TEME 3-4/2021

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TEME - TECNICA E METODOLOGIA ECONOMALE

BIMESTRALE DI TECNICA ED ECONOMIA SANITARIA

SALVATOR MAIRA

STRATEGIA DI ACQUISTO PER IL DOPO-COVID19: E DOPO? ANDREA STEFANELLI

I PRINCIPI CHE CI SALVANO RICCARDO BOND

FARMACI BIOLOGICI: SÌ ALL’ACQUISTO ANCHE SE NON INCLUSI NELL’ACCORDO QUADRO

ISSN 1723-9338

R. TAURINO - M. MAZZEO

TUTELA INAIL, CONTAGIO COVID DEGLI OPERATORI SANITARI E RISPETTO DELLA PRIVACY


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sommario marzo-aprile 2021

editoriale

3 Nuove visioni per immaginare un futuro diverso

articoli tutela INAIL 4 Tutela INAIL, contagio Covid degli operatori sanitari e rispetto della privacy

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il dopo covid19 8 Strategia di acquisto per il dopo-Covid19: e dopo?

12

gestione 12 Farmaci biologici: sì all’acquisto anche se non inclusi nell’accordo quadro. Il caso particolare della Regione Piemonte vista dalla sentenza n. 8370/2020 del Consiglio di Stato centrali d’acquisto 16 Il ruolo delle centrali di committenza nel settore sanitario i “principi” delle gare 21 I principi che ci salvano smart-working 25 Lo smart-working nel pubblico impiego: l’evoluzione dell’istituto da “sperimentazione” prevista dalla legge Madia a “modalità ordinaria” di lavoro nel periodo dell’emergenza sanitaria da Covid-19

21

confindustria dispositivi medici 30 Le politiche pubbliche d’acquisto dei dispositivi medici iscrizione in RDM e marcatura CE 33 Medical Device e procedure di gara. Iscrizione in RDM e marcatura CE: requisito di partecipazione o di esecuzione?

25

procedure d’acquisto 38 Procedure centralizzate Consip e gare d’appalto per la sanità dei Soggetti aggregatori regionali: quale prevale? cartella clinica elettronica 41 La cartella clinica elettronica

gli esperti rispondono

46 Sul termine del ricorso al Tar 47 focus

Le foto all’interno sono di Andrea Leonardi Andrea Leonardi vive e lavora a Roma, svolge da trent’anni attività di grafico, elaborazione fotografica e consulenza nelle arti grafiche. Le foto in questo numero descrivono momenti vissuti a Venezia durante un viaggio di lavoro in emergenza Covid, lo splendore della città in assenza quasi totale di turisti.

Tecnica e metodologia economale Bimestrale di tecnica ed economia sanitaria fondato nel 1962 per l’aggiornamento professionale degli economi e provveditori della Sanità. ISSN 1723-9338 Organo ufficiale della FARE Federazione delle Associazioni Regionali Economi e Provveditori della Sanità

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Abbonamento ordinario annuale Euro 100,00 c.c.p. 38498200 intestato a Edicom srl Copia Euro 1,29

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Direttore responsabile Giovanna Serranò Direttore editoriale Enza Colagrosso Tel. 393.5564782 e.mail: redazione.teme@gmail.com In copertina: foto di Marco Pasqualini

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Autorizzazione del tribunale di Milano n° 15 del 25/01/16 La pubblicità non supera il 45% del numero delle pagine di ciascun fascicolo della rivista. © Copyright EDICOM s.r.l. - Milano

Le opinioni espresse negli articoli firmati vincolano soltanto gli autori. La posizione ufficiale della FARE sui vari temi ed argomenti trattati nella rivista è unicamente quella contenuta nei documenti degli organi deliberanti. In caso di riproduzione è necessaria la preventiva autorizzazione scritta del Direttore di Teme. L’editore garantisce la riservatezza dei dati forniti dai destinatari della rivista TEME nel rispetto dell’art. 13 D.Lgs. n.196/2003. Gli interessati (destinatari o autori) hanno la possibilità di far valere i propri diritti, senza alcuna spesa, secondo quanto previsto dall’art.7 del sopra citato D.Lgs. rivolgendosi al responsabile del trattamento dei dati Barbara Amoruso presso Edicom, Via Alfonso Corti 28, Milano.


XXI

Congresso Nazionale

Milano

Starhotel Business Palace

28-29 Ottobre

2021

UNA NUOVA VISIONE

per il Procurement pubblico della sanità: le esperienze maturate nella crisi per immaginare un futuro diverso

F.A.R.E. Federazione delle Associazioni Regionali degli Economi e Provveditori della Sanità

Un confronto serrato tra buyer della sanità, università, politica, giuristi ed imprese per comprendere se stiamo preparando una rivoluzione del settore o se stiamo vivendo solo l’ennesima breve parentesi

www.congressofare2021.it


editoriale Salvatore Torrisi - Presidente FARE

Nuove visioni per immaginare un futuro diverso

S

e c’è una cosa che questa pandemia ci ha insegnato è che c’è urgente necessità di “nuove visioni”. Non fa eccezione il settore degli approvvigionamenti pubblici. Per questo FARE si prepara ad un appuntamento tra i più importanti della sua storia, il XXI Congresso Nazionale -che segna anche il suo sessantesimo compleanno-, con uno sguardo particolare ai nuovi scenari: “Una nuova visione per il Procurement pubblico della sanità” è il tema-chiave di questo appuntamento in calendario a Milano il 28 e 29 ottobre, con una “coda” il 30 per l’Assemblea con l’elezione del nuovo Presidente. La scelta di Milano non è casuale, anzi è densa di significati: storici, perché proprio a Milano, nel 1960, è stata fondata l’associazione e mai, sino ad oggi, il capoluogo lombardo aveva ospitato un suo congresso nazionale. Ma anche attuali, perché la Lombardia, locomotiva dell’economia italiana, è stata la Regione più colpita dall’emergenza della pandemia, ed è quella da cui, con ogni probabilità, ripartirà il cammino di ricostruzione. La cornice sarà quella del moderno Starhotels Business Palace, scelto per permettere l’affluenza di tutti i partecipanti nel rispetto delle distanze di sicurezza previste da norme e protocolli. Proprio questo è un secondo punto su cui vorrei soffermarmi: dopo il successo dell’appuntamento fiorentino del 2019, in epoca pre-Covid, abbiamo scelto di ripartire in presenza, ovviamente nella massima sicurezza, perché siamo convinti che sia necessario dare un segnale forte e sia indispensabile tornare a guardarci negli occhi, scambiarci opinioni, punti di vista, saperi, esperienze, visioni appunto. Numerosi i soggetti coinvolti: provveditori, economi e buyer ospedalieri, funzionari dei provveditorati, direttori generali ed amministrativi di aziende sanitarie, responsabili di centrali di committenza e soggetti aggregatori, docenti universitari, giuristi, consulenti ministeriali, politici. Quello che andrà in scena sarà un serrato e costruttivo confronto tra buyer della sanità, università, politica, giuristi ed imprese per comprendere se stiamo preparandoci per una rivoluzione radicale del settore o se stiamo vivendo solo l’ennesima breve parentesi che cesserà il 31.12.2021. Il Congresso si svolge dopo un anno che ha lasciato e lascerà un segno profondissimo in ognuno di noi, nella società e in particolare nella sanità pubblica. Una sanità pubblica chiamata senza preavviso a rispondere prontamente ad una catastrofe di proporzioni inimmaginabili, dopo avere vissuto decenni di continui tagli lineari e politiche gestionali tese a disarticolare le professionalità e le competenze esistenti nelle singole Aziende, per fare spazio ad un sistema di acquisti centralizzati e massificati. Nonostante queste condizioni, la risposta dei Provveditori, pur tra le enormi difficoltà a tutti note, è stata e continua ad essere efficiente ed efficace. La pandemia, come e forse più di una guerra, ha rappresentato una cesura netta con il passato e un’occasione per ripensare un futuro migliore per la sanità pubblica ritornando ad avere una progettualità di lungo periodo. Si sente urgente il bisogno di una visione di prospettiva che faccia riflettere la politica sugli errori commessi nel recente passato e che sappia immaginare il futuro possibile per il mondo degli approvvigionamenti, formulando un nuovo paradigma che riporti la sanità pubblica ai livelli di efficacia necessari per affrontare al meglio le sfide future nel segno della professionalità e della competenza.

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tutela INAIL Roberta Taurino - Direttore Amministrativo Territoriale Asl Roma 2 Mario Mazzeo - Responsabile Protezione Dati Asl Roma 2

Tutela INAIL, contagio Covid degli operatori sanitari e rispetto della privacy

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n recente intervento dell’INAIL, che si muove nel solco della più consolidata Giurisprudenza, chiarisce i termini del rapporto tra operatività della tutela prevista dall’Istituto in favore dei pubblici dipendenti vittime di infortunio professionale e contagio Covid maturato a carico di quei soggetti i quali, pur consapevoli di svolgere la propria prestazione lavorativa in un contesto caratterizzato da particolare rischio, scientemente scelgono di non vaccinarsi. A fronte di una confermata tutela anche del lavoratore che colposamente rimane vittima del contagio, rimane esclusa la responsabilità del datore di lavoro al risarcimento del danno nei suoi confronti, così come il diritto dell’Inail ad esercitare il regresso. A tal fine, però, questi dovrà essere in grado di dimostrare di aver messo a disposizione del personale l’opportunità concreta di vaccinarsi senza cadere nell’effettuazione di indagini a tappeto sulla salute dei dipendenti espressamente vietate dalla normativa vigente. Intanto il Tribunale di Belluno respinge un ricorso cautelare di alcuni OSS di due RSA sospesi dal datore di lavoro per essersi rifiutati di sottoporsi al vaccino. Con nota del 01.03.2021 indirizzata alla Direzione Regionale Liguria, la Direzione Centrale Rapporto Assicurativo dell’INAIL interviene al fine di rispondere al

quesito formulato dall’Ospedale Policlinico San Martino di Genova in merito a “se e quali provvedimenti debbano essere adottati riguardo al personale infermieristico che non abbia aderito al piano vaccinale anti-Covid-19 considerato che, pur in assenza di una specifica norma di legge che stabilisca l’obbligatorietà della vaccinazione, la mancata adesione al piano vaccinale nazionale potrebbe comportare da un lato responsabilità del datore di lavoro in materia di protezione dell’ambiente di lavoro (sia per quanto riguarda i lavoratori, che i pazienti) e dall’altro potrebbe esporre lo stesso personale infermieristico a richieste di risarcimento per danni civili, oltre che a responsabilità per violazione del codice deontologico. Nel quesito si chiede in particolare se la malattia infortunio sia ammissibile o meno alla tutela Inail nel caso in cui il personale infermieristico (ma non solo), che non abbia aderito alla profilassi vaccinale, contragga il virus.”. Nel formulare il proprio riscontro, l’Istituto sottolinea anzitutto che l’assicurazione gestita dallo stesso “opera al ricorrere dei presupposti previsti direttamente dalla legge”. Ciò posto, richiamando in tal senso quanto stabilito dall’art. 65 del DPR 1124/1965 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), la Direzione Centrale rammenta che la tutela INAIL può essere esclu-

Il rifiuto di vaccinarsi, configurandosi come esercizio della libertà di scelta del singolo individuo rispetto ad un trattamento sanitario, ancorché fortemente raccomandato dalle autorità, non può costituire un’ulteriore condizione a cui subordinare la tutela assicurativa dell’infortunato


tutela INAIL sa soltanto in caso di “infortunio doloso” mentre la stessa opera anche in caso di infortuni “derivanti da colpa”. Più precisamente, afferma la nota, “Sotto il profilo assicurativo, per giurisprudenza consolidata il comportamento colposo del lavoratore, tra cui rientra anche la violazione dell’obbligo di utilizzare i dispositivi di protezione individuale, non comporta di per sé, l’esclusione dell’operatività della tutela prevista dall’assicurazione gestita dall’Inail.”1. D’altra parte, però, “Il comportamento colposo del lavoratore può invece ridurre oppure escludere la responsabilità del datore di lavoro, facendo venir meno il diritto dell’infortunato al risarcimento del danno nei suoi confronti, così come il diritto dell’Inail ad esercitare il regresso nei confronti sempre del datore di lavoro…”2. Sebbene, dunque, la violazione delle norme antinfortunistiche da parte del lavoratore debba essere considerata un comportamento sicuramente illecito, tale illiceità non determina in alcun modo come evento “non indennizzabile” l’infortunio patito “in quanto la colpa dell’assicurato costituisce una delle possibili componenti causali del verificarsi dell’evento (insieme al caso fortuito, alla forza maggiore, al comportamento del datore di lavoro ed al comportamento del terzo).”. A ciò si aggiunga che “…il rifiuto di vaccinarsi non può configurarsi (neppure) come assunzione di un rischio elettivo, in quanto il rischio di contagio non è certamente voluto dal lavoratore e la tutela assicurativa opera se e in quanto il contagio sia riconducibile all’occasione di lavoro, nella cui nozione rientrano tutti i fatti, anche straordinari ed imprevedibili, inerenti l’ambiente, le macchine, le persone, compreso il comportamento dello stesso lavoratore, purché attinenti alle condizioni di svolgimento della prestazione.”. Vero è poi che, allo stato attuale della legislazione, non si rinviene uno specifico obbligo di aderire alla vaccinazione da parte del lavoratore. In tal modo “il rifiuto di vaccinarsi, configurandosi come esercizio della libertà di scelta del singolo individuo rispetto ad un trattamento sanitario, ancorché fortemente raccomandato dalle autorità, non può costituire una ulteriore condizione a cui subordinare la tutela assicurativa dell’infortunato.”.

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Ovviamente, conclude la nota, quanto chiarito “non comporta l’automatica ammissione a tutela del lavoratore che abbia contratto il contagio e non si sia sottoposto alla profilassi vaccinale in quanto, come precisato nella circolare n. 13/2020, occorre comunque accertare concretamente la riconduzione dell’evento infortunistico all’occasione di lavoro.”3. Interessante, in questo contesto, dare conto anche di una recentissima ordinanza emessa dal Tribunale di Belluno4 con la quale è stato respinto il ricorso cautelare presentato da una decina di Operatori Socio Sanitari di due RSA che avevano impugnato la decisione datoriale di sospendere – senza stipendio – il rapporto di lavoro a seguito

1 Ex multis Corte di Cassazione Sezione Lavoro Ordinanza 19 marzo 2019 n. 7649 secondo cui “Nell’ipotesi di infortunio sul lavoro del lavoratore, il comportamento colposo di quest’ultimo può ridurre oppure esimere, se esclusiva, la responsabilità dell’imprenditore, escludendo il diritto dell’infortunato al risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro, così come il diritto dell’INAIL di esercitare l’azione di regresso nei confronti del datore; esso non comporta invece, di per sé, l’esclusione dell’operatività dell’indennizzo sociale previsto dall’assicurazione gestita dall’INAIL, che ha la finalità, in armonia con gli artt.32 e 38 della Cost., di proteggere il lavoratore da ogni infortunio sul lavoro (appunto anche da quelli derivanti da colpa) e di garantirgli i mezzi adeguati allo stato di bisogno discendente dalle conseguenze che ne sono derivate.”. 2 Con un’importante precisazione sottolineata da costante giurisprudenza secondo cui “Il datore di lavoro, in caso di violazione della disciplina antinfortunistica, è esonerato da responsabilità soltanto quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri dell’abnormità, imprevedibilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, mentre, qualora nella condotta del lavoratore non ricorrano detti caratteri, l’imprenditore è integralmente responsabile dell’infortunio che sia conseguenza dell’inosservanza delle norme antinfortunistiche, poiché la violazione dell’obbligo di sicurezza integra l’unico fattore causale dell’evento, non rilevando in alcun grado il concorso di colpa del lavoratore.” (Corte di Cassazione Sezione Lavoro Sentenza 17 gennaio 2018 n. 1045). 3 “Ne discende che, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale.” Circolare INAIL n. 13 del 3 aprile 2020. 4 n. 12/2021 del 19/03/2021 – Dott.ssa Anna Travìa.


tutela INAIL

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del giudizio di inidoneità al servizio emessa dal medico competente che li aveva sottoposti a visita dopo il loro rifiuto di vaccinarsi. A fare da contraltare all’invocato rispetto del diritto costituzionalmente sancito a non vaccinarsi “per forza”, il Giudice, con una scelta invero condivisibile, pone il dettato dell’art. 2087 c.c. a mente del quale “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.”. Se dunque, prosegue l’ordinanza, rientra nel novero dei c.d. “fatti notori” “l’efficacia del vaccino … nell’impedire l’evoluzione negativa della patologia causata dal virus”, così come è incontestato “che i ricorrenti sono impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro”, “è, pertanto, evidente il rischio per i ricorrenti di essere contagiati”. Da qui la conclusione che “la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. il quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei suoi dipendenti”. Una decisione che, prima nel suo genere, non mancherà di suscitare dibattito. Sul tema, ad esempio, potrà da un lato essere innestato un riferimento – perfettamente in linea con gli orientamenti del Tribunale – alla normativa portata dal D.Lgs. 81/08 e s.m.i. in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro e forse anche una considerazione più ampia dell’art. 32 della Costituzione come fonte di un diritto alla salute non limitato al singolo individuo, ma, dall’altro, si chiederà di considerare anche la possibilità di un diverso impiego dei lavoratori che non vogliono vaccinarsi in contesti operativi che non pongano a rischio la salute loro e di altri5. Fermo quanto precede, comunque, non v’è dubbio che la responsabilità del datore di lavoro e la conseguente tutela risarcitoria in situazioni di “infortunio” come quelle descritte, potrà essere esclusa soprattutto in relazione al fatto che il dipendente vi sia incorso nonostante tutte le misure di contenimento del rischio adottate dal datore di lavoro ivi compresa l’esortazione alla vaccinazione e la messa a disposizione di specifico vaccino. Proprio a questo fine potrà essere necessario per il datore di lavoro dotarsi di elementi probatori che dimostrino di aver posto a disposizione dei propri dipendenti tutti gli strumenti necessari a tutelare al meglio la loro salute. Particolare attenzione dovrà essere dedicata, dunque, al reiterato invito alla popolazione aziendale esposta al

rischio contagio di sottoporsi al vaccino mediante il ricorso non solo e non tanto a generici inviti, bensì a specifici richiami a fruire di tale possibilità accompagnati da concreti elementi informativi e organizzativi utili a consentire la reale fruibilità dello strumento vaccinale. D’altro canto, sarà cura del datore di lavoro documentare adeguatamente (ad esempio mediante invio delle comunicazioni massive agli indirizzi di posta elettronica aziendale dei dipendenti così come facendo ricorso ad accorgimenti informatici idonei a comprovare il corretto invio e l’eventuale ricezione degli avvisi) tale attività. Quanto precede senza dimenticare, però, che ai sensi della normativa vigente – il D.Lgs. 81/08 e s.m.i, ma anche la normativa posta a tutela della c.d. “privacy”, il datore di lavoro non è legittimato – salvi casi eccezionali – a conoscere dello stato di salute dei propri dipendenti ivi incluse le informazioni sul loro stato vaccinale. In questo senso, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, con le FAQ pubblicate lo scorso 01.03.2021, ha chiarito che “Il datore di lavoro non può chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale o copia di documenti che comprovino l‘avvenuta vaccinazione anti Covid-19…” né può trattare queste informazioni seppure con consenso esplicito degli stessi. E dunque “…solo il medico competente (che, lo si ricorda, nell’adempimento dei propri compiti opera quale autonomo titolare del trattamento dati personali), nella sua funzione di raccordo tra il sistema sanitario nazionale/locale e lo specifico contesto lavorativo e nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie anche in merito all’efficacia e all’affidabilità medico-scientifica del vaccino, può trattare i dati personali relativi alla vaccinazione dei dipendenti e, se del caso, tenerne conto in sede di valutazione dell’idoneità alla mansione specifica. Il datore di lavoro dovrà invece limitarsi ad attuare le misure indicate dal medico competente nei casi di giudizio di parziale o temporanea inidoneità alla mansione cui è adibito il lavoratore.”. Anche allo scopo di evitare contestazioni circa il corretto adempimento delle previsioni di cui al Regolamento 2016/679/UE, al D.Lgs. 196/2003 e s.m.i., nonché al D.Lgs. 81/2008 e s.m.i., nell’ambito delle Aziende e delle Strutture Sanitarie occorrerà quindi prediligere il ricorso a procedure organizzative poste sotto il diretto controllo del medico competente che consentano di somministrare il vaccino ai dipendenti senza per questo mettere a conoscenza il datore di lavoro di informazioni che lo stesso non può conoscere giacché lesive della dignità e riservatezza dei dipendenti, nonché della normativa vigente in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

5 Anche se, nella realtà delle strutture sanitarie si fatica a comprendere come possano essere ricollocati i professionisti che non intendono vaccinarsi senza che per questo si determini il rischio, come minimo, di un loro demansionamento de facto.


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il dopo covid19 bacchettone Salvator Maira - Président de l’UGAS - Union Générale des Achats de Santé Traduzione: Gianni Conti

Strategia di acquisto per il dopo-Covid19: e dopo?

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epidemia di Covid-19 che stiamo vivendo sta interessando molti settori e professioni e in particolare le direzioni degli acquisti e della supply chain. L’indebolimento della domanda, l’interruzione dell’offerta, il fermo della produzione, la carenza di trasporti e la mancanza di manodopera sono tra gli impatti diretti e chiari che esse devono affrontare. Il fatto che le direzioni degli acquisti operino in un ambiente spesso qualificato come: “volatile, incerto, complesso e ambiguo”, inoltre, rende il loro funzionamento difficile da gestire; soprattutto in tempi di crisi. Quali sono, quindi, le risposte che possono fornire per affrontare al meglio il dopo-COVID-19 e la crisi economica che seguirà? Inoltre, quali sono le lezioni che la funzione può trarre da questa situazione? Affrontare una crisi non è facile in quanto non esiste una ricetta magica per affrontarla nel migliore dei modi. Tuttavia, alcune regole generali sono essenziali e possono aiutare le organizzazioni in questo momento di incertezza. Gli esperti propongono numerosi suggerimenti e raccomandazioni. Quindi, possiamo ricordare 7 buone pratiche di acquisto da adottare nel breve e lungo termine per aiutare la funzione nella sua gestione delle crisi. Pratiche a breve termine 1. Anticipare e prepararsi agli scenari peggiori: in qualità di acquirente, per pianificare le riserve, è essenziale identificare tutte le merci che potrebbero subire ritardi nella consegna o essere carenti nelle quantità. 2. Mantenere il contatto con i propri fornitori: rimanere informati e comunicare con i propri fornitori è un elemento cruciale per garantire la continuità delle forniture. Si consiglia inoltre vivamente di eseguire un programma di gestione del rischio a monte e identificare i fornitori secondari per i beni essenziali. 3. Ridurre strategicamente i costi esterni: se l’azienda per cui lavora l’acquirente deve affrontare una significativa diminuzione della sua domanda, è consigliabile che quest’ultima lavori a stretto contatto con i suoi fornitori al fine di ridurre i costi esterni e rimanere competitiva sul mercato. Si possono quindi considerare variazioni di prezzi e condizioni, così come l’adozione di prodotti alternativi. In questo modo, è possibile evitare la riduzione di alcuni

budget chiave dell’organizzazione. Pratiche a lungo termine 4. Rimanere agili: per fare ciò, le parole chiave sono: anticipazione, previsione e velocità. Gli uffici acquisti devono essere in grado di prevedere le tendenze del mercato, di pianificare i rischi relativi ai propri fornitori e di fornire rapidamente le risposte necessarie. 5. Costruire un programma di gestione del rischio: La creazione di un programma di questo tipo è un passo fondamentale se l’acquirente intende essere preparato al meglio per il futuro. Nello stesso tempo, è utile per lui stabilire contatti con i fornitori secondari per prodotti e servizi di grande importanza e integrarli in un programma di onboarding (socializzazione organizzativa). 6. Ridurre i costi investendo in tecnologie: la valutazione delle prestazioni e dei costi dei processi di acquisto può essere effettuata utilizzando soluzioni di analisi avanzate. In questo modo, l’acquirente sa esattamente quali sono le aree costose o di scarso valore in cui è possibile effettuare le riduzioni. 7. Abbracciare le soluzioni di automazione: l’automazione ha più volte dimostrato la sua efficacia. Così, optando per soluzioni paperless (come Net4market.com, ad esempio), la funzione acquisti potrebbe ridurre i propri costi in media di oltre il 20%, un vantaggio in tempi di crisi. ISOLAMENTO: QUALI CONSIGLI PER I DIRETTORI DEGLI ACQUISTI? La prima fase di confinamento è iniziata lo scorso maggio. Sebbene il telelavoro rimanga la norma, nelle prossime settimane, i responsabili degli acquisti dovrebbero gestire un graduale ritorno in ufficio del loro team. Ecco 3 suggerimenti per aiutarli ad anticipare al meglio questa uscita dal confinamento. 1. Dare fiducia: il telelavoro è - per definizione - una pratica che si svolge a distanza. Per diverse settimane, quindi, il manager non ha avuto il controllo diretto dei dipendenti. Per molte organizzazioni, tuttavia, la missione di acquisto è stata soddisfatta. Quindi, secondo gli esperti intervistati, la gestione basata sulla fiducia è da privilegiare. 2. Mantenere le abitudini di lavoro adottate: in questo periodo di confinamento, dai team di lavoro sono stati adottati


il dopo covid19 nuovi riti e pratiche: riunioni settimanali, condivisione della gestione di file, comunicazioni più sintetiche, gestione dei commenti e delle parole chiave, ecc. È quindi interesse del Direttore Acquisti mantenerli al fine di garantire la buona coesione del suo team e guadagnare in efficienza. 3. Coltivare il coinvolgimento del team: la crisi e le sue conseguenze (interruzione della catena di fornitura, carenza di manodopera, ecc.) Hanno spinto i team di acquisto ad adattarsi e innovare. È quindi essenziale che il Direttore Acquisti sviluppi questa dinamica. LEZIONI DA APPRENDERE PER LA FUNZIONE DEGLI ACQUISTI “La gestione del rischio deve essere al centro delle strategie aziendali e deve essere migliorata attraverso i migliori strumenti di analisi e un rapporto di partnership con i fornitori”. Infatti, questa crisi ha dimostrato l’importanza per la funzione di effettuare analisi dei rischi più approfondite, monitorate e digitalizzate, e di instaurare rapporti sicuri e di partnership con i propri fornitori. COME COSTRUIRE UN MODELLO RESILIENTE Con la crisi sanitaria che stiamo vivendo, un intero ecosistema si sta indebolendo. Questa situazione è ancora più accentuata dal principio di esternalizzazione delle attività che ha contraddistinto l’ultimo decennio. Quindi, è necessario garantire e anticipare l’avvio dopo il confinamento, costruendo un modello resiliente. Controllo dei rischi Il primo passo per garantire l’approvvigionamento sarà controllare i rischi. Per fare ciò, sarà necessario identificare diversi scenari in base alla proiezione della domanda, ai livelli di scorte e ai potenziali partner in grado di soddisfare queste esigenze. Anticipazione e prevenzione saranno quindi le parole chiave. Per farlo: Stabilire i diversi scenari e generare una ricorrenza di aggiornamenti, Riorganizzare le priorità e ridefinire l’urgenza (rilascio di nuovi prodotti, innovazioni, ecc.), Lavoro sul panel: riclassificare i fornitori di rango 2 o 3 che possono bloccare la catena logistica (es. Un piccolo vettore può bloccare l’intera catena). Nuova strategia di approvvigionamento Il processo di garanzia degli approvvigionamenti richiede di combinare la definizione dei cosiddetti bisogni “urgenti” e l’identificazione di attori / partner in grado di soddisfare questi bisogni. L’approvvigionamento sarà quindi la punta di diamante di questa nuova era. La strategia del fornitore dovrà essere adattata mediante il seguente meccanismo:

Mappa delle imprese che cambiano destinazione, Promuovere il principio di prossimità e di legame con il territorio, Supportare il cambio di destinazione. CRITERI L’obiettivo non sarà più cercare la massificazione e la riduzione dei costi, ma cercare la reattività unita alla qualità. Molti di noi hanno recentemente assistito a un calo crescente del livello dei prodotti importati, soprattutto di quelli sanitari e di prima necessità. Non chiudere la componente RSA (Responsabilità Sociale e Ambientale), cosa che resta comunque e sempre possibile: Includere il settore adattato, che sa perfettamente essere flessibile e soddisfare i requisiti QCD (qualità, costi, tempi) così come un’azienda ordinaria (il mio supporto agli uffici acquisti negli ultimi anni ha dimostrato che i dipartimenti non sono ancora abbastanza aperti sull’argomento). Incoraggiando le innovazioni, è in questi tempi di crisi che prendono vita le innovazioni più belle. IL MULTI-SOURCING Massificare dei bisogni, indurre strutture polimorfiche e “Taylorizzare” la domanda non funzionerà più a medio o breve termine. Sarà necessario essere circondati da diversi partner e facilitare la comunicazione con i fornitori. Può essere che la benevolenza inizi da lì? Le scorte tenderanno a diminuire molto rapidamente e un numero limitato di partner non farà altro che ridurre le possibilità di approvvigionamento. Possiamo constatare che il multi-sourcing è facilitato dalla rete locale e dal supporto per i medici prescrittori su designazioni di prodotti o modifiche generiche (esempio: sostituzione di camici con grembiuli da parrucchiere usa e getta). L’agilità sarà quindi un ingrediente essenziale. GLI STRUMENTI Anche la digitalizzazione dei dati (che arriveranno da diversi canali) sarà un vettore essenziale di successo, affidandosi in particolare alla tecnologia di e-Sourcing per beneficiare delle referenze dei fornitori. Costoro si rivolgono sempre più a elenchi con strumenti di tipo Marketplace e, a seconda della maturità, offrono cataloghi punch-out.1 (Esempio UGAS) Infine, utilizzare la propria rete! Situazione di crisi: gestione del cambiamento e gestione multisito adattata. Una gestione del cambiamento accelerata e di successo sarà basata sull’implementazione e la padronanza dei seguenti elementi.

1 Un catalogo PunchOut è una soluzione di e-procurement che fornisce l accesso al catalogo del fornitore dall’interfaccia del sito web del fornitore. Un cliente “inserisce” un’applicazione di approvvigionamento nel sito originale, ottiene l’accesso al catalogo del fornitore, può aggiungere articoli al carrello.

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il dopo covid19 PILOTAGGIO Stabilire un monitoraggio appropriato e regolare, sia internamente che con i fornitori. COMUNICAZIONE Stabilire una comunicazione esterna quotidiana con i fornitori per misurare le loro scorte e avere una visione dei loro approvvigionamenti, Semplificare la comunicazione interna “multi-business” con una modalità di riunione in piedi2 (tipo SQCDP Safety, Quality, Cost, Delivery and People - Sicurezza, Qualità, Costi, Consegne e Persone). IL PROCESSO ADATTATO Implementazione di un processo fluido e adattato e di strumenti digitali (tipo e-Procurement): per aumentare la reattività e sapere come effettuare ordini urgenti mantenendo il controllo sugli acquisti, Proteggere il suo processo P2P (Procure to Pay – Processo di acquisto dalla richiesta d’acquisto al pagamento) in modo

da non aumentare il rischio di perdere i suoi partner “per motivi di pagamento delle fatture”. IL QUADRO GIURIDICO Aggiornare in modo massiccio le clausole contrattuali alla luce dei cambiamenti del quadro giuridico, come i cambiamenti nel quadro per “forza maggiore”. In conclusione Per rispondere e adattarsi rapidamente a questo nuovo sistema, ogni direzione dovrà essere aperta agli sconvolgimenti strategici. Possiamo prendere come riferimento una competitività più misurata dei suoi partner, che non dovrebbe essere un freno. Alcuni diranno che questa situazione di crisi non avrà alcun impatto positivo sul nostro ecosistema. Tuttavia, rivedremo forse il nostro modello di ricollocazione massiva verso una rifocalizzazione geografica delle nostre richieste? Vogliamo credere in questa revisione del tessuto economico e sociale.

2 Una stand-up meeting (riunione in piedi) è una riunione a cui i partecipanti in genere partecipano stando in piedi. Il disagio di stare in piedi per lunghi periodi ha lo scopo di mantenere brevi le riunioni.

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sicomunica.com

22a mostra internazionale al servizio della sanità e dell’assistenza

4|5|6|7 maggio 2022

In collaborazione con

e

Progetto e direzione

www.exposanita.it


gestione Riccardo Bond - Avvocato Amministrativista presso lo Studio Legale Miniero

Farmaci biologici: sì all’acquisto anche se non inclusi nell’accordo quadro. Il caso particolare della Regione Piemonte vista dalla sentenza n. 8370/2020 del Consiglio di Stato Una Regione può porre un limite di rimborsabilità di farmaci in fascia H, usando come presupposto l’esclusione da una procedura di accordo quadro?

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Negli scorsi mesi la giustizia amministrativa si è trovata a dirimere una questione giuridica molto interessante in materia di acquisto di farmaci biologici. I farmaci biologici hanno avuto negli ultimi anni un particolare interesse da parte di EMA, l’Agenzia del Farmaco Europea, in quanto quest’ultima non ha preso una posizione univoca sulla possibilità di sostituire automaticamente con il farmaco biosimilare. Nell’ambito dei farmaci biologici, una volta scaduta l’esclusiva brevettuale, è possibile per altri soggetti economici mettere in produzione farmaci aventi la stessa molecola, tuttavia le evidenze scientifiche dicono che questi prodotti non sono delle copie esatte dei farmaci originatori, al contrario di quanto avviene nei prodotti di sintesi chimica. Come ricordato da AIFA: “I farmaci biosimilari sono medicinali “simili” per qualità, efficacia e sicurezza ai farmaci biologici di riferimento e non soggetti a copertura brevettuale. Un biosimilare e il suo prodotto di riferimento, pur essendo di fatto la stessa sostanza biologica, possono presentare differenze minori dovute a un certo grado di variabilità naturale, alla loro natura complessa e alle tecniche di produzione.”. Questa differenza sostanziale ha portato il legislatore a introdurre con Legge di Stabilità 2017 (L 232/2016) il comma 11-quater dell’art. 15 del DL 95/2012 (convertito con L 135/2012), anche noto come uno dei “decreti spending review”. Ed è proprio la scelta del legislatore ad inserire la norma in un testo che ha per oggetto principale il contenimento della spesa pubblica, ad aver spinto molti commentatori a porre particolarmente l’accento sull’opportunità di mettere l’aspetto finanziario in primo piano. In realtà la norma in questione non mira ad ottenere il

massimo risparmio, ma piuttosto a razionalizzare la spesa pubblica, premiando maggiormente quei prodotti farmaceutici che consentono un minor esborso di denaro pubblico. Per ottenere questo risultato la norma ha introdotto una forma di accordo quadro, obbligatorio quando i prodotti alla base della stessa molecola sono almeno quattro. Ed è proprio da questo particolare strumento di acquisto che prende forma la questione giuridica proposta in prima battuta al TAR per il Piemonte da due case farmaceutiche. La questione può essere così sintetizzata: in una gara indetta dalla Centrale Unica di Acquisto regionale, per l’approvvigionamento della molecola Adalimumab, il produttore del farmaco originatore e un biosimilare vengono esclusi dalla gara, in quanto le offerte proposte superavano, in rialzo, la base d’asta. Sin qui la questione non appare molto diversa da tante altre, dove la stazione appaltante fissa un prezzo da cui si apre la competizione cercando di far ottenere il maggior risultato economico a colpi di ribassi. La questione proposta dinnanzi al Collegio piemontese è diversa, perché la doglianza non risiede nella semplice esclusione da una procedura di acquisto, ma da una disposizione contenuta in un chiarimento effettuato dalla stazione appaltante, che porrebbe i farmaci esclusi come non rimborsabili dal SSN e, quindi, rendendone praticamente impossibile la prescrizione nell’ambito regionale. Secondo la lettura proposta dalla Regione Piemonte per tramite del suo soggetto aggregatore, i farmaci biologici che non presentano offerte inferiori alla base d’asta, non possono essere messi a disposizione di nessun medico e quindi di nessun paziente in cura con il SSR. Questa interpretazione rappresenta un unicum mai replicato da nessuna Regione e il motivo è da ricercarsi nella carenza di competenza legislativa: le modalità di accesso sul territorio nazionale dei farmaci e la loro classificazione


gestione (compresa la classe di rimborsabilità), sono di esclusiva competenza dello Stato e, quindi, la Regione non può ad esso sostituirsi decidendo quali farmaci possono essere rimborsati. La ragione appare facilmente comprensibile: lo Stato, tramite l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), stabilisce il prezzo massimo di rimborso dei farmaci appartenenti alle classi H e A, il quale costituisce il limite massimo di cessione alle Aziende sanitarie presenti sul territorio. Grazie alle procedure di gara questo prezzo viene migliorato ulteriormente per effetto di una sorta di negoziazione competitiva decentrata, ma che deve sempre salvaguardare la libertà prescrittiva del medico curante prevista dalla Costituzione. Ed è proprio qui che la sentenza n. 465/2020 nel TAR Piemonte appare contraria a quanto stabilito dal legislatore nazionale, quando nega l’erogabilità a carico del SSN di un farmaco che non risulta ammesso ad una procedura di gara. Nella sentenza del Collegio piemontese si legge: “i farmaci esclusi dalla procedura perché l’offerta è superiore alla base d’asta, come nel caso in esame, potranno sempre essere prescritti dai medici, ma il costo relativo non graverà sul servizio sanitario nazionale “eventuali oneri economici aggiuntivi, derivanti dal mancato rispetto delle disposizioni del presente comma, non possono essere posti a carico del Servizio sanitario nazionale”. L’interpretazione del TAR Piemonte si basa unicamente sulla lettura dell’ultimo capoverso del comma 11-quater dell’art. 15 del DL 95/2012 dove si legge che “eventuali oneri economici aggiuntivi, derivanti dal mancato rispetto delle disposizioni del presente comma, non possono essere posti a carico del Servizio sanitario nazionale.”. Gli “oneri economici aggiuntivi”, secondo la Regione Piemonte e secondo il TAR, sarebbero quindi da rinvenirsi in quei farmaci che hanno offerto non in linea con la base d’asta, per i quali vi sarebbe una punizione aggiuntiva ad essere esclusi dall’accordo quadro: l’ostracismo dalle forniture pubbliche per la durata dell’accordo quadro, anche a fronte di una puntuale ed appropriata prescrizione medica che richieda lo specifico farmaco escluso dalla procedura. Si tratta di una interpretazione ardita, ma priva di solidi riferimenti legislativi che possano supportare un

ragionamento giuridico che non appare in linea con il diritto alla salute pensato dai nostri Padri Costituenti. Un ragionamento che se portato all’eccesso potrebbe far sorgere il dubbio che un farmaco escluso da una procedura di gara potrebbe non essere prescritto dal medico curante, perché non rimborsabile e questo anche se AIFA ha attribuito al farmaco la classe H. Per inquadrare correttamente il problema giuridico bisogna farsi la seguente domanda: può una norma che regolamenta le modalità di acquisto dei farmaci biologici e dei loro biosimilari, impattare sul sistema delle forniture pubbliche al punto da istituire un impedimento (di fatto) alla prescrizione per i farmaci che vengono esclusi da una procedura di gara? Ricordiamo, preliminarmente, che il Consiglio di Stato ha più volte ritenuto che non vi sia un onere per la pubblica amministrazione a servirsi del farmaco in assoluto più evoluto, soprattutto se questo è più costoso di altro di pari e sicura efficacia nella terapia nella maggior parte dei casi trattati. Tuttavia la pubblica amministrazione deve garantire la possibilità di acquisire un farmaco non aggiudicatario di una procedura di gara, anche se più costoso, se ciò si rivela realmente necessario per un trattamento terapeutico adeguato ad una parte dei pazienti. (ex plurimis, Cons. St., zez. III, 3 dicembre 2015 n. 5476; Cons. St., sez. III, 14 novembre 2017, n. 5251). La normativa peculiare per l’acquisto di farmaci biologici inserita nel DL 95/2012, ad avviso di chi scrive, non ha come finalità principale quello di ridurre il mercato delle terapie disponibili, al contrario, intende incentivare l’utilizzo di un’unica procedura per contrattualizzare più prodotti possibili. La gara impugnata dinnanzi al TAR Piemonte era un accordo quadro, così come previsto dal comma 11-quater dell’art. 15 del DL 95/2012, il quale prevede un meccanismo di affidamento molto particolare: quando i prodotti farmaceutici biologici, a base del medesimo principio attivo, sono almeno 4, vi è l’obbligo all’utilizzo dell’accordo quadro. La legge prevede che l’acquisto dei primi 3 farmaci in graduatoria sia libera, mentre gli altri farmaci vengono contrattualizzati ma possono essere prescritti solo per la continuità terapeutica.

Il Consiglio di Stato ha ribadito che l’accordo quadro previsto per l’approvvigionamento per l’acquisto di farmaci biologici ha lo scopo di includere più farmaci possibile e non di premiare solo chi fa offerte in linea con le aspettative della stazione appaltante

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gestione

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Il legislatore ha ben compreso che nel mercato dei farmaci biologici non è utile effettuare una procedura di gara avente un unico vincitore, perché l’ampliamento della platea dei soggetti che possono divenire aggiudicatari fa si che la competizione aumenti. La struttura dell’accordo quadro consente di superare la gara monoaffidatario e ciò spinge il mercato a formulare un’offerta che miri, primariamente, ad inserirsi tra i primi 3 della graduatoria in quanto la prescrizione di tali farmaci è libera e priva di obbligo di motivazione. In questo modo anche i prezzi offerti da chi si classifica dal quarto posto in poi è frutto di un meccanismo competitivo e ciò si riflette positivamente sul conto economico del SSN. Nelle procedure a singolo aggiudicatario ciò non avviene, in quanto i soggetti che non hanno offerto il ribasso più conveniente non vengono vincolati con un contratto e, di conseguenza, non saranno tenuti ad applicare gli stessi prezzi offerti in gara per le eventuali richieste di continuità terapeutiche. Queste ultime potranno avere luogo solo mediante negoziazioni separate (spesso individuali e, quindi, di tipo non competitivo). È la procedura di acquisto che ha la funzione di creare una competizione diretta con il mercato, allo scopo di avere un prezzo migliorativo rispetto a quello ottenuto a livello centrale da AIFA. Fatte queste dovute considerazioni si comprende meglio che il ragionamento proposto dalla centrale unica di acquisto della Regione Piemonte, ha l’effetto (ma non le intenzioni) di andare contro lo spirito del comma 11-quater dell’art. 15 del DL 95/2012. L’accordo quadro previsto dalla legge per i farmaci biologici ha la finalità di includere nella procedura quanti più prodotti possibili, mentre la procedura indetta dalla centrale unica di acquisto piemontese è riuscita ad escludere due prodotti (tra cui il farmaco originatore, ossia l’unico che per normativa può essere intercambiato con un suo biosimilare). Il Consiglio di Stato ha avuto l’arduo compito di dirimere la questione. La sentenza n. 8370/2020 espressa dalla terza sezione del Consiglio di Stato ha confermato la legittimità di porre una base d’asta che non tenga conto di tutti i prezzi del mercato e che, quindi, possa escludere dall’accordo quadro farmaci ritenuti “troppo costosi”. Tale principio rappresenta una conferma di un orientamento ormai pacifico che il giudice amministrativo osserva da molto tempo, quindi sotto questo profilo non c’è una vera innovazione. Tuttavia l’esclusione o la non ammissione dei farmaci aventi un prezzo più alto della base d’asta, non può tradursi in un divieto di acquisto ovvero una preclusione alla prescrizione da parte del clinico, che non può essere limitata con clausole regionali di non rimborsabilità. Il Consiglio di Stato riepiloga alcuni principi cardine del

nostro SSN e della modalità di erogazione di farmaci per i quali è prevista la fascia H, quindi con somministrazione mediante struttura sanitaria e piena rimborsabilità dal SSN. Nella sentenza di legge: “il farmaco [omissis, da sostituirsi con l’espressione “farmaco originatore”] rientra nella fascia H per l’essenzialità del principio attivo adalimumab che ne è alla base, esso è sempre e comunque rimborsabile dal Servizio sanitario nazionale, laddove il medico, nella sua autonomia prescrittiva, ritenga necessario somministrarlo al paziente al fine di garantire la continuità terapeutica e, pertanto, la circostanza che esso non figuri tra i primi tre farmaci nella graduatoria dell’accordo-quadro o, addirittura, non sia stato ammesso alla gara per avere [omissis, da sostituirsi con “produttore del farmaco originatore] presentato un’offerta superiore alla base d’asta – pur rientrando, in linea di principio, fra quelli concorrenti al lotto unico di cui alla lett. a) dell’art. 15, comma 11-quater – non determina alcun limite né alla prescrittibilità del farmaco, da parte del medico che lo ritenga necessario sulla base di adeguata motivazione, né alcun limite alla rimborsabilità del farmaco stesso che, in quanto inserito in fascia H, è sempre e comunque rimborsato dal Servizio sanitario nazionale.”. L’orientamento del Consiglio di Stato appare laconico nel ricordare che la normativa nazionale non consente alle Regioni di poter stabilire mediante una procedura di


gestione appalto, quali siano i farmaci rimborsabili dal SSN, perché quella prerogativa è riservata per legge ad AIFA. È la fascia di rimborsabilità stabilita da AIFA che determina la rimborsabilità dal SSN e SSR, quindi l’inclusione o meno del prodotto in una procedura di gara comporta, semmai, l’obbligo per la stazione appaltante ad avviare un appalto specifico per l’acquisto del farmaco escluso, laddove vi sia una prescrizione medica appropriata e motivata. Non può esistere un automatismo che vieti la rimborsabilità, a livello regionale, prescindendo dalla valutazione medica sull’appropriatezza della richiesta del curante. Quindi l’interpretazione proposta dal TAR Piemonte sul fatto che il comma 11-quater dell’art. 15 del DL 95/2012, all’ultimo periodo faccia presupporre che i farmaci più costosi non possano essere posti a carico del SSN e SSR, viene destituita di ogni fondamento dalla Suprema Corte Amministrativa. Nella sentenza del Consiglio di Stato sul punto si legge: “Nell’adozione di questa necessaria linea interpretativa si spiega allora come il legislatore, quando nell’art. 15, comma 11-quater, lett. b), del d.l. n. 95 del 2012, allude ai farmaci “inclusi” nella procedura di cui alla lett. a), prescrivibili dal medico oltre ai primi tre classificati, non intenda riferirsi, come sembra avere ritenuto il primo giudice, ai (soli) farmaci ammessi alla gara e/o classificatisi dopo il terzo, ma a tutti i farmaci che, da un punto di vista scientifico, per medesimo principio attivo, per medesimo dosaggio e per medesima somministrazione, hanno le caratteristiche di biosimilarità per rientrare nello stesso lotto unico, perché, diversamente ragionando e considerando, peraltro in modo antiletterale, l’espressione “inclusi” come sinonimo di “ammessi”, l’esclusione dalla gara nei confronti del farmaco più costoso, ma necessario in rapporto al singolo paziente quantomeno per ragioni di continuità terapeutica, costituirebbe un limite irragionevole alla prescrizione del farmaco da parte del medico o alla sua rimborsabilità, nonostante la sua (permanente) insostituibilità per il singolo paziente, e dunque un ostacolo inaccettabile, per mere ragioni di risparmio, al fondamentale diritto alla salute del paziente stesso, con evidente violazione dell’art. 32 Cost.”. Il Consiglio di Stato è molto chiaro nel definire che la norma sull’acquisto dei biosimilari, quando dice (alla lettera c)) “Il medico è comunque libero di prescrivere il farmaco, tra quelli inclusi nella procedura [...]” non intende creare un limite di acquistabilità dei farmaci. Questa è l’unica interpretazione possibile, secondo il Collegio giudicante, dal momento che il medico è sempre libero di prescrivere qualsiasi farmaco approvato da AIFA, a prescindere se la stazione appaltante abbia o meno indetto una procedura di gara per il suo acquisto. Non può, infatti, essere l’esistenza di un contratto di fornitura a determinare se un farmaco può essere messo a disposizione del paziente, semmai è il contrario. Aver già contrattualizzato uno o più farmaci prima che il

medico curante ne faccia richiesta, rappresenta un atto di lungimiranza dell’Ente sanitario e denota adeguata programmazione dei bisogni da parte della stazione appaltante. In conclusione questa sentenza, se vogliamo fare un parallelismo culinario, ha un gusto agrodolce. La parte “agro” è quella che continua a non ritenere la stazione appaltante onerata a dimostrare di non aver previsto una base d’asta che ha un effetto escludente di alcuni soggetti di mercato, con effetti espulsivi di alcuni prodotti farmaceutici. Il Consiglio di Stato conferma che tale pratica è legittima in quanto, a suo parere, non c’è danno al mercato. Tale ragionamento è supportato dalla considerazione giuridica che l’esclusione da una procedura di gara di un prodotto farmaceutico, non si tramuta automaticamente in un divieto di acquisto, che deve sempre essere garantito a fronte di una prescrizione medica adeguata. La parte “dolce” è rappresentata dal fatto che il Consiglio di Stato interpreta le prescrizioni dei comma 11-quater, lettere c), b) ed e) dell’art. 15 del DL 95/2012, come volte a garantire anche l’approvvigionamento di farmaci esclusi dall’accordo quadro. Secondo il supremo giudice amministrativo dovrebbe essere interesse della stazione appaltante includere tutti i prodotti presenti sul mercato nell’accordo quadro, perché laddove il medico prescrittore ne richiedesse uno non ricompreso nell’accordo, sarebbe onere della stazione appaltante avviare una procedura di acquisto dedicata. Ovviamente, il tutto, se la prescrizione medica sia giustificata sotto il profilo dell’appropriatezza prescrittiva, ma questo vale per qualsiasi procedura ad evidenza pubblica per l’approvvigionamento di farmaci. Infine il Consiglio di Stato ha ricordato che non è di competenza della Regione o di una stazione appaltante la decisione di quali farmaci possono essere rimborsati, perché ciò resta una prerogativa esclusiva demandata per legge ad AIFA. Quindi se il farmaco è in classe H, che rientri o meno nell’accordo quadro, non solo può essere acquistato ma deve essere messo a carico del SSN e del SSR. In definitiva il rigetto del ricorso del Consiglio di Stato non ha il sapore agro della sconfitta, ma quello dolce della vittoria, perché è stato ribadito che l’accordo quadro previsto per l’approvvigionamento per l’acquisto di farmaci biologici ha lo scopo di includere più farmaci possibile e non di premiare solo chi fa offerte in linea con le aspettative della stazione appaltante. Il Consiglio di Stato tra le righe sembra voler dire che anche se è legittimo fissare una base d’asta che esclude alcuni prodotti farmaceutici, non è di certo lungimirante fare ciò dal momento che la stessa stazione appaltante potrebbe essere costretta ad acquistare con separata procedura (di tipo non competitivo) il farmaco escluso.

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centrali d’acquisto Annalisa Damele - E.O. Ospedali Galliera di Genova Maurizio Greco - Presidente A.L.P.E.

Il ruolo delle centrali di committenza nel settore sanitario

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a centralizzazione degli acquisti trova disciplina a livello europeo con la direttiva n. 24/20141. In particolare, la direttiva n. 24 delinea due ipotesi di centralizzazione degli acquisiti pubblici, una permanente e una temporanea. La prima è normata dall’art. 372, ove si prevede che un’amministrazione possa acquistare forniture e servizi da una centrale di committenza (primo periodo), ovvero acquisire lavori, forniture e servizi mediante contratti stipulati a livello centralizzato (secondo periodo).3 La previsione del primo periodo si sostanzia nelle ipotesi in cui un’amministrazione ricorre ad una centrale che effettua direttamente l’acquisto per conto di più soggetti offrendo un vero e proprio servizio di centralizzazione delle committenze4. Il secondo periodo disciplina, invece, i casi in cui la stazione appaltante esercita un ruolo attivo aggiudicando un contratto nel contesto di un sistema dinamico di acquisizione realizzato da una centrale di

committenza; ovvero, luogo ad un confronto competitivo nell’ambito di un accordo quadro aggiudicato da una centrale di committenza; ovvero ancora scegliendo senza confronto competitivo nell’ambito di un accordo quadro aggiudicato da una centrale di committenza. Accanto alla fattispecie di cui all’art. 37 si annoverano gli “appalti congiunti occasionali” disciplinati dall’art. 38, in forza del quale l’aggregazione non viene attuata mediante una struttura stabile, ma si concretizza nella sinergia occasionale tra stazioni appaltanti per l’affidamento di specifiche forniture.5 Tale secondo modello è stato attuato, per esempio, nel Regno Unito con le Collaborative Procurement Organizations e i Collaborative Procurement Hubs fra strutture sanitarie inglesi, nonché in Francia con le reti francesi di coordinamento con un ospedale capofila che acquista anche per conto di altri enti ospedalieri.6 I vantaggi di questa seconda tipologia di centralizzazione sono molteplici.

La ratio della prevalenza delle convenzioni regionali sembra affermarsi perché il soggetto aggregatore regionale è potenzialmente in grado di soddisfare meglio le esigenze delle amministrazioni site nelle proprie aree di competenza

1 Le previgenti direttive n. 18/2004 e n. 17/2004 contenevano una regolamentazione meno articolata delle centrali di committenza limitandosi a prevederne la possibile istituzione delle medesime (art. 15, direttiva n. 18/2004 e art. 29 direttiva n. 17/2004). 2 Analoga disciplina è contenuta nella direttiva n. 25/2014: si vedano, in particolare, gli artt. 55 e 56. 3 Ai sensi dell’art. 2, comma 1, n. 14) della direttiva n. 24/2018 per “attività di centralizzazione delle committenze” si intendono quelle svolte “su base permanente, in una delle seguenti forme: a) l’acquisizione di forniture e/o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici; b) l’aggiudicazione di appalti o la conclusione di accordi quadro per lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici”. 4 L’art. 37, comma 2 della direttiva n. 24/2018 dispone che “un’amministrazione aggiudicatrice rispetta i suoi obblighi ai sensi della presente direttiva quando acquista forniture o servizi da una centrale di committenza che offre l’attività di centralizzazione delle committenze di cui all’articolo 2, punto 14, paragrafo 1, lettera a)”. 5 L’art. 38 dispone che “due o più amministrazioni aggiudicatrici possono decidere di eseguire congiuntamente alcuni appalti specifici. Se la procedura d’appalto in tutti i suoi elementi è effettuata congiuntamente a nome e per conto di tutte le amministrazioni aggiudicatrici interessate, esse sono congiuntamente responsabili dell’adempimento degli obblighi derivanti dalla presente direttiva. Ciò si applica altresì ai casi in cui un’amministrazione aggiudicatrice gestisce la procedura agendo per proprio conto e per conto delle altre amministrazioni aggiudicatrici interessate. Se la procedura di aggiudicazione non è effettuata congiuntamente in tutti i suoi elementi a nome e per conto delle amministrazioni aggiudicatrici interessate, esse sono congiuntamente responsabili solo per le parti effettuate congiuntamente. Ciascuna amministrazione aggiudicatrice è responsabile dell’adempimento degli obblighi derivanti dalla presente direttiva unicamente per quanto riguarda le parti da essa svolte a proprio nome e per proprio conto”. 6 Per una prospettiva comparativa si veda G. Racca e R. Cavallo Perin, Organizzazioni sanitarie e contratti pubblici in Europa: modelli organizzativi per la qualità in un sistema di concorrenza, in AA.VV., I servizi sanitari: organizzazione, riforme e sostenibilità, Maggioli, 2011 e la


centrali d’acquisto Innanzitutto, è noto che, in virtù del principio di sussidiarietà verticale, la soddisfazione di un interesse pubblico deve essere presa in carico dal livello amministrativo più vicino possibile ai soggetti interessati, sicché è del tutto auspicabile che sia un ente ospedaliero a bandire, per sé e per altri enti, le gare per l’approvvigionamento di determinate categorie di forniture da esso utilizzate. Non è, poi, da sottovalutare che nelle occasional joint procurement sono proprio i sanitari che utilizzeranno le forniture aggiudicate a comporre le commissioni tecniche e giudicatrici nell’ambito delle procedure di gara. Il che dovrebbe consentire di ridurre il novero delle acquisizioni che rimangono non ricomprese dalle aggiudicazioni e per le quali le singole amministrazioni devono procedere in autonomia. La normativa interna e la tendenziale prevalenza delle convenzioni regionali 1. A livello nazionale la disciplina della centralizzazione degli acquisti è stata declinata muovendo dal paradigma delle centrali di committenza, mentre quello degli occasional joint procurements non è stato specificatamente previsto. In particolare, per il settore sanitario si sono susseguiti diversi interventi normativi che hanno progressivamente assoggettato anche gli enti del SSN all’obbligo di aderire alle convenzioni delle centrali di committenza regionali e, in subordine, a quelle di Consip. 1. L’art. 1, comma 449 della legge n. 296/2006 ha disposto che gli enti sanitari sono tenuti ad “approvvigionarsi utilizzando le convenzioni stipulate dalle centrali regionali di riferimento, ovvero, qualora non siano operative convenzioni regionali, le convenzioni quadro stipulate da Consip s.p.a.” (ultimo periodo). 2. L’art. 15, comma 13, lett. d) del d.l. n. 95/2012 ha previsto che “gli enti del servizio sanitario nazionale … utilizzano per l’acquisto di beni e servizi di importo pari o superiore a euro 1.000 relativi alle categorie merceologiche presenti nella piattaforma Consip, gli strumenti di acquisto e negoziazione telematici messi a disposizione dalla stessa Consip, ovvero, se disponibili, dalle centrali di committenza regionali di riferimento costituite ai sensi dell’art. 1, comma 455 della legge n. 296/2006”. 3. L’art. 1 della legge 18.12.2015, n. 208 ha stabilito che “al fine di garantire la effettiva realizzazione degli interventi di razionalizzazione della spesa mediante aggregazione degli acquisti di beni e servizi, gli enti del Servizio sanitario nazionale sono tenuti ad approvvigionarsi, relativamente alle categorie merceologiche del settore sanitario, come individuate dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 9, comma 3, del decreto-legge 24 aprile

2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, avvalendosi, in via esclusiva, delle centrali regionali di committenza di riferimento, ovvero della Consip SpA.” (comma 548). Il successivo comma 549 del medesimo art. 1 ha precisato, inoltre, che “qualora le centrali di committenza individuate sulla base del comma 548 non siano disponibili ovvero operative, gli enti del Servizio sanitario nazionale sono tenuti ad approvvigionarsi, relativamente alle categorie merceologiche del settore sanitario di cui al comma 548, avvalendosi, in via esclusiva, delle centrali di committenza iscritte nell’elenco dei soggetti aggregatori, di cui all’articolo 9, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89. In tale ipotesi, spetta alla centrale regionale di committenza di riferimento l’individuazione, ai fini dell’approvvigionamento, di altra centrale di committenza. La violazione degli adempimenti previsti dal presente comma costituisce illecito disciplinare ed è causa di responsabilità per danno erariale”. 4. Dalla formulazione delle previsioni richiamate è stata desunta la priorità delle centrali di committenza regionali rispetto a Consip. In tal senso si registra l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, ad avviso della quale “Entrambe le disposizioni [commi 548 e 549 dell’art. 1 sopra richiamato], sia pure con una formulazione non chiarissima, contribuiscono a delineare un complessivo quadro normativo in base al quale: - in via tendenziale, le gare per gli approvvigionamenti di interesse degli enti del SSN devono essere svolte dalle centrali di committenza regionali; - in via sostanzialmente suppletiva (e all’evidente fine di prevenire il rischio di possibili carenze in approvvigionamenti di estremo interesse e rilevanza) è altresì possibile che la centrale di committenza nazionale attivi specifiche convenzioni-quadro” (Sez. V, 11.12.2017, n. 5826). In altri termini, in base a tale interpretazione, Consip ricopre un ruolo meramente sussidiario, che assume rilievo soltanto nelle ipotesi in cui le centrali regionali siano inadempienti e che – specularmente – viene meno ove vengano attivate le procedure centralizzate regionali 7 La prevalenza delle convenzioni regionali è stata riconosciuta anche con riferimento alle ipotesi in cui queste ultime siamo successive rispetto alla conclusione degli Accordi Quadro Consip. In particolare, è stata affermata “l’esistenza di un disegno normativo che non preclude (ma anzi disciplina) la contestuale attivazione sia a livello centrale sia a livello regionale di aggregazione degli acquisti, sicché non si può ritenere impedito alla centrale di acquisti regionale

bibliografia ivi citata (pagg. 200 e ss.). 7 Secondo il Consiglio di Stato, “l’intervento di sostanziale supplenza svolto da Consip non possa giungere ad alterare in modo definitivo il carattere evidentemente sussidiario di tale intervento, il quale per questa caratteristica avrà dunque valenza ‘cedevole’. Tale intervento, infatti (pur necessario nel perdurare dell’inadempienza da parte delle centrali di committenza regionali), perderà la sua ragion d’essere laddove le centrali regionali, ripristinando la fisiologica dinamica delineata dal legislatore, attivino i propri strumenti di acquisizione” (Sez. V, n. 5826/2017, cit.).

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di attivarsi al fine di ripristinare l’iter fisiologico delineato dalla disciplina, anche dopo che sia avviata una gara Consip” (così Cons. Stato, Sez. III, 26.02.2019, n. 1329). La ratio della prevalenza delle convenzioni regionali sembra rinvenirsi in una sorta di principio di sussidiarietà verticale, in forza del quale il soggetto aggregatore regionale è potenzialmente in grado di soddisfare meglio le esigenze delle amministrazioni site nelle proprie aree di competenza dal momento che ha con esse rapporti diretti e costanti e può, quindi, raccoglierne gli specifici fabbisogni. Non è, poi, da sottovalutare che nelle gare centralizzate regionali sono proprio i sanitari che poi utilizzeranno le forniture aggiudicate a comporre le commissioni tecniche e giudicatrici nell’ambito delle procedure di gara. Il che dovrebbe consentire di ridurre il novero delle acquisizioni che rimangono non ricomprese dalle aggiudicazioni regionali e per le quali le singole amministrazioni devono procedere in autonomia. 8 5. Infine, l’art. 1, comma 510 della citata legge n. 208/2015 ha previsto – alla stregua di norma di chiusura – che anche ove siano presenti convenzioni stipulate da Consip o dalle centrali di committenza regionali, le amministrazioni tenute ad aderirvi – ivi compresi gli enti del SSN – possono effettuare direttamente acquisti in autonomia “a seguito di apposita autorizzazione specificamente motivata resa dall’organo di vertice amministrativo e trasmessa al competente ufficio della Corte dei conti, qualora il bene o il servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell’amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali”. Il d.l. n. 76/2020, convertito con modificazioni in legge n. 120/2020 1. L’art. 8, comma 2 del d.l. n. 76/2020, convertito con modificazioni in legge n. 120/2020, ha previsto che “in relazione alle procedure disciplinate dal d.lgs. n. 50/2016, per le quali sia scaduto entro il 22 febbraio 2020 il termine per la presentazione delle offerte, le stazioni appaltanti … provvedono all’adozione dell’eventuale provvedimento di aggiudicazione entro la data del 31 dicembre 2020”. La previsione ha un notevole impatto in special modo con riferimento alle procedure delle centrali di committenza ed apre una questione cruciale in ordine alle conseguenze del mancato rispetto del termine ivi previsto. Non viene chiarito, infatti, che cosa possa accadere alle procedure non terminate entro la data prevista dalla norma.

Al riguardo si possono soltanto formulare alcune ipotesi di discussione. 2. Si potrebbe sostenere che il mancato rispetto del termine determini l’automatica conclusione delle gare centralizzate in corso, sicché gli enti dovrebbero ricorrere alle gare Consip, ove aggiudicate, ovvero provvedere in autonomia agli approvvigionamenti necessari. L’ipotesi sembra, tuttavia, scontare alcune criticità. Da un lato, sotto un profilo squisitamente letterale, la decadenza automatica della gara regionale non è espressamente prevista dal d.l. n. 76/2020. Sicché, in base al noto principio “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit” pare difficile sostenere l’interruzione d’ufficio di tutte le procedure in corso non aggiudicate. Dall’altro lato, poi, non va sottovalutato che l’arresto, ex abrupto, delle procedure potrebbe esporre la centrale ad eventuali – ma assai probabili – azioni risarcitorie da parte dei concorrenti. Da ultimo, ma non meno importante, la decadenza automatica delle procedure aggiudicate sposterebbe – ancora una volta – il problema sui singoli enti regionali, i quali potrebbero decidere di aderire alle convenzioni Consip ove esistenti. In mancanza di queste ultime, tuttavia, gli stessi enti si troverebbero in una situazione a dir poco critica, ossia dover provvedere autonomamente a bandire procedure che, proprio per la loro entità e strategicità regionale, era stato stabilito venissero svolte a livello centralizzato. 3. In alternativa, si potrebbe ritenere il termine del 31.12.2020 come meramente sollecitatorio, sicché nessuna effettiva conseguenza deriverebbe dallo sforamento del medesimo. In tal senso si registra un recente arresto giurisprudenziale, ai sensi del quale “il legislatore avrebbe potuto stabilire expressis verbis che la violazione del termine del 31 dicembre 2020 determinerà l’automatica conclusione delle gare in corso e l’obbligo per le amministrazioni interessate di aderire alle convenzioni Consip eventualmente già in essere. Ma così non è stato, visto che l’art. 8, comma 2, del D.L. n. 76/2020, con norma di chiara valenza sollecitatoria, si limita a stabilire che le procedure di gara ancora in itinere vengano portate a termine entro l’anno in corso”, con l’ulteriore precisazione che la norma in questione “non prende in considerazione le ipotesi nelle quali le amministrazioni interessate hanno bandito gare attraverso centrali di committenza periferiche pur in costanza di gare Consip in corso di svolgimento” (T.A.R. Marche, Sez. I, 12.10.2020, n. 584)9.

8 In tal senso Cons. Stato, Sez. II, n. 1329/2019, cit., ai sensi del quale “la gara svolta a livello regionale risponde – quanto alla aderenza alle necessità dell’area di riferimento e, ove svolta successivamente, anche per la coerenza con il mercato – ai principi di maggior efficienza, efficacia e economicità che regolano l’azione pubblica”. 9 La pronuncia ha ad oggetto l’impugnativa, da parte di un concorrente di una gara centralizzata regionale per l’affidamento del servizio di pulizia: • della nota con la quale la centrale di committenza regionale ha comunicato agli Enti sanitari regionali che la procedura di gara non si sarebbe conclusa entro il 31.12.2020, demandando a detti Enti la decisione se proseguire nell’adesione alla futura aggiudicazione o aderire alla gara Consip; • dei conseguenti atti con i quali un ente sanitario aveva ritenuto di “agganciarsi” alla Convenzione Consip, pur avendo a suo tempo inviato


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Tale lettura sembra, in effetti, l’unica sostenibile al fine di scongiurare le conseguenze negative delineate sub 2. e, effettivamente, si appalesa come la più aderente alla realtà gestionale di ogni ente sanitario. I profili di criticità dell’attuale assetto Il quadro fin qui delineato presenta indubbi profili di criticità. 1. Innanzitutto, è nota la notevole durata delle procedure centralizzate (sia regionali, che di Consip). Ed invero, nell’attesa dell’aggiudicazione regionale gli Enti sanitari si trovano spesso in una situazione di impasse determinata dal fatto che le convenzioni derivanti dalle precedenti aggiudicazioni centralizzate sono scadute e non residua spazio per eventuali rinnovi. In tali casi, sono delineabili due possibilità. Può ipotizzarsi l’applicazione dell’art. 1, comma 550 della citata legge n. 208/2015, in forza del quale “I singoli contratti relativi alle categorie merceologiche individuate dal

decreto di cui al comma 548, in essere alla data di entrata in vigore della presente legge, non possono essere prorogati oltre la data di attivazione del contratto aggiudicato dalla centrale di committenza individuata ai sensi dei commi da 548 a 552. Le proroghe disposte in violazione della presente disposizione sono nulle e costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa”. Dalla disposizione, infatti, è stata inferita la prorogabilità dei contratti in essere in attesa dell’aggiudicazione regionale. Peraltro, ciò vale per i contratti conclusi nel 2015, mentre per le convenzioni regionali stipulate successivamente la previsione non può che essere applicata in via estensiva al fine di assicurare la continuità dell’attività assistenziale. Il che determina evidenti criticità in quanto è assai discutibile dare applicazione estensiva ad una disposizione, come quella in questione, di natura eccezionale, a maggior ragione a fronte della sanzione di nullità prevista dalla disposizione citata10. In alternativa si può applicare l’art. 9, comma 3 bis del d.l. 24.04.2014, n. 66 (convertito, con modificazioni, in legge 23.06.2014, n. 89), ai sensi del quale “le Amministrazioni pubbliche obbligate a ricorrere a Consip o altri soggetti aggregatori ai sensi del comma 3 possono procedere, qualora non siano disponibili i relativi contratti di Consip o dei soggetti aggregatori di cui ai commi 1 e 2 e in caso di motivata urgenza, allo svolgimento di autonome procedure di acquisto dirette alla stipula di contratti aventi durata e misura strettamente necessaria”.11 Si tratta dei c.d. contratti ponte, per i quali, in ogni caso, occorre bandire apposita procedura, con le necessarie tempistiche e la messa in campo di un impegno organizzativo gestionale il più delle volte sproporzionato rispetto alla natura transitoria dell’affidamento. Come si vede, quindi, la tendenziale preferibilità delle gare regionali sconta un effettivo problema concreto in ordine alla gestione del periodo compreso tra la scadenza delle precedenti convenzioni non più rinnovabili e l’aggiudicazione della gara centralizzata. In secondo luogo, non sempre le condizioni economiche contenute nelle convenzioni centralizzate sono le migliori sotto il profilo economico. Anzi, accade sovente che le singole Amministrazioni siano in grado di ottenere condizioni migliori nel mercato di riferimento,

i fabbisogni per lo svolgimento della gara centralizzata regionale. 10 Al riguardo, peraltro, si registra una recente sentenza del T.A.R. Marche, Sez. I, 12.10.2020, n. 584 che ha “minimizzato” la nullità comminata dalla disposizione, rilevando che “la disinvolta introduzione di fattispecie di nullità contrattuali (le quali sono più che altro finalizzate a minacciare i dirigenti pubblici di sanzioni disciplinari e/o contabili) non appare un’opzione giuridicamente valida”; ciò in quanto “laddove la nullità sia vista quale sanzione finalizzata alla tutela della concorrenza, nemmeno il diritto comunitario esige che l’eventuale violazione delle regole in materia di evidenza pubblica sia sanzionata negli ordinamenti degli Stati membri con la nullità (e questo è tanto vero che anche le direttive appalti e ricorsi legittimano la previsione di termini decadenziali per l’impugnazione degli atti di gara” ed inoltre “perché, considerato che le proroghe e i rinnovi dei contratti pubblici sono pur sempre funzionali al perseguimento delle finalità istituzionali delle amministrazioni interessate ...la nullità costituisce sanzione che potrebbe porsi in conflitto logico con il principio costituzionale di buon andamento della P.A., nonché eccessivamente penalizzante anche per l’appaltatore privato che abbia in buona fede confidato sulla validità della proroga o del rinnovo”. Il che sembra costituire, più che altro, una condivisibile presa d’atto della complessità della situazione in cui versano le Amministrazioni, soprattutto quelle sanitarie che si trovano nell’oggettiva impossibilità di interrompere l’attività assistenziale e, quindi, optano per l’estensione della durata dei contratti in attesa dell’aggiudicazione delle procedure centralizzate. 11 Sui contratti ponte si veda la recente sentenza del T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III quater, 3.11.2020, n. 11304.

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senza, tuttavia, per tale ragione poter derogare al vincolo della centralizzazione.12 2. Sotto ulteriore profilo non può sottacersi che assai sovente le gare centralizzate non soddisfano interamente il fabbisogno degli enti sanitari in relazione a specifici settori. Ed invero, al di là dei prodotti infungibili, spesso residuano, comunque, categorie di materiali che non vengono aggiudicate o perché i relativi lotti vanno deserti o perché essi non erano proprio ricompresi nella gara centralizzata. Anche sotto tale aspetto è evidente che la centralizzazione, seppure anche solo a livello regionale, sconta le limitazioni derivanti dall’alterità della centrale rispetto alle amministrazioni sanitarie. 3. Suscita, inoltre, perplessità l’ormai – come si è visto – consolidata prevalenza tout court delle gare regionali su quelle nazionali centralizzate. Pare, in effetti, che detta prevalenza dovrebbe essere tendenziale, ma non assoluta. In altri termini, andrebbe riconosciuta ampia discrezionalità alle amministrazioni sul punto, dacché esse soltanto possono valutare le modalità migliori per il soddisfacimento delle proprie esigenze13. Si ritiene, quindi, che, ove si dilunghi la gara regionale, ai singoli Enti non possa non essere comunque ascritta la facoltà di valutare se attenderne l’esito, ovvero decidere motivatamente di aderire alle convenzioni Consip già stipulate. In tali ipotesi, infatti, la prevalenza delle gare regionali rispetto a quelle centralizzate nazionali non dovrebbe operare a scapito del buon andamento che ciascuna Amministrazione presidia. In tal senso – seppure con riferimento alla centrale di committenza regionale ligure (A.Li.Sa.) e non già ad una singola amministrazione – si è recentemente pronunciato il T.A.R. Liguria, Sez. II, con sentenza 14.10.2020, n. 694, nella quale è stata affermata la sussistenza di un ampio margine di discrezionalità in capo all’ente pubblico circa la decisione di aderire alle convenzioni Consip, ovvero, in alternativa, di bandire gare a livello regionale14. Il che, di volta in volta, deve essere supportato da un’adeguata istruttoria fondata sulle specifiche esigenze di volta in volta rilevanti. Suggestioni per eventuali scenari futuri

Stante il quadro fin qui delineato vale la pena individuare alcuni spunti di riflessione circa le eventuali alternative che gli enti sanitari potrebbero intraprendere per effettuare acquisti standardizzati senza incorrere nelle criticità evidenziate sub 4. Innanzitutto, si potrebbe valutare se l’art. 38 della direttiva n. 18/2014 – che, come si è visto, disciplina l’occasional joint procurement – possa ritenersi self executing e, quindi, direttamente applicabile dalle singole amministrazioni sanitarie. Ove la risposta fosse positiva gli enti potrebbero, anche senza una specifica normativa nazionale di recepimento, dare avvio ad iniziative sulla falsariga delle reti francesi di coordinamento con un soggetto capofila che acquista anche per conto di altri enti in relazione a determinate categorie di acquisti e in applicazione della normativa vigente. Si potrebbe, così, ipotizzare la creazione di reti a livello sub regionale con diversi capofila a seconda delle specifiche categorie di acquisizione (che potrebbero coincidere con le specializzazioni di ciascun Ente, ecc.). Sotto il profilo giuridico la costituzione delle reti andrebbe calata nell’ordinamento interno utilizzando gli strumenti di networking previsti dal diritto amministrativo, quali, per esempio, gli accordi ex art. 15 della legge n. 241/1990, ai sensi del quale “le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”, ovvero i consorzi tra enti, ecc.. Resta, ovviamente, da approfondire la compatibilità dell’introduzione dell’occasional joint procurement nel nostro ordinamento con la normativa nazionale richiamata sub 2, che rimane incentrata sulla centralizzazione “unitaria” di cui all’art. 37 della direttiva n. 24/2014. Al riguardo, è prevedibile che gli eventuali conflitti che dovessero presentarsi verranno risolti in sede di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia per accertare la legittimità di una normativa nazionale che abbia recepito uno soltanto dei modelli di centralizzazione previsti a livello europeo. Sul punto, in ogni caso, potrebbe essere oltremodo opportuna una consultazione dell’Anac finalizzata a sondare le opinioni, esigenze, aspettative, critiche degli enti (soprattutto sanitari) in relazione agli obblighi di centralizzazione normativamente previsti.

12 Si veda, sulla questione, T.A.R. Calabria – Catanzaro, Sez. II, 12.10.2020, n. 1597, ai sensi del quale “l’adesione alle convenzioni Consip adempie pienamente l’obbligo nazionale e comunitario di individuare il miglior contraente tramite procedure ad evidenza pubblica, sicché non sussiste a carico dell’amministrazione che vi aderisce, un onere di istruttoria in ordine alla economicità dei parametri prezzo-qualità contenuti nella convenzione Consip”. Analogamente T.A.R. Piemonte, Sez. I, 23.01.2020, n. 61, in forza del quale “la gara centralizzata per la stipulazione di una convenzione rappresenta lo strumento elettivo per realizzare significativi risparmi di spesa, ottenuti grazie al bagaglio informativo e all’esperienza pratica acquisiti sul territorio regionale ed alle economie di scala conseguenti al maggior volume della prestazione, a prescindere dalla circostanza che una singola ASL riesca ad ottenere condizioni più vantaggiose nel mercato di riferimento”. 13 Sul punto non pare condivisibile la già citata pronuncia del T.A.R. Marche, n. 584/2020, con la quale è stata annullata la decisione di un’Azienda Sanitaria di aderire alla Convenzioni Consip per il servizio di pulizia a seguito della nota con la quale la centrale regionale aveva comunicato di non riuscire a concludere la procedura per l’affidamento del medesimo servizio entro il 31.12.2020, demandando alle singole Aziende di valutare se aderire o meno alla gara Consip. Ciò in virtù della tendenziale prevalenza delle gare regionali rispetto alle procedure svolte da Consip. 14 La pronuncia muove dall’impugnativa proposta dall’aggiudicatario di uno dei lotti della gara Consip per l’affidamento del multiservizio tecnologico integrato con fornitura di energia per edifici delle Amministrazioni sanitarie avverso gli atti con i quali la Regione Liguria, previa adeguata istruttoria, ha deciso – in luogo di aderire alla convenzione Consip – di proseguire con una propria gara centralizzata per l’assegnazione del servizio di gestione del sistema energetico delle strutture sanitarie liguri.


i “principi” delle gare Andrea Stefanelli - Studio Legale Stefanelli&Stefanelli - Bologna

I principi che ci salvano

I

nutile dirlo, il momento è delicato! Da un lato si sente invocare, a più voci, la sospensione - se non addirittura l’annullamento – del Codice appalti, dall’altro l’ANAC ormai da mesi non emana più le sue (famose/famigerate!) Linee-guida, forse in attesa di quel Regolamento di cui all’art. 216 D.Lgs.n. 50/2016 che, da quanto si diceva, era pronto per la pubblicazione già dopo l’estate 2020 ma che, ad oggi, non ha ancora visto la luce. Nel mentre è stato pubblicato il Decreto Semplificazione, quale (vago) tentativo di riassumere - e mettere a regime – la lunga serie di disposizioni che frettolosamente erano state emanate durante il periodo pandemico. E tutto questo mentre si attende l’approvazione del Recovery Plan, il nuovo “piano Marshall” dell’Italia il cui (inimmaginabile) flusso di denaro – che dovrà essere investito dalle PP.AA. – tuttavia, per poter legittimamente essere immesso sul mercato, dovrà prevedere la necessaria applicazione del Codice appalti!! Se dunque risulta ’strategico’ il D.Lgs.n. 50/2016 per le “magnifiche sorti e progressive” del nostro Paese, si continua purtroppo a non volerlo portare a pieno regime e, anzi, a modificarlo e martoriarlo con disposizioni disorganiche, che sempre più ne complicano l’applicazione. È in questo complesso scenario che si ritiene necessario cercare una bussola, per quanto possibile, che orienti nel cammino - a dir poco accidentato - che ci attende. Detta bussola è rappresentata, per chi scrive, dall’art. 30 del Codice appalti e, in particolare, dal comma 1 che individua i principi che devono trovare necessaria applicazione sia in sede di gara che in quella esecutiva. Diciamoci la verità, i principi sono come le stagioni … le diamo tutti per scontate! Se però cerchiamo di far mente locale ed analizziamo in quante occasioni capita d’applicare i principi dell’art. 30, ben ci accorgiamo come detti risultino immanenti nell’intero

sistema degli appalti. Ma, soprattutto, come possano servire a risolvere quelle intricate situazioni in cui una normativa così fluida, come quella attuale, spesso ci porta “a sbattere”. I principi applicati in materia di appalti sono l’efficacia e la tempestività, la correttezza e l’economicità, la trasparenza e la pubblicità, la tutela della concorrenza nonché, infine, la proporzionalità. Come può facilmente evincersi, molti rappresentano in realtà delle endiadi, ovvero la descrizione di un medesimo concetto attraverso l’utilizzo di due distinte parole, fra loro coordinate. Per iniziare si consideri come il principio di tempestività fa “il paio” con quello dell’efficacia, nel senso che (ad es.) un provvedimento d’aggiudicazione risulterà certamente efficace se assunto in maniera tempestiva, ovvero nell’arco di un ragionevole lasso di tempo dall’indizione della gara. Il “tempo” nel diritto amministrativo è un concetto non da molto divenuto rilevante, da quando cioè il Legislatore gli ha assegnato un valore ex sé, imponendo alla P.A. di agire, oltre che nel rispetto della legge, dell’imparzialità e della buona amministrazione (art. 97 della Costituzione), anche in ben determinati limiti temporali; si pensi, a mero titolo d’esempio, all’art. 2, comma 2 L.n. 241/90 che fissa il preciso obbligo di completare un procedimento amministrativo entro 30 giorni. Nello specifico ambito degli appalti pubblici, un procedimento di gara deve per legge durare 180 giorni, termine che ben sappiamo tuttavia essere di natura “ordinataria” ovvero suscettibile di proroga – ovviamente da parte della P.A. – senza per questo incorrere in alcuna sanzione; di recente, però, il D.Lgs. n. 120/2020 (cd. “Decreto Semplificazione”) ha previsto, per tutte le gare le cui determine a contrarre sono adottate prima del 31/12/2021, come l’aggiudicazione debba avvenire entro 2 mesi dall’avvio della gara per le

La tutela della concorrenza non significa che tutti i concorrenti hanno il diritto di partecipare a tutte le gare, ma che tutti devono vedersi applicate, alle gare a cui concorrono, le medesime condizioni partecipative

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i “principi” delle gare

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procedure sottosoglia (art. 1) nonché entro 6 mesi per quelle soprasoglia (art. 2); a differenza poi dei precedenti interventi legislativi, in questo caso il mancato rispetto dei tempi comporta gravi sanzioni rappresentate, in caso d’inerzia della P.A., nella responsabilità erariale del RUP mentre, nel caso d’inerzia dell’aggiudicatario, in una risoluzione per inadempimento a suo carico. Ciò che tuttavia maggiormente rileva in relazione al principio di tempestività è quanto disposto dal successivo art. 4 dello stesso D.Lgs.n. 120/20, che impone l’obbligo alla P.A. di stipulare il contratto entro 60 giorni dalla data d’efficacia dell’aggiudicazione, termine che non può essere derogato nemmeno dalla pendenza di un ricorso giurisdizionale (a seguito del quale non risulti disposta la sospensione del provvedimento impugnato). A riprova poi del recente interesse in merito al principio di tempestività si citi la sentenza del Consiglio di Stato 26/8/2020 n. 5240 in cui è stata sanzionata un’amministrazione che, pur a fronte della definitiva aggiudicazione di una gara, non convocava alla firma del contratto l’appaltatore; l’aggiudicataria impugnava il silenzio-rigetto alla sua intimazione a adempiere, il TAR periferico rigettava il ricorso mentre il Consiglio di Stato, dopo aver constatato la violazione dell’obbligo di stipula entro 60 gg. dall’aggiudicazione, condannava invece la P.A. a firmare il contratto, dando in tal modo pratica attuazione al preciso

obbligo di rispetto del fattore ”tempo”. Quanto ai principi di correttezza ed economicità detti “vanno a braccetto” nella misura in cui il giusto agire della P.A. non può prescindere dal suo costo, per cui il corretto operato di un’amministrazione è tale solo a fronte del rispetto del giusto spendere. Nei contratti pubblici il principio di economicità ha subìto una significativa evoluzione in quanto, prima dell’adozione delle direttive comunitarie la legislazione nazionale identificava l’interesse pubblico nella massima economicità, intesa come maggior risparmio per l’amministrazione, mentre dopo l’istituzione del Trattato UE (nonché la pubblicazione delle direttive in materia), al principio d’economicità sono stati affiancati anche quelli di “par condicio” e di “tutela della concorrenza”, quasi sempre antitetici proprio al principio di economicità: In che senso ? È presto detto. Si prenda ad esempio quanto verificatosi in una gara indetta dall’ASL Toscana Nord Ovest, la cui disciplina espressamente stabiliva che, nel caso di offerte identiche, non sarebbero stato ammesse migliorie ma si sarebbe aggiudicato tramite sorteggio; avendo due concorrenti formulata la medesima offerta, veniva allora convocata la seduta per il sorteggio ma, nel corso della stessa, l’unica concorrente presente in seduta invocava l’applicazione dell’art. 77 del R.D.n. 827/1924, non abrogato dal Codice appalti, che consentiva ai concor-


i “principi” delle gare renti di poter formulare migliorie alle proprie offerte. A quel punto la P.A., avendo tutto l’interesse (economico) ad accettare una riduzione di prezzo, consentiva la miglioria, che permetteva a detta concorrente d’aggiudicarsi la fornitura. Inutile dire che a quel punto insorgeva l’altra partecipante, contestando la violazione della par condicio, del principio di tutela della concorrenza e, non da ultimo, di quello d’economicità ed affermando che la stessa P.A. avrebbe probabilmente ottenuto uno sconto maggiore se avesse consentito anche all’altra concorrente di formulare la propria miglioria. Il Consiglio di Stato, davanti a cui veniva portata la vicenda, ha ritenuto di dirimere la controversia ricordando come, inizialmente, le gare erano esclusivamente volte alla tutela dell’interesse “nazionale” di risparmio pubblico, a cui successivamente si è aggiunto/contrapposto il principio di derivazione comunitaria di tutela della concorrenza, che trova la sua plastica declinazione nella tutela della par condicio. In conseguenza l’applicazione dell’art. 77 del R.D.n. 827/1924, da “regola imperativa [.] dev’essere contestualizzata e calata in un reticolo di principi di derivazione costituzionale ed eurounitaria che, nel frattanto, hanno trasformato il procedimento di evidenza pubblica da un mero strumento per il conseguimento di risparmi in un potente ed inderogabile presidio di concorrenza fra gli operatori economici” (Cons.Stato, III°, 30/12/2020, n. 8537); nel caso di specie, quindi, l’ASL non ha sbagliato a permettere ad una concorrente di formulare migliorie, ma ha errato nel non sospendere la seduta pubblica – indetta per il mero sorteggio – rinviandola ad altra data e con l’espressa indicazione che, nella nuova seduta, entrambe le concorrenti potevano presentare migliorie alle loro offerte, trovando in tal modo un equo bilanciamento tra principi che, nell’iniziale prospettazione dei fatti, apparivano connotati da un’insanabile contrapposizione. La pubblicità e trasparenza sono principi invece più “di moda” ed oggetto, anche di recente, di importanti pronunce dell’Adunanza Plenaria; si consideri infatti come, a seguito della pubblicità dei documenti di una gara, si ottenga la completa trasparenza dell’agire della P.A. e, qualora detta pubblicità non sia completa, sia allora possibile ovviarvi con l’istituto dell’accesso documentale che, dopo la pubblicazione del D.Lgs.n. 33/2013, si è arricchito anche del cd. “accesso civico generalizzato”; proprio il rapporto fra detti due diversi accessi - nonché la problematica relativa dall’applicabilità (o meno) dell’accesso ex D.Lgs.n. 33/2013 anche alle gare d’appalto - hanno occupato il Consiglio di Stato che, con l’Adunanza Plenaria 2/4/2020 n. 10, ha dovuto risolvere molteplici profili di problematicità. Per quanto d’interesse nell’ottica del presente scritto, il continuo estendersi del principio di pubblicità e trasparenza ha portato il Massimo Consesso di giustizia amministrativa a ritenere definitivamente ammissibile l’accesso ex L.n. 241/90 anche alla documentazione riguardante la fase esecutiva di

un contratto pubblico. Ciò getta nuova luce su una diversa forma di “tutela effettiva” che, partendo dalla procedura di gara – e dalla relativa offerta in essa formulata – consentirà d’ora innanzi all’interessato di verificare se quanto promesso (e aggiudicato) in gara risulti effettivamente poi fornito in fase esecutiva configurandosi, in caso contrario, una violazione non solo del dettato contrattuale ma anche, e soprattutto, delle condizioni procedimentali che hanno consentito al contraente di divenire tale. Tutto questo, lo si ripete, nell’ottica del sempre maggior ampliamento della tutela della trasparenza. Venendo a questo punto a parlare del principio di concorrenza, si ritiene necessario sfatare un (falso) mito che aleggia al riguardo: la tutela della concorrenza non significa che tutti i concorrenti hanno il diritto di partecipare a tutte le gare, ma che tutti devono vedersi applicate, alle gare a cui concorrono, le medesime condizioni partecipative. In altri termini la tutela della concorrenza non può voler dire che la P.A. deve “ridurre” il proprio standard di fabbisogno per permettere anche a produttori di beni di minor qualità di gareggiare, ma significa che, preso atto dell’insindacabile discrezionalità di ogni amministrazione nella scelta dell’oggetto di gara, impedire favoritismi all’interno del range di quegli oo.ee. in grado di soddisfare dette esigenze della P.A.. A tal proposito risultano di notevole interesse alcune sentenze del Consiglio di Stato, la prima delle quali (3/3/2020, n. 1545) affronta la questione della legittimità della richiesta, avanzata da un operatore economico ad ARIA, di elevare la base d’asta di una gara (ritenuta troppo bassa) per consentirne una più ampia partecipazione, a cui ha risposto il giudice affermando che l’appellante “non è stata in grado di presentare un’offerta potenzialmente competitiva a causa non del bando [.] bensì delle proprie scelte imprenditoriali, che l’hanno condotta a produrre il medesimo bene a prezzi maggiori e quindi non è stata esclusa dalla gara per delle caratteristiche estrinseche, ma in ragione del suo assetto imprenditoriale, che non le permette di produrre [.].ad un prezzo più basso, mentre l’aggiudicataria è rimasta l’unica partecipante alla gara in ragione delle sue caratteristiche e scelte imprenditoriali, che le permettevano di presentare un’offerta vincente”. Di analogo interesse la sentenza 24/6/2020 n. 4086 che, partendo dall’assunto che “La natura del procedimento d’evidenza pubblica, come sede in cui vengono create artificialmente le condizioni di concorrenza, non deve far perdere di vista la funzione del procedimento medesimo, che è quella [.] di acquisire beni e servizi maggiormente idonei a soddisfare l’interesse pubblico specifico portato dall’amministrazione”, porta il giudice d’appello ad affermare la piena legittimità di una gara anche in presenza di 1 solo concorrente, purché ciò sia giustificato dall’interesse pubblico.

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i “principi” delle gare

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Si giunge così alla condivisibile considerazione secondo cui “il punto di equilibrio del sistema non è dato [.] dal numero di concorrenti operanti sul mercato in grado d’offrire il prodotto richiesto [.] ma dall’esistenza o meno di una ragionevole e proporzionata esigenza del committente pubblico che giustifica la domanda di un prodotto offerto solo da poche imprese” (17/11/2020, n. 7138) per giungere, infine, alla sintesi del pensiero del Consiglio Stato che, a sommesso parere di chi scrive, è ben rappresentato dalla pronuncia 12/2/2020, n. 1076 secondo cui “nella dialettica fra tutela della concorrenza e perseguimento dell’interesse pubblico primario l’amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nella selezione dell’oggetto (e delle caratteristiche tecniche) dell’appalto”. Questa ultima considerazione fornisce l’“aggancio” per affrontare l’ultimo dei principi di cui all’art. 30 del Codice appalti, ovvero quello di proporzionalità, che dispone il divieto alla P.A. di imporre obblighi in misura superiore all’interesse pubblico. Ciò significa che l’amministrazione appaltante, in tutte le scelte che compie nel disegno di gara (l’oggetto, il tipo di procedura, i requisiti d’ammissione e quelli di qualificazione, il criterio d’aggiudicazione ecc.), deve seguire i criteri dell’“idoneità”, della “necessarietà” e dell’”adeguatezza”, ovvero tutte le caratteristiche in cui si declina il principio di proporzionalità.

È tuttavia nella definizione delle specifiche tecniche che maggiormente s’annida il rischio di un uso non corretto di detto principio (di proporzionalità), nella misura in cui la definizione delle caratteristiche descrittive dell’oggetto di gara può connotare la stessa, magari riducendo immotivatamente la platea dei partecipanti e/o favorendo un concorrente rispetto ad altri. Non si contano a tal proposito le sentenze - soprattutto nel settore sanitario – che trattano del difficilissimo e delicato equilibrio fra tutela dell’interesse pubblico (della A.S.ad acquistare un determinato tipo di prodotto/servizio), del principio di massima concorrenza (degli operatori economici non ammessi per mancanza di requisiti tecnici dei loro prodotti/servizi) e di quello di economicità (il cambio di fornitore/prestatore potrebbe portare un maggior costo per la P.A. appaltante) ecc., la cui sintesi e soluzione non può che trovarsi nel giusto e corretto utilizzo del principio di proporzionalità delle scelte della Stazione appaltante. “Tre cose mi superano ed una quarta non comprendo: il cammino dell’aquila in cielo, il cammino del serpente sulla roccia, il cammino della nave nel mare, il cammino dell’uomo per la fanciulla” (Proverbi 39, 18-19). Se dunque seguissimo e rispettassimo di più i principi in materia di appalti, forse il cammino (nelle gare) sarebbe meno arduo!


smart-working Paola Bardasi - Commissario Straordinario Azienda Osp.ro Univ. di Ferrara Alberto Fabbri - Dirigente M.O. Affari Istituzionali e di Segreteria Azienda Usl di Ferrara

Lo smart-working nel pubblico impiego: l’evoluzione dell’istituto da “sperimentazione” prevista dalla legge Madia a “modalità ordinaria” di lavoro nel periodo dell’emergenza sanitaria da Covid-19

L’

immane flagello che negli ultimi mesi si è abbattuto sull’intera umanità seminando sgomento, ansia e paura è destinato a sconvolgere profondamente le nostre vite, le nostre relazioni e le nostre abitudini: l’emergenza sanitaria ha indotto di conseguenza il legislatore a valutare ogni possibile percorso che possa adeguatamente fronteggiarla anche al fine di individuare opportune strategie di contenimento del virus. E’ il caso dell’istituto dello smart-working che nell’attuale panorama ha assunto un ruolo fondamentale e strategico per assicurare continuità ai servizi offerti dalla P.A..Nel nostro ordinamento l’introduzione dell’istituto dello smart working è avvenuto con notevole ritardo rispetto ad altri Paesi e precisamente con la legge n. 124 del 7 agosto 2014 1 (c.d. legge Madia) la quale all’art. 14 dispone che “le amministrazioni pubbliche, nei limiti delle risorse di bilancio disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, adottano misure organizzative volte a fissare obiettivi annuali per l’attuazione del telelavoro e per la sperimentazione, anche al fine di tutelare le cure parentali, di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa”. Un ulteriore passo in avanti è ad opera della legge n. 81 del 22 maggio 20172 che detta disposi-

zioni al fine di “incrementare la competitività ed agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”. L’elemento che sta alla base di questo nuovo modello organizzativo è l’utilizzo degli strumenti tecnologici che permettono di connettere il lavoratore dove e quando vuole. La legislazione dell’emergenza in materia di smart working La nuova stagione della vita dell’istituto viene inaugurata purtroppo con il clima di paura generalizzata a cui è immediatamente seguito un diradamento dei contatti lavorativi e sociali a cui si sono sostituiti le nuove tecnologie informatiche. Tra le prime misure adottate viene in rilevo infatti la Direttiva n. 1 del 25 febbraio 2020 della Presidenza del Consiglio dei Ministri ove viene specificato che “al fine di contemperare l’interesse alla salute pubblica con quello alla continuità dell’azione amministrativa, le pubbliche amministrazioni, nell’esercizio dei poteri datoriali, privilegiano modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa, favorendo tra i destinatari delle misure i lavoratori portatori di patologie che li rendono maggiormente esposti al contagio, i lavoratori che si avvalgono di servizi pubblici di trasporto per raggiungere la sede lavorativa, i lavoratori sui quali grava la cura dei figli a seguito dell’eventuale contrazione dei servizi dell’asilo nido e della scuola dell’infanzia”.

L’istituto dello smart-working ha assunto un ruolo fondamentae e strategico per assicurare continuità ai servizi offerti dalla Pubblica Amministrazione in questo drammatico periodo della vita del Paese

1 “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” 2 “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”

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smart-working

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smart-working Con la stessa Direttiva “le amministrazioni sono invitate, altresì, a potenziare il ricorso al lavoro agile, individuando modalità semplificate e temporanee di accesso alla misura con riferimento al personale complessivamente inteso, senza distinzione di categoria di inquadramento e di tipologia di rapporto di lavoro”. Le negative conseguenze del Covid19 danno pertanto la stura alla rimodulazione del lavoro in un’ottica emergenziale dove la modalità dello smart working viene immediatamente utilizzata e concepita come unica via per conciliare forme di distanziamento e garanzia di continuità di prestazioni e servizi. Con DPCM 1° marzo 20203, si dispone che per la durata dello stato di emergenza, i datori di lavoro possono applicare il modello di lavoro agile disciplinato dagli art. 18 e ss. della Legge n. 81/2017 a tutti i rapporti di lavoro subordinato: la medesima previsione è stata, poi, ripresa dal DPCM del 4 marzo 20204. Da segnalare altresì che con il Decreto Legge 2/3/2020, n. 95, allo scopo di incentivare lo smart-working nella P.A., da intendere come un’ulteriore misura per il contenimento della diffusione del virus, è stata prevista la possibilità per le stesse PP.AA. di incrementare la fornitura di personal computer e tablet del cinquanta per cento per la dotazione al personale dipendente tramite la Consip S.p.A. (art. 18, comma 1): un segnale importantissimo sia per la modernizzazione della P.A. che per la valorizzazione del lavoro smart. Nell’incessante produzione normativa dei primi mesi del 2020, la circolare n. 1 del 4/03/2020 emanata dalla Presidenza dei Consiglio dei Ministri, pone l’attenzione sulla necessità di ricorrere “in via prioritaria, al lavoro agile come forma più evoluta anche di flessibilità di svolgimento della prestazione lavorativa, in un’ottica di progressivo superamento del telelavoro”. Allo strumento di lavoro flessibile si accede mediante apposita domanda, che il lavoratore presenta al proprio datore, la cui accettazione è subordinata a dei criteri di priorità. La seconda Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ministro per la Pubblica Amministrazione sull’argomento n. 2 del 12/03/2020 riconosce all’art. 3 il lavoro agile “come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa’’ e prende atto che la grave situazione emergenziale che attraversa il Paese è tale da giustificare il ricorso all’istituto come strumento ordinario per le amministrazioni statali, non ravvisandosi eventuali limiti quantitativi previsti dall’art. 14 del d.lgs. n. 124/2015. Un passaggio fondamentale della Circolare prevede che

“sulla base di quanto evidenziato, a fronte della situazione emergenziale, è necessario un ripensamento da parte delle PP.AA. in merito alle attività che possono essere oggetto di lavoro agile, con l’obiettivo prioritario di includere anche attività originariamente escluse”. Nel percorso fin qui delineato si pone il Protocollo condiviso tra le parti sociali “di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus negli ambienti di lavoro” del 14/03/2020 che in relazione alle attività professionali e alle attività produttive, raccomanda intese tra organizzazioni datoriali e sindacali. Il Decreto legge n. 18/2020 (cd. “Cura Italia”), convertito con modificazioni dalla legge 24/04/2020, n. 27 sistematizza una pluralità di norme riguardanti diversi aspetti del lavoro agile. L’art. 39, innanzitutto, stabilisce che, fino alla data del 30 aprile 2020, i lavoratori dipendenti disabili o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona affetta da disabilità, hanno diritto a svolgere, se compatibile, la prestazione di lavoro in modalità agile. Ai lavoratori del settore privato affetti da gravi e comprovate patologie e con ridotta capacità lavorativa è riconosciuta la priorità nel l’accoglimento delle domande di svolgimento delle prestazioni lavorative in smart-working (art. 39, comma 2). A distanza di pochi giorni, poi, nelle more della conversione in legge del d.l. “Cura Italia”, è intervenuta un’integrazione normativa ad opera del DPCM del 26 aprile 2020, che dà l’avvio alla cd. “Fase-2” dell’emergenza sanitaria: il provvedimento si sofferma, tra l’altro, sullo smart-working nell’ambito privatistico precisando, all’art. 1, lett. gg), che, fermo restando quanto previsto dall’art. 87 del d.l. n. 18/2020 per il lavoro pubblico, la modalità di lavoro agile può essere applicata dai datori privati a ogni rapporto di lavoro subordinato, anche in assenza di accordi individuali. Il quadro normativo che ha caratterizzato in generale la legislazione emergenziale legata al Covid-19 si è arricchito, infine, di un nuovo tassello, a seguito della conversione nella legge n. 27/2020 del Decreto “Cura Italia”: all’esito dei lavori parlamentari, sono state sostanzialmente confermate, seppur con alcune modifiche di rilievo le disposizioni emanate dal precedente decreto in materia di lavoro agile. Successivamente il DPCM d’urgenza del 18/10/2020, oltre ad introdurre nuove restrizioni, come quelle che interessano da vicino i luoghi più a rischio caratterizzati dal verificarsi di assembramenti di giovani (che spesso non indossano neppure la mascherina) presenta novità sia per il lavoro privato che per il pubblico. Nel

3 “Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”. 4 “Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull’intero territorio nazionale” 5 “Misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”

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smart-working

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comparto pubblico, infatti, il 75% di personale dovrà essere in smart working e tutte le riunioni dovranno tenersi in videoconferenza (eccetto che in casi straordinari). Nel settore privato, invece il datore di lavoro dovrà incentivare lo smart working qualora le mansioni lo consentano. L’istituto dello smart working si conferma pertanto con un ruolo fondamentale nella gestione dell’emergenza, ma indicazioni ancora più specifiche arriveranno con regole ad hoc che saranno emanate con un successivo provvedimento della ministra Dadone. Il DPCM del 18 ottobre 2020 prevede inoltre che “nell’ambito delle pubbliche amministrazioni le riunioni si svolgono in modalità a distanza, salvo la sussistenza di motivate ragioni; è fortemente raccomandato svolgere anche le riunioni private in modalità a distanza”. Per i dipendenti privati e i professionisti, il governo ha inoltre annunciato delle “raccomandazioni” a limitare gli spostamenti per finalità lavorative e incrementare la quota di smart working. Da tenere presente, però, che la proroga dello stato di emergenza fino al 31 gennaio 2021 ha comunque esteso anche la possibilità del cosiddetto smart working “semplificato” introdotto in fase di emergenza. Tale prolungamento dello stato di emergenza permette quindi alle aziende di collocare i lavoratori in smart working in modo unilaterale e senza stipulare gli accordi individuali previsti dalla legge 81/2017. Per i lavoratori disabili, i datori di lavoro, da dopo il 15 ottobre, possono stipulare degli accordi aziendali con le rappresentanze sindacali aziendali (RSA/RSU) o territoriali che regolamentino il ricorso allo smart working, prevedendo ad esempio priorità di accesso ai lavoratori con handicap o che assistano familiari in tali condizioni. Inoltre, possono ricorrere allo smart working o a un congedo indennizzato (al 50% delle retribuzione) solo i genitori (lavoratori dipendenti) di figli sotto i 14 anni messi in quarantena dall’Asl dopo un contagio, avvenuto a scuola, con una persona positiva al Covid, come ha disposto il decreto legge 111/2020 entrato in vigore il 9 settembre. A usufruire del congedo, può essere uno solo dei genitori conviventi con il figlio, oppure entrambi, ma alternativamente, come precisato anche dall’Inps. Il decreto firmato dal Ministro per la Pubblica Amministrazione Fabiana Dadone sullo smart working che attua le norme del decreto Rilancio, alla luce dei Dpcm del 13 e 18 ottobre si pone il fine di adeguare l’esigenza di contrasto alla pandemia con la necessità di continuità nell’erogazione dei servizi, prevedendo che: ciascuna pubblica amministrazione con immediatezza assicura su base giornaliera, settimanale o plurisettimanale lo svolgimento del lavoro agile almeno al 50% del personale impegnato in attività che possono essere svolte secondo questa modalità. Può farlo in modalità sempli-

ficata ancora fino al 31 dicembre 2020; gli enti, tenendo anche conto dell’evolversi della situazione epidemiologica, assicurano in ogni caso le percentuali più elevate possibili di lavoro agile, compatibili con le loro potenzialità organizzative e con la qualità e l’effettività del servizio erogato; il lavoratore agile alterna giornate lavorate in presenza e giornate lavorate da remoto, con una equilibrata flessibilità e comunque alla luce delle prescrizioni sanitarie vigenti e di quanto stabilito dai protocolli di sicurezza; le amministrazioni adeguano i sistemi di misurazione e valutazione della performance alle specificità del lavoro agile. Il dirigente, verificando anche i feedback che arrivano dall’utenza e dal mondo produttivo, monitora le prestazioni rese in smart working da un punto di vista sia quantitativo sia qualitativo; lo smart working si svolge di norma senza vincoli di orario e luogo di lavoro, ma può essere organizzato per specifiche fasce di contattabilità, senza maggiori carichi di lavoro. In ogni caso, al lavoratore sono garantiti i tempi di riposo e la disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro. Inoltre, i dipendenti in modalità agile non devono subire penalizzazioni professionali e di carriera; le amministrazioni si adoperano per mettere a disposizione i dispositivi informatici e digitali ritenuti necessari, ma comunque rimane consentito l’utilizzo di strumentazione di proprietà del dipendente; l’amministrazione favorisce il lavoro agile per i lavoratori disabili o fragili anche attraverso l’assegnazione di mansioni diverse e di uguale inquadramento. In ogni caso, promuove il loro impegno in attività di formazione; nella rotazione del personale, l’ente fa riferimento a criteri di priorità che considerino anche le condizioni di salute dei componenti del nucleo familiare del dipendente, della presenza di figli minori di quattordici anni, della distanza tra la zona di residenza o di domicilio e la sede di lavoro, ma anche del numero e della tipologia dei mezzi di trasporto utilizzati e dei relativi tempi di percorrenza; data l’importanza della continuità dell’azione amministrativa e della rapida conclusione dei procedimenti, l’ente individua comunque ulteriori fasce temporali di flessibilità oraria in entrata e in uscita rispetto a quelle adottate. Conclusioni L’emergenza Coronavirus ha innalzato lo smart-working a strumento emergenziale per eccellenza, oggetto di forte incentivazione da parte del nostro legislatore (sino a tradursi in certi casi in un vero e proprio obbligo) al fine di limitare le possibilità di contagio da Covid-19 e, allo


smart-working stesso tempo, evitare il completo blocco delle attività produttive in un momento già di per sé delicato per l’economia nazionale. Alcuni modelli organizzativi a seguito di tale modalità lavorativa ne escono migliorati: dopo l’emergenza le aziende che si sono avvicinate a nuove modulazioni degli orari e degli spazi di lavoro procederanno probabilmente verso una ottimizzazione delle risorse al fine di armonizzare i tempi professionali e personali dei lavoratori. Il testo del Recovery Plan (nella bozza a disposizione del 12/01/2021) dispone al punto 1) che “la nuova visione digitale della PA utilizza anche lo smart-working, in coerenza con la recente Road Map tracciata dalla Commissione Europea “New start to address the challenges of work-life balance faced by working families”, come uno degli strumenti che consentono di aumentare la flessibilità sul lavoro. Agisce, in particolare, sul doppio

fronte dell’orario e della sede. Può essere utilizzato da solo o insieme a Telelavoro e Co-working. L’obiettivo di tutti questi strumenti è costruire modelli di organizzazione del lavoro innovativi che consentano a donne e uomini di conciliare la propria vita professionale con quella familiare, tema che rientra tra le priorità strategiche della programmazione del Recovery. Il miglioramento del benessere di lavoratrici e lavoratori, oltre a incidere direttamente sui singoli, ha anche un effetto indotto sulla collettività, perché è provato che negli ambienti in cui si lavora bene aumenta l’efficienza interna. Principi che se, applicati alla Pubblica amministrazione, consentono di dare vita a una burocrazia sempre più amica dei cittadini”. Un ulteriore passaggio verso la P.A. moderna, competitiva ma soprattutto orientata alle politiche del benessere dei lavoratori: le sfide future sono già attuali.

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confindustria dispositivi medici Lorenzo Terranova - Direttore Rapporti istituzionali - Confindustria Dispositivi medici

Le politiche pubbliche d’acquisto dei dispositivi medici

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stata pubblicata l’ultima edizione dell’Osservatorio delle Gare Europee e Regionali (OGE), con i dati relativi al 2019, che analizza fin dal 2011 l’andamento delle gare bandite da stazioni appaltanti pubbliche di dispositivi medici. Sono prese in esame tutte quelle gare cosiddette “soprasoglia”. L’Osservatorio è coordinato scientificamente dal CEBIDA e supportato incondizionatamente da Confindustria Dispositivi Medici. Va sottolineato che da qualche anno tale Osservatorio, oltre ad analizzare le gare bandite dalle stazioni appaltanti italiane, sviluppa anche un confronto con gli altri tre principali Paesi dell’Unione Europe: Spagna Francia e Germania. Infatti, le fonti del Codice degli Appalti sono tre direttive europee (23, 24 e 25 del 2014), e diventa quindi interessante approfondire se alcune dinamiche che si manifestano in Italia hanno avuto il medesimo andamento in altri Paesi. Ovviamente, questo confronto richiede una serie di cautele considerando i diversi modelli di sistema sanitario. Circoscrivendo all’analisi dei confronti internazionali, dal Rapporto emergono alcune tendenze interessanti: in tutti i Paesi considerati, la gran parte delle gare segue una procedura aperta (nel 2019, tranne la Germania con oltre l’89% dei bandi di gara, gli altri Paesi hanno avuto incidenze oltre al 95%). Viceversa è interessante che in Italia, la procedura alternativa più utilizzata è quella ristretta (2,3%), a differenza degli altri Paesi ove quella più utilizzata è la procedura negoziata; in Italia la durata media delle forniture prevista nei bandi è pari ad oltre 3 anni (1.189 giorni nel 2019), contro i valori della Francia di 2,5 anni (950 giorni) e poco meno di 2 anni di Germania e Spagna (rispettivamente 625 e 641 giorni); si registra fra i 4 Paesi un’incidenza differente nella definizione dei criteri di aggiudicazione: una quota molto alta (95% o superiore) dei bandi prevede il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per Francia e Spagna. In Italia questo criterio copre l’86%

delle gare e in Germania il 67%; relativamente ai tempi di aggiudicazione dei bandi, per il 2018, in Italia si registra il valore più alto (306 giorni) rispetto agli altri Paesi (da 162 giorni della Germania a 232 della Spagna), in posizione intermedia la Francia (211). Da queste informazioni emerge, che nel nostro Paese la durata delle forniture e i tempi di aggiudicazione sono maggiori rispetto agli altri Paesi, con l’effetto di ridurre i vantaggi di una competizione (nell’analisi, non vengono - inoltre - conteggiati tutti quegli ulteriori tempi dovuti a proroghe tecniche, rinnovi, …). Questo, rendendo più lenta la “rotazione” fra i competitori, ha per effetto anche una minore disponibilità di innovazione. A questo aspetto si associa la riflessione sul numero di bandi. Tranne in Germania, negli altri Paesi negli ultimi anni si è decisamente (>>>) a oltre i 1.000 all’anno (nel 2019, Italia 1.079 bandi; Francia 1.192; Spagna 1.342; Germania 655). Anche questo valore offre una interessante interpretazione, poiché a fronte di un elevato numero di bandi pubblicati, corrispondono durate medie delle forniture e tempi di aggiudicazione elevate. Tali fattori sono sintomatici delle complessità amministrative (al riguardo andrebbero anche evidenziati come in questa tempistica incidano i tempi della giustizia amministrativa). Un’ulteriore considerazione è che in Italia, Francia e Spagna le differenze sugli aspetti strettamente legati alle gare (ad esempio: la quota di bandi in procedura aperta, l’incidenza del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa) sono minimali. Pertanto, sempre considerando i diversi modelli di sistemi sanitari, il confronto con questi Paesi apre la necessità di rivedere taluni passaggi amministrativi al fine di garantire una maggiore efficienza della gara. Una terza considerazione riguarda il numero medio di offerte. La Germania forse rappresenta una eccezione, ma l’Italia – rispetto a Francia e Spagna – ha un minore numero medio di offerte per avvisi di aggiudicazione.


confindustria dispositivi medici Pertanto, l’obiettivo strategico sottostante alla direttiva che era quello di allargare il livello competitivo fra i produttori non ha portato agli stessi risultati in Italia rispetto ad altri Paesi. Va, infatti, ricordato che alla base delle scelte di public procurement non vi sono (non vi dovrebbero) essere scelte di ridurre/controllare la spesa pubblica, quanto quelle di “stimolare il livello di attività economica e creare occupazione, proteggere le imprese nazionali dalla competizione globale favorendone gli investimenti e la crescita, aumentare la competitività dei “campioni nazionali” e la loro capacità innovativa, diminuire le disparità regionali”1, “driver dell’innovazione”2, “migliore uso delle risorse pubbliche e riduzione della corruzione nei processi di acquisto”3. Dai dati emergenti dall’Osservatorio, si conferma che tutti i Paesi stanno orientandosi verso il modello a procedura aperta (e ciò rafforza la competizione). Questo implica di dover trattare in maniera specifica quando si tratta di innovazione, di esigenze da costruire ad hoc. Si tratta, pertanto, in questi casi di applicare istituti giuridici diversi (peraltro già previsti dai diversi codici degli appalti). In Italia, il grado di utilizzo di queste tipologie contrattuali è molto basso. Inoltre, diventa prioritario rivedere/semplificare il processo amministrativo, molto lungo e laborioso. Le criticità connesse alle difficoltà amministrative riguardano gli impatti di sistema: scarsa attrattività per gli investimenti (in produzione o in R&S); difficoltà nel reshoring; minore disponibilità di innovazione. Focalizzando l’analisi al confronto fra le diverse Regioni italiane, si registra la conferma di alcuni trend già presenti da tempo: una crescita consistente del valore complessivo dei bandi (10.912 mln. del 2019 rispetto ai circa 7.500 del 2017 e del 2018) una costante crescita del valore dei bandi attraverso acquisti centralizzati (5.120 mln. su 10.912 mln.) e attraverso Consip (1.100 mln.).

sussiste una (intuitiva) correlazione fra la dimensione media del valore del bando di gara e il tipo di stazione appaltante. Nell’ordine, classificando per dimensione: CONSIP, centrali regionali di acquisto, unioni di acquisto, acquisto da parte delle ASL uniche regionali, acquisti singoli, altri. Andando a suddividere i bandi di gara per tipologia di bene, i mercati maggiori sono quelli del biomedicale (circa 2.900 mln.) e del biomedicale strumentale (poco più di 2.500 mln.) e rappresentano circa la metà del valore dei bandi di gara. Va però evidenziato che la voce a maggiore impatto è quella definibile “multicomparto” (oltre 3.300 mln.), una voce che comprende nella medesima gara acquisti di “famiglie” di dispositivi medici differenti. Un’analisi evolutiva degli ultimi anni offre anche una dimensione interessante dei trend. Si registra: (i) una crescita (in termini assoluti e percentuali) dei bandi relativi al biomedicale strumentale; (ii) un valore sostanzialmente stabile per il comparto biomedicale ed elettromedicale diagnostico, nonché per il cosiddetto multicomparto; (iii) una riduzione che il mercato delle attrezzature tecniche e della diagnostica in vitro. Una particolare attenzione va posta al tema delle gare suddivise per Regione. Le Regioni che hanno, nel 2019, indetto gare per valori complessivi alti sono, nell’ordine: Toscana (1.613 mln.), Lazio (1.398), Lombardia (1.274), Emilia Romagna (897). Le altre Regioni registrano importi minori a 800 mln. di €. Questa informazione va correlata alla dimensione media (valore medio) dei bandi. Le Regioni con dimensione media dei bandi oltre ai 10 mln. di € sono nell’ordine: Toscana (26,4 mln.), Emilia Romagna (17,6 mln.), Umbria (14,5 mln.), Sicilia (13,7 mln.) e Lazio (11,9 mln.). Mettendo a rapporto i valori complessivi per l’importo medio emerge che la Regione Toscana ha pubblicato 61 bandi contro i 142 della Lombardia, 117 del Lazio, 109 del Piemonte. Pur trattandosi di valori medi, sorge la domanda che tipo di riflessione va fatta in termini di efficienza? Vi è un’efficienza intrinseca

Una considerazione è questa: in Italia, Francia e Spagna le differenze sugli aspetti strettamente legati alle gare (ad esempio: la quota di bandi in procedura aperta, l’incidenza del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa) sono minimali

1 Edquist et al (a cura di), Public Technology Procurement and Innovation, 2000 2 Edquist et al, Public Procurement for Innovation, 2015 3 Guarnieri et al, Can public procurement be strategic? A future agenda proposition, 2019

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confindustria dispositivi medici molto differenziata fra le stazioni appaltanti in termini di ore/lavoro, ovvero possono disegnarsi traiettorie di efficienza? Una proxy per misurare l’efficienza amministrativa delle stazioni appaltanti (seppur con tutte le cautele e i distinguo) è la durata media delle forniture. In generale, questa si è leggermente ridotta rispetto al 2019, da 1.206 giorni a 1.189 giorni (ma si parla di oltre 3 anni e 4 mesi). Disaggregando i dati per Regione i valori più bassi si registrano nel Lazio (807 giorni), Campania (1.004 giorni), Liguria (1.033) giorni, e Sardegna (1.045) giorni. Da qui si possono sviluppare alcune considerazioni: persiste la difficoltà a indire gare in tempi rapidi. Escludendo il caso Lazio, nessuna Regione riesce ad ottenere un valore inferiore a 1.000 giorni se si entra nel merito delle singole Regioni si osserva

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come il peso (espresso in termini di valore dei bandi di gara) dei soggetti aggregatori sul complesso delle gare a livello regiomnaknel triennio 2017/2018 sia: cresciuto: Basilicata, Emilia Romagna, Liguria, Valle d’Aosta ridotto (e assumono pesi rilevanti modalità quali - principalmente – le unioni di acquisto): Abruzzo, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Lombardia. altalenante: Campania, Lazio, Piemonte, Sicilia, Toscana, Umbria e Veneto. sembra emergere come il ruolo e le funzioni dei soggetti aggregatori non sia ancora (dopo diversi anni) ben definito. Infatti, va rilevato che in alcune Regioni i soggetti aggregatori hanno sostanzialmente delegato le attività di indire bandi di gara ad altri soggetti. In questo caso si parla “ASL acquirente unica” e “unione di acquisti”.


iscrizione in RDM e marcatura CE Rosamaria Berloco - Andrea Di Leo - Co-founder Legal Team - Roma

Medical Device e procedure di gara. Iscrizione in RDM e marcatura CE: requisito di partecipazione o di esecuzione?

A

lcune recenti sentenze del Giudice amministrativo hanno, nuovamente, preso in esame una questione assai dibattuta tra operatori e stazioni appaltanti nel settore delle forniture di dispositivi medicali, ossia se l’iscrizione nel RDM (repertorio dispositivi medici) e la marcatura CE siano da considerarsi un requisito di partecipazione (la cui assenza impedisce la presentazione dell’offerta) o un requisito attinente all’esecuzione del contratto (da soddisfare, quindi, al momento della fornitura). In questo contributo, quindi, nel ripercorrere il quadro regolatorio, cercheremo di ricostruire gli attuali orientamenti giurisprudenziali al fine di fornire, per quanto possibile, alcune indicazioni operative. Commerciabilità dei medical devices: quadro normativo e regolatorio Per dispositivo medico si intende, come noto, una categoria di prodotti (strumenti, apparecchi, impianti, sostanze, software o altro) destinati ad essere impiegati nell’uomo o sull’uomo a scopo di diagnosi, prevenzione, controllo o terapia,

attenuazione o compensazione di ferite o handicap, ma anche di studio, sostituzione o modifica dell’anatomia o di un processo fisiologico, o di controllo del concepimento.1 L’immissione in commercio dei dispositivi medici è regolamentata su base europea, sicché in tutto il mercato interno nonché nei Paesi EFTA vige un medesimo sistema. La normativa europea di riferimento in materia di commerciabilità di prodotti sanitari è data dalla Direttiva 90/385/ CEE, relativa ai dispositivi medici impiantabili attivi, e dalla Direttiva 93/42/CEE concernente le procedure di valutazione della conformità dei dispositivi medici. Nel nostro ordinamento, la Direttiva 93/42/CEE è stata recepita nel d.lgs. 46/1997. Da un punto di vista generale, l’art. 1, comma 2, lett. h) e i) del d.lgs. 46/1997 sancisce che l’immissione in commercio e la messa in servizio di un prodotto che rientri nella definizione di dispositivo medico può avvenire solo previa marcatura CE, salvo alcune eccezioni2. Per ottenere la relativa marcatura CE, il fabbricante del

Il fabbricante può “autocertificare” un prodotto con marcatura CE, dopo aver verificato la rispondenza ai requisiti di sicurezza richiesti dalle Direttive; il marchio CE deve essere apposto prima che il prodotto sia immesso sul mercato, salvo il caso che Direttive specifiche non dispongano altrimenti

1 In particolare, l’art. 1, d.lgs. n. 46/97, che recepisce pienamente la definizione contenuta nella Direttiva 93/42/CE, definisce il dispositivo medico come “qualunque strumento, apparecchio, impianto, software, sostanza o altro prodotto, utilizzato da solo o in combinazione, compreso il software destinato dal fabbricante ad essere impiegato specificamente con finalità diagnostiche o terapeutiche e necessario al corretto funzionamento del dispositivo, destinato dal fabbricante ad essere impiegato sull’uomo a fini di diagnosi, prevenzione, controllo, terapia o attenuazione di una malattia; di diagnosi, controllo, terapia, attenuazione o compensazione di una ferita o di un handicap; di studio, sostituzione o modifica dell’anatomia o di un processo fisiologico; di intervento sul concepimento, il quale prodotto non eserciti l’azione principale, nel o sul corpo umano, cui è destinato, con mezzi farmacologici o immunologici né mediante processo metabolico ma la cui funzione possa essere coadiuvata da tali mezzi”. 2 Il decreto specifica che per messa in commercio si intende “la prima messa a disposizione a titolo oneroso o gratuito di dispositivi, esclusi quelli destinati alle indagini cliniche, in vista della distribuzione o utilizzazione sul mercato comunitario, indipendentemente dal fatto che si tratti di

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dispositivo medico, al quale è imputabile la responsabilità della conformità legislativa, deve dimostrare di soddisfare i requisiti essenziali di sicurezza ed efficacia specificati nell’allegato I del d.lgs. 46/1997, ossia “i dispositivi devono essere progettati e fabbricati in modo che la loro utilizzazione non comprometta lo stato clinico e la sicurezza dei pazienti, né la sicurezza e la salute degli utilizzatori ed eventualmente di terzi, quando siano utilizzati alle condizioni e per i fini previsti, fermo restando che gli eventuali rischi debbono essere di livello accettabile, tenuto conto del beneficio apportato al paziente, e compatibili con un elevato livello di protezione della salute e della sicurezza”. A sua volta, l’art. 3 prevede che “I dispositivi possono essere immessi in commercio o messi in servizio unicamente se rispondono ai requisiti prescritti dal presente decreto, sono correttamente forniti e installati, sono oggetto di un’adeguata manutenzione e sono utilizzati in conformità della loro destinazione”. Specifica poi l’art. 16, comma 1, d. lgs. 46/1997 che i dispositivi che soddisfano i requisiti essenziali previsti all’art. 3, al momento dell’immissione in commercio, devono possedere una marcatura di conformità CE. A seconda della classe di rischio del dispositivo, sono previste procedure più o meno complesse ai fini dell’ottenimento della marcatura CE. Per poter classificare il dispositivo medico, il fabbricante dovrà attenersi alle regole contenute nell’allegato IX del d.lgs. 46/97 per cui tanto più elevata è la classe di rischio, tanto maggiori saranno le garanzie di sicurezza che il fabbricante dovrà fornire per la produzione del dispositivo. Dalla lettura delle disposizioni emerge che la rispondenza dei dispositivi medici ai requisiti prescritti è condizione non solo per il rilascio della certificazione di conformità CE, ma anche per l’immissione in commercio, e dunque la vendita dei prodotti. Tra le ulteriori incombenze di cui è onerato il fabbricante, l’art. 13 del d.lgs. 46/1997 prevede la comunicazione al Ministero della Salute di tutti i dati, le caratteristiche, le proprietà e le istruzioni per l’uso del dispositivo messo in commercio nel territorio italiano. Parallelamente alla certificazione di conformità CE prevista dal d.lgs. 46/1997, il d.M. 21.12.2009 del Ministero della Salute prevede un ulteriore obbligo di registrazione presso il Repertorio nazionale dei dispositivi medici. L’adempimento di tale obbligo informativo è essenziale per poter commercializzare per la prima volta in Italia un dispositivo medico. A riprova di ciò, l’art. 5, comma 1, del d.M. 21.12.2020 prevede che i dispositivi medici che vengono per la prima volta commercializza-

ti in Italia “possono essere acquistati, utilizzati o dispensati nell’ambito del Servizio sanitario nazionale dopo che il legale responsabile della struttura acquirente o un suo delegato ha verificato l’ottemperanza agli obblighi di comunicazione e informazione previsti dall’art. 13 del decreto legislativo 24 febbraio 1997, n. 46”. Ai fini della rassegna normativa in esame risultano indispensabili due precisazioni. In primo luogo, occorre segnalare che l’attuale normativa sul sistema di registrazione dei dispositivi medicali è in corso di evoluzione. È stato infatti approvato un nuovo Regolamento europeo sui dispositivi medici, Reg. UE 2017/745 destinato ad abrogare le precedenti direttive e a divenire l’unico riferimento normativo per l’immissione sul mercato di dispositivi medici. A seguito della recente proroga, finalizzata ad evitare di porre ostacoli legislativi alla lotta al COVID-19 e a scongiurare una mancanza di scorte o ritardi nella produzione di essenziali dispositivi medici sul mercato, lo stesso sarà applicabile a partire dal 26 maggio 2021. In secondo luogo, è da segnalare che la rapida diffusione della pandemia di Covid-19 ha determinato l’adozione di atti normativi e regolatori a carattere derogatorio, con l’obiettivo fondamentale di facilitare la produzione e importazione di dispositivi di protezione individuale ed ogni altro tipo di fornitura medica necessaria per il contrasto al virus.3 La giurisprudenza amministrativa e l’incerta qualificazione di marcatura CE e registrazione in RDM quale requisito di partecipazione o di esecuzione, tra legge e lex specialis Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, in linea generale, è consentito offrire un dispositivo medicale privo della marcatura CE, ovvero dell’iscrizione al repertorio tenuto presso il Ministero della Salute, purché tali requisiti siano soddisfatti prima dell’esecuzione dell’appalto (ossia della consegna del bene). In sostanza, si ritiene che la marcatura CE e l’iscrizione al RDM siano requisiti di esecuzione dell’appalto di forniture. Tale orientamento si fonda sulla considerazione che le apparecchiature e i sistemi medici sono soggetti a una costante e progressiva innovazione delle relative componenti di prodotto. Rendere obbligatorio il possesso della certificazione al momento dell’offerta ostacolerebbe la ricerca delle stazioni appaltanti di una continua innovazione e aggiornamento dei dispositivi medici. Diversamente, altra parte della giurisprudenza ritiene che la marcatura CE o l’iscrizione al RDM vadano possedute al momento della partecipazione alla gara. Ciò, specie, ma non solo, nei casi in cui

dispositivi nuovi o rimessi a nuovo” (art. 1, comma 2, lett. h) d.lgs. 46/1997) mentre per messa in servizio “la fase in cui il dispositivo è stato reso disponibile all’utilizzatore finale in quanto pronto per la prima utilizzazione sul mercato comunitario secondo la sua destinazione d’uso”(art. 1, comma 2, lett. i) d.lgs. 46/1997). 3 Si tratta non solo di provvedimenti di natura nazionale (si pensi al c.d. decreto Cura Italia, d.l. 18/2020) ma anche di Raccomandazioni e Linee guida emanate a livello europeo che hanno consentito di derogare alla direttiva 92/42/CEE. In via meramente esemplificativa, la Commissione ha autorizzato gli stati membri ad immettere nel mercato dispositivi medici e dispositivi di protezione individuale privi della marcatura CE o che non hanno rispettato a pieno le procedure di valutazione di conformità, purché siano in linea con i requisiti essenziali di sicurezza richiesti.


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tali adempimenti siano espressamente richiesti dalla lex specialis di gara. Si tratterebbe, dunque, di requisiti minimi di partecipazione la cui assenza determina l’esclusione dalla gara. Secondo quest’ultima giurisprudenza, la cui emblematica pronuncia è rappresentata da Cons. St., Sez. III, 26 maggio 2017, n. 2514, l’omologazione e l’iscrizione nei relativi elenchi tenuti dal Ministero della Salute costituiscono “un requisito legale dei prodotti medici in difetto del quale gli stessi non sono commerciabili, con la conseguente inammissibilità di un’offerta in gara che abbia a oggetto prodotti non regolarmente certificati e registrati”. Oltre che nei casi in cui i suddetti requisiti siano espressamente previsti dal disciplinare di gara, una simile conclusione sarebbe giustificata dalla stessa normativa statale, che impone importanti sanzioni per chi commercia prodotti medici irregolari. In sostanza, un prodotto privo di certificazione di conformità CE e/o della relativa registrazione presso il RDM non potrebbe essere legittimamente offerto in gara (e ciò, a maggior ragione, se a richiederlo è la stessa lex specialis di gara, con previsione, per così dire, ricognitiva di un obbligo direttamente derivante dalla legge). In tal senso, secondo TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 14 gennaio

2019, n. 52, è da dubitare che “l’immissione in commercio di un prodotto coincida con la sottoscrizione del contratto per la fornitura del prodotto stesso, potendo invece ragionevolmente sostenersi che la partecipazione a una pubblica gara mediante offerta del prodotto costituisca un’ipotesi di commercializzazione, intesa come presentazione al mercato di un bene avente tutte le caratteristiche essenziali per il suo utilizzo, compresa la marchiatura CE ”. A sostegno della diversa tesi, che oggi sembra maggioritaria, si schierano invece due recentissime pronunce del Giudice amministrativo. Partiamo dalla sentenza del TAR Basilicata, Sez. I, 27 gennaio 2020, n. 108 secondo cui, la registrazione nel RDM costituisce mero requisito di esecuzione del contratto, da possedere al momento della stipula del contratto/ricezione degli ordinativi e non già di partecipazione alla gara. Conformemente a Cons. St., Sez. III, 27 giugno 2017, n. 3145 (che conferma TAR Basilicata, Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 18), la pronuncia in esame sostiene che la normativa richiede il possesso della certificazione CE e l’iscrizione al repertorio ministeriale solo ai fini della messa in commercio che, nel caso di appalti pubblici, è “identificata con il momento della stipula del contratto; ovvero con il momento dell’ordinazione dei dispositivi con-


iscrizione in RDM e marcatura CE templati in contratto qualora intervengano successivi ulteriori aggiornamenti dei dispositivi medici dedotti nell’obbligazione contrattuale originaria”. Il momento dell’offerta si pone fisiologicamente, secondo tale ricostruzione giurisprudenziale, in una fase pre-negoziale, che precede la commercializzazione vera e propria, la distribuzione e il concreto scambio. Sicché, l’anticipazione del possesso della certificazione al momento dell’offerta, secondo il TAR Basilicata, è irragionevole poiché penalizza l’interesse delle stazioni appaltanti ad una continua ricerca di dispositivi medici più tecnologici ed efficienti. Tale interpretazione viene ribadita anche da TAR Sardegna, Sez. I, 18 settembre 2017, n. 587 secondo cui “il prodotto deve essere, solo al momento del contratto, dotato del “numero”, oltre che del marchio CE (rispetto ad una procedura che si era già perfezionata, e che si è completata nel corso della gara); con necessario distinguo tra fase della partecipazione (ove è sufficiente il perfezionamento nascente dall’informativa eseguita) rispetto a quella di esecuzione (stipula del contratto)”. In tale logica sembrerebbe da escludersi la legittimità di una lex specialis che espressamente preveda la marcatura CE o l’iscrizione nel RDM in fase di presentazione delle offerte, essendo le suddette condizioni necessarie solo per la messa

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in commercio, ossia al momento dell’aggiudicazione o della stipula del contratto. Un chiarimento al riguardo è fornito dalla seconda sentenza cui si accennava, ossia Cons. St., Sez. III, 30 luglio 2020 n. 4849. Qui il Giudice amministrativo rileva che da una lettura complessiva della normativa in materia di dispositivi medici non discende che, già al momento delle offerte, debba essere perfezionata la procedura di registrazione di cui al d.M. del 2009. Tuttavia, precisa sempre la sentenza n. 4849/2020, non è da ritenersi a priori illegittima la richiesta di una stazione appaltante di prodotti già muniti di registrazione al momento della presentazione dell’offerta. Una simile richiesta, infatti, permette all’amministrazione, in un’ottica anche di efficienza, di sottrarsi “all’alea di aggiudicare ad un soggetto con il quale, in seguito all’eventuale esito negativo della richiesta di registrazione del prodotto offerto”, possa successivamente rivelarsi impossibile stipulare il contratto. In sostanza, laddove la stazione appaltante decida di configurare l’iscrizione a repertorio o la certificazione CE come requisito di partecipazione, deve renderlo espresso (ossia immediatamente percepibile da parte degli operatori economici, in ossequio al noto principio del clare loqui) nella lex specialis di gara. Diversamente, laddove l’ammi-


iscrizione in RDM e marcatura CE nistrazione non abbia specificato nulla, o si sia limitata a rinviare alla normativa nazionale in materia, l’esclusione di una società in attesa di registrazione è da ritenersi illegittima, posto che la disciplina ex d. lgs. 46/97 – d.M. 21.12.2009 non impone l’iscrizione nel repertorio dei dispositivi medici o la marcatura CE prima della messa in servizio o della immissione in commercio. Considerazioni generali sulla rilevanza, quale requisito di partecipazione/esecuzione, del parametro della “commerciabilità” del bene offerto in gara Dalla giurisprudenza presa in esame è possibile trarre il principio per cui la lex specialis di gara può legittimamente imporre dei requisiti diversi e ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge statale, se del caso elevando taluni requisiti previsti dalla normativa ai fini della commerciabilità a requisiti di partecipazione. Tale principio pare potersi estendere a tutte le “certificazioni” concernenti la “commerciabilità” di un prodotto. Si pensi ai materiali utilizzati da un’impresa edilizia tenuta ad eseguire un lavoro o alla fornitura di particolari apparecchiature informatiche. È bene tuttavia precisare che il marchio CE è obbligatorio solo per i prodotti per i quali esistono specifiche direttive a livello europeo, che ai fini della circolazione nel mercato dei beni richiedono l’apposizione del marchio CE. Si tratta delle c.d. direttive del “Nuovo approccio” (es. giocattoli, tutti i prodotti elettrici, occhiali da sole e da vista, apparecchi a gas o a pressione). La marcatura viene apposta dal fabbricante, se risiede nell’Unione Europea, o da un suo rappresentante, da lui autorizzato, stabilito nel territorio dell’UE. In mancanza anche di quest’ultimo, la responsabilità della marcatura CE ricade sul soggetto che effettua la prima immissione del prodotto nel mercato comunitario. Tra gli obblighi del fabbricante, vi è la redazione di una “Dichiarazione di Conformità”, in cui è tenuto ad indicare la Direttiva applicata e le norme tecniche utilizzate. Inoltre, il fabbricante è tenuto a predisporre e custodire un “Fascicolo Tecnico” descrittivo delle caratteristiche tecniche del prodotto e delle prove da lui effettuate comprovanti la sicurezza del prodotto stesso. Tale documentazione deve essere resa disponibile a richiesta delle Autorità tenute alla sorveglianza del mercato. Per alcune tipologie di prodotto, le Direttive impongono il ricorso ad un c.d. ON, ossia ad un istituto tecnico riconosciuto dalle Autorità competenti di uno Stato membro dell’UE e notificato alla Commissione europea. L’Organismo, sulla base di prove di laboratorio, accerta la conformità dei prodotti ai requisiti essenziali di sicurezza prescritti

dalla/e Direttiva/e che li riguardano. Negli altri casi il fabbricante può “autocertificare” il prodotto apponendo la marcatura CE, dopo aver proceduto egli stesso alle verifiche di rispondenza ai requisiti di sicurezza richiesti dalle Direttive stesse. Il marchio CE deve essere apposto prima che il prodotto sia immesso sul mercato, salvo il caso che Direttive specifiche non dispongano altrimenti. La giurisprudenza appare orientata nell’interpretare clausole richiedenti certificazioni ai fini partecipativi secondo il principio del favor partecipationis, evitando restrizioni alla concorrenza non correlate ad effettive esigenze della stazione appaltante. La discrezionalità di cui godono le stazioni appaltanti fa sì che queste possano fissare nella lex specialis parametri di capacità tecnica dei partecipanti e requisiti specifici dei beni da offrire, fermi restando i limiti imposti dai principi di ragionevolezza e proporzionalità, i quali consentono il sindacato giurisdizionale sull’idoneità e adeguatezza delle clausole del bando rispetto alla tipologia e all’oggetto dello specifico appalto. Di conseguenza, l’Amministrazione è legittimata a introdurre disposizioni atte a limitare la platea dei concorrenti al fine di consentire la partecipazione di soggetti particolarmente qualificati o all’acquisizione di beni dotati di determinate caratteristiche solo quando tale scelta non determini un effetto distorsivo della concorrenza, arrecando un immotivato pregiudizio alle chance competitive delle imprese che non posseggono il requisito (in tal senso, si veda ad esempio la disciplina ex art. 68 del d.lgs. 50/2016 relativa al noto “principio di equivalenza”)4. Così, ad esempio, restando sul tema delle certificazioni, è stata ritenuta illegittima la clausola della lex specialis che, a pena di esclusione, richiede ai concorrenti l’offerta di prodotti dotati della marcatura CE, in assenza di particolari esigenze che giustifichino tale richiesta (TAR Toscana, Sez. III, 20 gennaio 2018, n. 76).5 Conclusioni A ben vedere, la questione esaminata benché senz’altro suscettibile di oscillazioni giurisprudenziali, sembra suggerire l’assenza di una regola valida a priori, ponendosi, piuttosto, l’accento sul tenore letterale della lex specialis, con la necessità che la stessa qualifichi in maniera chiara (in ossequio al fondamentale principio del clare loqui) il requisito della iscrizione in RDM (e della marcatura CE) come attinente alla partecipazione ovvero alla esecuzione della commessa.

4 Ex multis: Cons. St., Sez. V, 23 settembre 2015, n. 4440; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 27 dicembre 2016, n. 3133; TAR Campania, Napoli, Sez. V, 3 maggio 2016, n. 2185. 5 Nel caso di specie si trattava della fornitura di filtri antibatterici per impianti idrici di distribuzione dell’acqua destinata a uso umano per l’ASL e ospedali locali. Si tratta di beni che non appartengono alla categoria dei dispositivi medici e, dunque, secondo il TAR, non necessitano della marcatura CE per essere commercializzati. Sicchè, in assenza di particolari esigenze specificate nella legge di gara, il TAR fiorentino ha annullato la clausola del bando di gara che richiedeva la marcatura CE a pena di esclusione perché, benchè antieconomica e comportante “intuibili maggiori oneri”, determinava “un inaccettabile effetto distorsivo della concorrenza, pregiudicando immotivatamente le chance competitive delle imprese che non posseggono il requisiti richiesto”.

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procedure d’acquisto Stefano Cresta - Cresta & Associati Studio Legale

Procedure centralizzate Consip e gare d’appalto per la sanità dei Soggetti aggregatori regionali: quale prevale?

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a tematica dell’assetto ordinamentale dei rapporti tra procedure di gara della Consip con quelle indette (in pendenza o in seguito alla conclusione delle prime) dai soggetti aggregatori regionali riveste una certa importanza per gli Enti e le Aziende del S.S.N. Ciò anzitutto in quanto l’asserita pariteticità (o, peggio, priorità) delle Convenzioni Quadro Consip rispetto a quelle dei Soggetti aggregatori regionali è stata (ed è) spesso strumentalizzata in sede giudiziaria dagli operatori economici aggiudicatari Consip al fine di impedire l’avvio o il completamento di gare d’appalto da parte dei menzionati Soggetti aggregatori. Tali iniziative, nell’attesa della definizione della lite, spesso portano a “stalli operativi” o comunque ad eccessive dilatazioni (con proroghe, tecniche o meno) dei rapporti in corso (o a “contratti-ponte”), che spesso conducono a non rispettare il carattere eccezionale di tali istituti, ribadito dalla giurisprudenza. Obblighi di approvvigionamento per gli Enti del S.S.N. tramite convenzioni dei Soggetti aggregatori regionali e con Consip A fini sistematici non pare inutile rammentare che tutti gli enti appartenenti al Servizio Sanitario Nazionale hanno l’obbligo di approvvigionarsi, per le categorie merceologiche di

ambito sanitario ed entro i limiti di spesa prefissati, ricorrendo alle centrali di committenza. Le convenzioni stipulate dalle centrali regionali di committenza sono state introdotte per conseguire significativi risparmi della spesa sanitaria mediante l’aggregazione degli acquisti a livello regionale, dall’articolo 1, comma 449, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 1, ed ulteriormente perfezionate dall’articolo 15, comma 13, lettera d), del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, e dall’articolo 9, commi 1 e 3, del d.l. 24 aprile 2014, n. 66, convertito dalla legge 23 giugno 2014, n. 89. Con l’articolo 1, comma 548, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, il legislatore ha, inoltre, stabilito che “gli enti del Servizio sanitario nazionale sono tenuti ad approvvigionarsi, relativamente alle categorie merceologiche del settore sanitario, come individuate dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all’articolo 9, comma 3, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, avvalendosi in via esclusiva, delle centrali regionali di committenza di riferimento, ovvero della Consip s.p.a.”. Sul punto della cogenza della previsione che obbliga gli enti del servizio sanitario ad avvalersi in prima battuta delle con-

Dal quadro normativo emerge che il principio di preferenza per la gara regionale non è stato affermato in termini rigidi ed automatici, viene però demandato alla Consip il compito di rinvenire le migliori condizioni di offerta da porre a disposizione delle amministrazioni sanitarie

1 Recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007” prevede, infatti, che: “Gli enti del Servizio Sanitario Nazionale sono in ogni caso tenuti ad approvvigionarsi utilizzando le convenzioni stipulate dalle centrali regionali di riferimento ovvero, qualora non siano operative convenzioni regionali, le convenzioni-quadro stipulate da Consip S.p.A.”;


procedure d’acquisto venzioni quadro sottoscritte dalle centrali di committenza regionali, la giurisprudenza è invero pacifica. Essa ha chiarito come nel sistema delineato dal legislatore “Consip svolga un ruolo sussidiario e ‘cedevole’ rispetto a quello delle centrali regionali”, e che “l’obbligo di avvalersi di queste ultime si giustifichi con la volontà del legislatore di salvaguardare gli investimenti effettuati dalle Regioni costituendo apposite centrali di acquisto”(Cons. Stato, III, decisione 22 febbraio 2018, n. 1136). Sul tema dei rapporti tra gara Consip e gare delle centrali di committenza regionali, con particolare riferimento a quelle aventi un medesimo ambito operativo (territoriale e prestazionale) di incidenza, ci si soffermerà più avanti. Acquisti in autonomia da parte degli Enti del S.S.N.: limiti Si segnala che con l’articolo 1, comma 510, della citata legge n. 208/2015, il legislatore ha riconosciuto agli enti del servizio sanitario nazionale obbligati ad approvvigionarsi attraverso le predette convenzioni la possibilità di procedere ad acquisti autonomi “esclusivamente a seguito di apposita autorizzazione specificamente motivata resa dall’organo di vertice amministrativo e trasmessa al competente ufficio della Corte dei Conti, qualora il bene o il servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell’amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali”. Come ha di recente precisato la giurisprudenza, l’indicata regola di approvvigionamento “può essere derogata, con conseguente riespansione della discrezionalità degli enti appartenenti al servizio sanitario, solo in presenza di determinate caratteristiche sostanziali dei beni e dei servizi nonché, considerata la rilevanza dell’incidenza della regola sulla spesa pubblica, dietro espressa e motivata autorizzazione dell’organo amministrativo apicale”2 L’onere motivazionale al riguardo va pertanto assolto puntualmente: per derogare all’obbligo di aderire alla convenzione regionale, una singola Azienda Sanitaria non potrebbe validamente invocare asserite condizioni più vantaggiose ritraibili dal mercato di riferimento (cfr. Cons. Stato, III, decisione 7 settembre 2015, n. 4133 e 7 maggio 2015, n. 2288, citate da Tar Piemonte, I, sent. 23 gennaio 2020, n. 61). Le Aziende Sanitarie sono, quindi, obbligate ad aderire alle convenzioni quadro stipulate dalla centrale di committenza regionale e, viceversa, non sono tenute ad effettuare alcun benchmark con eventuali convenzioni nazionali.

Convenzioni quadro Consip e convenzioni regionali: quale prevale? La giurisprudenza amministrativa ha rimarcato che l’esistenza di un disegno normativo che non preclude (ma anzi disciplina) la contestuale attivazione sia a livello centrale sia a livello regionale di aggregazione degli acquisti, non può far ritenere impedito alla centrale di acquisti regionale di attivarsi al fine di ripristinare l’iter fisiologico delineato dalla disciplina, anche dopo che sia stata avviata una gara Consip. Costituisce dato pacifico quello per cui la preferenza normativa per gli strumenti di acquisizione centralizzata regionale trova il suo fondamento nel principio di maggiore prossimità delle centrali di committenza regionali alle aree territoriali, i cui bisogni specifici risultano meglio intercettati rispetto a un servizio maggiormente standardizzato quale è quello offerto dal convenzionamento Consip in ambito nazionale. Del resto, il comportamento da tenere in caso di coesistenza di convenzioni quadro nazionali e convenzioni quadro regionali è già stato ampiamente affrontato dalla giurisprudenza3, che ha affermato la piena legittimità della bandizione e dell’attivazione di convenzioni quadro regionali in presenza di convenzioni quadro nazionali. In particolare, si sottolinea che la giurisprudenza (Cons. Stato, V, decisione n. 5826 dell’11.12.20174 ha statuito che: “Entrambe le disposizioni, sia pure con una formulazione non chiarissima, contribuiscono a delineare un complessivo quadro normativo in base al quale: - in via tendenziale, le gare per gli approvvigionamenti di interesse degli enti del SSN devono essere svolte dalle centrali di committenza regionali; - in via sostanzialmente suppletiva (e all’evidente fine di prevenire il rischio di possibili carenze in approvvigionamenti di estremo interesse e rilevanza) è altresì possibile che la centrale di committenza nazionale attivi specifiche convenzioni-quadro; - nell’ipotesi appena richiamata è da ritenere che l’intervento di sostanziale supplenza svolto da Consip non possa giungere ad alterare in modo definitivo il carattere evidentemente sussidiario di tale intervento, il quale per questa caratteristica avrà dunque valenza ‘cedevole’. Tale intervento, infatti (pur necessario nel perdurare dell’inadempienza da parte delle centrali di committenza regionali), perderà la sua ragion d’essere laddove le centrali regionali, ripristinando la fisiologica dinamica delineata dal legislatore, attivino i propri

2 V. ad esempio, Tar Piemonte, I, sentenza 23 gennaio 2020, n. 61, in www.giustizia-amministrativa.it. 3 Sentenza n. 423/2017 del Tar Emilia-Romagna, decisione n. 5826/2017 del Consiglio di Stato, decisione n. 362/2018 del Tar Emilia-Romagna, sentenza n. 1329/2019 del Consiglio di Stato, sentenza n. 584/2020 del Tar Marche rif. (in parte riformata dalla decisione n. 2707/2021 del Consiglio di Stato); sentenza n. 46/2021 del Tar Sardegna, Cagliari, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. 4 Richiamata anche da Cons. Stato, III, decisione 26 febbraio 2019, n. 1329, in www.giustizia-amministrativa.it, per cui: “In quest’ottica deve, concludersi che la prevalenza della gara svolta a livello regionale può essere affermata anche con riguardo alla fattispecie in esame, ovvero quando la procedura sia stata già aggiudicata, ai fini della stipula della convenzione quadro (su cui poi, di seguito ci si soffermerà per in merito all’affidamento). La gara svolta a livello regionale risponde – quanto alla aderenza alle necessità dell’area di riferimento e, ove svolta successivamente, anche per la coerenza con il mercato – ai principi di maggior efficienza, efficacia e economicità che regolano l’azione pubblica”, nonché dalla recente sentenza del Tar Sardegna, Cagliari, Sez. I, 31.01.2021. n. 46, cit., in www.giustizia-amministrativa.it.

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procedure d’acquisto

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strumenti di acquisizione; - ci si può domandare se, una volta attivato l’intervento suppletivo di Consip (e una volta rese operative le relative convenzioni-quadro), ciò impedisca alle centrali di committenza regionali di attivare a propria volta strumenti di centralizzazione degli acquisti aventi ad oggetto servizi identici o analoghi. Ma il punto è che, nel caso in esame, quando la Intercent ER si è finalmente attivata pubblicando il bando all’origine dei fatti di causa, la gara indetta dalla Consip non era ancora conclusa”. Quanto evidenziato è stato deciso dal Supremo Consesso in una fattispecie ove la convenzione Consip era attiva. Gli esposti princìpi affermati nella citata pronuncia di Palazzo Spada n. 5826/2017 sono stati ribaditi di recente, altresì, da Cons. Stato, III, decisione n. 2707 del 31 marzo 2021 (che ha riformato in parte Tar Marche, sentenza n. 584/020, cit.) che si è soffermata sui rapporti tra gara Consip e gare dei Soggetti aggregatori regionali, aventi un medesimo ambito operativo (territoriale e prestazionale) di incidenza, con particolare riguardo agli Enti del S.S.N. Con tale ultima pronuncia il Consiglio di Stato (richiamando anche la propria rilevante decisione n. 1329/2019, cit.) ha affermato la legittimità dell’espletamento della gara regionale (cui le Aziende sanitaria avrebbero dovuto attingere in via preferenziale) pur in costanza di un procedimento di gara nazionale in corso di svolgimento (o finanche già conclusosi con la stipulazione della relativa convenzione-quadro). In ultimo si osserva che con la decisone n. 2707 del 31 marzo scorso, il Supremo Consesso ha precisato che in caso di “lungaggini” della gara regionale (con convenzioni non ancora operative), gli Enti del Servizio Sanitario Nazionale sono in ogni caso tenuti ad approvvigionarsi utilizzando le convenzioni-quadro stipulate da Consip. Al riguardo il Supremo Consesso ha precisato che “le scelte spettanti in siffatta tipologia di fattispecie all’Amministrazione afferiscono all’ambito di quelle contrassegnate da discrezionalità amministrativa in senso proprio, ponendosi alla stessa l’esigenza di individuare la soluzione più adatta a contemperare i plurimi interessi convergenti, al fine di ottimizzare il risultato finale in termini di migliore rispondenza all’interesse pubblico, determinato attraverso l’attenta e ponderata analisi di tutte le circostanze rilevanti”. Conclusioni Dal complesso quadro normativo e giurisprudenziale5 che si è cercato di tratteggiare sistematicamente, emerge che il principio di preferenza per la gara regionale non è stato affermato in termini rigidi ed automatici, ma attraverso

la ricostruzione di un coerente quadro normativo ove è demandato alla Consip il compito di rinvenire le migliori possibili condizioni di offerta da porre a disposizione delle amministrazioni sanitarie ma è consentito alle stesse di procedere in modo autonomo. Ciò a condizione che possano dimostrare di aver ricercato e conseguito condizioni migliorative rispetto a quelle contenute nelle convenzioni-quadro, attraverso un meccanismo di responsabilizzazione delle Amministrazioni stesse. Non pare inutile ricordare che tale responsabilizzazione investe anche il corretto utilizzo dell’istituto della proroga (come ribadito da Cons. Stato n. 2707/021, cit.): dal quadro normativo di riferimento è, infatti, ricavabile il principio della eccezionalità degli strumenti contrattuali finalizzati a fare fronte alle esigenze di acquisizione maturate nelle more dell’espletamento delle gare centralizzate (nazionali o regionali), siano essi le proroghe dei contratti in essere o i contratti-ponte stipulati nelle more dell’espletamento della gara da parte del soggetto aggregatore nazionale o regionale.

5 Che si arricchisce continuamente di casistiche: v. Tar Piemonte, Sez. I, sentenza 4 marzo 2021, n. 237, in www.giustizia-amministrativa.it, che ha precisato come la Centrale di Committenza regionale non sia obbligata a comparare le condizioni contrattuali ed economiche dei propri affidamenti con il benchmark delle condizioni della omologa convenzione quadro Consip.


cartella clinica elettronica Monica Caira - Dirigente UOC Provveditorato ASL FROSINONE

La cartella clinica elettronica

I

n termini generali la “cartella clinica” è costituita da un insieme di documenti nei quali viene registrato dal medico, ed anche dal personale paramedico, un complesso eterogeneo di informazioni, soprattutto sanitarie ma anche anagrafiche, sociali, ambientali, giuridiche, ecc., concernenti un determinato paziente nel periodo del suo ricovero presso un ospedale, allo scopo di poterne rilevare ciò che lo riguarda in senso diagnostico-terapeutico nel modo più completo ed esaustivo possibile. Il codice di deontologia medica del dicembre 2006, all’art. 26, in tema di cartella clinica si esprime nei seguenti termini: “La cartella clinica delle strutture pubbliche e private deve essere redatta chiaramente, con puntualità e diligenza, nel rispetto delle regole della buona pratica clinica e contenere, oltre a ogni dato obiettivo relativo alla condizione patologica e al suo decorso, le attività diagnostico terapeutiche praticate. La cartella deve registrare i modi e i tempi delle informazioni nonché i termini del consenso del paziente - o di chi ne esercita la legale rappresentanza - alle proposte diagnostiche e terapeutiche; deve inoltre registrare il consenso del paziente al trattamento dei dati sensibili, con particolare riguardo ai casi di arruolamento in un protocollo sperimentale”. La cartella clinica è dunque una rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie, della diagnosi, dei trattamenti terapeutici intrapresi, dei risultati conseguiti e dei farmaci somministrati ad un paziente al fine di consentire decisioni clinico-assistenziali appropriate, che assume la dignità di atto pubblico di fede privilegiata, con valore probatorio contrastabile solo con querela di falso. Tradizionalmente la cartella clinica ha forma cartacea con tutti i rischi connessi

a tale delicato supporto che richiede particolari accortezze per la custodia, la conservazione, l’archiviazione, e che presta il fianco, inoltre, ad una consistente probabilità di errore, a ridondanze nella trascrizione dei dati, all’usura ed alla possibilità di danneggiamento in occasione della consultazione. La conversione dal modello cartaceo a quello informatico offre, dunque, degli indubbi vantaggi, benché richieda anch’esso adempimenti specifici ed accortezze particolari. La cartella clinica elettronica è un sistema informatico integrato al servizio del mondo sanitario che, attraverso la digitalizzazione dei dati, consente la condivisione, l’aggiornamento e la visualizzazione delle informazioni cliniche e sanitarie del paziente, in modo semplice e veloce. Il formato elettronico permette, infatti, di acquisire, aggiornare e consultare in tempo reale e da remoto le informazioni relative al paziente; condividere rapidamente le informazioni fra tutti gli operatori sanitari; avere a disposizione i dati del paziente in maniera strutturata: effettuare ricerche, statistiche e analisi dei dati altrimenti impossibili. La gestione integrata degli stessi dati clinici per usi differenziati rende maggiormente affidabili gli stessi in quanto sono originariamente inseriti da chi li genera per i propri fini clinici, ma utilizzati più volte anche da operatori diversi, con un miglioramento della qualità ed un continuo controllo della loro validità. Tale modalità operativa è connotata anche da un’accresciuta efficienza, in quanto non sarà più necessario digitare nuovamente i dati già noti al sistema, che possono invece essere continuamente aggiornati; da tempestività, perché tutti i dati utili all’episodio in corso sono agevolmente disponibili on-line o richiamabili dal personale autorizzato; da facilità d’uso,

L’informatizzazione della cartella clinica può apparire banale mentre l’impostazione tecnologica appare determinante se si pensa alla garanzia dell’identificazione del compilatore, alla sicurezza contro le manomissioni, alla tutela dalle intromissioni e dalla violazione della segretezza

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cartella clinica elettronica perché i dati possono essere selezionati, riassunti e presentati nel modo più opportuno ad ogni operatore autorizzato. Vi sono delle condizioni fondamentali la cui carenza inficerebbe l’efficacia della cartella clinica informatizzata. Tra queste devono essere ricordate la necessità di utilizzare un dizionario di dati comune predefinito e codificato. E’ indispensabile, inoltre, prevedere la possibilità di andare rapidamente da una sezione all’altra della cartella, di utilizzare formati armonizzati tra diverse discipline e diverse strutture sanitarie, di facile immissione e recupero dei dati, di disponibilità 24 ore su 24, della previsione di collegamenti con altri sistemi informativi, con messaggistica standard per scambio di ordini/risultati o per prenotazioni, della trasferibilità delle informazioni tra specialisti e luoghi diversi, della agevole consultazione con banche dati bibliografiche, ovvero, ove opportuno, di collegamenti con cartelle cliniche di familiari (nel rispetto della privacy) e della gestione

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elettronica dei documenti economici (es. rimborsi, ticket). Di importanza più propriamente clinica è l’aiuto che può derivarne alla gestione e all’adattamento di percorsi diagnostico-terapeutici predefiniti, ed alla successiva valutazione dell’appropriatezza degli interventi e delle motivazioni degli scostamenti dai percorsi predefiniti. Di rilevanza più pratica è sicuramente la produzione di documentazione “derivata”, quali le ricette, della documentazione clinica ordinaria, come la lettera di dimissione, dei certificati e dei rapporti sugli andamenti dei singoli pazienti. Da ultimo va rammentato l’accresciuto rispetto della riservatezza dei dati contro la possibilità di usi, inserimenti o modifiche non autorizzati, aventi anche un indubbio risvolto giuridico-legale soprattutto nel caso di malpractice medica. La condizione imprescindibile perché il sistema funzioni è che i vari supporti elettronici siano in grado di dialogare tra loro, siano quindi omogenei. E’, inoltre, indispensabile che ad


cartella clinica elettronica una parte centrale e comune, perfettamente condivisibile ed implementabile ad opera dei diversi operatori, sia possibile affiancare sezioni specialistiche che si rendano necessarie a seguito di episodi puntuali. La cartella clinica elettronica raccoglie, dunque, tutti gli eventi sanitari di una persona relativi alla sua interazione con una struttura sanitaria, ma la sua utilità si amplifica rispetto all’individuo, in quanto costituisce anche fonte di dati storici utili alla gestione del sistema sanitario, alla valutazione della qualità dell’assistenza erogata, alla formazione e all’aggiornamento del personale sanitario. Il sistema informatico di gestione dei dati sanitari consente il mantenimento di tutte le caratteristiche positive della versione cartacea come la completezza, l’obiettività, l’integrità e la sicurezza, senza comportare disagi, prima tra tutti la perdita di tempo per gli operatori, ma anche di sfruttare potenzialità aggiuntive come la standardizzazione, la qualità dell’informazione, non inficiata dalla pessima calligrafia di qualcuno, e soprattutto la possibilità di elaborazione, che agevolano non poco l’interazione tra gli operatori sanitari coinvolti nella gestione clinica del paziente. Se adeguatamente impostata ed implementata, la cartella clinica informatizzata costituisce un database clinico strutturato ed organizzato in funzione sia delle esigenze cliniche che di importanti obiettivi generali quali: abbreviare i tempi di consultazione, con conseguente risparmio economico, permettere la condivisione delle informazioni e facilitare la comunicazione; eliminare le ridondanze dell’informazione e garantire la consistenza e la sicurezza dei dati memorizzati. Si individuano tre principi sulla base dei quali la cartella clinica elettronica può essere organizzata: Con la suddivisione classica in sezioni (per esempio: anamnesi, esame obiettivo, prescrizioni, etc) che viene effettuata secondo uno standard europeo individuato come ISO 13606-5: 2010 che prescrive il raggruppamento delle varianti in ampie categorie che possano consentire il confronto tra cartelle cliniche costruite in modo indipendente. Scopo dello standard è fornire una griglia per navigare in un insieme di documenti eterogenei ed estrarre dati rilevanti per uno scopo prefissato dall’utente. Come una lista cronologica di fatti, basata sulla data di registrazione che costituisce la modalità più banale per un supporto informatico, mentre non lo è altrettanto nella predisposizione e conservazione delle cartelle cliniche reali. Con una classificazione per problemi ed episodi di malattia (c.d. POMR - Problem Oriented Medical Record, definito da Lawrence Weed nel 1968-69) che prevede una modifica della struttura dello standard ISO 13606-5: 2010 improntato sulle sezioni omogenee, in quanto lo scopo è quello di imporre un processo logico durante la raccolta e la memorizzazione dei dati, al fine di generare un testo più strutturato e cartelle più chiare anche per comunicare informazioni aggiuntive sul paziente ad altri operatori. In particolare, ogni

problema viene esaminato seguendo uno schema ben preciso: innanzi tutto si valutano gli aspetti soggettivi, ovvero osservati o raccontati dal paziente. Si passa poi agli aspetti oggettivi, cioè osservati dal medico o ottenuti come risultati di analisi, che confluiscono in una valutazione (assessment) che riporta l’interpretazione del medico. La conclusione del processo consiste nella pianificazione degli obiettivi e delle azioni da intraprendere. L’informatizzazione della cartella clinica può apparire quale innovazione banale se si concentra l’attenzione esclusivamente sulla differente modalità di conservazione dei dati, mentre la delicatezza della impostazione tecnologica appare in tutta la sua complessità già solo se si pone attenzione alla necessità di garantire la identificazione del compilatore, la sicurezza contro le manomissioni, la tutela dalle intromissioni e dalla violazione della segretezza. In particolare, il Regolamento Generale per la Protezione dei Dati (Regolamento Ue 2016GDPR) prevede particolari limitazioni agli usi dei dati sanitari e la necessità di salvaguardie per i soggetti interessati (vale a dire maggiore trasparenza, inclusa una facile possibilità di opposizione e l’uso di tecniche di crittografia o pseudonimizzazione), soprattutto considerando che l’utilizzo e la trasmissione dei dati, anche sanitari, avverrà in via generalizzata attraverso “app”. L’obiettivo della normativa europea è quello di assicurare che gli utenti di tali “app” si sentano particolarmente sicuri circa l’uso appropriato dei loro dati sanitari e che vi siano chiari ed intuitivi strumenti per consentire a terzi (ad esempio i loro medici personali) di potervi accedere. Le misure di tutela sono diverse a seconda che si tratti di archivi cartacei o informatici, e per questi ultimi si arricchiscono di nuovi strumenti quali: l’autenticazione informa-

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cartella clinica elettronica

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tica, l’adozione di procedure di gestione delle credenziali di autenticazione, l’utilizzazione di un sistema di autorizzazione, l’aggiornamento periodico dell’ambito consentito ai singoli incaricati e addetti alla gestione o alla manutenzione degli strumenti elettronici, la protezione degli strumenti elettronici e dei dati rispetto a trattamenti illeciti di dati, ad accessi non consentiti e a determinati programmi informatici, l’adozione di procedure per la custodia di copie di sicurezza, il ripristino della disponibilità dei dati e dei sistemi, la tenuta di un aggiornato programma di sicurezza, l’adozione di tecniche di cifratura o di codici identificativi per determinati trattamenti di dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale del paziente, nonché idonei sistemi di sicurezza nella trasmissione dei dati stessi. Un sistema di e-Health, che preveda l’informatizzazione delle cartelle cliniche, deve necessariamente tenere conto della particolare natura di atto pubblico del cosiddetto fascicolo virtuale e delle conseguenti responsabilità, anche penali, dei vari funzionari che intervengono su di esso nell’inserimento, nella modifica e nell’archiviazione delle informazioni sanitarie. Ciascun operatore deve quindi essere pienamente cosciente che l’utilizzo dei dati sensibili sulla salute può essere consentito solo per scopi ad essa legati e da professionisti tenuti all’obbligo della segretezza. Non è possibile, in secondo luogo, prescindere dal rispetto della decisione autonoma del paziente su come e dove i propri dati devono essere usati. Per gli operatori sanitari sarà necessario un sistema di autenticazione che identifichi anche il loro ruolo e che consenta l’accesso solo se gli stessi sono coinvolti in quel momento nella cura del paziente. Non è, infatti, ipotizzabile un uso del fascicolo elettronico per altri scopi, tranne che a

fini di ricerca e statistici, nel qual caso si ritiene preminente l’interesse pubblico rispetto a quello individuale, con l’obbligo tuttavia dell’anonimato. I vantaggi che si prospettano anche da un punto di vista pratico per il paziente possono essere intuiti già solo riflettendo sulla possibilità di accedere agevolmente ai propri dati, comodamente dalla propria abitazione attraverso una password, 24 ore su 24, anche pagando il servizio attraverso carta di credito, ma evitando estenuanti code presso sportelli per le istanze di estrazione copia, di pagamento dei diritti di segreteria o di ritiro del plico una volta predisposto dall’operatore. L’entusiasmo derivante dalle potenzialità che offre una gestione digitalizzata dei dati sanitari riconduce, tuttavia, la cartella clinica informatizzata al corretto ruolo di trait d’union tra la cartella cartacea tradizionale ed il Fascicolo Sanitario Elettronico. Con tale termine si intende il documento sanitario omnicomprensivo di tutti gli eventi in tale ambito rilevanti, occorsi al paziente durante la propria intera vita e, dunque, non solo legati al singolo episodio di ospedalizzazione, come nel caso della cartella clinica. In effetti la diffusione delle reti telematiche e degli standard sulla comunicazione sanitaria permettono di importare documentazione generata da autori diversi in località diverse, facendola confluire in un unico Fascicolo Sanitario che consente le forme più complete di prestazioni del servizio sanitario. Un passaggio essenziale per la realizzazione di un sistema di telemedicina efficace ed organico include necessariamente la redazione in formato digitale, o la successiva informatizzazione, dei dati a contenuto sanitario relativi al paziente e dei documenti che li contengono, in contenuti standardizzati ed universali. In linea di principio, le informazioni cliniche individuali relative a tutti gli accessi di un cittadino a qualsiasi struttura sanitaria possono essere rese disponibili in modo sicuro in qualsiasi momento e in qualsiasi punto di accesso della rete. Le informazioni devono essere scambiate tramite reti sicure e i dati personali del cittadino devono rispettare precisi vincoli di privacy secondo la normativa vigente; tali vincoli saranno di diverso grado, in funzione dei diversi scopi per cui i dati clinici vengono condivisi. La legittima aspettativa derivante da tale innovazione è quella di poter sottoporre il paziente a cure immediate, soprattutto in caso di interventi in urgenza, avendo a disposizione l’intera sua storia clinica e sanitaria, i decorsi, i farmaci assunti, il gruppo sanguigno, le patologie pregresse, le allergie e via dicendo, in modo da consentire al clinico di indirizzare in maniera puntuale e mirata il proprio intervento limitando al massimo le possibili conseguenze infauste. La possibilità, infine, che il paziente possa accedere al proprio fascicolo sanitario tramite una card elettronica, in qualsiasi parte del mondo si trovi, consente di percepire chiaramente il vantaggio della globalizzazione della medicina e la concreta possibilità che questa possa realizzarsi in tempi brevi.


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gli esperti rispondono Monica Piovi e Piero Fidanza

Sul termine del ricorso al Tar Un nostro lettore chiede di sapere da quando decorre il termine di trenta giorni per presentare ricorso al Tar nei confronti del provvedimento di aggiudicazione.

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er rispondere al quesito è necessario richiamare innanzitutto la norma di carattere generale contenuta nell’art. 41 del codice del processo amministrativo, secondo cui: “il ricorso deve essere notificato, ... entro il termine decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge”. A questa disciplina si accompagna, in materia di appalti, la norma speciale introdotta dal comma 5 dell’art.120 del c.p.a. in base al quale “il ricorso, principale o incidentale e i motivi aggiunti, ...devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente ...dalla ricezione della comunicazione di cui all’articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163...ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto.” Premesso questo, l’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti ha posto alla giurisprudenza il problema della tenuta della disciplina dei ricorsi contro l’aggiudicazione in seguito all’abrogazione dell’art. 79 del vecchio codice, nonché dell’introduzione, ad opera dell’art. 29, di nuovi obblighi di pubblicità. L’avvento del nuovo quadro normativo e i contrasti giurisprudenziali che ne sono derivati hanno indotto il Consiglio di Stato a intervenire con l’Adunanza Plenaria n.12 del 2020, che ha fissato i seguenti principi: a) il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione decorre dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, tra cui devono comprendersi anche i verbali di gara, ...; c) la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la ‘dilazione temporale’ quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta;

d) la pubblicazione degli atti di gara, con i relativi eventuali allegati, ex art. 29 del decreto legislativo n. 50 del 2016, è idonea a far decorrere il termine di impugnazione; e) sono idonee a far decorrere il termine per l’impugnazione dell’atto di aggiudicazione le forme di comunicazione e di pubblicità individuate nel bando di gara ed accettate dai partecipanti alla gara, purché gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati’. Enunciazione di principi confermata anche dalla giurisprudenza successiva del Consiglio di Stato, con la sentenza del 9 febbraio 2021, n. 183. In conclusione, l’Adunanza Plenaria, valorizzando l’obbligo di pubblicazione, nonché l’universalità e la gratuità dell’accesso ai siti istituzionali, e riconoscendone il valore di strumento legale di conoscenza, ha, di fatto, posto in capo agli operatori economici un obbligo di costante vigilanza di tutti i siti degli Enti pubblici presso i quali hanno procedure di aggiudicazione pendenti. Ogni qualvolta la pubblicazione sul sito istituzionale precederà la comunicazione, il termine per impugnare l’atto decorrerà dalla pubblicazione sul sito istituzionale e non dalla comunicazione, con la precisazione che la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la ‘dilazione temporale’ del termine quando i motivi di ricorso conseguono alla conoscenza dell’offerta dei concorrenti. Una pronuncia dunque che per valorizzare il principio di “amministrazione trasparente” è finita per addossare agli operatori economici un onere di vigilanza probabilmente sproporzionato. Si pensi al fatto che molte imprese che partecipano agli appalti presentano ogni anno centinaia di offerte e in tal modo sono di fatto obbligate, anche per non perdere tempo prezioso ai fini di una accurata redazione del ricorso, a monitorare in modo costante svariati siti delle stazioni appaltanti.


Il General Contractor e il Superbonus 110%: facciamo chiarezza Il Superbonus 110% offre importanti opportunità per la riqualificazione immobiliare del territorio, e la cooperazione tra player del settore specializzati può fare da volano per la realizzazione di grandi operazioni edilizie. Che si parli di grandi opere oppure di edilizia privata, la figura del General Contractor riveste un ruolo chiave per il successo di un progetto di costruzione o ristrutturazione, in quanto: • ha la responsabilità operativa dell’intero progetto; • garantisce le condizioni di applicabilità e conformità; • investe le risorse finanziare necessarie allo svolgimento dei lavori. Coopservice assumendo il ruolo di General Contractor da una parte, mediante accordi con società specializzate, gestisce la verifica delle condizioni di applicabilità e tutte le certificazioni inerenti il visto di conformità; dall’altra acquisisce il credito relativo ai lavori, contrattualizzando tecnici progettisti, imprese di costruzione, strutture di commercialisti ed ogni altra funzione necessaria. L’investimento di Coopservice in termini di risorse finanziarie consente di sviluppare meccanismi di pagamento ai vari soggetti che sono più correttamente distribuiti lungo tutto l’iter progettuale evitando di attendere le scadenze previste dalla norma, che avviano i pagamenti al 30-60% dei SAL e a fine lavori, richiedendo quindi ai professionisti e alle imprese una esposizione finanziaria che in tempi come questi appare insostenibile. Coopservice, mediante le sue capacità finanziarie, ha quindi la funzione fondamentale di volano e facilitatore dell’operazione, dando fiato ai vari soggetti che man mano devono intervenire. Inoltre, nei confronti dell’amministratore condominiale e quindi dei singoli condomini, Coopservice si assume il rischio diretto dell’operazione, ovviamente con meccanismi di rivalsa nei confronti degli altri soggetti che operano mediante contratto di subappalto, nel caso in cui siano evidenziate precise responsabilità. Il progetto “Condominio Zama” di Castel Maggiore è un esempio virtuoso della partnership tra Coopservice e RAM Group, Ingegneri Riuniti S.p.A e Yuppies Services. www.coopservice.it

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Nuove date per Exposanità

BOLOGNA Capitale della Salute

22a mostra internazionale al servizio della sanità e dell’assistenza

4|5|6|7 maggio 2022

In collaborazione con

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Progetto e direzione

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Da 40 anni Exposanità presenta servizi, prodotti e soluzioni di ultima generazione per rendere più efficiente la gestione del sistema sanitario e più efficace il percorso di cura alla persona. L’attuale quadro legislativo che vieta fiere e congressi e il momento delicato, che i servizi sanitari ed assistenziali ancora attraversano, non permettono di organizzare al meglio una manifestazione che vuole essere punto di riferimento per le aziende e i professionisti del settore. Da qui la decisione di fissare una nuova data nella quale finalmente tornare a incontrarsi di persona e ritrovare la manifestazione con la massiccia partecipazione delle professioni, un ricchissimo programma formativo, la presenza delle più rappresentative aziende del mondo della sanità. Non mancate a Exposanità dal 4 al 7 maggio 2022 presso Bologna Fiere! www.exposanita.it

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Copma festeggia mezzo secolo di attività

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Il 2021 segna il 50esimo anniversario di Copma, cooperativa leader nel campo della sanificazione. Per festeggiare il suo primo mezzo secolo di attività, l’azienda ha realizzato un nuovo logo celebrativo che accompagnerà tutte le sue comunicazioni per l’intero anno. Inoltre sono stati progettati una serie di iniziative di carattere sociale e culturale a beneficio della collettività. Nata a Ferrara nel 1971 come cooperativa orientata alla fornitura di servizi a società e aziende pubbliche e private, nel corso della sua storia Copma si è affermata come leader nel campo delle pulizie e della sanificazione di ambienti in grandi comunità, occupandosi anche di manutenzione, progettazione e realizzazione di aree verdi, disinfestazione, pulizia e sanificazione di impianti per il trattamento dell’aria. “Con il 2021 – Dichiara Silvia Grandi, Presidente di Copma festeggiamo 50 anni di storia, lavoro, affermazione sociale e produttiva nell’ambito dei servizi di pulizia e sanificazione delle grandi comunità ospedaliere, sanitarie e civili. La missione di Copma, è far si che l’ambiente nosocomiale sia il più salubre possibile, perché ridurre le infezioni significa migliorare la salute dei pazienti e del personale sanitario. Per Copma questa assunzione di responsabilità è diventata una sfida che l’ha portata a ideare il sistema di sanificazione PCHS®, una tecnica innovativa che garantisce il mantenimento della carica microbica potenzialmente patogena a livelli bassi e stabili nel tempo”. www.copma.it

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