accordo con ciò che ci circonda.

Roberta Colazingari

LINA D’INCECCO

COLORI E STUPORI DELLA VITA E DELLA NATURA

Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, novembre 2020

La poetessa Lina D’Incecco, con le sue liriche, dà vita ai colori e agli stupori che ci circondano sia durante la nostra vita che nella natura. La sua attenzione si sofferma su colori e stupori che lei vede riflessi nelle persone, nelle cose, nella natura etc. La sua raccolta pubblicata su Il Croco si apre con l’omaggio al genio di Leonardo da Vinci, per poi passare alla Ferrari, entrambi hanno stupito e continuano a stupire il mondo. Poi si sofferma sulla maternità, sulla musica: tutti stupori e colori positivi, esempi da tenere ben a mente da parte di tutta l’umanità. Ma i colori possono anche essere cupi, così come anche lo stupore può essere di dolore. Ecco, allora, che si sofferma sulla guerra, sull’odio: “Lì sui monti ibernati nelle trincee stavano i soldati in attesa di combattere…Affondavano i soldati nella neve,… Orme nere che scrivevano la pagina di una guerra brutta”. Torna poi a guardare la bellezza della natura ne I Colori del mio mare: “Lo sguardo immergo nel mio mare verde…In esso traggo vigore, dallo stillicidio dei pensieri trovo rifugio” e nella lirica Oleandri: “…C’è il sapore dell’estate con il filare di oleandri dai colori fuxia e rosa…”. La D’Incecco è anche molto attenta a seguire il sociale, l’attualità e dedica una poesia a questa pandemia che or-

mai ci attanaglia da tempo, ricordando la cronaca dolorosa che ci riporta alla mente i troppi morti caricati sui camion. Le sue liriche sono semplici, senza paroloni o fronzoli inutili…istantanee di colori e stupori nella loro semplicità.

Roberta Colazingari

MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO

IL CORAGGIO DI AMARE

Anscarichae Domus/AccademiaCollegio de’ Nobili Editore, 2020, pagg. 74, € 10,00

Amare in un mondo digitalizzato che corre, ci assorbe e ci prosciuga soprattutto nei sentimenti…

Ogni giorno ci preoccupiamo di sbarcare il lunario e dimentichiamo che solo l’amore può salvare il mondo. Specie in questi tempi di pandemia, dove la costrizione alla solitudine per far si che il morbo non si sparga, ci ha finalmente indotti a riflettere. Sarà servito? Abbiamo riscoperto tutti la capacità e l’importanza di amare il prossimo, l’amico/a, l’amato/a, il fidanzato/a, il marito/moglie etc.?Non so se questa pandemia devastante finalmente ci riporterà sulla retta via, sicuramente leggere il romanzo di Villafalletto servirà a farci riflettere ancora di più. I protagonisti sono due giovani, Margherita ed Andrea, che nonostante le difficoltà della vita, certezze ed incertezze, momenti felici e bui, decidono con tutto il loro coraggio di seguire la via dell’amore. Margherita grazie all’amore matura, cresce, si sente più forte, pronta a non fermarsi mai, insieme ad Andrea, superano ogni ostacolo e affrontano le novità che gli si parano davanti. “L’amore è una cosa semplice” canta Tiziano Ferro e, con questa affermazione, non sta certamente prendendoci in giro. Tiziano, come Villafalletto, ci spiega che dobbiamo scavare in noi stessi perché ogni giorno l’amore possa rifiorire e alimentarsi. Non c’è bisogno di andare lontano, di crearsi alibi…l’amore non è a tempo…è per sempre e non è un gioco. Si conquista ogni giorno, senza mai perdersi d’animo: bisogna essere se stessi, tenere la fiamma accesa. Ci vuole pazienza e buona volontà e questo, i due protagonisti del romanzo ce lo dimostrano pagina dopo pagina.

Roberta Colazingari

DOMENICO DEFELICE

DOMENICO ANTONIO TRIPODI PITTORE DELL’ANIMA

Gangemi Editore International, 2020, pagg. 96, € 20,00.

Un viaggio intenso attraverso il pittore dell’anima Domenico Antonio Tripodi. Il volume scritto e imbastito da Domenico Defelice, ci fa seguire e scoprire la bellezza e la profondità dei lavori di Tripodi.

Pittore di fama internazionale, nelle sue opere riproduce soprattutto la natura, in particolare gli uccelli, per mettere in evidenza il disagio ambientale, lo scempio che l’uomo sta compiendo ai danni del mondo.

Il volume, oltre a raccontare la vita di Tripodi e a contenere un’intervista, ha una ricca serie di tavole che trasmettono l’impronta del pittore: pennellate decise, con colori vivi che regalano emozioni.

Attraverso gli animali, in particolare gli uccelli, coglie le problematiche sociali e civili dell’umanità, con il suo pennello racconta ciò che vede e riesce a trasmetterlo perfettamente a chi si sofferma sulle sue opere.

Tra le sue opere ci sono nature morte, cavalli, uccelli, scorci di paesaggi che trasudano umori e storie.

Tripodi desidera donare a chi guarda un suo lavoro, la parte più nascosta e intima delle cose, persone o animali. Desidera innescare una reazione, un coinvolgimento in chi guarda. Ama dipingere in particolare gli animali e gli uccelli, perché è dalla loro parte, desidera dar loro voce e pensiero.

Questa sua capacità di scavare nell’animo e anche la passione per il sommo poeta Dante Alighieri, gli ha fatto creare numerosi acquerelli dedicati alla Divina Commedia (Ulisse, Beatrice, Manfredi etc.), una sorta di cammino per immagini, alla ricerca an-

che lui del paradiso. “La mia pittura – dice di sé – si è manifestata in tono dimesso, ma vibrante come lo stato di un animo felice”.

Roberta Colazingari

LILIANA PORRO ANDRIUOLI

POESIA INTIMISTICA E CIVILE IN BRUNO ROMBI

Geko Edizioni, 2020, pagg. 144, € 12,00

Il volume della Andriuoli è un omaggio al poeta, scrittore, critico letterario, pubblicista e pittore di origine sarda Bruno Rombi.

La scrittrice attraversa e analizza la produzione

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