Artù 01 02 2015

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Artù n°66 - Gennaio - Febbraio 2015

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Gusto ⦁ Tendenze ⦁ Mercati

CHEF geniali: Peter Brunel approda a Firenze e stupisce per il suo talento VINO SFUSO, da pietra dello scandalo a fenomeno in ripresa sui mercati MENU, nuove normative di complessa decifrazione. Cosa indicare in carta PERBELLINI riapre nel cuore di Verona: il suo format? Il meglio del mercato SECONDO ARTÙ: Michelangelo Citino e Vincenzo Triolo, lombardi ragionevoli

Gennaio Febbraio 2015

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EDITORIALE n°66

Basta con la passività Tutti (o quasi) in spasmodica attesa. Tutti dentro a una sorta di “carpe diem” di oraziana memoria. Peccato che l’Expo, più che una grande opportunità per il paese, sembra essere percepita (prima ancora di realizzarsi) come una “grande incompiuta”. A poche decine di giorni

dalla inaugurazione ufficiale, Milano sembra ancora annaspare, alla ricerca di una propria dimensione in grado di reggere l’urto. Lavori in corso, viabilità modificate, traffico rallentato, pochi vigili per le strade nonostante ve ne sia estremo bisogno: c’è ancora molto da fare

per organizzare il tessuto urbano in chiave di accoglienza qualificata, per restituire alla città il concetto di “regole condivise”. Nonostante la lentezza delle istituzioni, però, molti privati si organizzano, spesso senza alcuna regola: trasformano i propri appartamenti sfitti in b&b, gli hotel vanno verso il tutto esaurito con tariffe improbabili, i titolari di locali si inventano nuove (o pseudo tali) formule acchiappaturisti. Ma la sensazione (di cui non ci meravigliamo, essendo in linea con la mentalità italiana: tanto individualismo, poche strategie e attesa fino all’ultimo minuto, qualcosa poi succederà!) è di discreta confusione. Il che, forse, non guasta, visto che sembra impossibile fare diversamente… Certamente il contributo delle imprese più sensibili, che già sono impegnate attivamente nei preliminari, darà valore aggiunto all’Esposizione Universale 2015 (se ne intuiscono gli sforzi, le linee guida e gli investimenti): ma la sensazione è che una parte della città, intesa come tessuto sociale, espressioni culturali, mondo del commercio, stia vivendo troppo passivamente quella che, nelle intenzioni, si preannuncia come una enorme opportunità: di crescita, di business, di rilancio dell’immagine di Milano, annebbiata da scandali, cattiva politica, mediocrità dell’offerta seppure ammantata di lustrini e paillettes sempre più vistosi. Questa passività, venata da un fatalismo che non ci fa onore, mette in pericolo la possibilità di riuscita del grande evento: paure e perplessità si possono comprendere, ma sarà opportuno sbarazzarsi al più presto di ogni forma di pessimismo e di atteggiamenti del tipo: “io l’avevo detto che sarebbe stato un flop!”. Da parte nostra, non crediamo che sarà un flop, tutt’altro. Siamo però certi che, per raggiungere obiettivi di successo, per affermare la nostra statutarietà (almeno quei barlumi

che sono rimasti nella percezione internazionale) senza sfigurare davanti al mondo, dobbiamo affrontare l’Expo con uno spirito diverso, mobilitando con intelligenza le energie, ritenendola una occasione irripetibile per riposizionare le nostre attività in chiave innovativa. In un certo senso, è necessario guardare “oltre” l’Expo… attivandosi per consolidare seriamente quello “zoccolo duro” dell’offerta in grado di competere con gli altri paesi. Nelle ultime settimane, in effetti, abbiamo registrato qualche segnale positivo: nuove aperture di locali, una maggiore consapevolezza della posta in gioco, un diffuso attivismo che sta progressivamente contagiando gli attori del mercato. Insomma, dovremmo prepararci all’Expo pensando che a novembre, quando sarà tutto finito, noi saremo ancora qui, alle prese con un mercato difficile, sottoposti alle solite ritualità imposte da una politica inconcludente e autoreferenziale, con un debito pubblico che vola verso i 2.200 miliardi di euro. Non sarà certo l’Expo a risolvere i nostri problemi, ma senza alcun dubbio porterà in Italia un indotto che imporrà alle imprese un’attenzione nuova verso i mercati internazionali, una professionalità necessaria per non soccombere, una cultura imprenditoriale che sappia stare al passo col mondo in movimento. Ecco perché Expo può aiutare, perché può essere utile allo svecchiamento necessario della nostra offerta, anche di ristorazione. Per affrontare il “dopo Expo” con le carte in regola, liberando una volta per tutte le nostre migliori energie. Salvaguardando le nostre tradizioni migliori ma anche sapendoci adeguare alla domanda internazionale che si va affacciando, multiforme e segmentata, nelle nostre città e nei nostri paesi. Alberto P. Schieppati Artù n°66

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In copertina: il Lungarno a Firenze visto da Borgo San Jacopo, il ristorante gourmet guidato da Peter Brunel. Lo chef trentino è recentemente approdato nel capoluogo toscano, dove segue la cucina di tre ristoranti dei fashion hotel della famiglia Ferragamo. Versatile e geniale, declina alla perfezione un’offerta segmentata.

Info people Gusto in Scena si fa in quattro di Elisa Facchetti Tuttofood, la ricetta del successo di Elisa Facchetti Info brand Il centenario di Livio Felluga di Giovanna Moldenhauer EBLEX, azione mirata per il mercato italiano di Elisa Facchetti Focus wine Antonelli San Marco, signori del vino di Riccardo Oldani Vino sfuso alla riscossa di Riccardo Oldani Focus food Allergeni: Indicazioni obbligatorie? Un vero ginepraio di Calogero Moscato Val d’Ultimo, il pane come una volta di Alessandra Piubello Protagonisti wine San Leonardo, nobile taglio bordolese di Giovanna Moldenhauer Protagonisti food La stoffa di Peter Brunel approda sul Lungarno di Gualtiero Spotti Metro Academy, a scuola di HORECA di Luisa Contri Italia vs mondo, la parola a Chef Kumalè di Stefania Zolotti Perbellini a Verona, molto più di una casa di Alessandra Piubello Il Gran cru secondo Bertinelli di Luisa Contri Casta Diva Gourmet, Alessio Mecozzi non sta a guardare di Alberto P. Schieppati Dal mondo Asturie, gli chef della MOVIDA di Gualtiero Spotti Saint Sushi, fusion e musica di Olivia Vachon Equipment Emainox, “vetrina“ di eccellenza di Elisa Facchetti Jacquard Français, lusso in tavola di Giovanna Moldenhauer News Milano e Roma in movimento. Fiere, eventi e mostre Libri Volersi bene con il cibo e ricette facili e informali di Elisa Facchetti Secondo Artù Michelangelo in pista, Triolo in campagna di Alberto P. Schieppati Artù n°66

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Gusto in Scena si fa in quattro di Elisa Facchetti Torna l'evento enogastronomico più atteso dell'anno, fucina di idee e motore di creatività per i migliori chef, pasticceri e pizzaioli italiani che trovano nella collaudata "cucina del senza" una sfida per cimentarsi in un nuovo modo di fare cucina. Ideata da Marcello Coronini, Gusto in Scena si apre a un mondo di possibilità, proponendo in contemporanea quattro eventi da non perdere. Conto alla rovescia per Gusto in Scena. I giorni 1 e 2 marzo l'appuntamento con la migliore gastronomia aprirà i battenti per accogliere alcuni dei nomi più importanti del panorama italiano invitati in qualità di relatori al congresso Alta Cucina Gusto in Scena ideato e organizzato da Marcello Coronini, critico enogastronomico e docente universitario. Come ogni anno, anche questa VII° edizione si svolgerà a Venezia alla Scuola Grande di San Giovanni Evangelista con illustri personalità: saranno presenti gli chef Andrea Aprea, Enrico Bartolini, Cristian e Manuel Costardi, Enrico Crippa, Herbert Hinter, Giuseppe Iannotti, Davide Oldani, Maurizio Serva, Massimo Spigaroli, Paolo Beverini, Ilario Vinciguerra; i pizzaioli Renato Bosco, Stefano Callegari, Franco

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Pepe, Ciro Salvo, Gino Sorbillo. Per i pasticceri sarà presente Luigi Biasetto e Iginio Massari. Tema del congresso 2015 I Piatti Firma e I piatti della grande tradizione italiana rivisti attraverso "La Cucina del Senza 2015", ovvero "senza grassi o senza sale o dessert senza zucchero aggiunti”. Novità dell’edizione 2015 sarà La Pizza del Senza. I migliori pizzaioli d’Italia, guidati da Marcello Coronini, spiegheranno come realizzare pizze senza sale o grassi aggiunti, valorizzando le materie prime che vengono utilizzate, senza la necessità di aggiungere altro:

"La pizza - spiega Marcello Coronini - è uno dei piatti simbolo della nostra tradizione, tutti lo conoscono. Inserire ne La Cucina del Senza® la pizza significa avvicinare a questa rivoluzione culinaria molte più persone". Quattro gli eventi in contemporanea: il congresso di Alta Cucina Gusto in Scena, dove importanti chef, grandi pasticceri e maestri pizzaioli si confronteranno e realizzeranno piatti, pizze e dessert basati su le regole de La Cucina del Senza®; I Magnifici Vini e Seduzioni di Gola proporranno un’accurata selezione di cantine ed eccellenze gastronomiche italiane e europee, personalmente scelte da Lucia e Marcello Coronini. Alla sera si svolgerà, come gli anni precedenti, il Fuori di Gusto, che coinvolgerà 18 ristoranti e bacari della città, e alcuni grandi alberghi veneziani, con menu degustazione Gusto in Scena dedicati a La Cucina del Senza®. Cucinare “Senza”, come sostiene da sempre Marcello Coronini, è infatti più sano oltre che gustoso e ormai sono molti i ristoranti stellati e non italiani che adottano nei loro menu piatti "lungimiranti" in tal senso: "Il prossimo passo – auspica Coronini - è entrare nelle cucine degli italiani per mettere in atto un sempre più necessario cambio di cultura”. L’obiettivo è dimostrare come una cucina attenta alla salute può anche essere gustosa e che buono può e deve coincidere sempre di più con sano.



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info people

Tuttofood, la ricetta del successo giungerà il padiglione Venditalia Special Edition dedicato al settore delle vending machine e della ristorazione automatica. Novità assoluta il debutto dell’area dedicata ai prodotti ittici, resa ancora più "appetibile" grazie all'organizzazione di showcooking e interessanti dimostrazioni. Non solo cresce la presenza di espositori – e non a caso il termine "crescita" identifica la parola d'ordine per la nuova attesa edizione di Tuttofood – ma è stato riscontrato un alto tasso di internazionalità rispetto alle scorse edizioni con un aumento degli hosted buyer: sono già 1200 gli accreditati scelti attraverso un’attenta profilazione che garantirà incontri direttamente allo stand con ottimizzazione dei tempi e il di Elisa Facchetti massimo rendimento dei contatti, a Promette scintille l'atteso appunta- cui si aggiungeranno più di 11.000 mento con Tuttofood, il Salone del- buyer attesi. Plus della mostra la grande l’Agroalimentare organizzato da Fiera visibilità internazionale amplificata dalMilano in programma dal 3 al 6 l'Esposizione Universale a Milano: domaggio 2015. Numerose le iniziative menica 3 maggio Tuttofood sarà pree le novità in mostra, con una marcia sente all’interno del Padiglione Italia in più: l'importante sinergia con di Expo, dando il via a un legame profondo che caratterizzerà tutta la maniExpo 2015. festazione. Opportunità da non perdere 180 mila metri quadrati accoglieranno per gli espositori in fiera, grazie alla in 10 padiglioni – quattro in più rispetto collaborazione tra Tuttofood ed Expo alla scorsa edizione – ben 2500 aziende 2015, è la possibilità, dopo la chiusura di comparti diversi ma sinergici: Lattiero serale nei giorni di manifestazione, di Casario, Carni e Salumi, Dolciario con visitare l’Esposizione Universale. Inoltre, DolceItalia, il Fuori Casa, Surgelati, Fiera Milano, sempre in collaborazione Ittico, Green e Multiprodotto, cui si ag- con Expo 2015, offrirà alle aziende

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espositrici la possibilità di incontrare direttamente in fiera le delegazioni commerciali che nel corso dei mesi visiteranno l’Esposizione Universale con il progetto “Expo incontra le imprese”, che prevede che tra le delegazioni delle varie nazioni presenti ad Expo 2015 siano selezionati i profili più interessanti per le aziende di Tuttofood, creando un’agenda di incontri mirati. Non mancheranno nel corso della manifestazione realtà leader ed esperti dell’agroalimentare protagonisti di una fitta serie di incontri, esperienze e dimostrazioni per offrire ai visitatori il più aggiornato know how e contatti altamente strategici per il loro business.



info brand

ph. Luigi Vitale

Il centenario di Livio Felluga

di Giovanna Moldenhauer

Per festeggiare questo traguardo i figli Maurizio, Elda, Andrea, Filippo, che conducono oggi l’azienda, hanno organizzato un evento internazionale che ha unito enologia e arte, scienza e architettura per dare un tributo di riconoscenza a loro padre. Presso l’Abbazia di Rosazzo, sulle sue colline, è stato celebrato il centenario con diversi significativi momenti. In apertura si è tenuto un convegno dal titolo “Arte e impresa

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ph. Luigi Vitale

a tutela del paesaggio rurale” introdotto da Maurizio Felluga e da Debora SerracLivio Felluga, uomo che incarna storia, chiani, Presidente della regione Friuli Vetradizioni, valori del Friuli Venezia nezia Giulia, con geografi, artisti e il neuGiulia nel mese di settembre ha com- robiologo vegetale Stefano Mancuso. In piuto cent’anni. Il personaggio consi- apertura dei lavori è stato proiettato un derato il patriarca dell’enologia friulana filmato, realizzato da Luigi Vitale, per ha creato, in un lungo percorso, una raccontare il progetto dell’evento dedicato delle più importanti realtà aziendali al centenario. In seguito, nell’antica cand’Italia. La famiglia infatti attualmente tina dell’Abbazia, è avvenuta la presenpossiede 155 ettari in zone vocate tazione di “100”, il vino in edizione fra i Colli Orientali del Friuli e il Collio. limitata appositamente creato e dedicato Personaggio dotato di grande intuito, a Livio Felluga per questa importante passione per la sua terra, caparbietà, occasione. Prodotto solo in 400 magnum ha puntato, sin dagli anni cinquanta, sulla qualità ottenuta da vigneti in collina e da vinificazioni accurate.

numerate (100 per ogni figlio) è ottenuto per la maggior parte da Friulano con Sauvignon, Pinot bianco, Malvasia istriana in piccola percentuale, tutti della vendemmia 2013. “100” è stato vinificato in botti di rovere dove ha completato il suo affinamento. Per questa edizione limitata il cartiglio, che raffigura un’antica mappa dei poderi aziendali protagonista di tutte le etichette dal 1956, riveste la bottiglia in vetro scuro accompagnato dalla consueta cornice dorata ornata da fiori. Sulla collina prediletta da Livio Felluga, a breve distanza dall’Abbazia, è stato poi inaugurato il Vigne Museum alla presenza delle autorità, di produttori amici come Gianola Nonino, Maria Teresa Mascarello, Lidia Bastianich. L’opera scenografica creata da Yona Friedman, architetto e artista franco-ungherese novantunenne, è stata realizzata e installata con la collaborazione dell’artista JeanBaptiste Decavèle. Alla base della struttura alloggiata tra i vigneti, per sugellare indelebilmente il significativo traguardo, sono state impiantate barbatelle che nel tempo diventeranno parte integrante della composizione, del paesaggio. I figli di Livio Felluga hanno condiviso con tutti i partecipanti all’evento una grande empatia e sentimento. Un brindisi ai cent’anni con la selezione Illivio 2012, accompagnato da specialità del territorio, è stato servito nelle sale dell’Abbazia di Rosazzo.



info brand

EBLEX, azione mirata per il mercato italiano di Elisa Facchetti

Sotto: carrè di agnello, ricetta dello chef Simone Rugiati.

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calo dei consumi che ha colpito il nostro paese con la qualità che contradIn previsione di Expo 2015 EBLEX distingue i suoi prodotti e che il conamplifica la sua presenza sul mercato sumatore italiano ha imparato ad apitaliano, forte di un prodotto sinonimo prezzare ormai da molti anni. di qualità, apprezzato tanto nel mondo Con oltre 6.000 tonnellate di carne dell'alta ristorazione, quanto dal bovina e quasi 4.000 di carne ovina consumatore finale. Comunicazione esportate in Italia nel 2014, Eblex afe social network rappresentano inoltre fronta con entusiasmo il nuovo anno i canali su cui l'ente inglese concen- che si prevede già ricco di iniziative e promozioni. trerà la propria attività. Beef e lamb saranno presenti in molti Promozioni, eventi, collaborazioni con menu di ristoranti italiani di qualità, chef di richiamo, web: prosegue con macellerie e anche, con promozioni energia il lavoro di Eblex sul mercato mirate, nei banchi di carne fresca italiano. Anche nel 2015, infatti, l’Ente delle principali catene della grande che sostiene l’industria inglese delle distribuzione. “Eblex ha registrato, sepcarni e che rappresenta oltre 100 pur lieve, un rafforzamento nelle espormila allevamenti d’oltremanica, conti- tazioni in Italia, un dato che ci fa ben nuerà ad esportare manzo e agnello sperare” afferma Jeff Martin, responsia nella ristorazione, sia nella grande sabile dell’ufficio italiano di Eblex. “Ai distribuzione cercando di far fronte al nostri clienti cerchiamo di offrire sempre la qualità intesa come prodotto dalle eccellenti e costanti qualità organolettiche, tenerezza e gusto in modo particolare, ma anche in termini di servizio e di innovazione. Per questo motivo molti ristoranti, grossisti e distributori scelgono i nostri prodotti”. Il lavoro di Eblex in Italia continuerà anche sul fronte della comunicazione e degli eventi. Il web e la collaborazione con chef di richiamo saranno le attività che la società inglese punterà a sviluppare. Continua Martin: “Miriamo a far diventare il nostro portale www.carneperfetta.it il sito di riferimento per la


Sempre più importanti saranno anche le partnership con gli chef: “Abbiamo chiuso il 2014 con una bella collaborazione con Simone Rugiati, che per Eblex ha creato tre ricette a base di agnello. Puntiamo a continuare su questa strada che ci ha dato tante soddisfazioni”. L’Ente ha recentemente aperto anche una web tv, attualmente con video in lingua inglese, da consultare per avere tutte le ultime news dal quartier generale Eblex. Non mancheranno attività mirate in occasione di carne, che il consumatore potrà con- Expo. “Expo sarà sicuramente un apsultare per cercare ricette, informazioni puntamento al quale non mancheremo nutrizionali, consigli su come tagliare - afferma Jeff Martin -. Il tema delo cuocere la carne. Abbiamo intenzione l’esposizione universale riguarda molto di rivolgerci a un pubblico giovane, mo- da vicino il settore della carne, sarà derno, dando loro consigli su come pertanto nostro interesse sviluppare poter combinare i frenetici stili di vita degli eventi che potranno affrontare di oggi con una cucina di qualità”. l’importante tema della sostenibilità”.

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Antonelli San Marco Signori del vino 12

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di Riccardo Oldani Nel giardino del suo splendido casale di Montefalco, affacciato sui Monti Martani, Filippo Antonelli parla con la calma e l'aplomb di un uomo d'altri tempi. La storia e il blasone della sua famiglia non gli hanno trasmesso il fare sbrigativo di molti rampanti imprenditori del vino, ma una signorile affabilità. Dal 1881 la sua famiglia possiede questa tenuta, con 40 ettari di vigneto, in frazione San Marco, dove si coltivano soprattutto Sagrantino e Sangiovese, ma anche Montepulciano, Merlot, Cabernet Sauvignon, tra le uve rosse, e Grechetto e Trebbiano Spoletino tra quelle bianche. Antonelli San Marco (www.antonellisanmarco.it) è uno dei marchi classici del Sagrantino di Montefalco, che produce con quattro etichette diverse, tra cui un passito, un cru da uve provenienti esclusivamente dal vigneto Chiusa di Pannone, e una versione più “facile”, il Contrario, pensato per i giovani. Filippo Antonelli è stato Artù n°66

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anche presidente del Consorzio di tutela dei vini di Montefalco, e ora è vicepresidente con il compito di coordinare i lavori per la proposta di rinnovo del disciplinare. Oltre al Sagrantino l'azienda produce Rosso di Montefalco, Grechetto e Trebbiano Spoletino, per un totale di circa 300.000 bottiglie l'anno. “Ma qui facciamo anche promozione al territorio – dice Antonelli – con l'agriturismo e con i corsi di cucina, con eventi estivi e con le visite alla cantina, oltre a produrre il nostro olio extravergine di oliva. Tutta l'azienda è condotta secondo i dettami del biologico”. Da Montefalco a Torre in Pietra Ma se Filippo Antonelli è umbro per parte di padre, è invece romano per

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parte di madre. E non di una famiglia qualunque. È discendente di quel Luigi Albertini che fu storico direttore e comproprietario del Corriere della Sera, fino a quando Mussolini, di cui osteggiava il regime, lo costrinse a lasciare. In cambio ne ebbe una buonuscita di sei milioni di lire con cui acquistò la tenuta del Castello di Torre in Pietra (www.castelloditorreinpietra.it), alle porte di Roma. Un luogo meraviglioso e storico. Ora la dimora è apprezzata location per matrimoni (ci si è sposata Mara Carfagna) e riprese cinematografiche. Filippo Antonelli segue in prima persona il rilancio della cantina da sempre annessa al castello, con l'idea di creare un connubio virtuoso con l'azienda di Montefalco. “Stiamo aprendo una 'fraschetteria' qui, un locale tipico della tradizione romana, dove si beveva il vino fuoriporta e ci si portava da mangiare. Qui naturalmente il cibo lo prepareremo noi: stiamo allestendo la cucina e chi verrà potrà visitare anche le cantine, scavate nel tufo. Nel realizzarle fu rinvenuto un femore fossile di mammut, che è diventato un po' il simbolo dell'azienda e di uno dei nostri vini. Si tratta dell'Elephas, prodotto sia in bianco, a base di Trebbiano, Malvasia Puntinata


Il richiamo di “Roma” Quale più potente richiamo può esserci, per un vino italiano, del nome della nostra capitale, la Città Eterna, conosciuta e sognata da tutti nel mondo? È quello che ha pensato, con una notevole intuizione commerciale, Filippo Antonelli, quando ha deciso di produrre, per Castello di Torre in Pietra, il Roma, un piacevole e profumato rosso da pasto, blend di Montepulciano al 50%, Cesanese al 35% e Sangiovese al 15%, fermentato per 10-12 giorni sulle bucce e poi, dopo la ulteriore fermentazione malolattica, affinato per tre mesi in vasche di cemento vetrificato e tenuto in bottiglia altri tre mesi prima di essere considerato pronto per la distribuzione. Il Roma, con i suoi profumi di frutti rossi e visciole mature, si accompagna bene a formaggi, primi corposi della tradizione romana, carni rosse, ma anche pizza e fichi, sformati, piatti a base di verdure e latticini freschi.

possono fare qui una sosta enogastronomica appena arrivati o prima di imbarcarsi. “La immagino – spiega Antonelli – come una vetrina privilegiata per tutti i nostri prodotti, anche quelli di Antonelli San Marco e di Majnoni Guicciardini, cantina toscana di proprietà di un altro ramo della famiglia”. Un ulteriore, potente richiamo, potrebbe essere uno dei vini di punta dell'azienda laziale, il rosso Roma, di cui Antonelli ha avviato una distribuzione negli Stati Uniti, ottenendo un ottimo riscontro.

e Vermentino, sia in rosso, un blend di uve Montepulciano, Sangiovese e Cesanese”. Una vetrina internazionale L'azienda si compone di 150 ettari, di cui 52 a vite, otto a oliveto e 80 a seminativi da cui proviene, tra l'altro, un farro usato per produrre dell'ottima pasta. Anche qui tutto è bio. I vigneti, in fase di rinnovo, non sono ancora sfruttati a pieno regime e la produzione è ancora limitata a 250.000 bottiglie. Castello di Torre in Pietra è a pochi minuti da Fiumicino e, nell'idea di Antonelli, diventerà la meta ideale per i turisti che transitano all'aeroporto, gruppi di stranieri, europei o americani, che Artù n°66

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Vino sfuso alla riscossa

di Riccardo Oldani Ritenuto “pietra dello scandalo” dai cultori del vino di alta qualità, lo sfuso si riaffaccia sulla scena dei mercati. Con coraggio e senza alcun complesso di inferiorità, ritorna ad avere una funzione, dopo essere stato demonizzato per anni. Oggi il vino sfuso sembra infatti avere riacquisito la dignità perduta, raggiungendo in alcuni casi livelli qualitativi dignitosi oltra a volumi da capogiro. Un tempo il vino si comprava sfuso: si entrava in rivendita con il proprio bottiglione e l'oste lo riempiva. Oppure si andava in cantina ad acquistarlo in damigiana e poi lo si imbottigliava a casa. Negli anni Sessanta e Settanta buona

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parte del mercato del vino italiano funzionava così. Poi c'è stata la rivoluzione della bottiglia, del packaging e dell'etichetta, che ha portato con sé la crisi delle cantine sociali, ma anche una positiva spinta al miglioramento qualitativo. Vendere il vino sfuso è passato di moda. Produrlo è considerato da molti produttori una macchia alla propria immagine. Le ruspanti cantine italiane di provincia hanno provato di trasformarsi in qualcos'altro, all'inseguimento di scintillii e blasoni che però non tutti hanno i titoli per meritarsi. Eppure ancora oggi il vino sfuso continua a circolare, seguendo canali nascosti, sotterranei, ma assai consistenti. Ne è la conferma il successo della World Bulk Wine Exhibition, la fiera mondiale del vino sfuso, che si è tenuta lo scorso novembre ad Amsterdam. Giunta alla sesta edizione è l'unica manifestazione, estremamente tecnica e business-oriented, pensata per una tipologia di prodotto che rappresenta – chi lo direbbe? – il 35% di tutto il commercio mondiale di vino in volume e il 12% in valore. Un fiume di bianchi, rossi e di basi spumante da ben 75 milioni di ettolitri l'anno e che si muove dai principali paesi produttori, in primis la Spagna, verso due tipi di compratori: altre cantine che hanno bisogno di mosti o di vini da taglio per integrare la propria produzione oppure grandi marchi della distribuzione organizzata, soprattutto del Nord Europa, che imbottigliano per le proprie private label. Non è un caso, data la supremazia iberica in questo mercato, che gli organizzatori della fiera, della società Pomona Keepers, siano spagnoli anch'essi. Gli spagnoli vendono a prezzi bassi e disturbano produttori di altri paesi, primi tra tutti quelli italiani, per cui, oltre agli affari, si è respirata aria di accesa competizione ad Amsterdam. La scelta dei Paesi Bassi come sede dell'evento è, del resto, ben calcolata: territorio neutrale, che non produce, ma che consuma molto e bene.

trovati con un enorme surplus e hanno abbassato oltremodo i prezzi. Ma le responsabilità non sono mai soltanto degli altri. Molti produttori italiani hanno snobbato il canale dello sfuso e ora rischiano di vedere minacciata anche la loro produzione in bottiglia. Almeno per quella di un certo tipo, di qualità media, a basso contenuto e di facile consumo. L'Italia, con una produzione di circa 6 milioni di ettolitri l'anno, è al secondo posto nel mondo nel mercato di vino sfuso, ma lo impiega soprattutto per la produzione, non per la commercializzazione diretta. Il poco vino sfuso che vendiamo ai buyer della gdo risulta quindi troppo caro per competere. E i buyer non guardano più la provenienza. Per loro è importante la varietà. Se un Pinot Grigio italiano è caro per i loro standard importa poco: lo si va a comprare da un'altra parte. Cosa significa questo? Che se gli scaffali dei supermer-

Competizione sulle bottiglie Gli italiani ce l'hanno con gli spagnoli che, dopo una vendemmia 2013 eccezionale per qualità e quantità, si sono Artù n°66

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cati inglesi, tedeschi o scandinavi si riempiono di Pinot Grigio private label a basso costo, e di provenienza non italiana, i primi a risentirne saranno proprio i principali produttori italiani di questo vino, poco consumato entro i nostri confini, amatissimo all'estero. Non presidiare bene il settore e non essere attenti a queste dinamiche può voler dire perdere grosse fette di mercato. E questo non soltanto per il Pinot Grigio, ma anche per altre tipologie che crediamo uniche o inattaccabili solo a motivo della provenienza. Anche perché la qualità del vino sfuso commercializzato a livello internazionale sta crescendo a vista d'occhio. Gli australiani, per esempio, che devono presidiare il mercato britannico, hanno cominciato a non imbottigliare più anche vini di qualità elevata, prove-

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nienti dalle loro migliori aree vinicole, per risparmiare in confezione e trasporto e mantenere discreto il margine. Se la qualità del vino sfuso cresce e finisce nelle bottiglie a marchio dei grandi supermercati, tra poco ci resterà soltanto la ristorazione, con tutti i problemi del caso (distribuzione, prezzo, dazi), per essere competitivi all'estero. Qualità nostrana Poi c'è l'altro canale di commercio del vino sfuso, quello da produttore a produttore. È l'arena in cui da sempre siamo molto attivi: vini da taglio, che servono a rinforzare colore e gradazione di vini di altre regioni in cui le vendemmie non sono state all'altezza. Mai come dopo questo brutto 2014 ce ne sarà bisogno (sempre nel rispetto delle normative europee, sottolineano i produttori). Finora ce la siamo cavata con lo sfuso nostrano, ma ora ne abbiamo molto poco e gli spagnoli hanno sparigliato sui prezzi. Alcuni produttori italiani potrebbero non resistere alla tentazione di comprare in quantità dalla Spagna e pare che la cosa si stia già verificando. Secondo i dati dell'Osservatorio spagnolo del mercato del vino, grossi quantitativi di mosti spagnoli hanno preso la via della penisola. Come verrà usato questo vino? Riusciremo a non perdere di vista la qualità visto che non possiamo competere sulla quantità? La rinascita del vino sfuso ripropone con decisione questi interrogativi. Speriamo che le nostre aziende sappiano dare le giuste risposte.



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Allergeni Indicazioni obbligatorie? Un vero ginepraio 20

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di Calogero Moscato Ormai è legge dello Stato. Il 25 ottobre 2011 il Parlamento europeo e il Consiglio avevano adottato il regolamento (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori. Tale regolamento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale UE del 22 novembre 2011, è entrato in vigore il 12 dicembre 2011 ed è pienamente applicabile nel nostro Paese dal 14 dicembre 2014 scorso. Artù pubblica tutte le norme da conoscere per sapere come comportarsi con i propri menu.

Migliore leggibilità dell’etichetta Allo scopo di migliorare la leggibilità dell’etichetta, il Regolamento UE 1169/2011 ha riconsiderato le dimensioni del carattere, lo spessore, il La nuova norma europea ha lo scopo colore e il contrasto tra scritta e di uniformare l’etichettatura degli ali- sfondo. È stato previsto che l’altezza menti nei paesi UE per consentire al minima dei caratteri debba essere di consumatore di ricevere informazioni 1,2 mm (0,9 mm per le confezioni essenziali, leggibili e comprensibili e più piccole). Le informazioni per effettuare acquisti consapevoli. In obbligatorie non debbono sintesi, dal 14 dicembre 2014, tutti i essere apposte con altre inprodotti alimentari devono avere eti- dicazioni o immagini che chette più trasparenti nel contenuto e possano interferire. visibili all’occhio del consumatore, con caratteri di grandezza definita in base Elenco degli ingredienti alle dimensioni della confezione e stam- Tutti gli ingredienti che si presentano sottoforma pati in modo chiaro e leggibile. Di seguito si riportano le principali di nanomateriali ingenovità introdotte dal regolamento:

Allergeni Il Regolamento UE 1169/2011 prevede l’obbligo di indicazione anche per i prodotti non preimballati (art. 44). Le sostanze debbono essere evidenziate distinguendo il possibile allergene mediante diverso carattere, sfondo o stile differente. L’obbligo viene esteso anche ai prodotti alimentari venduti nel circuito della ristorazione. Nel caso di imballaggi o recipienti la cui faccia maggiore presenti una superficie inferiore a 10 cm2 l’elenco degli ingredienti può essere omesso. Tuttavia, in mancanza di tale elenco, è obbligatoria l’indicazione della presenza nell’alimento in questione di sostanze o di prodotti che provocano allergie o intolleranze. Essa deve comprendere il termine “contiene” seguito dal nome di tale sostanza o prodotto. Artù n°66

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L’elenco degli allergeni L’elenco che segue sono gli allergeni elencati nel Regolamento (UE) n. 1169/2011 e che debbono essere indicati nelle confezioni degli alimenti o nei menu, se presenti. 1. Cereali contenenti glutine, cioè: grano, segale, orzo, avena, farro, kamut o i loro ceppi ibridati e prodotti derivati, tranne: - sciroppi di glucosio a base di grano, incluso destrosio; - maltodestrine a base di grano; - sciroppi di glucosio a base di orzo; - cereali utilizzati per la fabbricazione di distillati alcolici, incluso l’alcol etilico di origine agricola. 2. Crostacei e prodotti a base di crostacei. 3. Uova e prodotti a base di uova.

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tale prodotto da steroli di olio vegetale a base di soia. 7. Latte e prodotti a base di latte (incluso lattosio), tranne: - siero di latte utilizzato per la fabbricazione di distillati alcolici, incluso l’alcol etilico di origine agricola; - lattiolo. 8. Frutta a guscio, vale a dire: mandorle (Amygdalus communis L.), nocciole (Corylus avellana), noci (Juglans regia), noci di acagiù (Anacardium occidentale), noci di pecan (Carya illinoinensis (Wangenh) K. Koch), noci del Brasile (Bertholletia excelsa), pistacchi (Pistacia vera), noci macadamia o noci del Queensland (Macadamia ternifolia), e i loro prodotti, tranne per la frutta a guscio utilizzata per la fabbricazione di distillati alcolici, incluso l’alcol etilico di origine agricola.

4. Pesce e prodotti a base di pesce, tranne: - gelatina di pesce utilizzata come supporto per preparati di vitamine o carotenoidi; - gelatina o colla di pesce utilizzata come chiarificante nella birra e nel vino.

9. Sedano e prodotti a base di sedano.

5. Arachidi e prodotti a base di arachidi.

11. Semi di sesamo e prodotti a base di semi di sesamo.

6. Soia e prodotti a base di soia, tranne: - olio e grasso di soia raffinato; - tocoferoli misti naturali (E 306), tocoferolo D-alfa naturale, tocoferolo acetato D-alfa naturale, tocoferolo succinato D-alfa naturale a base di soia; - oli vegetali derivati da fitosteroli e fitosteroli esteri a base di soia; - estere di stanolo vege-

12. Anidride solforosa e solfiti in concentrazioni superiori a 10 mg/kg o 10 mg/litro in termini di SO 2 totale da calcolarsi per i prodotti così come proposti pronti al consumo o ricostituiti conformemente alle istruzioni dei fabbricanti.

10. Senape e prodotti a base di senape.

13. Lupini e prodotti a base di lupini. 14. Molluschi e prodotti a base di molluschi.

gnerizzati devono essere indicati chiaramente nell’elenco degli ingredienti. Il nome degli ingredienti è seguito dalla dicitura “nano”. I nanomateriali ingegnerizzati non devono essere inclusi nell’elenco degli ingredienti quando si presentano sottoforma di uno dei seguenti costituenti: - gli additivi e gli enzimi alimentari; - i supporti e le sostanze che non sono additivi alimentari, ma sono utilizzati allo stesso modo e allo stesso scopo dei supporti e sono utilizzati nelle dosi strettamente necessarie; - le sostanze che non sono additivi alimentari, ma sono utilizzate allo stesso modo e allo stesso scopo dei coadiuvanti tecnologici e sono ancora presenti nel prodotto finito, anche se in forma modificata. Origine e provenienza delle materie prime Il Regolamento UE 1169/2011 ha esteso l’obbligo di indicare l’origine e la provenienza delle materie prime per le carni ovine, caprine, suine e avicole. In base a quanto previsto dal regolamento di esecuzione (Ue) n.1337/ 2013, che fissa le modalità di applicazione del regolamento (UE) n. 1169/2011, l’obbligo decorre dal 1 Aprile 2015. È da evidenziare che gli Stati menbri UE possono adottare disposizioni che richiedano ulteriori indicazioni obbligatorie per specifiche categorie, nel caso in cui si voglia proteggere il consumatore, la salute pubblica, i diritti di proprietà industriale e commerciale, delle IP, DOC e prevenire le frodi. Denominazione di vendita Il Reg. UE 1169/2011 ha previsto che la denominazione dell’alimento debba comprendere, o essere accompagnata, da un’indicazione dello stato fisico nel quale si trova il prodotto o dello specifico trattamento che ha subito (ad es. “liofilizzato”). Vengono introdotte le seguenti denominazioni: “prodotto decongelato”, “carne o pesce ricomposto”, “acqua


aggiunta a carne o pesce”, “ingrediente sostitutivo”, “involucro non edibile (per gli insaccati)”. Responsabilità degli operatori Il Reg. UE 1169/2011 ha introdotto le responsabilità dei vari operatori del settore alimentare lungo la catena di approvvigionamento. Responsabilità per produzione interna UE : è l’operatore con il cui nome o ragione sociale o marchio è commercializzato il prodotto. Responsabilità per provenienza extra UE: è l’importatore (se non viene Vendita a distanza (siti web, telefostabilito l’operatore in UE). nica, consegna a domicilio) L’operatore è tenuto a fornire una parte Pratiche leali d’informazione delle informazioni obbligatorie sul maLe informazioni riportate sul prodotto teriale a sostegno della vendita a dio sull’imballaggio o trasmesse in pub- stanza o con altri mezzi appropriati blicità: (art. 14.1.a). - non devono indurre in errore i desti- Tutte le informazioni obbligatorie devono natari; poi venire offerte in fase di consegna - devono essere precise, chiare e facil- (art. 14.1.b). mente comprensibili; - non devono attribuire proprietà di Nota guarigione o prevenzione di malattie. Non è ancora chiaro come dovrà essere applicata la norma nell’ipotesi di vendita Espansione campo di applicazione e consegna a domicilio di pizza e/o del regolamento prodotti di gastronomia, e se, oltre alle Le norme previste dal Reg. 1169/2011 informazioni da fornire preventivamente, si applicano a tutti i prodotti destinati debba essere necessario applicare al consumatore finale. delle etichette sulle confezioni. Sono compresi anche i prodotti che vengono preparati da ristoranti, mense Deroghe e catering o venduti a distanza. La nota dolente del nuovo regolamento è che la grande distriPubblici esercizi, mense e catering buzione organizzata è Alla data odierna sono ancora da de- esclusa dal rispetto di finire le specifiche modalità con cui buona parte delle i ristoratori e i pubblici esercenti, indicazioni obbligaoltre ai titolari di mense e catering, torie previste dal Reg. dovranno offrire le informazioni ai UE 1169/2011! consumatori finali. Resta fermo il prin- L’ennesima prova che cipio per cui “per tutti gli alimenti sono le lobbies che, ansono resi disponibili e facilmente ac- che in Europa, dettano cessibili le relative informale leggi! zioni obbligatorie, conformemente al presente regolamento” (art.12.1). Le modalità di indicazione sono quindi lasciate, per adesso, alla “fantasia” degli esercenti.

Infatti rimangono esclusi dalla quasi totalità delle informazioni obbligatorie gli alimenti pre-confezionati dai supermercati per quanto concerne “la vendita diretta” e cioè per i prodotti come le carni i salumi ed i formaggi che vengono messi in vendita da parte della grande distribuzione, avvolti nel cellophane e porzionati. Si spera che il legislatore nazionale colmi quanto prima questa lacuna legislativa, che non trova ragione d’essere e che crea un eccessivo disequilibrio a favore della grande distribuzione organizzata. Altra nota dolente, che però testimonia la malafede del legislatore europeo, è

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Informazioni obbligatorie in etichetta - La denominazione dell’alimento; - l’elenco degli ingredienti (in ordine decrescente di peso); - qualsiasi ingrediente o coadiuvante tecnologico elencato nell’allegato II o derivato da una sostanza o un prodotto elencato in detto allegato che provochi allergie o intolleranze usato nella fabbricazione o nella preparazione di un alimento e ancora presente nel prodotto finito, anche se in forma alterata; - la quantità di taluni ingredienti o categorie di ingredienti; - la quantità netta dell’alimento; - il termine minimo di conservazione o la data di scadenza; - le condizioni particolari di conservazione e/o le condizioni d’impiego; - il nome o la ragione sociale e l’indirizzo dell’operatore del settore ali-

mentare di cui all’articolo 8, paragrafo 1; - il paese d’origine o il luogo di provenienza ove previsto all’articolo 26; - le istruzioni per l’uso, per i casi in cui la loro omissione renderebbe difficile un uso adeguato dell’alimento; - per le bevande che contengono più di 1,2% di alcol in volume, il titolo alcolometrico volumico effettivo; - una dichiarazione nutrizionale (obbligatoria per tutti i prodotti a partire dal 13 dicembre 2016) È da evidenziare che: - Le informazioni obbligatorie sugli alimenti preimballati debbono apparire direttamente sull’imballaggio o su un’etichetta a esso apposta. - Le informazioni obbligatorie sugli alimenti debbono essere apposte in

che sparisce l’obbligo di indicare sulle confezioni lo stabilimento di lavorazione degli alimenti. Un regalo alle multinazionali. Che rischia di danneggiare le aziende nostrane. E di aiutare i cloni del made in Italy. In teoria ci sono due eccezioni: carne e latticini, per i quali bisognerà ancora segnalare lo stabilimento, ma non più come avviene oggi: basterà un numero a rappresentare la fabbrica. Per comprendere le conseguenze del cambiamento vale la pena fare un esempio con la mozzarella della Santa Lucia, marchio controllato dalla multinazionale francese Lactalis che, oltre a quelli italiani, ha impianti sparsi per il mondo. Ebbene, se per ipotesi la Lactalis decidesse di non realizzare più la mozzarella in provincia di Pavia, ma di spostare la manifattura all’estero, per il consumatore sarebbe praticamente impossibile saperlo. Un ragionamento applicabile a tutto il cibo.

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un punto evidente in modo da essere facilmente visibili, chiaramente leggibili ed eventualmente indelebili. Esse non debbono essere in alcun modo nascoste, oscurate, limitate o separate da altre indicazioni scritte o grafiche o altri elementi suscettibili di interferire. - le indicazioni obbligatorie che appaiono sull’imballaggio o sull’etichetta ad esso apposta, debbono essere stampate in modo da assicurare chiara leggibilità, con caratteri la cui parte mediana (altezza della “x”) deve essere pari o superiore a 1, 2 mm. Nel caso di imballaggi o contenitori la cui superficie maggiore misura meno di 80 cm, l’altezza della x deve essere pari o superiore a 0,9 mm.

Indicazioni fuorvianti Il Reg. UE 1169/2011 prevede che debbono essere facilmente identificabili gli alimenti simili ad altri, ma prodotti con ingredienti diversi (es: la carne o il pesce ottenuti dalla combinazione di più parti dovranno essere indicati come “carne/pesce ricomposti”). Carni L’obbligo di indicazione dei requisiti specifici alla designazione delle carni macinate, come il lettore saprà, è entrato in vigore il

1 gennaio 2014. A partire da questa data è divenuto obbligatorio indicare in etichetta quanto previsto nell’allegato IV del regolamento sulle denominazioni degli alimenti e le indicazioni specifiche previste nella parte B. Le carni macinate poste in vendita debbono quindi riportare le seguenti informazioni: - “percentuale del tenore in materie grasse inferiore a …” - “rapporto collagene/proteine della carne inferiore a …”. Per la carne, preparazioni a base di carne e prodotti non trasformati a base di pesce congelati, dal 14 dicembre 2014 diventa obbligatorio indicare anche la data di congelamento o la data del primo congelamento (per i prodotti che sono stati congelati più di una volta), in conformità dell’allegato X, punto 3 del Regolamento UE.



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Val d’Ultimo Il pane come una volta 26

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di Alessandra Piubello Alto Adige, magia del pane, ma anche di molte altre materie prime. Un viaggio lungo la Ultenthal, quaranta chilometri tra sole, fitti boschi, prati, antichi masi su ripidi pendii, tranquillità (cinquemila abitanti in tutta la valle…), natura incontaminata e monti altoatesini, deve far tappa, per i ricercatori del buono e autentico, a Santa Valburga. “È proprio qui - spiega Hannes Schwienbacher del panificio Ultner Brot - nell’autentica e tradizionale Val d’Ultimo, a 1.200 metri d’altezza, che noi viviamo e lavoriamo. La valle si estende a sud di Merano sopra la gola Valsura, in direzione sud-ovest. La qualità dell’acqua cristallina della sorgente sopra il paesino, a 1.600 metri, contribuisce moltissimo all’unicità del nostro pane”. Una volta si veniva in zona per trovare il famoso chef stellato della mitica “Genziana”, Giancarlo Godio, ma ormai son passati

vent’anni dalla sua morte. La storia di Nella pagina accanto: Richard questo panificio ha radici ben più e il figlio Hannes Schwienbacher. antiche: nel lontano 1919, la bisnonna di Hannes, Maria, apre il suo panificio nel centro del villaggio di Santa Valburga, dove ha sede tuttora. Il nipote mastro panettiere Richard Schwienbacher (padre di Hannes), utilizza ancor oggi le stesse ricette, lievitando i suoi pani con la stessa pasta madre acida tramandata da generazioni. La lievitazione naturale da pasta madre è la tecnica di fermentazione più antica e complessa. La flora batterica che compone il lievito madre mantiene sempre un carattere di imponderabilità, con il risultato di un pane artigianale, mai del tutto prevedibile, ma profumato, digeribile e che si conserva più a lungo nel tempo. Nel 1982 i Schwienbacher si sono attrezzati con un mulino interno, nel quale macinano farro, kamut, grano tenero e segale tutti provenienti da agricoltura biologica, tutti di alta qualità. Il mulino attualmente è automatizzato con un sistema integrato studiato in esclusiva per

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nomia di mercato rivolta soprattutto ai settori frutticolo e lattiero ha ridotto la coltivazione di cereali, tanto che la famiglia Schwienbacher supporta il progetto Regiograno per ridare nuova vita all’attività di coltivazione regionale. Ceril panificio, per tificati bio da Abcert dal 2000, sono avere un prodotto anche certificati Demeter dal 2012 su sempre fresco e sicuro. tre ottimi prodotti, il pane al farro, i L’Alto Adige ha una lunga tradizione grissini al farro e gli Schüttelbrot (farro nella coltivazione di cereali: attorno al e segale). A marchio Ultner Brot la fa1900 ogni maso coltivava il suo campo miglia Schwienbacher ha aperto anche di cereali e questi si estendevano su un negozio ad Appiano e due a Merano. una superficie di circa trentamila ettari, Richard Schwienbacher, mastro panetrappresentando una parte integrante tiere diplomato a Monaco dal 1972, dell’agricoltura locale. Il passaggio da “è sempre all’opera a sfornare nuove una produzione diretta al mantenimento idee”, tanto che sono arrivati ad avere dell’individuo o della famiglia ad un’eco- ben centocinquanta prodotti diversi tra pane, cracker, grissini, chips, biscotti, tutti incredibilmente buoni, sani e digeribili. “Facciamo in modo che tutto resti il più naturale possibile – racconta Hannes Schwienbacher - dedicando all’impasto la preziosità del nostro tempo e della nostra esperienza per arricchirlo di sapore. Da generazioni, è di primaria importanza per noi la coltivazione in casa del lievito naturale, senza additivi né eccipienti. Nonostante la continua modernizzazione del nostro forno e l’uso delle tecnologie più moderne siamo sempre rimasti fedeli alle nostre radici e alla produzione tradizionale: proprio come una volta, tutti i nostri prodotti sono ancora fatti a mano”. Qui non raccontano storie, l’autenticità è assoluta, l’amore al prodotto è totale: è davvero gente “pane al pane”.

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San Leonardo, nobile taglio bordolese 30

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di Giovanna Moldenhauer

altri vini: dal millesimo 2000 il Villa Gresti da Merlot per la gran parte e La Tenuta omonima, in provincia di Carmenère per quella restante, il Terre Trento, con la sua piccola chiesa del di San Leonardo, cadetto del vino prin1100 a testimonianza del suo passato cipe, a base di Cabernet Sauvignon e di feudo monastico, oggi rappresenta Merlot con una piccola percentuale di una delle aziende che hanno fatto la Carmenère. Nel 2012 la gamma si è ulstoria del vino in Italia. E, grazie anche teriormente ampliata con il Vette di ai vertici raggiunti, trova nella ristora- San Leonardo, un bianco ottenuto da Sauvignon blanc con uve selezionate zione di qualità un alleato fedele. ottenute dai viticoltori della zona. San Leonardo, situata a Borghetto all’Adige, appare dietro il suo cancello Di padre in figlio dapprima con un borgo dall’ampia Da ormai diverso tempo anche il figlio corte dove si affacciano gli uffici e le di- Anselmo è impegnato in azienda e verse cantine. Alzando lo sguardo si come il padre è innamorato della terra scorgono il viale alberato, le vigne, il trentina, dei suoi profumi. “Diversi perparco, la villa sovrastati dalla sagoma sonaggi della nostra famiglia – ha esorimponente dei Monti Lessini che pro- dito Anselmo accogliendoci a Borghetto teggono la proprietà di 300 ettari dai all’Adige – sono stati in passato grandi venti freddi del nord. L’intero complesso, estimatori del territorio oltre che prodi proprietà della famiglia dal 1724 duttori di vino. Mio padre ed io non facper passaggi ereditari, è stato portato ciamo eccezione! La nostra personale negli anni dal Marchese Carlo Guerrieri passione per l’agricoltura e la viticoltura Gonzaga ad essere un simbolo della ci spinge a mantenere vive le tradizioni produzione vinicola italiana. Dopo il di questo posto così ricco di storia!”. passaggio del testimone da parte del Poco dopo Carlo Guerrieri Gonzaga ci padre, alla fine degli anni 60, Carlo ha condotto a visitare i diversi vigneti volle dare un nuovo volto all’azienda della Tenuta e una parte del suo parco. per la determinata convinzione che la sua terra fosse dotata di caratteristiche così particolari da consentire di ottenerne l’eccellenza. La sua passione per i grandi vini, di Bordeaux in particolare, ha orientato la sua formazione scientifica enologica, l’ha portato ad approfondire la sua conoscenza con viaggi studio in Francia e in Toscana. L’amicizia con Mario Incisa della Rocchetta, che nella proprietà toscana di San Guido lo aveva introdotto a tutti i segreti su come ottenere un eccelso taglio bordolese, ha convinto Carlo a produrlo dando vita così al San Leonardo. Il progetto partito dalla vigna ha coinvolto sino alla fine degli anni 90 l’enologo Giacomo Tachis, autentica autorità dell’enologia. Negli anni 70, quindi, alla tradizionale pergola sono stati affiancati sistemi d’allevamento a guyot e cordone speronato e nelle vigne è stato introdotto il Cabernet Sauvignon. L’impegno di quasi cinquant’anni ha portato il Marchese a realizzare nei 25 ettari vitati della Tenuta Artù n°66

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ed agronomo, succeduto nel 2000 a Giacomo Tachis, segue durante l’anno la conduzione degli impianti. “Ho scelto di avvalermi – ha commentato Carlo durante il percorso – anche della consulenza di Marco Simonit e Pierpaolo Sirch, definiti ‘preparatori d’uva’, per i loro interventi innovativi in fase di potatura che prolungano la vita vegetativa delle viti. Tutte le nostre diverse varietà sono coltivate su terreni a bassa fertilità, ben drenati da cui nascono uve che una volta divenute vino garantiscono una produzione di qualità. Le vigne cirIn una fascia a circa 150 metri s. l. m. condate dai boschi godono ogni giorno si trovano gli ordinati filari di Merlot, dell’Ora, brezza che soffia dal lago di poco più su quelli di Cabernet Sauvi- Garda verso nord portando benefici ingnon, Cabernet Franc, tutti con una flussi e contribuendo al nostro particolare densità di 6.600 ceppi per ettaro. Poco microclima. Le forti escursioni termiche distanti c’erano quelli più antichi di tra giorno e notte, dovute alla vicinanza Carmenère, tuttora a pergola doppia dei Monti Lessini, permettono di ottenere trentina dove la scelta di severe potature un’ottima maturazione dei grappoli, una consente di ottenere una produzione maggiore concentrazione degli aromi”. di qualità. Nel corso della nostra visita Ritornati in cantina abbiamo visitato abbiamo notato che tutte le vigne ap- dapprima la sala delle vinificazioni con parivano come un giardino curato dai le vasche di cemento, quindi quella collaboratori, al tempo stesso, con suggestiva delle grandi botti di rovere rigore e amore. Carlo Ferrini, enologo di Slavonia (dove affina il Terre di San Leonardo) con affreschi del 1500 alle pareti. Siamo passati poi in un locale destinato apparentemente solo alla collezione delle vecchie annate del San Leonardo, distese sui ripiani, dove in realtà si cela un passaggio segreto che conduce alla barricaia. Il grande locale sotterraneo, con le sue basse volte, ospita centinaia di piccoli legni destinati alla maturazione dei vini rossi. Abbiamo concluso il nostro percorso nella piccola chiesa affrescata testimone della millenaria storia della Tenuta. Carlo Guerrieri Gonzaga in ogni momento della nostra visita è stato un appassionato ambasciatore della sua azienda, un gentiluomo che ha raccolto per noi piccoli fiori dal delicato profumo nel bosco. L’impressione durante la nostra permanenza nella Tenuta circondata da mura è stata quella di una realtà prettamente artigianale ma al tempo stesso dove nulla è lasciato al caso. “La terra – ha concluso Carlo Guerrieri Gonzaga salutandoci con Anselmo – è l’anima del nostro mestiere di vignaiolo”.

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La Casa del Vino Il palazzo De Probizer nel centro di Isera è la sede di rappresentanza della Casa del Vino della Vallagarina. La cooperativa costituita da ventinove aziende vitivinicole locali (oltre il 90% della sua produzione), tra piccole aziende agricole e grandi cantine sociali, è nata nel 1996 con l’unico scopo di dare visibilità a tutti gli operatori direttamente coinvolti nella filiera enogastronomica locale. La Casa del Vino propone per pranzo e cena rivisitazioni di piatti trentini, diverse ogni giorno, abbinate ai migliori vini della zona. Durante il pomeriggio vengono preparati assaggi gastronomici con formaggi a scelta tra il Monte Baldo, il Vezzena, il 50&50 (composto da latte vaccino e caprino in uguali quantità prodotto da Luca e Diletta Bini, gestori della Casa del Vino) oppure sapidi insaccati regionali. All’ingresso si possono scegliere e acquistare etichette, prodotti locali come succhi biologici, mostarde, marmellate, farine, tutti realizzati da piccoli produttori locali. Sin dalla sua apertura la Casa del Vino comprende oltre all’affrescata sala delle Armi altri due spazi interni, arredati elegantemente, affiancati da una terrazza con una magnifica vista sulla Valle dell’Adige. Ai piani superiori del palazzo, ristrutturato recentemente, si trovano sei camere superior, due suite arredate con grande gusto, corredate di tutti i comfort. Carlo Guerrieri Gonzaga, presidente sin dall’apertura nel 1996 de La Casa del Vino, ci ha proposto con la complicità di Luca Bini due piatti: in abbinamento al Villa Gresti 2008, ottenuto dai più antichi vigneti della Tenuta, dei tagliolini all’uovo con melanzana e pomodorini freschi confit, seguiti da un polpettone di manzo al forno con contorno di fagiolini e patate accompagnato da un calice di San Leonardo 2007. Entrambi gli abbinamenti equilibrati esaltavano la morbidezza, la rotondità e l’eleganza dei due vini.

Il San Leonardo Il vino blend di Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Carmenère e Merlot trae il suo carattere unico, i profumi, la freschezza, l’eleganza, l’equilibrio da un insieme di fattori determinanti. La tipologia di terreni del Trentino del sud, il suo microclima sono associati a una meticolosa attenzione per la raccolta di ogni singola varietà perfettamente matura. In cantina le uve sono poi lavorate separatamente a basse temperature con quotidiani rimontaggi e macerazioni che durano circa due settimane. Dopo 10 mesi in tini di cemento, per consentire l’estrazione dei tannini nobili, avviene il passaggio per 18/24 mesi in barriques di rovere di primo, secondo e terzo passaggio.

In alto: ravioli alla ricotta ed erbette. A lato: canederli con speck su fonduta di formaggi.

Prima dell’imbottigliamento viene effettuato il taglio in cui le diverse proporzioni vengono decise solo dopo una severissima degustazione barrique per barrique. Il vino completa il suo affinamento con almeno un anno di bottiglia prima della sua commercializzazione. Se le condizioni in campagna non sono ideali e la qualità ottenuta non è giudicata idonea il cru non viene prodotto. L’annata 2009 per esempio non è stata realizzata, facendo salire a sei i millesimi non imbottigliati dall’inizio della produzione nel 1982. Artù n°66

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La stoffa di

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di Gualtiero Spotti Una giovane promessa che, in anni di esperienze importanti, si è consolidata raggiungendo livelli di professionalità sempre più elevati. A Firenze la sua linea di cucina si declina in due varianti: a Borgo San Jacopo, dove prevalgono piatti di notevole impegno creativo, e al Caffè dell’Oro, in cui vincono proposte più informali. Geniale e brillante, lo chef trentino Peter Brunel, non a caso, è stato scelto dalla famiglia Ferragamo, la cui “collection” alberghiera è sinonimo di raffinatezza ed esclusività, da far girare letteralmente la testa.

A destra: “Senza Farina”, spaghetti di patate, crema all’uovo e guanciale.

Si trovano nel cuore di Firenze, vicino al Ponte Vecchio, e in qualche modo formano un comprensorio del lusso e dell’ospitalità a sé stante, anche perché i proprietari sono i Ferragamo, una delle famiglie della moda più conosciute a livello internazionale. Stiamo parlando degli alberghi della Lungarno Collection (Portrait Firenze, Gallery Art Hotel, Continentale e Hotel Lungarno), presenti in un piccolo quartiere appoggiato sulle rive dell’Arno, a un tiro di schioppo, e forse meno, dalle grandi attrattive turistiche del capoluogo toscano, e oltretutto capaci come pochi altri di offrire ambienti, servizi e perfino paesaggi su misura

per le diverse tipologie di clienti. La punta di diamante qui è probabilmente rappresentata dal Portrait, con le sue accoglienti suite affacciate proprio sull’Arno; un delizioso scrigno di contemporaneità pulita ed essenziale capace di mescolare sapientemente il gusto classico dove spiccano i marmi di Carrara uniti al legno, alla pelle, al cashmere, e dove non manca la praticità tecnologica di piccole cucine ospitate all’interno delle stanze, per l’intima comodità delle famiglie che vogliono godersi fino in fondo la sosta nella loro suite, magari consumando un pasto sul terrazzo con vista fiume. I frequenti “rimandi” al mondo della moda (come nella Suite 503, dedicata a Coco Chanel) rivelano una sensibilità non indifferente verso la cultura contemporanea. Gli altri hotel però non sono da meno. Dall’altro lato della strada, verso il centro città, si Artù n°66

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Sotto: musetto di vitello, foie gras, castagne affumicate, carciofo e grappa di Sassicaia.

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entra direttamente accedendo da Vicolo dell’Oro, nel Continentale e nel Gallery Art Hotel, due alberghi con anime e caratteristiche diverse. Più sbarazzino e moderno il primo, con un design per una clientela certamente multigenerazionale, una Spa molto funzionale e la mirabolante Penthouse Suite ospitata nell’antica Torre Consorti, dalla quale vivere lo spettacolo dei tetti di Firenze. Oppure, dall’altra parte della piccola piazzetta, il Gallery Art, che come dice il nome racchiude una spiccata vocazione artistica, con i bei ritratti appesi alle pareti della hall d’ingresso, dai libri della grande sala al pian terreno, e con il valore aggiunto di un luogo vivace e ben frequentato da una clientela variegata che è il Fusion Bar & Restaurant, dove scoprire il cibo dalle suggestioni etniche seduti comodamente a un tavolo, oppure deliziarsi con i famigerati cocktail della casa. L’ultimo indirizzo invece, quello dell’Hotel Lungarno, si trova nella vicina via di Borgo San Jacopo, dall’altra parte del fiume. Anche qui in realtà l’arte la fa da padrona, con le opere firmate da Cocteau e Picasso nella Picteau Lounge, ma il punto di forza dell’hotel rimane sicuramente la cucina del ristorante, che è il più importante dell’intero gruppo Lungarno. Un ristorante di grande eleganza, che si chiama, appunto, Borgo San Jacopo e che da pochi mesi, ottobre per la precisione, vede come cuoco executive (anche per tutte le altre cucine del gruppo) il talentuoso Peter Brunel, che ha sostituito Beatrice Segoni ai fornelli. L’arrivo dello chef trentino, originario della Val di Fassa (dove la sorella


conduce uno splendido agriturismo gourmet) rappresenta una ventata di novità per il gruppo Ferragamo. Nel recente passato aveva già messo un piede a Firenze, al Palagio, dopo aver brillantemente risollevato le sorti del Chiesa di Trento e, prima ancora, aver girovagato tra rimarchevoli cucine italiane e non. Peter Brunel è un creativo e un sognatore, come dicono senza possibilità di smentita i suoi piatti, uno stakanovista della professione, un appassionato ricercatore di materia prima e un cuoco cui non manca mai l’azzardo quando si tratta di voler rappresentare diverse consistenze, cotture e tecniche nei piatti presentati al tavolo. Per questo il suo impegno in una piazza come quella fiorentina, dove non mancano cucine innovative (Marco Stabile di Ora d’aria, per dirne uno fra i più bravi, o Vito Mollica, al Palagio del Four Seasons, professionista di grande carattere ), ma che si nutre in sostanza di una cucina decisamente tradizionalista, diventa una bella scommessa cui guardare con la dovuta attenzione. Lo dicono i piatti di un menu a più facce, dove Brunel presenta i suoi grandi classici (vedi il “Ricordo di Lofoten”, con alici marinate, pesto di erbe mediterranee e peperoni piquillo, o il “Fossile”, un astice in crosta di

argilla con insalata glaciale, porcini e salsa bernese), insieme a percorsi tematici costruiti ad hoc. Nei giorni della nostra vista, ad esempio, ci è capitato in sorte un menu degustazione con variazioni sul tema “patata”, dove spiccavano il piatto “Senza farina”, ovvero spaghetti di patate a pasta gialla con crema all’uovo di Parisi e guanciale di cinta senese, e il “Sotto zero”, un sorbetto di patata vitelotte con panna acida, pistacchio, caviale Asetra, cioccolato e oro. Peter Brunel ha già saputo dare la sua impronta al ristorante, che sta diventando una delle mete più ricercate in città, ma nel frattempo ha anche rivoluzionato, in Sopra: “Sotto zero”, sorbetto di patata vitelotte, panna acida, pistacchio, caviale, cioccolato e oro. A lato: agnello cotto al fieno, scalogno, uva e erbe di montagna.

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Quel quarantenne trentino ha conquistato i Ferragamo di Alberto P. Schieppati Conosco Peter Brunel da molto tempo. Ricordo quando, una dozzina di anni fa, “portò” la stella Michelin al ristorante Villa Negri, di Riva del Garda. La sua creatività, già allora irrequieta e indomabile, aveva colpito un ispettore della prestigiosa guida: in effetti, non era così semplice imbattersi, a quei tempi e in quel territorio, in piatti come il “medaglione di tonno steccato all’erba limone (oggi diremmo lemon grass) su spuma di zucchine al pepe e germogli”…. E ricordo anche quando, con piglio geniale e strabiliante fermezza, risvegliò la (allora) sonnolenta Trento gastronomica. Al ristorante Chiesa, un’istituzione per la città, Peter portò la sua carica innovativa, non tanto per stupire quanto per esprimere se stesso, la sua idea di cucina, il suo amore totale per le materie prime di qualità. Dopo un intermezzo di consulenze per aziende importanti (Riso Scotti, Bauer, Acquerello e altro), Peter si è nuovamente immedesimato nella sua attività principale, quella di executive chef. Ed è entrato dalla porta principale, ovvero dalla Firenze migliore, quella degli imprenditori che hanno fatto epoca e continuano sulla strada intrapresa mietendo suc-

cessi che rafforzano l’immagine del made in Italy nel mondo. Non è un caso se Peter ha incontrato la famiglia Ferragamo, un nome che per Firenze e l’Italia è sinonimo di eccellenza: le scarpe di Salvatore Ferragamo hanno creato la base per l’ingresso a testa alta nel mondo della moda, ma anche – successivamente - nell’industria dell’ospitalità di fascia alta. L’esempio del Portrait, il format luxury degli hotel del gruppo, è eloquente: insieme al Continentale, al Gallery e al Lungarno rappresenta (v. articolo) una punta di diamante dell’ospitalità fiorentina. Peter Brunel, a cui spetta il compito di gestire, coordinare e soprattutto creare l’offerta culinaria del gruppo, è certamente il più indicato fra gli chef oggi presenti sul mercato: certosino e meticoloso, ambizioso e caparbio creatore di piatti inediti, attento conoscitore di materie prime e tecniche di cottura, innovativo ma anche, al tempo stesso, grande amante delle tradizioni, lo chef trentino (è di Soraga, comune ladino della Val di Fassa) ha “da subito richiamato l’attenzione della città grazie al suo carattere e alla carica innovativa che mette nella professione”, come ci dice Cristina Fogliatto, responsabile comunicazione della Lungarno Collection. Oggi l’attività di Peter è concentrata su

tre differenti realtà, come ben si evince dall’articolo di Gualtiero Spotti in queste pagine: Caffè dell’Oro, Fusion, Borgo San Jacopo. Tre linee di cucina differenti, sulle quali domina un comune denominatore: la profonda conoscenza delle materie prime, la geniale inventiva, la sapiente retrospettiva delle proprie esperienze insieme alla continua volontà di ricercare nuove strade, senza inutili sperimentalismi ma con la sicurezza (non presuntuosa) di soddisfare una clientela molto esigente.

chiave ovviamente più informale ma Sotto: lasagna con fonduta qualitativamente ineccepibile, la cucina di Pecorino, ragù di rapa bianca del Caffè dell’Oro, il ristorante ospitato e finferli al timo. al piano terreno del Portrait Firenze. Con una serie di piatti facilmente comprensibili dalla clientela internazionale, che vuole gustare la cucina italiana in un ambiente rilassato e più “easy”. Con, sullo sfondo, ancora una volta la bellezza immortale del Ponte Vecchio e dell’Arno.

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Metro Academy A scuola di HORECA di Luisa Contri L’Italia è un paese strategico per il gruppo Metro. Il leader internazionale nel self-service all’ingrosso (business da 30,5 miliardi di euro nel mondo, dei quali poco meno di 2 miliardi realizzati in Italia) lo dimostra con l’apertura – avvenuta il 18 novembre scorso presso il cash & carry di San Donato Milanese – della Metro Academy. Si tratta essenzialmente di un luogo d’incontro, di confronto e di formazione concepito dal retailer per i professionisti del mondo horeca del Belpaese. Un servizio in più messo a disposizione degli oltre 120 mila titolari di bar, ristoranti e pizzerie che già fanno acquisti nei 49 cash & carry Metro attivi in Italia e, più in generale, di tutti i professionisti del settore.

L’Italia non è il primo paese a ospitare un centro d’aggregazione e formazione per i clienti horeca di Metro. Germania e Francia, per esempio, ne ospitano già uno. Quello che però rende unica la Metro Academy italiana è la sua impostazione. Nel paese in cui la cultura del ben mangiare e ben bere si esprime ai massimi livelli, Metro ha voluto assicurarsi di essere sempre e comunque all’altezza della situazione. Invece di af-

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fidare a propri dipendenti, per quanto professionalmente ben preparati, il compito di tenere i corsi, ha scelto un team di docenti esterni, fra i più qualificati. A ricoprire il ruolo di direttore scientifico della Metro Academy italiana, Metro ha dunque chiamato lo chef bistellato Claudio Sadler. A tenere i corsi di cucina e pasticceria, quelli che il retailer chiama i “mestieri del gusto”, saranno docenti di uno dei più rinomati centri d’alta formazione italiani: Cast Alimenti di Brescia. A curare quelli di bartending e caffetteria sarà un’altra scuola prestigiosa: Planet One. Quelli di sommellerie, infine, saranno condotti da sommelier professionisti dell’Ais Lombardia. Fisicamente la Metro Academy del punto vendita di San Donato Milanese si svilupperà su 300 mq, suddivisi in quattro spazi più uno. L’area bar a disposizione di tutta la clientela del negozio; l’aula dedicata ai mestieri del gusto con attrezzature montate su ruote per poterla trasformare, a seconda delle necessità, in area show cooking oppure in laboratorio di pasticceria; l’area cucina, allestita con tutte le più moderne attrezzature di cui dispongono i ristoranti d’oggi, dove i corsisti potranno esercitarsi fianco a fianco con lo chef Sadler; l’aula incontri con il banco bar ove fare lezioni di bartending e che, all’occorrenza, si trasformerà in aula caffetteria. Il quinto e ultimo spazio della Metro Academy è l’angolo digitale, dove la clientela troverà le tecnologie del futuro: dalle stampati 3D per preparare i piatti a

tutti gli strumenti per creare un’app per il proprio ristorante, agli applicativi per gestire i menu. Questi spazi ospiteranno corsi organizzati appositamente per la Metro Academy rivolti a soli professionisti che verteranno su argomenti intesi ad aggiornare l’operatore sulle ultime tendenze di ogni mestiere. I corsi saranno articolati in una, massimo due lezioni e saranno a pagamento (la spesa non supererà comunque i 300 euro). All’attività di formazione (il calendario corsi

del primo semestre 2015 è già consultabile all’apposita pagina del sito di Metro Italia Cash & Carry), si affiancheranno eventi, presentazioni e dimostrazioni di prodotti organizzati dal retailer e dai suoi fornitori.

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di Stefania Zolotti

le quotidiano durato ben cinque anni in cui conduceva ospiti in studio di varie Parlare con Chef Kumalè è un po’ nazionalità ai quali chiedeva sempre di come farsi trascinare da Jules Verne congedarsi con una ricetta del proprio in giro per il mondo. Dietro Chef paese e una top list di piatti. Raccontata Kumalè, in realtà, ci sono un nome e oggi non fa davvero effetto ma i veri anuna storia poco conosciuti ma molto ticipatori sono quelli che sembrano asinsfruttati. Intanto si chiama Vittorio croni rispetto ai costumi contemporanei. Castellani e di lavoro non fa lo chef Lavorando come tour manager per conma il gastronomade. Un piemontese certi e gestendo poi viaggi studio in di origini emiliane che dai primi anni Europa per giovani studenti (con pochi Novanta macina kilometri di culture soldi in tasca), Vittorio Castellani ha attraverso il cibo e che oggi rappresenta iniziato a nutrirsi partendo dal cibo che la voce più autorevole per spiegare se noi chiameremmo di strada o cibo e quanta contaminazione abbiamo tra povero. “La cucina era già un mio alta ristorazione e cucine del mondo. interesse perché viaggiavo molto e occupandomi di world music stavo spesso Il suo viaggio inizia per gioco nel 1991 in contatto con artisti stranieri, per lo con la trasmissione radiofonica “The più maghrebini. Nel mangiare certe cose Cous Cous Clan” sulle frequenze di inizialmente mi si rizzavano i capelli Radio Flash a Torino (e successivamente perché avevo voglia di cibo italiano, io su Radio Popolare Network Milano). Un che tra l’altro venivo da origini ferraresi progetto musica- con sette zie sfogline. Poi la fascinazione è arrivata come un fiume perché tramite queste persone riuscivo a sublimare tut-

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ta la mia voglia di viaggiare. Il mio primo lungo viaggio fu Hong Kong, nel 1995: da lì iniziai ad occuparmi definitivamente di cucine del mondo. Kumalè è un nome d’arte, nato ridendo. Parlando una sera col direttore artistico di Radio Rai Alberto Campo, tra un bicchiere di troppo e un clima di grande amicizia, a un certo punto mi chiese in piemontese: Alura cuma l’è? T’las mangià bin? Kumalè valeva in ligure, in lombardo e in piemontese ma suonava bene anche in africano. Scoppiammo a ridere, il nome c’era. Fu un successo strepitoso, la gente telefonava, la musica era buona e le ricette erano davvero originali e dirompenti per quegli anni. Anni in cui l’Italia non sapeva nemmeno cosa fossero i ristoranti etnici. C’erano solo i cinesi. Poi nel 2000, più o meno, iniziò il boom. Ciò che mediamente in Italia non si conosce sono proprio le sfumature delle altre culture gastronomiche. Parliamo sempre di cucina mediterranea ma è un concetto falsato perché esistono ‘le cucine mediterranee’: tanto per iniziare quella italiana, francese e spagnola. Poi c’è la cucina del Maghreb (algerina, tunisina, marocchina e libica), la Mauritania è altra cosa ancora, poi la cucina di Israele, poi quella del Medio Oriente e infine tutta l’area turcobalcanica con Malta che è una scheggia impazzita per via della dominazione inglese (usano la margarina, hanno tagliato tutti i vigneti e producono birra e cotone). Parlavo molte lingue, avevo grandi contatti europei in ambito musicale e tantissimi amici da molte parti del mondo: la fusione di tutto questo è stato l’origine il mio lavoro”. Che cosa ha filtrato l’Italia, a livello di ristorazione, dai fenomeni migratori? “Faccio spesso questo esempio emblematico per spiegare quante occasioni possono esserci per favorire lo scambio. In Fiat, quando non c’era ancora la mensa, nei baracchini si fermavano a pranzare

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l’operaio veneto o il siciliano e ognuno guardava nella gavetta dell’altro e chiedeva di assaggiare la caponata o qualche altro piatto locale. La Fiat è stato un grande laboratorio di scambio per il Piemonte che non aveva grande cultura di pesce. Si usava mangiare solo le tinche, carpe e pesci di lago o trote di fiume, si cucinava con la margarina e col burro e certo non con l’olio extravergine. Le verdure le hanno portate i siciliani e i calabresi perché le verdure del nord erano cavoli e patate, per non parlare della polenta. Sono state le immigrazioni a spostare i cibi e le culture. In Italia c’è una grande confusione nel parlare di cucina etica, che è termine improprio. Nella letteratura anglosassone e francofona c’è una distinzione vera e propria tra world food-ethnic cuisine e cuisine du mondecuisine ethnique. La cucina etnica è intimamente legata al fenomeno migratorio: è la cucina che si insedia nei quartieri più periferici, in locali caotici e imperfetti, riproponendo fedelmente i sapori di casa come elemento identitario. Ce lo conferma la sociologia delle migrazioni: il cibo è un veicolo inattaccabile così come la musica e l’arredamento della casa e occorrono ben tre generazioni per acquisire abitudini differenti. Quando poi non si reperiscono gli ingredienti originali, allora può nascere la fusion, offrendo una specie di viraggio rispetto alla ricetta di partenza. Poi c’è la fusion come scelta, quella dell’alta cucina: è un fenomeno nato a New York, poi sviluppato in Canada, Australia (dove troviamo la migliore cucina fusion) ma anche in Sud Africa e Nuova Zelanda. Gli chef fanno spesso scalo nelle grandi città asiatiche e ora anche negli Emirati Arabi per importare stili e tecniche nuovi. Gli chef italiani, grandi o piccoli, raramente si sono presi la briga di studiare un patrimonio culturale e gastronomico diverso dal loro e spesso molti nostri ristoranti creano dei veri e propri Frankenstein. Noto tanta presunzione nel credere di detenere la cucina migliore del mondo ma per poterlo dire bisognerebbe aver prima girato un pezzo di mondo, almeno da Hong Kong all’Indonesia, dal Messico


anzichè cavalcarla, secondo Kumalè. Anche se in realtà non mancano esempi di (soprattutto giovani) chef che hanno invece lo slancio giusto verso la contaminazione. Del resto basterebbe essere un po’ onesti e riconoscere che venti anni fa, quando i primi chef giapponesi arrivarono in Italia, in pochi li accolsero riconoscendo le loro qualità e l’avanguardia che portavano. Eppure è anche grazie a loro se oggi si frigge con la tecnica del tempura e se il design nei piatti è diventato minimalista. Oggi il Giappone è sulla bocca di tutti, in ogni senso, ma in pochi riconoscono apertamente di essere stati ispirati dalla sua “foodlosophy”. al Libano. Il gusto è equilibrio e bellezza e la bellezza non ha una geografia perché può stare ovunque. Ovunque esiste il bello e il buono. World food è un’altra cosa. World food sono i grandi classici delle grandi cucine del mondo in cui lavorano chef professionisti, architetti, designer: niente a che vedere con il concetto di etnico. Io mi occupo da sempre di world food e cucina etnica eppure in Italia tutti mi chiedono di scrivere solo di cous cous, kebab e sushi. Anche il kilometro zero è un’assurdità per come viene strumentalizzato: se potessimo riavvolgere la storia dell’alimentazione, vedremmo che il nostro inizio è la zuppa di farro, tipico autoctono italiano ma tutto il resto è arrivato con l’immigrazione. L’impero romano era indiscutibilmente multietnico: aveva scambiato coi Fenici, Berberi, Greci. E l’impero ottomano? I Turchi hanno portato nel Mediterraneo le tradizioni della Cina e della pasta ripiena. La ristorazione italiana fatica a confrontarsi con le altre cucine del mondo. Fatichiamo a fare squadra come fanno ad esempio gli chef spagnoli che hanno scelto di valorizzare e recuperare la cocina del mercado e le tapas, portando l’alta ristorazione fuori dai contesti tradizionali. In Spagna mangiano al mercato come se fossero nel ristorante stellato, in Italia è mediamente impensabile perché siamo ingabbiati”. L’Italia rischia di subire la globalizzazione, Artù n°66

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Perbellini a Verona Molto più di una CASA

di Alessandra Piubello

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Apre a Verona la nuova “dimora del gusto” di Giancarlo Perbellini, che si ripropone nelle vesti di un oste tradizionale, più attento a rispettare memoria e identità che a stupire mediaticamente come molti chef oggi provocatoriamente fanno. La forza di Giancarlo sta proprio nel proporsi con semplicità, forte però di esperienze importanti e di una conoscenza delle materie prime davvero senza uguali. Casa Perbellini vuole essere uno spazio di libertà e di approfondimento per il gourmet evoluto che, alla fine, cerca sempre la verità gastronomica, meglio se in atmosfera informale e intima. Il primo livello di sapienza è saper tacere, il secondo è saper esprimere molte idee con poche parole, il terzo è saper esprimersi senza dire troppo e male. Si dovrebbe parlare solo quando si ha veramente qualcosa da dire, che valga veramente la pena, o, perlomeno, che valga più del silenzio. Hernàn Huarache Mamani Entrate per la piccola porta, diceva Qualcuno. Un portoncino in legno di una casa qualunque, una casetta-lampada dal tetto rosso vermiglio e una

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scritta appena visibile: “Casa Perbellini”. Non è facile da individuare la nuova dimora del gusto di Giancarlo Perbellini. Certo, a distrarre l’occhio è la magnificenza della Basilica di San Zeno, il leggendario vescovo nero patrono della città scaligera. Un capolavoro romanico a dominare una piazza ombreggiata da alberi, dove ancora si respira la veronesità autentica, ben più che nel centro storico. Un luogo di ritrovo molto amato, dai giovani e dai vecchi, un salotto di cultura e ospitalità. Si può addirittura parcheggiare, si scende et voilà, pronti all’incontro con il cuoco giallo-blu a due stelle. Una casualità (eppure le coincidenze forse son significanti) ma sessant’anni fa, proprio al numero 16, esisteva la latteria Perbellini. Driiin! Ad aprirci il sorriso di Andrea Salvatori, sommelier in forza per anni da Pinchiorri, ritornato a mettere la sua esperienza al servizio di Giancarlo, come un tempo. L’entrata è piccina, ma accogliente, con un salottino per ricevere, come in ogni casa che si rispetti. Pentole di rame su mensole bianche, testimonianze di un sapere antico. E torni improvvisamente bambino nel mondo surreale di una parete dai neri disegni su candido sfondo: farfalle che ti vien voglia di acchiappare, rospi ai quali rifare il verso, le vecchie sedie di famiglia per fare filò. Giancarlo fa capo-


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casa tua. Più bassa del pavimento, in una buca, per dar modo di vedere l’orchestra al lavoro. Stupefacente vedere cinque uomini di brigata, tra i quali Giacomo Sacchetto, il sous-chef, e Giancarlo (nessun oversize, per carità, ma han tutti due belle spalle) muoversi con tale precisione e naturalezza in uno spazio così ridotto. Movimenti accurati, in ogni singolo gesto, mani operose che preparano al momento ogni singolo piatto, una creazione in opera che avviene sotto gli occhi di tutti i commensali. E non solo, si assiste anche alla preparazione, al termine del servizio (altro che televisione!). Tre lampade, nel loro bianco fascio di luce, evidenziano e scaldano le ricette finite: architetture e cromatismi da chef d’œuvre, pronte sul banco. Giancarlo, dalla cucina, parla ai tavoli più vicini, in uno scambio diretto. Si respira l’atmosfera serena, pur nell’alacre, incessante attività senza nervosismi, e anche di salvifica, ironica sdrammatizzazione: coppole al posto delle toque in cucina, in sala giacche blu su jeans e scarpe da ginnastica. Ah, finalmente qualcuno che mette un punto a capo alla mitizzazione dei locali

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lino dalla sala: barba leggera, camicia bianca, gilet, grembiule bianco, un torcione appeso alla tasca. Niente Bragard con il nome ricamato, niente gel e sbarbatura perfetta come ti aspetteresti dal classico chef formale. Sembra un oste, non a caso è nome che deriva dal latino hòspes, ovvero colui che riceve in casa i forestieri. Gli indizi di un cambiamento sostanziale nello stile di accoglienza arrivano uno dopo l’altro. Due sale, conta i coperti e ti fermi a ventiquattro. D’estate, fuori all’aria aperta, ce ne saranno altri, ma non molti. Siediti su comode poltroncine (potresti starci per ore, chi pensa non solo al design ma anche all’ergonomia pensa al benessere) e attendi che ti stendano la tovaglia e ti preparino il desco, come a casa quando arriva un ospite. Nel frattempo, hai molto da osservare: davanti hai una Manincor rosso amaranto profilata in acciaio, una cucina che non spaventa: non troverai mai uno scienziato che sperimenta fra fumi di azoto molecole da aggregare, ma un artigiano creativo. Professionale, dotata di tutti gli strumenti utili (piastre a induzione, plancha, roner, forni, gas), ma è quella che vorresti a

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stellati, nei quali stare in punta di forchetta, esasperazione di una formalità eccessiva. Sala e cucina danzano insieme, in contatto visivo, nulla sfugge alla giovane squadra di Perbellini (molto rodata, vengono tutti dal suo ex ristorante di Isola Rizza o comunque vi hanno collaborato) che unita fa la forza di una coralità armonica. Il perno attorno al quale tutto ruota è lui, lo chef (“ma se chiamate chef me, chiamate chef anche Giacomo”). Cinquant’anni per ricominciare, cambiando. Osando rompere degli schemi, per evolvere. Da un ristorante enorme, barocco e paludato, ad una locanda microcosmo, che odora di casa, di semplicità, di familiarità. Riscoprendo il gioco, lui un tempo così perfettino. Coinvolgendo in questo gli ospiti: un menu per esempio, si chiama “chi sceglie… prova!”, facendo scegliere direttamente tra quattro ingredienti elencati (al momento uovo, parmigiano, branzino, verza, ma cambieranno ogni tre settimane, come tutta la carta dei cibi), due che andranno a comporre due piatti. A chi non vuole stare al ristorante a cena per ore, a chi vuole poi andare al cinema, a teatro o all’opera, alle famiglie con bimbi piccoli, ai giovani che non possono spendere molto, pro-

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pone il “menu veloce”: dalle 19 alle 20.45 vengono servite tre portate (fra le quali due classici della casa e un piatto nuovo, “coccole e divertissement” in apertura e chiusura) e due calici di vino, un bianco e un rosso, a ottanta euro. Dalle 21.15 invece, si serve il menu “Assaggi” di sette portate a centotrentacinque euro o il menu “chi sceglie prova” a centodieci euro a persona. A pranzo, la possibilità di scegliere fra gli ultimi due menu appena citati e il “a mezzogiorno”, composto di due portate (in più gli immancabili benvenuto e piccola pasticceria) a cinquanta euro. La carta vini (fai un salto nella cantina a volta, con i sassi e mattoni a vista), fissata con delle viti all’inconsueta tavoletta di legno, punta anch’essa alla semplicità, attuale parola d’ordine di Casa Perbellini (la semplicità è complessità risolta, ndr): cinquanta vini italiani e cento dal resto del mondo. Tutta la storia di Giancarlo Perbellini la ritroviamo nei suoi piatti. Prima la sua infanzia, segnata soprattutto dalla figura del nonno Ernesto, abile pasticcere come tutta la dinastia Perbellini ma anche cuoco talentuoso, oltre che dalla cucina della mamma e della nonna che dal primo mattino studiavano i manicaretti più prelibati. Poi i suoi trascorsi, riassunti brevemente. Dopo l’alberghiero di Recoaro, lavora nei ristoranti veronesi (Marconi, Desco, Dodici apostoli), nel


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e di ricerche. E se gli chiedi che missione ha (molti suoi colleghi sembra che abbiano visto la Luce) ti guarda un po’ storto, sorride e ribatte: “Ma quale missione e missione, io vorrei solo portare le persone a mangiare cibi di qualità, riportarli a pensare e a capire quello che stanno mangiando. Io non credo proprio di segnare la storia con la mia cucina. Io ho sentito di essere un cuoco a trentatré, trentaquattro anni, nella maturità, nell’esperienza, quando ho capito che potevo veramente mettere a frutto tutto ciò che avevo dentro. Il senso ultimo sta nell’interpretare un prodotto di eccellenza senza rovinarlo. E se mi chiedi quali sono le qualità più importanti per uno chef, penso siano la passione, il senso del gusto e la perseveranza”. Eh sì, dietro quell’apparenza pacata, quel naturale understatement, brilla una forza costante, determinata e appassionata. Nel suo piatto simbolo, il wafer al sesamo con tartare di branzino, caprino all’erba cipollina e sensazione di liquirizia, riesce

ad armonizzare tutti i sapori, tutti percepibili singolarmente, fondendoli poi in delicatezza e in equilibrio rari. Ogni sfumatura del sapore è presente in un’opera veramente sinfonica, rafforzata dal gioco di consistenze. Altri piatti storici, come lo squisito caviale affumicato e zabaglione ghiacciato o il saporito guanciale di vitello brasato, sono ancora inclusi nel menu, ma la maggior parte, come è nel carattere à la recherche di Giancarlo, sono nuovi. Una menzione va alla quaglia affumicata, pomodori confit, pistacchio e carciofi, una ricetta che è un omaggio alla tecnica e al gusto.

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mitico San Domenico di Imola, il simbolo della classe assoluta nel servizio, della grandezza incomparabile in cucina per l’epoca, poi in Francia (tra i tanti, Taillevent e L’Ambroisie). Nel 1989 apre il suo ristorante a Isola Rizza, perso nelle campagne della Bassa veronese. Una sfida anche allora. La prima stella nel 1999, la seconda nel 2001. A seguire, le esperienze di New York, della Locanda Perbellini al Forte Village a Santa Margherita di Pula in Sardegna, e quella di Hong Kong. Perbellini non è “solo” un grande cuoco, è un professionista che progetta, che fa crescere la sua squadra. Individua le persone capaci e ne diventa socio in ristoranti che fonda e che poi lascia condurre ai giovani, responsabilizzandoli (ne ha fondati ben 14). Ha delle visioni, riesce a precorrere i tempi, come dimostra nel suo nuovo locale. Anche nel concetto di ospitalità: a poca distanza dal ristorante, “Cinque”, cinque stanze per l’appunto, prenotabili solo su internet, senza reception, l’accesso è con un codice. Il futuro è dei curiosi di professione, di chi non si siede mai sulle certezze. Uomo di fatti, di silenzi e di opere, non di parole abusate e di gesti eclatanti per farsi largo mediaticamente. Prima di parlare, per tornare alla citazione iniziale, prima di rivoluzionare la sua idea di ristorante, ci ha messo tre anni di studi

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di Luisa Contri Il parmigiano-reggiano prodotto da Nicola Bertinelli è più apprezzato all’estero che in italia. Non è una novità che le nostre migliori produzioni di qualità abbiano più estimatori nel mondo che a casa propria. Ma il “casaro” di Medesano insiste: e punta su latte “a inizio lattazione” e stagionature lunghe, fino a 36 mesi. Grandi chef, come Heinz Beck, gli hanno creduto. La locuzione “nemo propheta in patria” può rispecchiare l’esperienza di Nicola Bertinelli. Imprenditore di terza generazione nel settore del parmigiano-reggiano, giovane + Iva, come lui stesso si definisce dall’alto dei suoi 42 anni, doppia laurea in Scienze agrarie e in Economia e commercio in Cattolica, più un master in economia dell’università di Guelph (Canada), Bertinelli non si rammarica più di tanto pensando che 1.400 forme del suo miglior prodotto, il parmigiano-reggiano millesimato Gran cru, sono vendute all’estero e soltanto 600 rimangono in Italia. Da imprenditore, com’è ovvio, non perde occasione di proporle anche sul mercato interno. Fra i suoi clienti annovera chef del calibro di Heinz Beck, sta cercando di conquistare Giovanni Santini, “litiga” un giorno sì e un giorno no con Massimo Bottura, ha rifornito Marco Parizzi e Marco Dallabona. Forse perché la sua lunga permanenza all’estero gli ha fatto un po’ perdere la sintonia con l’anima latina, non si meraviglia del fatto che il suo Gran Cru abbia sfondato prima presso chef del circuito

Jeunes restaurateurs d’Europe e cuochi stellati di Lussemburgo, Belgio, Germania, Australia e Giappone. “Gli italiani a volte sono un po’ strani, - afferma Bertinelli -. Se non ti sei già affermato oltreconfine difficilmente ti considerano. All’estero, invece, ritengo sia più semplice vendere un prodotto oggettivamente buono”. Bertinelli non ha problemi a raccontare com’è riuscito a ottenere un parmigiano-reggiano “oggettivamente di qualità superiore”, col metodo che ha brevettato. “Non è stato facile - racconta Bertinelli -. Per riorganizzare l’azienda in modo da poter raggiungere il mio obiettivo, ho dovuto combattere una vera e propria guerra con mio padre e con i miei collaboratori”. L’avventura del Gran Cru è partita nel 2002. Bertinelli ha innanzitutto scelto di avere il controllo totale della fi-

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liera: dalla coltivazione dei foraggi nell’azienda agricola di proprietà di Medesano, all’allevamento e gestione delle 600 vacche da latte, alla raccolta quotidiana del latte munto. Proprio in questa fase e in quella successiva della caseificazione sta il clou del brevetto. Per produrre il Gran Cru, infatti, il caseificio Bertinelli impiega esclusivamente latte di vacche della medesima stalla e tutte a inizio lattazione, che hanno cioè partorito da meno di 100 giorni. È un latte più nutriente, più ricco in sostanza secca per essere più digeribile per il vitellino, ma anche con un corredo più indicato per essere trasformato in un formaggio a lunga stagionatura. Questo latte è dunque raccolto e gestito separatamente da quello delle altre vacche. “Utilizziamo solo il latte d’inizio lattazione” - spiega Bertinelli - perché ha una fortissima sineresi. Quando si fa la cagliata, come una spugna che si auto-spreme, rilascia molta più acqua. Si può dunque fare la cotta a 48°C, invece che a 55°C com’è la norma e, in questo modo, sopravvive un maggior numero di quei tre batteri buoni dell’erba medica che conferiscono al parmigiano-reggiano i suoi aromi, profumi e sapori tipici. Caratteristiche organolettiche che nel Gran Cru risultano più intensi, sia che sia stagionato 12, 24, 30 o 36 mesi”. Il parmigiano-reggiano Gran Cru, che Bertinelli propone con un sovrapprezzo del 15-20%, è solo una piccola parte della produzione del caseificio. Parliamo di 2 mila forme su un totale annuo di 7.500. Un’ultima annotazione. Per generare liquidità che consenta all’azienda di far fronte al lungo ciclo finanziario della produzione di parmigiano-reggiano, Bertinelli ha organizzato la sua azienda

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in quattro business unit. Al caseificio, che genera un fatturato di 4,5 mln euro, ha affiancato la bu retail, che gestisce tre negozi al dettaglio, la bu ristorazione, che affianca quella retail, e la bu Caseificio della Musica, un locale polifunzionale che organizza 150 concerti live all’anno. Il fatturato del gruppo raggiunge così i 15 mln euro.



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Casta Diva Gourmet, Alessio Mecozzi non sta di Alberto P. Schieppati Dopo le fatiche del Simposio del Gusto, che ha visto alternarsi con successo al Casta Diva di Blevio quattro grandi chef del calibro di Enrico Derflingher, Aurora Mazzucchelli, Luca Montersino e Tommaso Arrigoni, la brigata di cucina del resort 5 stelle lusso ha posto le basi per la stagione culinaria 2015. Alessio Mecozzi, classe 1977, di Grottaferrata (Roma), attivo da tre anni nel ristorante gourmet del lussuoso hotel sul lago di Como, ha predisposto la carta dell’Orangerie, l’elegante spazio-gourmet del Casta Diva. Alessio, chef che aderisce ad Euro-Toques Italia, ha messo a punto piatti di grande profondità gustativa, degni di essere presi in esame (e sarebbe ora) anche dagli ispettori della Guida Michelin, che resta il “vangelo” indiscusso

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a guardare dell’universo gourmet. Fra i piatti proposti da Mecozzi e dalla sua brigata, ARTÙ segnala - avendoli degustati in anteprima - piatti di raffinata consistenza gustativa, coerenti con l’idea di “rilancio costruttivo” della cucina del Casta Diva, come ha sottolineato il general manager della struttura Andrea Luri. “La ristorazione, negli alberghi di lusso, viene spesso ritenuta l’anello debole dell’offerta, concentrata su suite, spa, servizi luxury ecc. Ma, nel nostro caso, offriamo una ristorazione di categoria superlativa, grazie ad uno chef di talento, capace di guidare una brigata affiatata e desiderosa di dimostrare passione e impegno. E grazie anche alla scelta dichiarata di privilegiare le eccellenze, sia in materia di food che di beverage”. La nostra recente esperienza al Casta Diva conferma la tendenza in atto, ovvero di affiancare all’offerta alberghiera una linea di ristorazione capace di soddisfare sia la clientela internazionale in cerca di carattere “italiano” che la clientela locale, desiderosa di un’esperienza gourmet non convenzionale.

Alessio Mecozzi, insieme a Davide Rotondo, food & beverage manager della struttura, è il professionista capace di avviare questa rivoluzione dell’offerta. Tornando ai piatti, fra gli antipasti segnaliamo: gamberi alla puttanesca, animelle fritte con maionese al fruit passion e agrodolce al curry, uovo a 62 gradi, polenta, frutti di bosco, fiorito. Fra i primi, abbiamo ottimo ricordo di riso Acquerello mantecato con Piacentinu ennese e petto d’anatra: un piatto in cui la cottura (i 14 minuti del Carnaroli) consente di apprezzare la corposità di ogni chicco, seppure la mantecatura conferisca un carattere cremoso al piatto, in cui il riso assorbe perfettamente il formaggio e lascia all’anatra di esprimersi appieno, senza venire confusa col resto. Notevoli i ravioli al violino di capra della Val Chiavenna, con formaggio cagliato (caseificio Damiano) e roveja: un concentrato di sapori forti che rimandano a gusti di territorio al-

pino, ben interpretati da Alessio. Fra i secondi ARTÙ ha preferito il baccalà (di Giraldo) con zucca gialla e pomodorini secchi, un piatto che merita il viaggio. Il segmento dei dessert vede liberarsi ancor più decisamente l’ala creativa di Mecozzi, che propone quattro dolci, Ricordo d’infanzia, Winter, Era uno strudel, Fichi mascarpone e aceto balsamico, un quartetto molto invogliante. In menù vengono proposti anche abbinamenti

in t er essanti, ma perfezionabili: ottimo il Monsupello Brut, così come La Segreta 2012 di Planeta (bene con il risotto), o Il Brigante 2011 de La Costa (vino delle colline lariane, di Perego, perfetto con i ravioli), forse lo Chardonnay 2012, sempre di Planeta, sul baccalà risulta ridondante. Ma va detto, in ossequio alla “ragionevolezza”, che i vini in abbinamento possono essere scelti al calice dalla carta, ricchissima e equilibrata. Come equilibrata risulta essere tutta l’esperienza gourmet, allietata dall’eleganza del luogo e dal paesaggio unico sul primo bacino del lago di Como, proprio di fronte a Cernobbio.

Qui sopra: Alessio Mecozzi (a destra) con Antonino Cannavacciuolo al Simposio del Gusto 2013. Artù n°66

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Asturie, gli chef della MOVIDA di Gualtiero Spotti Specialità tipiche ma anche creazioni geniali di chef innovativi, capaci di valorizzare prodotti e tradizioni. Le Asturie sono un territorio fra i meno conosciuti di Spagna, ma al tempo stesso tra i più accattivanti per il gourmet alla ricerca di novità. Qui, tra l’altro, non si incontra il turismo di massa, ma quello più ragionato e attento, fatto di full immersion nella natura, di visite a caseifici nascosti sulle colline dell’entroterra, di riscoperte alimentari (è la terra del sidro, che qui viene proposto nell’acrobatico modo di versarlo da sopra la testa sino al bicchiere tenuto all’altezza dei fianchi, con l’effetto di una fontana), ma anche di originali aree valorizzate e diventate centri culturali spettacolari, sulla scia del Guggenheim di Bilbao. Il cuore pulsante della regione non è uno solo, perché le città importanti qui sono almeno due, Gijon e Oviedo, molto diverse tra di loro. La prima è vivace e giovane, con una movida serale trascinante, la seconda invece è più compassata, vista anche la storia, i monumenti e sicuramente la diversa

posizione, perché se Gijon si affaccia sull’Oceano, Oviedo si trova non troppo distante, a meno di trenta chilometri, ma in una zona collinare interna. C’è però da dire che a parte questi due centri principali, l’area offre diverse località, spesso balneari, con più di un motivo di interesse, soprattutto per chi è alla ricerca dei sapori locali e del buon cibo. Un punto di partenza classico può essere lo storico ristorante Real Balneario a Salinas, affacciato su una spiaggia molto frequentata, con una stella Michelin e un menu che lascia ampio spazio al pescato, con una particolare attenzione al bogavante cantabrico (ovvero l’astice), che qui merita addirittura una carta a parte visto che,

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tra l’altro, è cucinato per tutti i gusti: come una bouillabaisse, o a la parrilla, in insalata o asado con un succo di arancia. Poi non mancano i percebes (delizia anche portoghese), la spigola (che qui chiamano lubina), la ventresca di tonno o le triglie cucinate a bassa temperatura. Insomma, il mare la fa da padrone, e la mano di Isaac Loya Del Rio, il cuoco che è cresciuto qui ai fornelli, ha il giusto equilibrio per accontentare una clientela classica, ma anche tutti coloro che ricercano qualche guizzo più moderno. Non a caso capita perfino di gustare un Niguiri fritto con tartare di tonno rosso. Se Real Balneario rappresenta certamente la cucina più tradizionalista, lo stile eclettico qui in zona è ampiamente rappresentato dal giovane Koldo Miranda, nel suo stupefacente ristorante D’Miranda 360°, ad Aviles. Un giro nel borgo storico della bella cittadina è il preludio allo shock visivo dell’arrivo al Centro Culturale Niemeyer, una bianca distesa di edifici moderni e di altissima architettura, dove spicca proprio un fungo che, nel suo cappello, ospita, il ristorante a forma circolare. La vista è chiaramente magnifica e a 360 gradi come ricorda il nome, ma è l’approccio molto sperimentale ed avanguardista a stupire. Da Koldo si incrociano prelibatezze come “La vita dell’agnellino baby” che racconta in un unico piatto dell’agnello Artù n°66

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e della sua alimentazione prima di finire servito in tavola. Quindi con il nome definitivo di “Lechal, grano y Pasto”! Ma anche il Riso di mare nel suo habitat, con le alghe, il salmone e le cozze che alla fine crea un piatto molto simile alla paella. E ancora, i Ricci di mare con crema di alga, mela, spuma di tartufo e terra, e per finire, il Calippo al Bloody Mary se volete passare ai cocktail…. Koldo Miranda dimostra di essere un appassionato che studia la materia prima e suo diverso utilizzo, ed è, per intenderci, uno di quei cuochi di nuova generazione (tatuatissimo quasi come Alex Atala e con un team sempre pieno di energia da dispensare in tavola come dietro le quinte) sempre su di giri e alla ricerca della preparazione perfetta. Diversa, ma non meno attraente, è l’esperienza da Tierra Astur, un ristorante facente parte di un catena molto presente sul territorio, che vuole raccontare i piatti locali, la gastronomia asturiana e promuoverla al meglio accompagnandola da un bicchiere sempre colmo di

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sidro. Tierra Astur è, infatti, principalmente una sidreria, con tanto di botti in bella vista e un ambiente sempre conviviale. Oltre a diverse tipologie di sidro (naturale, brut, della casa, e via dicendo), è anche negozio di delizie artigianali locali e una tavola sincera per piatti concreti e a tutto gusto, come dice bene la decisa frittata con cipolla caramellata e formaggio d’Afuega ‘l Pitu. Per gli irriducibili della cucina, poi, non può mancare una sosta da Casa Amparo, nel cuore di Oviedo, per piatti come la ricchissima Fabada, un poderoso stufato di fagioli che al suo interno vede anche la morcilla (il sanguinaccio) e il chorizo asturiani, oppure, vicino


allo stadio dove gioca la squadra di calcio del Gjion, l’ottimo La Salgar, una delle avventure di uno dei grandi cuochi di Spagna, Nacho Manzano. L’ambiente è rilassante e i piatti meno impegnativi sotto il profilo cerebrale rispetto al ristorante principale di Manzano, Casa Marcial. Qui con una spesa oltretutto non impossibile, si passa da un riso con le vongole (altra gloria locale) al lomo di merluzzo, dal maialino confit al polpo nel suo sugo, accompagnato da un’insalata. Per chi invece suole portarsi a casa un souvenir gastronomico, si può pensare a una gita fuori porta per conoscere lo storico Caseificio La Peral fondato nel 1923 nel paesino di Illas, sperduto tra le montagne e situato in un’area rurale molto piacevole. La sosta impone l’obbligo di assaggiare il formaggio di vacca a latte pastorizzato dalla spiccata erborinatura chiamato Il Peral. www.realbalneario.com www.koldomiranda360.com www.tierra-astur.com www.restaurantecasamparo.com www.lasalgar.es www.quesoslaperal.com

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Saint Sushi Fusion e musica 60

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di Olivia Vachon Se in uno dei vostri sogni più piccanti avete sperato di riuscire ad avvicinarvi a star che hanno fatto e fanno la storia della musica come Madonna e Michael Jackson, oggi potrete addirittura mangiarveli in un solo boccone, e con gusto. Saint Sushi, con la sua decorazione che ricorda il Sud-Est asiatico, è una piccola gemma nascosta nel Plateau Mont-Royal a Montreal, Quebec. Aperto dal 2012, questo ristorante di sushi è una fusione eclettica di ingredienti freschi con una playlist personalizzata, un incontro di maki e colonne sonore.

si è assentato senza avvertire e Saeng ha azzardato a proporsi allo chef Tri Du come sostituto per fare sushi. Sorpreso e non sapendo che cosa aspettarsi, Tri ha accettato e non è rimasto deluso. Da quel giorno Saeng è diventato cuoco e oggi guida una delle cucine asiatiche più trendy della città. Montreal è una città multietnica che propone migliaia di tipologie di cucina, e i suoi cittadini sanno sempre riconoscere i cuochi talentuosi versus i piccoli ciarlatani che razzolano in ristoranti carissimi e di scarsa qualità: “Prima di tutto dobbiamo metterci in testa che il sushi per essere buono non deve costare una fortuna. Il segreto per il sushi per-

Dietro al bancone troviamo Saeng Outhipvongxay, 32 anni, nato in Laos, che con l’aiuto di Ralph Geraldo Beauvais, 33 anni, metà cubano e metà haitiano, crea un sushi scherzoso ed estroso. Saeng lavora nei ristoranti di sushi da ormai 7-8 anni ed è diventato uno dei più grandi maître sushi di Montreal, nonostante non abbia mai viaggiato in Giappone! Il suo sushi non si può definire tradizionale, in quanto ingloba tratti della cultura gastronomica giamaicana e tecniche della cucina marocchina imparate negli ultimi anni. Essendosi laureato in ingegneria meccanica, Saeng non era destinato ad essere chef, si è adattato durante gli anni studenteschi, quando l’unico lavoro possibile era la ristorazione. Lavava i piatti ma era curiosissimo, aveva un debole per il sushi e per il duro lavoro degli chef. Un giorno, durante la sua esperienza lavorativa al ristorante giapponese Tri Express di Montreal, uno dei cuochi Artù n°66

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fetto è la qualità delle materie prime, un ambiente ineguagliabile, un prezzo conveniente e uno standard di attenzione alla clientela molto alto. Saint Sushi è caratterizzato da un ambiente giovane e dinamico, sicuramente non del tutto ‘fancy’. Mi è sempre piaciuto organizzare grandi cene per gli amici in casa ed è quello che stiamo ricreando qui, una condivisione senza fine con un servizio informale e un menu gioviale che diverte”, racconta Saeng. Una volta aperto il menu, sembra di trovarsi davanti ad un Juke Box: ogni maki è un omaggio ad un cantante dagli anni ’50 agli ’80. Il menu degustazione a soli 22$ è così appetitoso che non sembra reale. “L’intenzione di creare questi maki era per far ridere i nostri clienti, per alleggerire questa serietà che spesso sembra quasi imposta nei ristoranti giapponesi, ma soprattutto per cantare con furore sera dopo sera i successi della nostra adolescenza”, raccontano i due giovani chef. Il piatto più venduto è il Sapin de Noel, l’albero di Natale, una miscela colorata in forma piramidale di aragosta o di capasanta, tempura e erba cipollina con tobiko e masago, il tutto adagiato su un croccante e salato cracker di riso. Il sushi più particolare che hanno creato i ragazzi al bar è La buchee de Romance-il boccone di Romance: una bambina chiamata Romance, venuta a mangiare con la sua famiglia, ha chiesto che le fosse dedicato un piatto in suo onore e messo sul menu, e così fu. Questo maki è una mistura di frutti di mare con avocado e cetriolo, avvolto

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in una sottile fetta di tonno e salsa di yogurt speziato. Il maki in onore a Michael Jackson è ovviamente bianco all’esterno e nero all’interno, con una tempura di gamberi che ricorda le mani torte degli zombie nel clip di Thriller! Il maki dei Beatles - uno strato di cetriolo intorno a funghetti enoki, salmone e tonno, con un interno arancione dato dal riso con tobiko e salsa di yoghurt sembra cantare We all live in a yellow submarine, o sono i funghetti che danno una inaspettata allegria, o sarà la colonna sonora del momento. C’è


poi Il Bob Marley, un rotolino con i colori rasta, il rosso, oro e verde: al posto del nori questo maki è fatto di un involucro di foglio di riso, avocado, tonno e salmone, con la croccantezza del cetriolo al centro con le palline di Tobiko, immerso in una riduzione di sake. Tutti i maki sono serviti con tre salsine di accompagnamento: salsa soia, salsa yogurt fatta in casa che sostituisce la pesante maionese e una leggera salsa agro-piccante. I commensali apprezzano boccone dopo boccone fischiettando sulle note di Marvin Gaye, Madonna e 2pac. Insomma, una musica che riunisce proprio tutti. Come mai si chiama Saint? Prima di aprire il ristorante Saeng viaggiava molto nelle piccole città fuori da Montreal che, a quanto pare, si chiamano sempre Saint qualcosa. Ha voluto quindi mantenere il trademark quebecchese chiamando il ristorante Saint Sushi. Il logo del ristorante, invece, raffigura uno dei ta-

tuaggi di Saeng. In quale parte nascosta del suo corpo sia localizzato a noi non ci è ancora stato rivelato. Dall’apertura appaiono varie celebrities quebecchesi al ristorante e negli scorsi mesi Saeng e Ralph hanno ricevuto la visita inaspettata del sexy biondino ex Backstreet Boys Nick Carter: “Ovviamente all’inizio non abbiamo riconosciuto Nick Carter perché è diventato magrissimo! Gli ho raccontato il nostro menu e gli ho chiesto cosa faceva di bello nella vita - pessima figura! Solo dopo ho capito perché un alveare di donne attraenti gli ronzava intorno! Nick ha ordinato tutto Il menu, è venuto da solo in taxi prima di un concerto”, racconta divertito e imbarazzato Saeng. Alcuni clienti avranno la lacrimuccia agli occhi scoprendo che nel quartiere dove è situato Saint Sushi è vietata la distribuzione di alcool… ma saranno ipnotizzati dai maki e se lo scorderanno! Artù n°66

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Emainox, “vetrina” di eccellenza proprie forze nel campo della ricerca e sviluppo, mantenendosi sempre su Fondata nel 1987, l'azienda friulana alti standard qualitativi, sia dal punto Emainox si specializza nella produzione di vista tecnolgico, sia dal punto di di elementi ad uso professionale per vista delle performance richieste dal la distribuzione e l'esposizione di ali- mercato. Un mercato non solo naziomenti. Con un plus che le ha permesso nale, ma anche internazionale che ha di imporsi sul mercato quale polo di visto nella tecnologia Emainox tutta qualità: la continua ricerca tecnologica l'esperienza di un'azienda che ha fatto al fine di adeguarsi all'evoluzione del made in Italy il punto chiave della sua produzione: cura artigianale insiedelle richieste di mercato. me al continuo aggiornamento tecno7.000 m² accolgono tutto il know how logico, che ne contraddistingue la prodi un'azienda che può vantare quasi duzione, rappresentano gli assi carte30 anni di esperienza nel settore pro- siani per identificare un esempio di fessionale in ambito ristorativo, forte eccellenza italiana. In dettaglio l'azienda di una gestione attenta, giovane e friulana è fortemente specializzata competente che ha saputo consolidare, nella produzione di Drop-in, ovvero nel corso degli anni, un’efficace strut- elementi da incasso progettati per estura tecnico-produttiva dedicando le sere utilizzati su strutture portanti già di Elisa Facchetti

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predisposte, dinamici perchè gli elementi – refrigeranti o elementi caldi – possono essere autonomi. Piani e vasche sono realizzati in acciaio inox 18/10 per una perfetta igienicità. Il gruppo Drop-in è stato declinato in quattro linee per garantire soluzioni “taylor made“, stessa funzione ma stili e design diversi: la Linea Elegance è stata realizzata per soddisfare con un unica soluzione razionale le diverse funzioni di bagnomaria ad acqua e ad aria, vetrocermaica, vasche refrigerate, vetrine fredde e calde umidifcate; composta da vetrine calde e fredde vasche e piani refrigerati, la Linea Infinity coniuga sem-

plicità e attenzione ai particolari. La Linea Mall si caratterizzat per vetrine GN 1/1+1/3 nelle versioni calda umidificata, vetroceramica e refrigerata ventilata, elementi dalle prestazioni superiori, espressione di una tecnologia all’avanguardia ma di facile utilizzo grazie a comandi semplici ed intuitivi; esigenze estetiche, necessità di capienza e funzionalità trovano perfetto equilibrio nella Linea Wall che si declina in espositori a parete nelle versioni quadra o raggiata. Se il cuore pulsante di Emainox si identifica con la tecnologia, l'anima che avvolge il “motore“

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A lato: Tiffany by Emainox, vetrina refrigerata verticale.

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si identifica con l'estetica e la cura nei dettagli, per soddisfare ogni esigenza del cliente in base a specifiche richieste di arredo. L’azienda propone, accanto all'offerta delle varie funzioni dei Drop-in, anche una ricca gamma di piani in marmo, Corian, acciaio, nonché strutture pannellate con armadi caldi, freddi, neutri, a seconda della specifica richiesta. Personalizzati e personalizzabili, i diversi layout possono essere sviluppati in linea diritta o curva e implementati poi con una vasta gamma di accessori e di particolari attenzioni, per una dinamicità strutturale ed estetica che abbraccia ogni singola richiesta da parte del cliente, aspetto che ha elevato l'azienda friulana a leader nel settore grazie alla realizzazione di numerosi progetti creati ad hoc a livello internazionale. Accanto ai sistemi Drop-in la gamma SelfSupreme si esprime con grande modula-


rità, ma non per questo tralascia la cura del dettaglio e l'utilizzo di materiali di pregio ideali per ambienti raffinati: i piani di appoggio per piatti e vassoi e le vetrinette completano la linea con tutte le funzioni calde e refrigerate, statiche e ventilate. Ristoranti e alberghi non sono gli unici fruitori degli espositori per il cibo Emainox. Un'attenzione particolare è stata rivolta alla nuova gamma Tiffany by Emainox, nata dalla necessità di accentuare la visibilità del prodotto ed esaltare la preziosa creatività di maestri pasticceri e gelatieri: adattabile ad ogni ambiente, senza rinunciare alla massima capacità di carico, Tiffany è disponibile in due modelli e due diverse capienze. Importanti gli investimenti che l'azienda ha deciso di affrontare per perfezionare Tiffany, a partire dal vetro impiegato al fine di permettere un eccellente isolamento: il pacchetto della vetrata isolante è composto da una lastra esterna di vetro Float dallo spessore di 4 mm sottoposta a trattamento di Tempra intervallata da speciali intercapedini con valore Psi pari a 0,031 W/mk e completato con vetri

basso emissivi dallo spessore di 4 mm realizzati con deposito superficiale di ossidi metallici (applicati tramite tecnica magnetronica per polverizzazione catodica in campo magnetico sotto vuoto spinto). La tecnologia adottata permette quindi a Tiffany di godere di un perfetto isolamento termico che agevola il mantenimento della temperatura interna programmata e riduce notevolmente la dispersione ed i consumi energetici fino al 36% rispetto ad un vetro tradizionale. La struttura è realizzata in AISI 304 lucido racchiuso in quattro lati in vetro dotati di illuminazione led e di ripiani trasparenti (o evaporanti a seconda del modello) che permettono una visuale a 360°. Inoltre, Tiffany garantisce un eccellente standard di pulizia e ordine valorizzando ed esaltando i prodotti esposti. Le diverse linee di prodotto realizzate da Emianox garantiscono performance di qualità, una qualità controllata in ogni fase di produzione fino alla spedizione, eseguita sul 100% dei prodotto finiti per garantire all'utente finale la massima affidabilità. Artù n°66

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equipment

Le Jacquard Français Lusso in tavola di Giovanna Moldenhauer Inizia nel 1888 l’affascinante storia dell’azienda tessile Le Jacquard Français. Situata a Gérardmer, al centro del massiccio montuoso dei Vosgi, nel nord est della Francia, ha portato avanti la tradizione tessile della regione. Il marchio, specializzato sin dal suo debutto esclusivamente in biancheria damascata di lusso, dedicata in particolare alla tavola, ha mantenuto, collezione dopo collezione, le tecniche di tessitura, di produzione aggiornandole nel tempo con l’innovazione tecnologica. Il nome jacquard si riferisce a una particolare tipologia di tessitura, inventata nel XIX secolo, che permette l’automatizzazione della lavorazione di un tessuto damascato dalla perfetta reversibilità. L’azienda, nata come impresa artigianale, conta attualmente 130 dipendenti suddivisi tra l’ufficio stile, la parte tecnica composta dai tessitori, annodatori, orditori, imbozzimatori - la direzione, l’ufficio commerciale, l’amministrativo, il magazzino. Il laboratorio per la tessitura, in particolare, dispone di 65 telai gestiti da tre team di 15 persone che lavorano a ciclo continuo 24 ore su 24. Ogni anno il marchio crea 20 modelli e 60 armonie di colore suddivisi nelle due collezioni autunno-inverno e primaveraestate per le linee Le Jacquard Français più classica, ricercata, e LJF by Le Jacquard Français più giovane nei disegni, nelle cromie. Entrambi gli assortimenti sono distribuiti da oltre 3.000 rivenditori in tutto il mondo. I motivi che hanno permesso alla maison di diventare nel tempo un’icona della biancheria per la tavola, di essere un punto di riferimento comune per generazioni che condividono la passione per il bello, per il gusto della decorazione, si basano sulla primissima scelta dei materiali impiegati, sulla biblioteca dei fili che conta attualmente più di 600 colori, sugli infiniti disegni, ritmati in diversi colori oppure ton sur ton, sviluppati nelle diverse dimensioni dei prodotti. Il cotone e il lino, al 100% oppure al 50% nella tipologia

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mista, sono le uniche fibre naturali impiegate per la produzione, regimentate nella fornitura da un capitolato aziendale. I fili di cotone pettinato, provenienti da 70 produzioni diverse, sono a fibra lunga per ottenere nella tessitura colori più intensi, morbidezza del tessuto, riproduzioni analoghe di modelli precedenti, resistenza nel tempo. Il lino, materia nobile prodotta nelle zone vocate della Normandia e della costa olandese, è usato da Le Jacquard Français esclusivamente nella tipologia a fibre lunghe. La specializzazione dell’azienda consente di eseguire con perizia la sua tessitura particolarmente delicata. Dopo essere stato tessuto, il lino, in particolare, è nobilitato con un trattamento specifico, per acquistare facilità di stiratura, smacchiamento semplificato, controllo del ritiro. I disegni di ogni articolo delle collezioni, proposti dall’ufficio stile interno, vengono dopo la loro approvazione sottoposti a severi test, sviluppati a secondo della dimensione del modello, definiti nei colori e nelle varianti per predisporre l’ordito. La maggior parte dei tessuti jacquard sono realizzati con fili di cotone, di lino precedentemente colorati da tinture indatrene (coloranti che consentono di ottenere una solidità eccellente alla luce, ndr) secondo severe norme ecologiche europee. Per la tavola, in particolare, la vasta gamma produttiva comprende tovaglie da ricevimento, decorative, per uso quotidiano - tutte disponibili nei formati rettangolari, quadrati e rotondi - completate da tovaglioli coordinati, tovaglie cerate, strisce da tavolo, carré per esigenze de-

corative o moderni centri tavola, servizi all’americana. Strofinacci, grembiuli, presine e guanti da forno compongono la linea dedicata alla cucina. La collezione dedicata al bagno prevede asciugamani con inserti a nido d’ape, accappatoi, teli mare. Il marchio ha nella sua gamma produttiva una linea destinata al settore internazionale dell’alberghiero e della ristorazione di lusso. I filati impiegati di tipo ritorto, capaci di supportare gli specifici lavaggi, permettono di ottenere biancheria di grande pregio. La produzione artigianale di Le Jacquard Français ha recentemente ricevuto dal Ministero dell’Economia, dell’Industria e del Lavoro francese il riconoscimento di “Entreprise du Patrimoine Vivant” attribuito alle aziende che si distinguono per la qualità del suo operato e l’eccellenza industriale. Una conferma ufficiale che comprova il valore dell’azienda tessile francese famosa nel mondo per la bellezza scenografica dei suoi prodotti.

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Milano e Roma in movimento Fiere, eventi e mostre Con Ristorexpo per “Rallegrare il pianeta”

Giovanni Ciceri Dal 15 al 18 febbraio il Salone di Erba opsiterà la 18° edizione di Ristorexpo, la mostra dedicata alla ristorazione professionale che quest'anno punta sul concetto di "hospitalitas" e in previsione di Expo 2015 sul claim "Rallegrare il pianeta". Grandi le aspettative per questa nuova edizione, sulla scia del successo dello scorso anno con 20.000 visitatori, l'85% dei quali operatori di settore. Numeri che confermano l'attenzione a una manifestazione che vuole interagire sempre più con i visitatori per avvicinarli alle eccellenze dell'enogastronomia italiana: "Fin dalla nascita di Ristorexpo - spiega ad Artù Giovanni Ciceri - abbiamo seguito un percorso logico e consequenziale, che ci ha portati ad affrontare, nelle 18 edizioni del Salone, il cibo in tutte le sue molteplici sfaccettature: da 'Il cibo e la

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mente' a 'Il cibo e le parole', con un focus sulle tradizioni enogastronomiche e sulla cucina peruviana, dal ruolo del bistrot come nuovo modello di ristorazione fino a 'In cibo veritas' dello scorso anno, in cui il cibo è stato valorizzato in se stesso, come verità. Nell’anno di Expo, abbiamo voluto approfondire la dimensione conviviale dell’esperienza culinaria, scegliendo come claim 'Rallegrare il pianeta'". E come ogni anno Ristorexpo ospiterà noti chef provenienti dall'Italia e dall'estero: fra gli stellati ci saranno Davide Scabin nell’ambito del progetto “Food Cleanique”. Confermata la presenza di Bruno Barbieri, Chef Rubio, Inaki Aizpitarte, il danese Torsten Vildgaard e il russo Vladimir Mukhin. Accanto alla gastronima d'eccllenza trova spazio per il secondo anno WineExpo, la sezione di Ristorexpo dedicata alle proposte enologiche di numerose aziende vitivinicole provenienti da tutte le regioni d’Italia e dall’estero: "Storicamente a Ristorexpo dedichiamo una grande attenzione al tema enologico - illustra Giovanni Ciceri -: per questo motivo abbiamo attivato un’importante collaborazione con il Consorzio per la Tutela dei Vini di Valtellina e con il Consorzio IGT Terre Lariane, proponendo momenti di approfondimento e di degustazione aperti al pubblico. Lunedì 16 febbraio sarà poi la serata della sperimentazione enogastronomica, in cui abbineremo alcuni selezionati vini di Valtellina a tre versioni del cous-

cous di Marilù Terrasi, celebre chef del ristorante 'Il Pocho' di Makari, frazione di San Vito Lo Capo". Tante novità dunque e tante attività al fine di promuovere l'eccellenza dell'enogastronima italiana, con una marcia in più, come sottolinea il Presidente di Lario Fiere: "La nostra priorità resta quella di intercettare i nuovi flussi del gusto e di far intravedere ai nostri visitatori i possibili orizzonti dell’enogastronomia italiana". Ristorexpo è in collaborazione con Confcommercio Como e Lecco.

Il nuovo “Mio” al Park Hyatt Milano

Si chiama Mio il nuovo "city bar" inaugurato al Park Hyatt Milano. Dopo 12 mesi di lavoro, l'architetto Flaviano Capriotti ha rivoluzionato l'intero piano terra per dare all'area bar una nuova vita, un'esistenza più centrale e più vivibile non solo per gli ospiti dell'hotel, ma anche per il pubblico milanese, con l'ormai nota impronta nella cucina dello chef Andrea Aprea. Bar e Bistrò allo stesso tempo, Mio è stato concepito per ospitare pranzi di lavoro, aperitivi o turisti di passaggio che possono gustare in un luogo glamour e informale la tradizione gastronomica italiana o una cucina più internazionale. Tre aree circoscrivono l'ambiente: la sala del banco bar, la Sala dei legni, dove la boiserie la fa da padrone, e il Bistrò caratterizzato da grandi finestre rivolte verso la Galleria Vittorio Emanuele II: prevale il tessuto, dai rivestimenti delle sedute alla carta da parati in puro lino, un arredamento che vuole

omaggiare la grande tradizione tessile e artigiana di Milano. Tutti gli arredi, i tessuti e i complementi sono infatti stati realizzati su disegno dell'architetto Flaviano Capriotti in esclusiva per Park Hyatt Milano. L'offerta gastronomica porta la firma del grande chef Andrea Aprea: oltre alla colazione, il Mio propone per pranzo due percorsi che variano ogni due mesi in base alla stagionalità delle materie prime, offrendo i classici piatti italiani accanto a piatti internazionali. Gli "Assaggi", invece, rappresentano la visione personale dello chef Andrea Aprea sull'aperitivio milanese: otto assaggi – o viaggi come ama definirli – cambieranno ogni mese per sorprendere gli ospiti in una degustazione che combina alla perfezione il rito dell'aperitivio con l'alta cucina.

Momenti golosi da Panzera Monte Santo Panzera ha recentemente aperto una pasticceria completa di laboratorio a Porta Nuova, zona che sta diventando un importante centro direzionale dai grattacieli futuribili. Il locale, dove tradizione e innovazione si incontrano, offre torte, pasticceria mignon, croissant



news Lorenzo Panzera

Il Pagliaccio

con crema pasticcera al pistacchio, budini di riso e pinoli, pane gastronomico con diverse farciture, sfiziosi salatini ungheresi. “Anche se questo locale è temporalmente successivo alla pasticceria storica di mio papà, da poco rinnovata, e al bistrot pasticceria Panzera in Stazione Centrale aperto nel 2010 – dice Lorenzo Panzera – Monte Santo per me è il numero zero. È la pasticceria con la 'P' maiuscola che avevo sempre sognato e che qui, finalmente, sono riuscito a realizzare. Rappresenta al meglio la mia sfida di continuare, innovando, la tradizione di famiglia”. Lo stile del locale, curato personalmente dal suo titolare, contrappone alle zone caffetteria e ristoro, in legno scuro, il bianco assoluto del banco da esposizione dove il freddo statico, ottenuto con un’innovativa tecnologia, mantiene inalterate più a lungo le proprietà organolettiche dei prodotti esposti. Le tappezzerie alle pareti abbinate alle cromie del pavimento, i lampadari dalla luce calda rendono l’atmosfera della pasticceria molto accogliente. Il

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laboratorio a vista sito nel retro, dalle dimensioni importanti, ben 200 metri quadrati, ospita macchinari moderni accanto alle storiche macchine da laboratorio Artofex restaurate e adeguate alle vigenti normative. Aperta tutti i giorni dalle 7.00 alle 20.00, tranne il lunedì dalle 7.00 alle 14.30, la pasticceria Panzera di Viale Monte Santo, al numero 10, attende i suoi clienti per momenti golosi tra dolci, creazioni salate realizzate con materie prime di qualità senza l’utilizzo di conservanti, additivi a tutela del mangiare sano. Gli affezionati del Panettone, per il quale la pasticceria è stata insignita del riconoscimento di produttori del tipico dolce della tradizione artigiana milanese, lo possono trovare tutto l’anno proposto anche nella stagione invernale con la golosa farcitura di marron glacés. G.M.

Tra i Relais & Châteaux Il Pagliaccio di Roma Relais & Châteaux annuncia l'ingresso nell'Associazione di 12 nuove Dimore tra Europa, Asia e Americhe e due nuove destinazioni, Costa Rica e Hawaii. L'orgoglio, tutto italiano, riguarda, tra le novità del 2015, un nome noto nella ristorazione stellata del Bel Paese: il ristorante Il Pagliaccio di Roma, due stelle Michelin. Brillano così, ancora di più, le stelle dello

chef Anthony Genovese, nato in Francia da genitori italiani, capace di deliziare i palati con un'ampia gamma di sapori, grazie alla sua innata creatività evoluta con le numerose esperienze coltivate in lunghi viaggi tra Francia, Inghilterra, Giappone, Malesia e Thailandia. Piatto memorabile: le capesante scottate servite con manzo marinato in salsa teriyaki e foie gras con granita di limone. Tre nuovi Associati si uniscono alla famiglia di Relais & Châteaux rispettivamente in India (Niraamaya Surya Samudra, Purity e Shakti 360° Leti) e negli USA (The Inn at Hastings Park, Florida Blues Hotel e Hotel Wailea, alle Hawaii). Nuovi ingressi anche in Francia (Tiara Yaktsa), Gran Bretagna (The Greenhouse), Giappone (Wasurenosato Gajoen), Sri Lanka (Cape Weligama) e Costa Rica (El Silencio Lodge).

Luigi Veronelli alla Triennale di Milano Ha aperto i battenti il 21 gennaio la mostra dedicata a Luigi Veronelli "Camminare la terra", enologo, cuoco, gastronomo e scrittore siciliano, nonchè editore e giornalista, personalità di spicco nel difficoltoso ma doveroso impegno di valorizzare e diffondere il patrimonio enogastronomico italiano. A lui la Triennale dedica una mostra che sarà aperta fino al 22 febbraio, curata da Alberto Capatti, Aldo Colonetti e Gian Arturo Rota. In luce le mille sfaccettature di un personaggio e del suo inestimabile lavoro di valorizzazione del cibo e del vino italiano che, a dieci anni dalla sua scomparsa, rappresenta ancora una fonte preziosa da cui trarre ispirazione. I visitatori della mostra avranno inoltre la possibilità di vivere un’esperienza multisensoriale grazie al supporto della tecnologia Vocal-it® One, App che attraverso i codici QR permetterà di essere accompagnati lungo il percorso espositivo, ideato da Franco Origoni e Anna Steiner, dalla voce stessa di Luigi Veronelli. Ingresso libero. Info su www.camminalaterra.it

Luigi Veronelli

Champagne Ruinart festa in grande stile Festa in grande stile per la Maison Ruinart, che ha festaggiato i 250 anni dalla prima consegna di Champagne Ruinart in Italia. Meravigliosa scenografia dell'evento Palazzo Zeno a Venezia, che ha fatto rivivere agli ospiti delle serata l'antico splendore della Repubblica dei Dogi, accolti dal personale di sala in abiti d'epoca. Protagonista dell'aperitivo di benvenuto il Ruinart Blanc de Blancs che ha dato il via alla cena in un'atmosfera che richiamava le feste organizzate dal Conte Giacomo Durazzo nei suoi palazzi veneziani, primo Ambasciatore della Maison in Italia. Ad accompagnare il menu, i Millesimi di Ruinart: il Dom Ruinart Blanc 2002 e il Dom Ruinart Rosé 1998. A fare gli onori di casa Francesca Terragni, Brand Director Ruinart Italia, con Riccardo Caliceti, Senior Brand Manager, che hanno accolto gli ospiti insieme ai proprietari di Palazzo Zeno, Nicolò e Elena Frigerio Zeno.



news

Claudio Biondi

UK-Italy Business Awards 100% made in Italy Le eccellenze italiane nell’imprenditoria e nella cultura sono state protagoniste dell'ottava edizione dei premi UK-Italy Business Awards. Con questo evento il governo britannico ha celebrato i successi degli investitori italiani che nel 2014 hanno scelto il Regno Unito per il proprio sviluppo internazionale. “L’Italia conferma il proprio ruolo tra le maggiori fonti di investimenti diretti esteri nel Regno Unito - ha affermato Dominic Jermey, CEO di UKTI -. Regno Unito e Italia sono eccellenti partner commerciali. Con la sua economia favorevole agli investimenti, il Regno Unito accoglie sia le grandi aziende che le PMI italiane competitive sul piano globale. Tutti i vincitori sono accomunati da un forte impegno nell’innovazione, nell’eccellenza tecnica, nella capacità imprenditoriale e nel rispetto della sostenibilità”. La cerimonia, organizzata dal Consolato Generale Britannico di Milano e da UK Trade & Investment (UKTI), l’agenzia governativa per la promozione dell’export e l’attrazione degli investimenti, ha avuto luogo, come di consueto, a Palazzo Mezzanotte, sede di Borsa ItalianaLondon Stock Exchange Group. Queste le aziende premiate: DADA, Digital Bros, Global System International, Kinexia, Laminazione Sottile, Maire Tecnimont, Mapei, Mediobanca, Piquadro, Starhotels. L’evento è stato anche un’occasione per presentare il programma globale per il business “Grown in Britain” e segnalare la partecipazione

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del Regno Unito a EXPO Milano 2015. Assegnato anche l'EXPO Special Edition Award, lo speciale riconoscimento consegnato quest'anno a Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition in virtù dell’impegno dell’azienda sui temi della sostenibilità alimentare.

Cuzziol GrandiVini con Benetton e Paillard

stribuite in Italia accompagnado il cliente nella giusta scelta di etichette da inserire nella propria carta dei vini, e sarà proseguita la stessa strategia adottata da Cuzziol Spa fornendo quindi un servizio a 360° basato sulla profonda conoscenza dei clienti, forti di una selezione di prodotti di pregio frutto di una importante e raffinata ricerca.

GIV: cambio di vertice ma stessa solidità

Luca Cuzziol, direttore commerciale Da 50 anni Cuzziol opera con successo nel campo della distribuzione e dei servizi di prodotti alimentari, bevande e vini di alta gamma. Ed è il mondo del vino che oggi per Cuzziol rappresenta una grande oppurtunità di business: è nata infatti la Cuzziol GrandiVini Srl, società che vede l'entrata anche di Luciano Benetton e Bruno Paillard, di cui l'azienda di Santa Lucia di Piave era già distributore esclusivo dei loro vini. I nuovi soci, che detengono il 12,5% delle azioni della società ed entrano in aumento di capitale, da parte loro avranno l'oppurtunità di rafforzare i propri brand: Luciano Benetton consoliderà il suo rapporto con il distributore dei propri vini Villa Minelli, società agricola di proprietà della famiglia; Bruno Paillard, invece, rafforzerà il legame con Cuzziol Spa, che detiene il 75%. Obiettivo della nuova Cuzziol GrandiVini è quello di crescere, ovviamente, in termini di fatturato nel canale ho.re.ca., sviluppando e aumentando l'offerta di vini italiani e stranieri, potenziando la presenza su tutto il territorio nazionale. Una nuova figura, quello dell'Export Manager, sarà creata a supporto delle varie aziende italiane di-

Il Vicepresidente del Gruppo Italiano Vini Rolando Chiossi ha lasciato il proprio incarico dopo aver contribuito da protagonista alla nascita del GIV nel 1986, diventando Presidente e in seguito Vicepresidente. La sua personalità e le sue visioni strategiche hanno permesso al GIV di crescere e di raggiungere importanti traguardi. “Dopo tanti anni al Gruppo Italiano Vini – spiega Rolando Chiossi - credo sia ora necessario favorire un ricambio al vertice del Gruppo per consentire una ulteriore fase di crescita e sviluppo che lo possa mettere nelle condizioni di affrontare con la necessaria determinazione le prossime sfide, perseguendo i nuovi importanti traguardi che GIV vuole raggiungere”. Il Consiglio di Amministrazione del Gruppo ha così nominato Claudio Biondi quale nuovo Vicepresidente, attivo nel Consiglio del Gruppo già dal 2010 e con una importante esperienza in altre società del settore agroalimentare. Novità anche la nomina di Roberta Corrà in qualità di Direttore Generale in sostituzione a Davide Mascalzoni che, nel Gruppo dal 1999, lascia la sua posizione per affrontare nuove sfide professionali. Le novità e i cambi di direzione consolidano ancora di più l'energia del GIV rilanciando maggiormente la propria attività. Corrado Casoli, il Presidente, è certo che il 2015 porterà al Gruppo Italiano Vini una crescita sia nei Paesi tradizionali quali gli Stati Uniti e il Ca-

Roberta Corrà nada, sia in quelli emergenti quali la Cina. Il Gruppo intende anche sviluppare la propria attività nei territori vitivinicoli italiani dove non è ancora presente con cantine di proprietà.

Merlot Rocol, il rosso di Borgo dei Posseri L’azienda vinicola Borgo dei Posseri rappresenta la sfida intrapresa da due giovani amici, Maria Marangoni e Martin Mainenti, di riscoprire e rilanciare il territorio di Ala (Trento), tra la valle dove scorre l'Adige e le cime che portano verso le Piccole Dolomiti. Base della produzione la tradizione trentina. Ed è da questa grande attenzione all'ambiente e alle viti, accudite con estrema cura, che nasce Rocol Merlot, vino dal colore rosso rubino, dal profumo lungo e vellutato con spiccate note di frutta. Il sapore pieno e morbido, persistente, è dato dalle uve Merlot di vigneti che si affacciano sulla valle dell’Adige, cresciuti in terreni montani a 600 metri di altezza. La vendemmia, a metà ottobre, è eseguita a mano, mentre la vinificazione avviene tramite diraspatura, vinificazione in rosso con fermentazione e macerazione delle bucce per due settimane. L’affinamento è in barriques per 18 mesi e continua poi in bottiglia. Rocol Merlot di Borgo dei Posseri è ideale per accompagnare minestre asciutte, carni grigliate, formaggi stagionati e secondi di carattere. Accanto al Merlot Rocol, Borgo dei Posseri produce anche un Müller Thurgau Quaron Sauvignon B. Furiel Gewürztraminer Arliz, Pinot Nero Paradis e uno spumante Brut metodo classico TrentoDoc Tananai.



libri

Volersi bene con il cibo e ricette facili e informali

Titolo: Il pranzo di Mosè Autore: Simonetta Agnello Hornby Editore: Giunti Pagine: 212 Prezzo: 16,00 €

Titolo: Arezzo e le sue vallate Autore: Mario Giorgio Lombardi, Roberto Lodovichi, Massimo Rossi Editore: Accademia Italiana Arte Bianca Gastronomica Pagine: 344 Prezzo: 17,00 €

Titolo: Amati! Volersi bene attraverso il cibo Autore: Silvio Spinelli Editore: Comunica Pagine: 240 Prezzo: 18,00 €

Titolo: Il grande libro della cucina Autore: Carlo Spinelli e Aldo Spinelli Editore: 24 Ore Cultura Pagine: 302 Prezzo: 39,90 €

L’ospitalità in primis Palermitana di nascita, l'autrice del libro vive dal 1972 a Londra, dove è stata avvocato dei minori e presidente part time dello Special educational needs and Disability Tribunal. La storia che racconta nel libro Il Pranzo di Mosè è una rinascita dello spirito nella meravigliosa campagna di Agrigento, dove da cinque generazioni la famiglia materna trascorre le vacanze estive. La tenuta di Mosè diventa quindi il fulcro della vita, antica masseria ottocentesca capace di far rivivere, grazie alla famiglia dell'autrice e a sua sorella Chiara, il vero senso dell'ospitalità, accogliendo non solo parenti e amici, ma chiunque giunga dalla strada che porta alla casa padronale.Tra anneddoti, profumi, materie prime a metro zero, a tavola si finisce sempre per parlare di cibo e trascorrere ore serene. Sei sono infatti le occasioni di convivio narrate da Simonetta. E non mancano, alla fine del libro, alcuni scatti della famiglia e le ricette della sorella Chiara, ricette che hanno ispirato, prima ancora del libro, l'omonimo programma in onda su Real Time.

Tradizione aretina "Arezzo e le sue vallate". Inzia così il volume dedicato alla "storia, arte, tradizioni di un territorio tutto da gustare", come riporta il sottotitolo, privilegiando la sfera del gusto non solo legata al mondo enogastronomico, ma anche al gusto del paesaggio, della vita mezzadrile e della casa rurale aretina, temi ben illustrati nel secondo capitolo del libro. Per poi passare all'aspetto più economico con il lavoro della campagna: dalla semina alla mietitura, fino alla pasta fatta in casa con le farine macinate, la produzione di olio e di vino. Con il terzo capitolo ci si avventura "nell'orto e nel frutteto", passando per "l'aia e la stalla", e concludere con una passeggiata "nel bosco". E dopo un lungo excursus nella bella campagna aretina, il volume insiste su "Arezzo e le sue vallate tutte da gustare", con la cucina del territorio. In realtà tutto il libro è pervaso da ricette accompagnate da piccole foto e nomi di ristoranti da provare, raccontato nei più apprezzabili toni della genuinità, dove anche la scelta grafica ne rammenta l'assoluta bontà.

Terapia per amarsi e stare bene Siamo quello che mangiamo. Niente di più vero, soprattutto dopo aver letto questo prezioso volume che ognuno dovrebbe tenere sempre a portata di mano, facile da consultare, pratico, illustrato con schemi molto chiari e precisi. L'introduzione di Paolo Massobrio – l'autore di Golosaria – ne suggella il valore gastronomico-medico di una sana alimentazione, sapientemente snocciolato dall'autore Silvio Spinelli, medico chirurgo esperto di terapia nutrizionale. Scopo principale di "Amati!" è fornire consigli terapeutici su quali alimenti consumare e come, per aiutare il corretto funzionamento di alcuni organi del corpo umano riponendo grande attenzione all'apparato digerente. Per questo motivo i capitoli sono suddivisi in base agli organi quali stomaco, intestino, fegato, cuore, cervello, a cui segue un prezioso e fondamentale ricettario curato dal cuoco Angelo Biscotto, nome di punta della cucina salutista. L'introduzione, di un quindicina di pagine, aiuta a comprendere dal punto di vista scientifico e medico i componenti degli alimenti.

Ricette da tutto il mondo "Non c'è amore più sincero di quello per il cibo" affermava George Bernard Shaw, citazione riportata proprio nella primissime pagine di questo volume dalla carta spessa e dalla copertina in legno. Colorato, bello da maneggiare - e di un certo spessore! - può essere un validissimo aiuto in cucina per sorprendere con ricette "sciuè sciuè" i commensali di una tavola informale. Mediterraneo, nordico, arabico, asiatico, vegetariano-organico, caraibico e street food sono gli "stili" rintracciati ed esemplificati con ricette facili da seguire accompagnate da foto a tutto campo. Ogni sezione di "stile" consente di partire per un viaggio nel viaggio, dove scoprire diverse ricette di diversi Paesi appartenenti a quello stile. Un esempio? Nello stile Mediterraneo troviamo ricette dall'Italia, dalla Spagna, dal Marocco, dalla Grecia e dalla Turchia. Sono oltre 100 le succulenti ricette da tutto il mondo e 300 le illustrazioni che alimentano la salivazione delle papille gustative.

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2015 anno dell’EXPO

Artù aumenta la propria diffusione e la visibilità! Da gennaio Artù è presente nelle sale lounge degli aeroporti di Linate e Malpensa e sarà distribuita negli hotel più lussuosi della città. Una straordinaria occasione per entrare in contatto con il mondo del Food&Beverage. Artù è inoltre sempre presente nelle principali edicole aeroportuali.


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Michelangelo in pista, Triolo in campagna MICHELANGELO RESTAURANT Via Forlanini - Aeroporto Linate (area partenze - 2° piano) 20090 Segrate (Mi) 02 76119975 www.michelangelorestaurant.it chiuso la domenica

Michelangelo Citino è uno chef atipico. La sua capacità professionale e le sue esperienze, molto vaste ma essenzialmente riconducibili a uno chef divenuto ormai un’icona contemporanea, Davide Oldani, meriterebbero molta più attenzione, soprattutto da parte della critica più paludata. Nel “suo” ristorante-gourmet, dentro l’aeroporto di Linate, propone una linea di cucina pulita, essenziale, improntata ad un gusto equilibrato, direi “lombardo” (più per lo stile che per la tradizione territoriale). Sì, in letteratura Citino sarebbe stato ascritto d’ufficio alla cosiddetta linea “lombarda”: il suo carattere è sintetico, preciso, senza ampollosità, diretto come lo sono i suoi piatti. Le materie prime, talvolta importanti come nel caso del foie gras, spesso più “povere” ma magistralmente interpretate, sono la vera chiave di lettura della sua cucina: tutto parte dalla materia, come ci ha insegnato il grande Aimo Moroni che sul tema dell’origine degli ingredienti e della loro provenienza geografica ha addirittura costruito negli anni una weltanschaung inconfondibile. Lo spazio aeroportuale, gestito da una grande insegna della ristorazione commerciale che ha affidato a Michelangelo l’impegnativo compito di condurre il locale (che si chiama come lui, Michelangelo), è ampio (forse troppo) e con i tavoli ben distanziati, a sottolineare il comfort necessario anche durante una raffinata esperienza gourmet. E di esperienza memorabile si tratta, se pensiamo che la brigata di Michelangelo Citino (una squadra bella affiatata, a cui manca solo l’attenzione della guida Michelin, che pare non essersi ancora

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accorta dell’esistenza del ristorante) è ben motivata e determinata nel produrre piatti di rara consistenza gustativa. Abbiamo riprovato il Michelangelo durante una recente serata gastronomica dedicata alla castagna: in menù erano presenti piatti - tutti abbinati a champagne Pommery e alla linea di vini distribuiti dalla Maison - in qualche caso davvero memorabili. Alludo per esempio al manzo all’olio, caldarroste alla liquirizia e cime di rapa (La Chapelle Gourdon Blanc), succulento e presentato in modo innovativo, o agli gnocchi soffiati, fonduta al Taleggio, marroni glassati e cacao. Forse, in questo ultimo caso, il desiderio di perfezionare il piatto ha portato lo chef a un eccesso di ingredienti (il cacao era necessario?)... Ma il risultato gustativo è stato comunque interessante, rivelatore di una ricerca incessante e mirata. Parlando con Michelangelo si ha la netta percezione del suo impegno, della sua volontà di offrire sempre il meglio alla clientela: ma anche della sua profonda soddisfazione quando il piatto viene capito, culturalmente accettato, goduto e apprezzato. Il che è naturale per uno chef che non propone piatti stereotipati, ma che fa della continua ricerca sulle materie prime e sulle tecniche di cottura il suo imperativo. Nel menù del ristorante, segnaliamo piatti di indubbia presa, come la crema di spinaci, parmigiano fritto e bagna cauda, i cappelletti di vitello con fonduta al Taleggio e fichi secchi, il risotto mantecato, cima di rapa, fegato grasso di anatra (per la felicità del grande chef Bernard Fournier che da sempre preferisce l’anatra all’oca), il “mitico” cacio pepe e lime. Fra i secondi, sosteniamo a spada tratta piatti di tradizione come la costoletta di vitello alla milanese (ottima, per cottura e consistenza), ma anche la pluma iberica, pesto pinoli e uvetta, carota fondente o il controfiletto di cervo con foie gras o, ancora, il polipo arrostito, melanzane al basilico, rape e n’duja non ci hanno affatto deluso. Il rapporto prezzo qualità è assicurato, fra l’altro,

da un eccellente menù degustazione proposto a 39 euro! Dimenticavo: da provare il Michelangelo’s tiramisù: un vero must.

AL GANDULIN Via XX settembre, 50 27011 Belgioioso (Pv) 0382 1634320 www.ristorantegandulin.it

Quanta nostalgia per le antiche osterie di paese! Intorno al bancone centrale, o seduti su tavoli di legno, gli avventori si raccontavano la durezza della vita, le nostalgie del passato ma anche il piacere di ritrovarsi in un luogo caldo, dall’atmosfera schietta e familiare, rallegrata dal profumo di un minestrone caldo, dal fumo di un cotechino che sobbolliva e dal gusto di un buon vino, facilmente Bonarda vivace. Ritornando nella casa di origine, a Belgioioso, nella campagna pavese, Vincenzo Triolo (chef giovane e già di esperienza) ha fatto la scelta giusta. Innanzitutto perché cucina i piatti della tradizione lombarda (e lo fa a casa

sua, esattamente dove vedeva cucinare sua mamma e sua nonna quand’era un bimbo). In secondo luogo perché offre alla sua clientela l’opportunità di gustare grandi piatti della semplicità lombarda, ingentiliti da una armoniosa vena inventiva: certamente l’esperienza fatta nelle grandi cucine di Enrico Bartolini lo ha forgiato e rafforzato nelle sue convinzioni: “i sapori veri stanno nelle materie prime semplici, cucinate con grande rispetto verso le origini del piatto” ci ha detto nel nostro primo incontro. Abbiamo memorabili

LEGENDA Cervello incoronato = Memorabile, coerente, ineccepibile per qualità delle materie prime e ragionevolezza dell’offerta Tre corone = Ottima cucina, perfetta esposizione delle voci in menù, ambiente e servizio all’altezza Due corone = Linea di cucina corretta Una corona = Cucina dignitosa e affidabile Corona nera = C’è ancora molto da fare Tre cervelli = Il massimo della ragionevolezza Due cervelli = Ragionevole Un cervello = Abbastanza ragionevole Cervello nero = Scarsamente ragionevole



Numero 66 gennaio/febbraio 2015

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Direttore editoriale Alberto P. Schieppati - alberto.schieppati@edifis.it Direttore responsabile Andrea Aiello In redazione Elisa Facchetti - elisa.facchetti@edifis.it Contatti artu@edifis.it - www.artumagazine.it _______________________________________________________________________________________________________

co lo ph o

Hanno collaborato Fiorenza Auriemma, Denise Battistin, Guido Bernardi, Stefano Bonini, Luisa Contri, Davide Deponti, Antonio Ezio, Maurizio Forte, Beppe Francese, Angelo Gaja, Elio Ghisalberti, Isa Grassano, Rocco Lettieri, Alberto Lupetti, Emilio Magni, Gianni Mercatali, Giovanna Moldenhauer, Calogero Moscato, Aldo Nenzi, Riccardo Oldani, Anna Pesenti, Alessandra Piubello, Roger Sesto, Gualtiero Spotti, Theo Smith, Olivia Vachon, Claudio Zeni, Stefania Zolotti _______________________________________________________________________________________________________

Art director Claudio Rossi Oldrati

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Foto Aromi Creativi (Casa Perbellini), Capitale Cultura (Casa Perbellini), Serrani e Brambilla (Casa Perbellini), Luigi Vitale (Livio Felluga) _______________________________________________________________________________________________________

Pubblicità dircom@edifis.it

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Traffico pubblicitario Roberta Motta - roberta.motta@edifis.it

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Stampa Aziende Grafiche Printing S.r.l. - Peschiera Borromeo (MI)

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 222 del 24/03/2000 Iscrizione Registro Operatori della Comunicazione n. 06090

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ricordi da: battuta di manzo tagliata al coltello con Parmigiano 24 mesi e pesto di rucola, risotto carnaroli alla milanese, sfumato al Barbera, tarte tatin alla mela cotogna. In carta compaiono anche, fra l’altro, la zuppetta con borlotti, salsiccia e cima di rapa, la salama cotta con zucchine in agrodolce, gli spaghetti d’orzo alla carbonara e altre amenità da repertorio regional-provinciale (per non usare sempre la trita e ritrita espressione “del territorio”). Il Gandulin, aperto no stop dalle 10 alle 22, è un luogo davvero “open”, nel quale l’esclusività passa attraverso la socializzazione. E non ci pare poco, in un universo della ristorazione “gurmettara” in cui sembra spesso prevalere la solitudine dei clienti. I prezzi praticati da Triolo sono commoventi (da quanto sono onesti). Anche i ricarichi sui vini, soprattutto dell’Oltrepo Pavese e lombardi, sono eccellenti.

liani, zona corso Genova, è molto ampio e con tavolini ravvicinati: invoglia all’esperienza curiosa, alla socializzazione gurmettara, alla ricerca di prodotti specialità, di territorio ma anche multietnici, da consumare in loco o da acquistare “all’asporto”. La gamma di proposte è enorme, forse troppo: la generica scritta in fondo al menù, “alcuni piatti utilizzano alimenti surgelati di alta qualità da noi selezionati e testati” , in mancanza di indicazioni precise a questo o quel piatto, fa temere che possa trattarsi di prassi generale. Ma per fortuna non è così. Il menù, comunque, seppure chilometrico, è ben articolato e cerca di accontentare un po’ tutti, sia nella pausa di mezzogiorno che la sera: da un lato vengono proposte “le mezze porzioni della Drogheria” , dall’altro i piatti più importanti, quelli del “ristorante”. Nella colonna delle mezze porzioni figurano una cinquantina di voci, che vanno dalle acciughe cantabriche (buone, vendute a 7,80 euro) al baccalà mantecato e DROGHERIA MILANESE peperone del piquillo, 6,80 euro, fino alle uova di Paolo Parisi , con tartufo Via Conca del Naviglio, 7 nero e parmigiano, con “paleta iberica 20123 Milano joselito” , con fiori di zucca, con patate 02 58114843 e fontina di alpeggio, con carciofi e www.drogheriamilanese.it parmigiano, prezzi tra i sette e gli otto euro. C’è anche una proposta di pizza, naturalmente (come chiede la moda) Chi si aspetta una drogheria, si prepari “con lievito madre”, farina biologica ad entrare in un locale vagamente Sobrino macinata a pietra ecc ecc. Il modaiolo e “trendy” (almeno nelle capitolo “ristorante” riserva qualche premesse, certamente meritevoli): lo sorpresa in più, con cinque primi piatti spazio della Drogheria Milanese, fra (i migliori: i tonnarelli alla carbonara, la Pasticceria Cucchi e Cioccolati Ita- 11,80 euro), vari tipi di hamburger (di cui uno “con vacca galiziana”), quattro possibilità di tartare e notevoli varietà di dessert. Impressione conclusiva: locale con molte ottime intenzioni, bisognoso però di maggiore attenzione ai tavoli e di una figura di chef presente in sala.




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