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In caso di mancato recapito inviare al CMP di Milano Roserio per la restituzione al mittente previo pagamento resi
Artù n°43 - Marzo - Aprile 2011
Gusto ⦁ Tendenze ⦁ Mercati
Carte dei vini più snelle: è vera rivoluzione? Alfonso Iaccarino e la cucina delle radici Comunicare e fare business con l’iPad
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smeraldini e menazzi
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EDITORIALE n°43
edi tori al Fermiamo il DECLINO In Italia, da troppo tempo, tira un’aria pestilenziale, della quale sarebbe opportuno liberarsi al più presto. Per ripartire alla grande. Per invertire la rotta di un trend che fa a pugni con l’arte, tutta italiana, del “saper vivere”. E, quindi, del saper bere, del saper mangiare, del sapersi comportare. Che fine ha fatto quell’invidiatissimo “Gusto for life” di cui parlava Paul Hofmann, capo dell’ufficio romano del New York Times, nel suo libro-capolavoro “That fine italian hand”, uscito una ventina di anni fa? Certo lo stile italiano non si è dissolto, ma attraversa un momento difficile, come se fosse osteggiato da chi teorizza comportamenti individualistici e insofferenza alle regole, allontanandoci da quel “bisogno di fare sistema” sempre più urgente. Dopo avere fatto scuola nel mondo per le materie prime di qualità, per i grandi vini, per la splendida ristorazione, per l’ospitalità attenta e cortese, la nostra immagine oggi è sbiadita. La considerazione all’estero, già passata attraverso mafia e P38 (ricordate il piatto di spaghetti con la pistola, sulla copertina di Der Spiegel?) sta toccando i minimi storici. E non serve giustificarsi con il fatto di essere governati dalla sottocultura del “padroni a casa nostra”: uno slogan degno di una casta tetragona, incapace di cogliere le potenzia-
lità di crescita del Paese. Non sarebbe ora di cambiare rotta, di svegliarsi, di darsi una mossa epocale? Per uscire dalla impasse, almeno in materia vinicola, sarebbe auspicabile: 1) Sostenere l’opportunità di un consumo moderato (non abbiamo mai toccato livelli di qualità così alti e di prezzi –necessariamente- così vantaggiosi). 2) Valorizzare le nostre migliori produzioni di vini e distillati sul mercato interno e non solo per l’export. 3) Scoraggiare il neoproibizionismo, opponendovi la logica e il buon senso. Dare ogni colpa all’alcol è come attribuire alla lama di un coltello il comportamento criminale di un assassino… 4) Istituire un comitato permanente di controinformazione, capace di contrastare la pessima o mediocre informazione in materia di alcolici, nonché le legislazioni assurde in materia. 5) Ristabilire il concetto di etica e responsabilità individuale, ormai soffocato dal gossip mediatico per cui ormai è tutto lecito. Chi sbaglia, più è in alto più deve pagare. Dobbiamo comunicare efficacemente le virtù del nostro lifestyle invidiato per anni, che ha per soggetto materie prime di qualità e gusto inconfondibili, perfettamente allineate al concetto di
“offerta ragionevole”, in sintonia con le aspettative della clientela. Ma ve lo ricordate il resveratrolo? Non più tardi di una decina di anni fa l’immagine del vino era altissima e gli aspetti salutistici erano oggetto di convegni e approfondimenti sulle principali testate scientifiche internazionali. Questi argomenti contribuivano ad alzare il livello delle nostre performance sui mercati, mentre oggi prevale la critica negativa (salvo che per gli addetti ai lavori e gli appassionati). La qualità del vino italiano va comunicata a gran voce, non solo dai produttori ma anche da quanti hanno un ruolo di opinion leader: non basta rifugiarsi nell’export, seppur redditizio, se perdiamo definitivamente il contatto con il Paese reale. Speriamo che questo Vinitaly rappresenti un’occasione di riflessione, da cui ripartire con “la fronte rischiarata dalla luce delle intuizioni necessarie”. E che, una buona volta, alla deregulation che conduce al baratro, si contrapponga la comunicazione seria e responsabile del nostro valore, fatto di esperienza, sensibilità e fatica. Perché quel “Gusto for life” ritorni ad essere un concetto invidiato e vincente.
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In copertina, Amarone, vendemmia 1997. La fotografa ha voluto riprendere questo grande vino rosso, ritratto e ingrandito nel suo ampio calice, per offrire a chi guarda un’immagine inconsueta, capace di coglierne in profondità le caratteristiche cromatiche e di immaginarne quelle organolettiche. (foto Tanja Guettersberger).
Opinioni Spaghetti alla bolognese: esistono o no? di Piero Valdiserra Vino, cresce l’export e da noi cala il consumo di Giuseppe Martelli Info News dal mondo del fuoricasa Focus vino Carte e cantine più agili e snelle. Anche così si batte la crisi di Roger Sesto Cantina Tramin, stile in Weinstrasse di Alberto P. Schieppati Protagonisti food Vila Joya, chef stellati a rapporto di Gianni Ventura Alfonso Iaccarino, dalla parte delle radici di Jerry Bortolan Format E se il patron fa il macellaio? di Alberto P. Schieppati Dodici Apostoli, quanto vale l’emozione di Alberto P. Schieppati Tendenze Buonissimo a Brescia, degustare prima di acquistare di Luisa Contri Il Lugana di Provenza con Frankie per i bimbi di Monica Zani Design Pranzo al museo? di Monica Zani Extravergine enciclopedico di Monica Zani Accueil Kempinski St. Moritz, tra spa e gourmet di Alberto P. Schieppati Roma, Parco dei Principi, lo chef è di Lione di Theo Smith Lo chef è allievo di Roux, grande cucina all’Eden di Monica Zani Equipment iPad, rivoluzione per menù e wine list di Davide Deponti Sottovuoto: cucinare e conservare di Davide Deponti Libri Il ragazzino gourmet e le cucine di tradizione
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SPAGHETTI alla bolognese: esistono o no? sa alla bolognese”). In realtà questa ricetta non fa parte della tradizione felsinea, perché la cucina tipica della città presenta tagliatelle, tortellini, lasagne, ma non vi è traccia di spaghetti. Se però si ascoltano i racconti dei suoi abitanti, in passato non era poi così inconsueto trovare questo abbinamento sulle mense domestiche. Magari quando nella dispensa mancava la pasta corta e il sugo era già pronto. Per rivalutare e per meglio comprendere questa controversa portata, si è recentemente costituita a Bologna “La Balla degli Spaghetti alla Bolognese”. In città, la parola dialettale bâla significa: gruppo di amici, combriccola, compagnia. Da questo termine tradizionale deriva l’universitaria “Balla”, intesa nel senso di gruppo goliardico. Più di recente il termine “Balla” è stato introdotto anche in campo enogastronomico: ne è un esempio la Bella Balla dell’Asparago Verde di Altedo, associazione dedita alla valorizzazione di un prodotto e di un’area ben definiti della bassa bolognese. Passando all’italiano, la parola “balla” esprime invece una bugia (fandonia, frottola, storia, panzana, fanfaluca, fola, scusa, invenzione, finta, ecc.). “La Balla degli Spaghetti alla Bolognese” gioca volutamente sull’ambiguità - meglio, È nata “La Balla degli Spaghetti alla Bolognese”, un gruppo di esperti enogastronomi, giornalisti e professionisti del settore che indagano in maniera “semiseria” il piatto in questione.
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A Bologna c’è da sempre un piatto considerato assolutamente tabù: gli spaghetti alla bolognese. Questo stesso piatto, paradossalmente, è invece notissimo e presente nei ristoranti di tutto l’orbe terracqueo. Come mai? Nei menù di tanti ristoranti, in ogni parte del globo, ci sono spesso gli spaghetti alla bolognese. Questa dicitura indica un piatto di pasta condita con il ragù di carne (la “sal-
sulla molteplicità di significati - della parola chiave. In pratica, fa riferimento a un raggruppamento di persone del territorio usando un termine storico locale (bâla, Balla). Tuttavia, e contemporaneamente, fa anche riferimento al piatto tipico fasullo degli spaghetti alla bolognese, e in questo secondo caso prevale l’accezione nazionale della parola come bugia, fandonia, ecc. Gli amici de “La Balla degli Spaghetti alla Bolognese” hanno come obiettivo la ricerca, l’approfondimento tecnico e la valorizzazione del plurisecolare patrimonio della cucina petroniana: servendosi, una volta tanto, di un piatto tipico “inesistente”. Per informazioni: Dottor Umberto Faedi (Presidente de “La Balla degli Spaghetti alla Bolognese”), e-mail u.faedi@teletu.it, cell. 335 6580217. di Piero Valdiserra
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opinioni
Vino, cresce l’EXPORT E da noi cala il consumo
A fine 2010 molto è cambiato rispetto alle valutazioni fatte dodici mesi fa. I dati di fine anno fanno infatti intravedere un incremento di vendite di vino italiano all’estero, non solo a livello quantitativo ma anche a livello di introiti, di tutta considerazione che inducono ad una decisa inversione di rotta. Ovviamente il discorso non è
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generalizzato, ci sono aziende con il vento in poppa e altre in profondo rosso, tutto dipende da quanto hanno investito e rischiato scommettendo sulla risoluzione della crisi. La congiuntura a livello internazionale è pesante ma il vino italiano sembra non essere più in balia della schizofrenia dei mercati. È vero, continua a calare la superficie vitata di uva da vino che in Italia nel 1990 era di 970.000 ettari e oggi è di 702.000 (-27,6%), ma con una maggiore specificazione e con un deciso incremento della superficie azienda/ ettaro, che è quasi triplicata, passando da una media di 1 ettaro degli anni ‘90 ai quasi 3 ettari di oggi. I consumi interni sono in costante diminuzione. Infatti siamo a meno di 43 litri pro capite, che Assoenologi prevede scenderanno sotto i 40 litri nel 2015. Negli anni ’70 il consumo pro capite era di 120 litri. Pertanto l’export rimane l’unica importante valvola di sfogo per la nostra produzione. Fortunatamente la situazione oggi sembra essere positiva. Infatti, mentre il 2009 è stato caratterizzato dalla instabilità dei mercati internazionali che, a fronte di incrementi di vendita, hanno continuato a far registrare decrementi di introiti, la situazione nei primi mesi del 2010 è cambiata. Da febbraio si è registrata una inversione di tendenza tanto che gli ultimi dati danno vendite all’estero in crescita dell’8,1% in quantità e del 9,8% in valore rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il vino italiano nel mondo continua a piacere e ad essere richiesto, con performance migliori di quelle dei nostri principali competitor, tanto che, secondo Assoenologi, il 2010 potrebbe essere chiuso con quasi 22 milioni di ettolitri di vino italiano esportato per un introito di 3,8 mi-
liardi di euro, il più alto degli ultimi dieci anni. Nel 2010 si è registrato un ulteriore decremento della richiesta di vini rossi. Il fatto è confermato anche dai dati di produzione visto che i vini bianchi hanno quasi raggiunto il 60% del totale mentre i rossi e i rosati sono scesi al 40%, capovolgendo la situazione rispetto a dieci anni fa. Nel 2009 i vini a denominazione di origine erano 363, a fine 2010 386, con un incremento del 6,3%. Quelli a Indicazione geografica tipica a fine 2009 erano 118 e tali sono rimasti anche nel 2010. In Francia i vini a denominazione di origine sono circa 500 e quindi non è vero che in Italia i Dop sono molti di più di quelli francesi, anzi. Fatto il quadro della situazione credo che il principale problema del vino italiano sia la frammentazione della produzione che porta inevitabilmente a personalismi ed individualismi. In poche parole ritengo che la prima cosa da fare per razionalizzare il settore sia quella di "potare", oltre alle viti, i campanili. Cosa non facile visto che l'Italia è forse l'unico Paese vitivinicolo al Mondo dove la vite si estende, quasi ininterrottamente da Bolzano a Pantelleria, abbracciando storia e cultura di territori assai diversi che, a seconda dei casi, possono essere delle risorse o delle criticità per il settore. Molto si sta facendo, ma molto rimane da fare per unire il comparto trovando soluzioni comuni nella logica che il concorrente non è più quello della Regione o del Paese vicino ma quello del Mondo. Pertanto credo che a livello nazionale tutti debbano collaborare nell'affermare un solo principio: "Uniti si vince". di Giuseppe Martelli
Lo Spirito Italiano
150 ANNI D’ITALIA 1861-2011
è Italiano La sfida di trenta barman per ideare il cocktail tutto Italiano La presentazione e degustazione in anteprima avverrà al Vinitaly, dal 7 all’11 aprile 2011 (info: www.aqua21.it)
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News dal mondo del FUORICASA EVENTI BUON RICORDO Ferrarelle all'International Aumentano gli associati Day of Italian Cuisine
Ferrarelle, quarto gruppo italiano nel settore delle acque minerali, ha sostenuto con il proprio marchio, in qualità di main sponsor, l'International Day of Italian Cuisine, la manifestazione promossa ogni anno dal network GVCI – Gruppo Virtuale Cuochi Italiani, che ha l'obiettivo di celebrare un famoso piatto della cucina italiana. Protagonista di questa quarta edizione il pesto alla genovese: 40 chef coinvolti e 2000 ristoranti italiani sparsi in tutto il mondo hanno cucinato per un giorno il vero pesto alla genovese, da New York a Genova hanno contribuito a promuovere il profumato condimento "total green" preparato con ingredienti dop liguri.
EVENTI S. Pellegrino Sapori Ticino Nata nel 2007 la manifestazione S. Pellegrino Sapori Ticino rinnova l'appuntamento per consolidare ancora una volta la realtà della cucina d'eccellenza ticinese. Dal 3 aprile al 22 maggio 2011 alcuni tra i più importanti ristoranti di Lugano, Ascona e Vacallo, proporranno esperienze gourmet di alto livello: gli chef ticinesi, Rolf Krapf, Dario Ranza, Gian Luca Bos, Ivo Adam, Martin Dalsass, Luigi Lafranco e Alessio Rossi ospiteranno una selezione di membri delle “Grandes Tables de Suisse” per interpretare le loro specialità, creando delle vere e proprie opere d'arte culinaria. La quinta edizione, dal tema "gourmet Made in Svizzera", si pone l'obiettivo di sottolineare l'eccellenza della cucina svizzera e dei suoi Cantoni, ricordando anche l'importante realtà vitivinicola.
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RISTORAZIONE
L'alta cucina secondo Cirio Cirio Alta Cucina, la linea dedicata all'alta ristorazione firmata Cirio, conferma il suo successo a due anni dal lancio del nuovo brand e conferma anche le scelte strategiche di Food Service Conserve Italia nel mondo nell'ambito della ristorazione professionale. La gamma dei prodotti, in vari formati e confezioni – dalla classica latta ai pratici cartoni "bag in box" –, si completa con un nuovo prodotto: Polparustica Cirio Alta Cucina viene proposta nel formato in busta da 5 kg. Nata per la pizza, può essere utilizzata per preparare qualsiasi piatto, sempre pronta e disponibile in grandi quantitativi. A suggellare l'importante rapporto fra i prodotti Cirio e l'alta ristorazione è stato promosso anche il ricettario Pomodoro Spumeggiante: 10 ricette, dall'antipasto al dessert, per valorizzare al meglio la versatilità del pomodoro.
Sono sei le new entry del 2011 che andranno a completare il variopinto mondo dei famosi piatti del Buon Ricordo, per un totale di 126 insegne: la Trattoria della Marina a Portovenere (La Spezia), Gimmy’s Restaurant all'Aprica (Sondrio), il Ristorante l’Uliveto di Villa Kinzica a Sale Marasino (Brescia), il Ristorante ed Enoteca Casa Mia a Siena, a San Cesareo (Roma) l’Osteria di San Cesario, e il Ristorante Motto del Gallo di Taverne, Lugano. Dal 1964 l'Unione Ristoranti del Buon Ricordo si impegna a valorizzare le culture gastronomiche del territorio e oggi, come un tempo, il piatto-simbolo dipinto a mano dagli artigiani della Ceramica artistica Solimene di Vietri sul Mare, viene donata agli ospiti in memoria di un’esperienza da ricordare. E anche quest'anno la guida 2011 "Viaggio attraverso i risto-
ranti del buon ricordo" si trova in distribuzione gratuita nei ristoranti associati: al suo interno sono presentati - due per pagina e suddivisi per regione, da nord a sud - i locali e le rispettive specialità. Nella parte finale l’elenco dei ristoranti stranieri selezionati, locali che hanno scelto di portare la qualità dei prodotti e della gastronomia di qualche regione italiana all’estero e, infine, l’elenco degli hotel che hanno al loro interno un locale associato al Buon Ricordo. Inoltre i ristoratori del Buon Ricordo hanno deciso anche quest'anno di affiancare alla loro ormai tradizionale guida un ricettario di primi piatti che rappresenta il secondo volumetto della collana “La buona cucina italiana”. 264 pagine di ricette, curiosità e informazioni sui prodotti utilizzati e il territorio da cui provengono.
GUIDE Viniplus 2011 presentata a Milano Viniplus, la guida ragionata alle produzioni vitivinicole di qualità in Lombardia, giunge alla sua sesta edizione, presentata nell'ambito della tradizionale giornata dedicata ai vini di Lombardia. La guida, edita e curata da AIS Lombardia, raccoglie in 455 pagine 211 aziende e 670 etichette (su oltre 800 campioni degustati) tra bollicine, bianchi, rossi, rosati e vini da dessert, con una significativa crescita nel livello qualitativo della produzione vitivinicola lombarda che raccoglie cinque denominazioni Docg, 21 Doc e 15 Igt. Due le novità relative alla guida: la prima riguarda l'ampliamento delle segnalazioni di particolare merito, già proposte con le prestigiose Quattro Rose Camune, a cui si affiancano le Rose d'O-
ro, d'Argento e Verdi per i vini che non superano il limite di 75 mg/l di solfiti. La seconda novità è di tipo "multimediale". Un'apposita applicazione permette infatti di sfogliare la guida su iPhone, iPad e iPad Touch, per avere rapido accesso a tutte le informazioni. La consultazione potrà essere effettuata anche off-line. La Guida Viniplus 2011 è in vendita presso la sede AIS Lombardia.
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TERRITORIO Caldaro e i grandi chef wein.kaltern, l’associazione nata nel 1999 che annovera 62 membri fra ristoranti, cantine vinicole e aziende del territorio di Caldaro, in Alto Adige, da oltre dieci anni si dedica alla promozione di questo territorio organizzando numerosi eventi enogastronomici per promuovere le prelibatezze tipiche del Lago di Caldaro. Per gli appassionati del bere bene e per i gourmand sono previsti due appuntamenti: il 3 giugno si festeggia la 3a edizione di “Teatro di piaceri”, l’ormai famosa manifestazione culinaria che vede la partecipazione dello chef stellato Roland Trettl e il team del suo ristorante ”Ikarus dell’ Hangar-7” di Salisburgo. Il 28 giugno si rinnova il tradizionale appuntamento con “Caldaro in abito bianco”, serata di presentazione della produzione vinicola caldarese dei vini bianchi giunta alla 5aedizione e
NOVITA’ Lo Spritz diventa ready to drink
sostenuta dall'associazione wein.kaltern che da sempre si prodiga nella valorizzazione del territorio vitivinicolo conosciuto per il suo “bollino rosso” sinonimo di qualità ed eccellenza, come il rilancio del vitigno Schiava. 19 produttori di Caldaro hanno infatti sottoscritto la “Charta del Lago di Caldaro”, un disciplinare che garantisce la qualità del vino prodotto da uve Schia-
va. Ma non solo, wein.kaltern promuove anche l'inziativa “Polenta & Vino a Caldaro – Alto Adige”, che coinvolge 62 punti vendita tra wein-bar, ristoranti, cantine, hotel ed enoteche del territorio per la promozione della polenta originale di Caldaro al Lago, in abbinamento al vino Lago di Caldaro prodotto con uva Schiava. Info: Ass. Turistica di Caldaro al Lago, www.wein.kaltern.com
La Gioiosa, azienda veneta leader nella produzione di Prosecco con importanti presenze in ben 60 Paesi, punta sul mercato giovane. Con "Spritzzoso", il classico nato dalla tradizione dell'aperitivo veneto, l'azienda vuole estendere la propria esperienza verso nuove occasioni di consumo: lo Spritz è ora presentato in una bottiglietta da 20 cl con un packaging rinnovato. Ideale per il consumo domestico, per un aperitivo a casa con gli amici, o per le happy hour dei locali che puntano su un consumo informale.
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CARNE Berton cucina per Eblex Milano, febbraio 2011. Prosegue la strategia di rafforzamento del marchio Beef St.Gorge in Italia da parte di Eblex, l’Ente che si occupa della promozione di carni rosse inglesi in Europa e di Jolanda de Colò, azienda
produttrice di specialità per la gastronomia di qualità e distributrice di materie prime, semilavorati e lavorati per l’alta e altissima ristorazione, esclusivista del brand St.George. L’ultimo lavoro che ha visto impegnate
le due società è il restyling dell’etichetta che identifica la pregiata carne inglese. “È stato necessario rivisitare il marchio St.George per renderlo ancora più completo, riconoscibile ed efficace per il pubblico di destinazione –
PREMIAZIONE LOCALI Donne del vino dal Presidente Il Presidente Giorgio Napolitano ha consegnato, nel corso di una solenne cerimonia, una targa alle Donne del Vino per il suo ruolo attivo “nel promuovere, sostenere e valorizzare l’impegno profuso dalle donne nell’attività enogastronomia”. Il premio è stato ricevuto da Nadia Zenato, vicepresidente delle Donne del Vino e produttrice vitivinicola di primaria importanza.
Le "Botteghe del Vino" Villa Sandi, già presenti a Valdobbiadene e a Crocetta del Montello, nelle adiacenze delle cantine Villa Sandi, hanno inaugurato una nuova sede a Cortina d'Ampezzo, in largo Poste 30 nei pressi della funivia che porta al Faloria. Ambienti accoglienti e personale qualificato rappresentano i punti d forza delle "botteghe", ambienti idelai per pranzi relax, per una sosta dopo sci e per l'a-
“Botteghe del vino” apre a Cortina peritivo. Qui si possono gustare formaggi nazionali e francesi abbinati a composte, miele e mostarde, salumi scelti a rotazione dalle dop italiane e proposti secondo le regole dello slow food e del finger food, e per finire in dolcezza, la piccola pasticceria propone girolle al cioccolato gianduia e fruttini congelati. I vini sono quelli di Villa Sandi, dal Prosecco nelle versioni spumante brut, extra dry e dry, fino al Superiore di Cartizze Dry e al Cartizze Vigna La Rivetta, premiato con i Tre Bicchieri del Gambero Rosso e proposto nella versione Brut, abbinamento ideale a salumi e piatti leggeri. Ma anche rossi importanti e lo Spumante Metodo Classico Opere Trevigiane, bollicine per eventi particolari, uno Champagne, la Grande Reserve Devaux, e le grappe, con maturazione 10 e 20 anni. La gestione è in collaborazione con il Vip Club.
afferma Jeff Martin, responsabile Eblex in Italia – . La nuova etichetta, che sarà applicata su tutti i tagli sottovuoto e su tutto il packaging, esprime una forte identità e sicuramente rafforzerà il brand". Il restyling del marchio Beef St.George si inserisce in un percorso avviato anni fa da Ebex e Jolanda de Colò volto a promuovere iniziative ed eventi per sostenere e rafforzare l’immagine della carne inglese. A fine febbraio 2011 è stato infatti siglato un importante accordo tra Eblex e ChefCarni, l'azienda specializzata nella lavorazione e trasformazione di carni di tutte le tipologie e distributrice nei canali horeca e catering per la distribuzione in esclusiva sul mercato italiano delle carni bovine inglesi a marchio Ashdale. Testimonial d'eccezione del marchio Eblex lo chef doppiamente stellato Andrea Berton del ristorante Trussardi a Milano: per esaltare le caratteristiche organolettiche del manzo Ashdale ha ideato due ricette, "Carne cruda con salsa di manzo all'olio extra vergine d'oliva, patate soffiate e senape", e "Controfiletto di manzo con purea di patate al limone e panizza fritta". Segnaliamo anche la cena-laboratorio curata dallo chef Massimo Sola di Villa del Quar.
“Il terroir che fa la differenza� www.villafranciacorta.it
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SISIFO
PARTNERSHIP
Guru del km zero, I salumi Negroni nun te regghe al Cucchiaio di Legno cchiu’ Altro che km zero! I migliori paccheri di Gragnano ai frutti di mare li ho mangiati sul lago di Garda, sponda bresciana, alla Locanda da Vittorio, a Manerba del Garda. Ed è a Milano che gusto ottimi calamari spillo, che non mi riesce mai di trovare così buoni in ambitissime località balneari, con le terrazze del ristorante a picco sul mare…. Qualcuno dirà: il solito snob! In realtà lo snobismo non c’entra nulla, anzi. Sisifo frequenta centinaia di ristoranti all’anno, di ogni tipo e in ogni dove. È troppo facile decantare chef e cucine che utilizzano solo materie prime del proprio bacino locale: le erbe dell’orto che nascono in quella zolla di terreno, ubicata nel mappale n. 21, foglio 7/b, lungo la linea di demarcazione fra la frazione di Sonpiùbello, comune di Topdigamma, e la frazione, anzi le “case sparse”, del comune di Meglioditutti! Bella forza! Il basilico e l’erba cipollina che crescono in quel punto sono veri e propri cru. E, in quanto tali, esprimono il non plus ultra. Così almeno ci vorrebbero raccontare! Beh, noi preferiamo quegli chef, come Aimo (per dirne uno) che al mattino alle cinque vanno a cercare il meglio possibile dal mercato. Ed è lì che fanno le loro selezioni sulla base di: esperienza, cultura, professionalità. Che, ancora una volta, ci sembrano gli elementi più importanti sui quali puntare. Alla faccia del chilometro zero, ridicolo e improponibile, e dei suoi guru insopportabili.
PASTICCERIA L'università del cioccolato Nel 1865 Caffarel inventa il primo Gianduiotto, riconosciuto ancora oggi come uno dei simboli della tradizione dolciaria italiana. Oggi, con uno stabilimento di 20.000 mq, 40 milioni di Gianduiotti prodotti ogni anno e 400 dipendenti, Caffarel annuncia la nascita della prima Università del cioccola-
Dal 1 marzo al 31 maggio il Cucchiaio di Legno a Milano, in via Ponte Vetero 13, diventa protagonista di golose proposte creative a base dei salumi Negroni. La collaborazione tra il noto brand di salumi e il bistrot milanese segna una nuova tappa del tour “Momenti d’autore” promosso dall'azienda, un cammino gastronomico tra ristoranti stellati, enoteche, wine bar ma anche paninerie storiche, spazi museali e chioschi gourmet in Italia. Tante le ricette culinarie pensate da “Cucchiaio di Legno” e Negroni: dal menu alla carta sarà possibile scegliere taglieri di salumi, con abbinamenti sfiziosi creati ad arte dallo chef del bistrot. Ad accompagnare l’offerta una serie di mini panini d’autore realizzati con la linea “Negroni”: Coppa e Pancetta di Zibello, Prosciutto Cotto, Mortadella, Prosciutto di Parma D.O.P, Prosciutto di San Daniele D.O.P., Salame Cremona I.G.P, Culatello di Zibello D.O.P. Ogni giovedì si potranno degustare salumi, vini del territorio e pani regionali. Prossime tappe del tour saranno l’Antica Focacceria San Francesco di Palermo e la birreria Baladindi a Roma. to dedicata ai professionisti della pasticceria italiana. A dirigere i lavori sarà il Maestro pasticcere Sergio Signorini, coordinando una selezione di docenti incaricati a svolgere corsi di formazione in tutta Italia sui metodi di utilizzo dei prodotti semilavorati per pasticceria e gelateria Caffarel. "Con questa iniziativa Caffarel – spiega Lorenzo Lucchetta, responsabile dei prodotti per il Laboratorio di Caffarel – intende continuare a sviluppare la cultura del “cibo degli dei”, formando chi come noi ha fatto della competenza e della passione per quest’arte una ragione di vita". La presentazione ufficiale dell’Università del cioccolato avverrà nel corso dell’annuale Sales National Meeting di Caffarel, che quest’anno si terrà a Istanbul.
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CARTE e CANTINE più agili e snelle Anche così si batte la crisi
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di Roger Sesto In un contesto dominato da una forte riduzione del consumo di vino, dal ridimensionamento dei “bevitori di etichette”, dal mutamento del gusto dei consumatori, alla ricerca di vini identitari proposti al giusto rapporto qualità-prezzo, i professionisti dell’offerta ripensano l'impostazione delle proprie cantine. La parola d’ordine della clientela sembra essere “understatement”, in in momento in cui si impongono scelte più mirate di etichette con giusto price for value piuttosto che bottiglie più importanti e paludate. E la ristorazione professionale si adegua: chi riduce drasticamente le referenze tagliando i vini più costosi, chi punta sul territorio, chi sugli abbinamenti, alcuni su determinate tipologie, altri sul servizio al calice, altri ancora abbracciando la filosofia dei vini biodinamici. Vediamo qualche esempio, paradigmatico di queste nuove tendenze.
La carta dei vini è uno strumento indispensabile per la moderna ristorazione, che può aumentare il tono e la classe del locale ove viene impiegato. Un supporto che ormai non dovrebbe più mancare in nessun ristorante o trattoria (per non dire wine bar) di qualità, dimostrando con la sua presenza un'attenzione e una considerazione speciale per il vino, non certo affidabile alla sola memoria del personale o alla proposta del giorno. Molti la descrivono come il biglietto da visita di un ristorante, in questo senz'altro assimilabile alle carte dei cibi; in più, dovrebbe rispecchiare la condizione di una cantina di cui andare giustamente fieri e, insieme, la personalità e le scelte di chi l'ha compilata, sia esso il sommelier o il patron del locale. I costi della sua tenuta e del suo costante aggiornamento saranno largamente compensati dall'immagine che è in grado di offrire. E dagli eventuali volumi di vendita, movimentati dal gradimentto del cliente. Ci sono anche dei vantaggi di tipo organizzativo a utilizzare una certa carta ordinata e di piacevole consultazione: si ha sempre sotto controllo lo stato della propria proposta, potendo includere prodotti particolari, selezioni, vini legati al proprio territorio, oppure etichette, magari di buon livello, ma poco conosciute e particolarmente convenienti per il cliente. In ogni caso la carta non deve tendere a impressionare e a confondere, né deve essere autoreferenziale e mettere in soggezione il cliente. Quale che sia il principio che la ispira, una buona carta dovrebbe essere sempre aggiornata, almeno due volte l'anno, priva di errori - sia di ortografia sia di vini non più disponibili – e di correzioni manuali (il famigerato “asterisco”), giustamente esaustiva, con tutte le necessarie informazioni, ma di pratica consultazione e non enciclopedica; leggibile nei caratteri, gradevole nei materiali. Naturalmente una trattoria o un ristorante di cucina locale potranno servirsi con maggiore utilità di una lista dei vini a carattere regionale, in questo modo più vicina alle proprie proposte gastronomiche; anche se pure i ristoranti di maggiori ambizioni non
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dovrebbero trascurare il legame fra il loro territorio di appartenenza e i relativi vini di riferimento da proporre. Al crescere dell'importanza del locale, dovrà farsi più attenta e sistematica la rappresentanza in carta delle più interessanti aree viticole nazionali, non trascurando una sezione dedicata alla vinicoltura internazionale, a partire da quella francese naturalmente. Chiaro che più sono le referenze in carta e maggiore dovrà essere l'attenzione a costruire un elenco funzionale e fruibile. Un approccio classico può essere quello di suddividere i vini per tipologia, poi per regione, quindi per aree viticole; di ogni singolo vino si dovrà riportare l'esatta denominazione (es. Chianti Classico Docg), con l'indicazione se si tratta di Riserva, Superiore o altro, l'eventuale nome di fantasia e/o di vigna, il produttore, il comune di provenienza, le annate disponibili (l'avere più annate di uno stesso vino, se trattasi di gran vino, è assai apprezzabile) e il prezzo. Poi starà al sommelier decidere se aggiungere altre indicazioni quali uvaggio, metodi di affinamento, cenni organolettici... Detto questo, analizziamo come alcuni ristoratori di riferimento rispetto al loro segmento di mercato hanno diversamente interpretato l'attuale calo dei consumi di vino nel fuoricasa, fronteggiandolo – a livello di gestione della cantina, di carta dei vini, di proposte alla clientela – in modo sostanzialmente differente, ma comunque efficace rispetto alla propria realtà. Un aspetto è peraltro condiviso da tutti: l'epoca dei “bevitori di etichette”, dei Supertuscans, dei tagli bordolesi omologati, dei vini “mangiaebevi”, delle liste-fotocopia, del “più referenze hai meglio è”, è decisamente ridimensionata. Sarà la crisi economica, sarà l'alcol test, sarà una maggior cultura enoica o il tramontare delle mode, ma oggi si beve molto meno (non sempre spendendo meno però, in proporzione) e con maggior curiosità, preferendo un servizio più elastico, per esempio con la possibilità di ordinare vini al calice, ad uno più rigido e paludato. Abbiamo parlato di
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differenti modi di reagire a questa contrazione della domanda. Ed ecco che La Rimessa di Mariano Comense ha intrapreso la strada della drastica riduzione del numero di etichette in carta, puntando tutto sul rapporto qualitàprezzo. La trattoria Altavilla di Bianzone (So) ha invece deciso di puntare sull'impostazione di una carta dei vini “sui piatti”, passando attraverso una valorizzazione delle più interessanti produzioni valtellinesi. Prato Gajo di Montecalvo Versiggia, non da oggi peraltro, ha optato per una carta “monografica” tesa ad esaltare il proprio territorio di riferimento: l'Oltrepò Pavese. Il (nuovo) Due Colombe di Corte Franca (Bs) ha invece puntato tutto sull'elasticità della formula della degustazione, concentrandosi – non solo, naturalmente – sulla valorizzazione di una tipologia: le bollicine (di Franciacorta), andando a scoprire chicche non banali. L'Antica Trattoria del Mosto di Ne (Ge), ha centrato la propria offerta su vini di grande piacevolezza, possibilmente da vitivinicoltura “naturale” ma non ascrivibili a certificazioni di natura burocratica, in sintonia con la cucina di terra ligure proposta. Da Gigetto di Miane (Tv), un po' controcorrente, si è deciso di seguitare a puntare su di una cantina di grande prestigio, sia pur con adeguati aggiustamenti di tiro e ritocchi, rafforzando la filosofia del vino alla mescita. Infine, l'enotecario-sommelier Ronnie Penati, a Oggiono (Lc), ha voluto fortemente credere nei vini identitari, di più facile bevibilità, autoctoni, il tutto garantito da quel filone di etichette ascrivibile ai vini “naturali”; ma – controcorrente – non ha ritenuto necessario ricorrere al servizio al calice. Vini icona: addio o arrivederci? Il ristorante di Sergio Mauri, nella industrializzata Brianza comasca, ha compiuto una scelta drastica per combattere la crisi del consumo di vini al ristorante: ridurre pesantemente le etichette in carta, da 500 a 200. Come mai questa scelta così netta? “L'aver in lista molti vini per noi non era più logisticamente e finanziariamente possibile. Da-
ta la radicale contrazione della domanda, diventava ingestibile un magazzino con 500 etichette: ci avrebbe costretti a mantenere poche bottiglie di una pletora di produttori e non ne sarebbe valsa la pena. Anzi, è probabile che vi sarà un ulteriore sfrondo di vini non più funzionali al nostro locale”, ci risponde patron Mauri. Che criteri avete nella scelta dei vini da eliminare? “Semplicemente abbiamo cominciato dalle etichette dai costi troppo elevati, che ci avrebbero imposto di metterle poi in carta a prezzi ormai non più accettabili da parte della nostra clientela”. E come vi regolate da ora in avanti, a livello di impostazione della carta dei vini? “Puntando sui prodotti dal rapporto qualità-prezzo più interessante: oggi la nostra lista include proposte dai prezzi medi dimezzati rispetto al passato. In linea con una domanda incentrata ormai su prodotti compresi fra i 20-25 Euro, contro i 30-40 del passato. Tanti nomi blasonati li stiamo via via sostituendo con alternative altrettanto interessanti, ma assai meno onerose; senza per questo stravolgere la filosofia della nostra carta e mantenendo inalterato il rapporto fra vini rossi, bianchi, spumanti, dolci. Fondamentalmente, oggi come oggi, se un vino mi piace e ha un prezzo corretto lo compero, senza eccessive complicazioni. Stiamo svecchiando il magazzino, reimpostandolo in base a questo nuovo approccio; certo alcuni grandi nomi del passato figurano ancora in carta, ma l'obiettivo è di venderli, anche a prezzi molto interessanti, senza più rimpiazzarli”. Tutto chiaro. Ma sorge un dubbio: la clientela abituale non si è risentita di questo cambiamento di rotta? “Assolutamente no. Tutti hanno accettato l’evoluzione, contenti di poter bere bene a prezzi più contenuti. Logicamente, il tutto con un servizio adeguato – che rafforzeremo ulteriormente: su questo bisogna puntare - e attento a spiegare questa nuova filosofia e a far capire perché certe icone sono sparite dalle nostre proposte. Solo effetti positivi, insomma, e poi un'accorta gestione di pro-
poste a rotazione di vino al bicchiere ha fatto il resto”. Quando il vino è “sul piatto” La trattoria di Anna Bertola, a Bianzone, vicino a Tirano, è tra le mete gastronomiche più interessanti della Valtellina. Una linea di cucina di territorio, autentica ma personalizzata, non pesante né banale, ha condotto Anna a forgiare la sua carta dei vini proprio in funzione dei piatti. “Abbiamo una carta composta da diverse sezioni e dominata dai vini più attinenti la nostra proposta gastronomica, concentrati questi ultimi soprattutto nel capitolo: ‘Vini della mia valle’; poi, con colori differente, a riflettere le nuance dei vini, abbiamo delle sezioni dedicate alle diverse tipologie”. Quante sono le referenze in totale e quante di queste sono valtellinesi (“della mia valle”)? “In tutto abbiamo circa 500 etichette, di cui 100 valtellinesi, con il meglio dei vini della provincia (fra cui il top di Triacca, Rai-
Troppi i vini in carta che, spesso, restano invenduti. Così la ristorazione di qualità ripensa l'offerta, riducendo le referenze e puntando su territorio e qualità intrinseca.
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noldi, Sertoli Salis, Negri, Prevostini...), che si sposano ottimamente con i piatti della nostra cucina: bresaola, chiscioi e i famosi sciatt. Oltre a dei pizzoccheri – continua Anna Bertola – che ho reinterpretato seguendo una ricetta di mia madre, citata a suo tempo da Mario Soldati, dove al posto dell'aglio impiego la cipolla, oltre a formaggi Casera di varie stagionature. I Rosso di Valtellina sono apprezzati con i salumi; i Valtellina Superiore vanno ottimamente con i primi piatti e con l'agnello per esempio; gli Sfursat con gli stracotti molto saporiti e i Bitto stagionati 5 o 10 anni”. La clientela gradisce questa selezione di etichette molto orientata “ai piatti”? “Assolutamente sì. Anche i locali amano molto i loro vini, non parliamo poi di chi viene da fuori. Va detto che gli Sfursat sono richiesti soprattutto dagli svizzeri. Siamo fortunati per avere una clientela preparata, capace di apprezzare le nostre proposte. Purtroppo i vini di Valtellina non sono adeguatamente valorizzati dai locali della valle, a
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partire dagli agriturismi che dovrebbero essere i primi a puntare su una produzione autoctona; noi cerchiamo invece di fare il contrario, andando a scoprire nuovi e piccoli produttori, capaci di offrire vini dall'ottimo rapporto qualitàprezzo: i clienti sono ormai molto attenti ai costi; oltre alla capacità di offrire anche delle piccole verticali per alcune etichette di rilievo. Per promuovere ulteriormente le produzioni locali, facciamo anche un ampio servizio a bicchiere, aprendo quasi tutto, tranne le vecchie annate (le più preziose fuori carta, eventualmente suggerite a voce). Certo bisogna essere abili a proporre e a educare”. Come vi posizionate dal punto di vista dei prezzi? “Si va dai Rosso di Valtellina più semplici, in carta a 11,50 Euro, sino allo Sfursat 5 Stelle della Negri che va dai 50 ai 65 Euro in funzione dell'annata. Per quanto riguarda le etichette fuori regione, dove anche lì cerchiamo di proporre soluzioni non scontate, dobbiamo registrare un calo di attenzione verso Toscana e
Sicilia”. Per concludere, come vede l'attuale Valtellina del vino? “A dire la verità c'è un po' di confusione. Dal mio punto di vista contano più i cru (si provi il Carteria di Fay) che le sottozone classiche (Valgella, Inferno, Grumello, Sassella), e semmai sarebbe opportuno stabilire delle nuove sottozone improntate all'altimetria delle vigne, vera discriminante della diversità organolettica dei vini valligiani. C'è da dire che non c'è stata una corsa allo Sfursat, come è avvenuto in Valpolicella con l'Amarone, ma intelligentemente il vino di riferimento principale resta il Valtellina Superiore”. Il coraggio (e il rischio) di proporre solo territorio Scelta di grande coraggio quella compiuta a suo tempo (e mai cambiata) da Giorgio Liberti, di puntare solo su vini del proprio territorio, l'Oltrepò Pavese. Cerchiamo di capire la ratio di questa opzione così radicale, intrapresa dal patron del locale di Montecalvo Versiggia. Come mai decidere di puntare solo su vini locali, oltretutto di una zona vinicola ricca di storia, ma non così blasonata (soprattutto sino a una quindicina di anni fa) come potrebbero essere le Langhe o il Chianti? “È stata una scelta d'amore. Che ha riscosso il plauso di molti, ma anche le critiche dei detrattori dei vini dell'OP. Soprattutto i clienti locali non hanno gradito moltissimo questa mia scelta, più proni a bere nettari 'esotici'; più riconoscenti sono stati e sono gli avventori che vengono da fuori e che desiderano bere prodotti locali. In qualche modo perciò sono stato parzialmente penalizzato, ma nel complesso non mi sono per nulla pentito”. Come si compone la sua carta dei vini, e quante le etichette? “Abbiamo in lista circa 220 vini, numero che è sostanzialmente rimasto invariato nel tempo. Fin dalla fondazione di Prato Gaio, nel 1970 abbiamo pensato di accantonare le bottiglie migliori, costituendoci un nostro infernot ben prima della nascita del ‘Caveau d'Oltrepo’. Questo a dimostrazione di quanto crediamo nella nostra
vitivinicoltura. Fra l’altro l’attuale carta include solo i vini attualmente in commercio, ma stiamo pensando di redigere una speciale lista con le circa 500 bottiglie raccolte nel tempo, perfettamente conservate, con il meglio degli anni Settanta, Ottanta e Novanta”. Ci racconta più nel dettaglio come si articola la sua proposta enoica? “Intanto abbiamo creato una carta funzionale, che riparte i vini sulla base della tipologia, del vitigno e della facilità di beva, segnalando anche la loro modalità di affinamento. Molto di servizio dunque, capace di raccontare. Quanto alla sua composizione, i rossi la fanno da padrone, in particolare il Pinot Nero, nel quale crediamo molto; ma pure diverse e notevoli Bonarda ferme e qualche Barbera scelta con oculatezza I bianchi, sia frizzanti sia soprattutto fermi, sono rimasti stabili nel tempo, una cinquantina (inclusi quelli da dessert); in questo caso abbiamo scelto di sposare la causa del Riesling, Italico e Renano. Quanto alle bollicine, quasi completamente trascurati gli Charmat, ci siamo orientati sui metodo classico, andando a valorizzare la nuova Docg, con 15 etichette, e il nuovissimo marchio Cruasé, rosé da uve 100% Pinot Nero vinificato in rosa, tipologia que-
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st'ultima che sta crescendo in modo esponenziale e che rappresenta un grande punto di forza della nuova enologia Oltrepadana, oltretutto assai funzionale alla nostra cucina di territorio: per il momento ne abbiamo in carta 12 versioni. Da considerare che prima della sua nascita, non avevamo bollicine rosate in carta”. E i prezzi? “ Sono il nostro punto di forza, andiamo da 1213 Euro, per alcune valide Bonarda, ai 50 Euro per il più costoso dei metodo classico”. Franciacorta: bollicine e flessibilità di servizio Nella rinnovata location del Due Colombe, a Corte Franca, Stefano Cerveni – chef patron del locale – ha creato una cantina sontuosa. Come si è evoluta la carta dei vini negli anni? “Ho cercato di evolverla per renderla sempre più in linea con la mia cucina – ci risponde Cerveni, nel rispetto di una oculata gestione aziendale e a favore di una promozione del territorio. Ero stanco dei soliti 'noti', delle etichette costose in quanto tali (e anche i 'bevitori di etichette' stanno scemando); è ormai da tempo che ricerco vini fatti col cuore, chicche autenticamente di territorio, anche se con qualche naturale e piccola imperfezione; insomma, più vini figli di passione che di blasone, più di vigna che di cantina, possibilmente frutto di uve autoctone, a garanzia di una maggior originalità e di minor omologazione. Certo la crisi mi ha imposto di ridurre il numero complessivo di referenze, da 800 a 600, ma soprattutto mi ha indotto a perseguire con ancora maggior rigore la mia filosofia di ristorazione”. Sappiamo del suo amore per le bollicine di Franciacorta...: “E non può essere altrimenti. Tutti gli osti dovrebbero adoperarsi per valorizzare il territorio di appartenenza, creando interessanti sinergie anche con i produttori locali. Nella mia carta ho scelto di selezionare ben 90 Franciacorta Docg, per lo più scelti fra le piccole aziende, poco conosciute e da scoprire, con la presenza di qualche verticale di qualche Casa più importante. Oggi posso ormai conside-
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rare la mia cantina come diretto riflesso della mia linea di cucina. E questa scelta è apprezzata da tutti, sia dai “foresti”, ma anche dai locali, che su 90 proposte trovano sempre qualcosa da scoprire. Quanto alle altre aree, abbiamo un'ottima scelta di vini piemontesi, ben più identitari dei toscani; qualche trentino e diversi Champagne. In funzione dei nostri piatti, leggeri e poco grassi, teniamo anche una valida scelta di Riesling, altoatesini e austriaci. Viceversa stiamo puntando ad eliminare i potenti bordolesi barricati, tanto in voga negli anni Novanta. Come ha fatto fronte all'arrembante crisi di questi ultimi anni? “Soprattutto con l'istituzione di due proposte di degustazione, sia a livello di piatti sia di vini. Oltre alla carta abbiamo messo a punto due menu degustazione, il ‘Classico’ e il ‘Creativo’, il primo a 65 Euro (per 5 portate) e il secondo a 85 (6 portate, con materie prime più costose). Ebbene, in unione a queste due proposte, diamo la possibilità di altrettante degustazioni in abbinamento, basate su 2 o 4 vini, scelti naturalmente in funzione dei gusti e dei piatti proposti, liberamente abbinabili ai due menù. Per esempio la proposta di 4 vini – una bollicina, un bianco, un rosso, un vino da dessert – costa 35 Euro; perciò con 85 + 35 Euro il nostro avventore può in pratica godere di una amplissima esperienza del meglio delle nostre proposte enogastronomiche. Certamente anche con la scelta alla carta è sempre possibile optare per le degustazioni, poi dipende dal numero di piatti ordinati. Insomma massima libertà e flessibilità. Anche perché le mezze bottiglie, ma pure il calice fine a se stesso, per non parlare delle bottiglie intere, sono sempre meno richieste e questa nostra nuova modalità di offerta piace tantissimo ai nostri clienti, che si sentono anche più coccolati e spinti a provare matrimoni enogastronomici più osé; va da sé che per poter far ciò si deve avere, come nel nostro caso, un servizio di sommellerie adeguato e attento”. Un'ultima domanda, di nuovo sui Franciacorta: quali sono le tipologie che
oggi vanno per la maggiore? “Sembra strano, ma da noi vanno molto i Pas Dosé, anche perché li spieghiamo. Naturalmente funzionano bene anche i Brut. Tengono i Rosé; in leggero declino i Satèn, per non parlare degli Extra Dry che non abbiamo mai amato molto. Poi abbiamo qualche fuori carta interessante, come un 1990 del Mosnel e degli antichi Annamaria Clementi di Ca' del Bosco, oltre a un 'nostro' Pas Dosé del Castello di Gussago”. Vini locali, beverini e “naturali” Franco Solari, patron di questa interessante trattoria di Ne (Genova), ha una sconfinata passione per il vino. E lo si nota scorrendo la sua carta: molto personale, alternativa, non scontata, oltre che ricchissima: circa 1.000 referenze! Solari, ci dica di questa sua attenzione estrema alla costruzione di una lista dei vini così originale: “la mia carta ha una buona sezione dedicata alla nostra regione, per quel che è possibile, vista la non enorme vastità di proposte che la piccola Liguria offre; in ogni caso un 15% dei suggerimenti sono regionali. Il resto si concentra molto su Piemonte e Toscana, ciò perché la nostra è una cucina di terra e naturalmente queste due regioni sono le più vocate alla produzione di rossi di grande qualità e struttura. Ormai dopo anni di sviluppo e messa a punto possiamo dire di essere arrivati ad avere una cantina come la si voleva, dunque sostanzialmente stabile, almeno quanto a numero di referenze”. Ma sappiamo del suo amore per i vini “naturali”: “sì, amo molto i vini 'alternativi' e fuori dal coro, ma non bado né al blasone né tanto meno alle varie certificazioni ufficiali di vino biologico o biodinamico. Guardo alla sostanza: il vino deve essere buono: ossia piacevole e beverino, e debbo essere in sintonia con chi lo produce. Solo conoscendo di persona il produttore, so come lavora: questa è per me l'unica certificazione che conta. Se oltre a tutto ciò un vino è prodotto con i criteri della vitivinicoltura naturale, sarà a maggior ragione il benvenuto nella nostra cantina.
Semmai possono orientarmi associazioni quali 'Vini veri' o 'Treple A' che operano una selezione a monte di vini e vignaioli”. Chiarissimo, ma venendo al pratico, quante etichette definibili “naturali” ha in carta? “Circa 150, con una certa prevalenza di bianchi in questo caso, tipologia più spesso scelta dai produttori di questi vini, con l'impiego della vinificazione in rosso di uve bianche. Ma questo non è un problema: coi nostri piatti a base di carni bianche e animali da cortile, sono vini che si sposano alla perfezione”. Qual è la loro provenienza? “Il Friuli è stata tra le regioni pioniere in questo senso; ora molti però hanno superato i maestri nella difficile strada di produrre vini ‘naturali’ il più possibile equilibrati ed esenti da difetti. Al Sud ci si muove bene in questo senso, tra Campania e Calabria per esempio; ma anche in Liguria, soprattutto nel Levante, vi sono esempi interessantissimi”. Solari, come ha accettato la sua clientela questa modalità di impostare la carta? “I nostri avventori sono costituiti da una clientela di appassionati. Certo spesso occorre spiegare a 'cosa vanno incontro', ma in generale sono soddisfatto della scelta che ho fatto, basata anche
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sul mio piacere personale, nel senso che quasi tutti i vini che ho in carta piacciono prima di tutto a me. Solo qualche cliente straniero è ancora un bevitore di etichette; ma i nostri habitué hanno accettato di buon grado la nostra filosofia”. Ultima domanda, che inevitabilmente riguarda la crisi dei consumi di vino al ristorante: come l'avete gestita? “Applicando ricarichi contenuti e reinserendo la proposta di vini al calice (assai gradita) e le mezze bottiglie. Te nendo presente che la nostra clientela tipo si indirizza su una fascia di prezzo fra i 20 e i 30 Euro la bottiglia”. La cantina strumento di marketing Il ristorante di Miane, nella Marca Trevigiana, è da sempre noto per la sua straordinaria cantina, che – da sola “vale il viaggio”. Né pare che la crisi dei consumi di questi ultimi anni, legata alla pessima congiuntura economica e all'alcol test, ne abbia sostanzialmente scalfito lo charme. “Certo! – ci confida Roberto, storico sommelier del locale. Abbiamo ancora tante grandi etichette che avevamo prima di questo brutto periodo. Anche se il nettissimo calo dei consumi in qualche misura ha influenzato anche la nostra gestione della cantina: se prima un tavolo di quattro persone ordinava tranquillamente due bottiglie, oggi siamo all'aperitivo più un calice di vino a testa. Ma gli elevati standard qualitativi della nostra cantina abbiamo comunque deciso di non stravolgerli. Certamente anni fa si era più stimolati a fare ricerca, a scoprire il nuovo, oggi siamo un poco più statici, ma il concept su cui si fonda la nostra cantina non è mutato. Abbiamo essenzialmente limato il numero di referenze, portandolo da 1.800 a 1.400, il che lascia inalterata la possibilità da parte del consumatore di sbizzarrirsi, magari facendo attenzione – a livello di grandi vini – ad acquistare solo le annate migliori e più longeve”. Ma esistono ancora i “bevitori di etichette”? “Molto meno di prima; ormai i costi elevati di questi vini – sottolinea Roberto – ne hanno ridotto la domanda. Da noi,
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compresi i clienti locali, si beve molto il territorio; a parte naturalmente il fenomeno Prosecco, ci richiedono molto i rossi dei Colli di Conegliano e più in generale i vini del trevigiano: può apparire strano che degli avventori del posto siano così orientati a scegliere vini locali, ma la nostra provincia è molto legata ai propri prodotti”. Ci racconta più nello specifico come si articola la vostra carta dei vini, anche in funzione della domanda di chi si siede ai vostri tavoli? “A parte l'ampio spazio dedicato alle etichette trevigiane, a cui ho già accennato, un'ottima selezione è dedicata – per i bianchi – ad Alto Adige e Friuli. Quanto ai rossi, da noi vanno poco i grandi piemontesi, ritenuti – a torto – troppo duri e impegnativi; si preferiscono invece i grandi di Toscana, come il Coevo di Cecchi, l'Amarone e i vini a base di Aglianico, sia del Vulture sia Taurasi. Interessanti anche i vini etnei. In deciso calo invece vini di moda qualche anno fa come: Nero d'Avola, Morellino di Scansano, Sagrantino di Montefalco. Continuano ad avere successo invece di vini aromatici, a partire dal Traminer. In ogni caso noi non vogliamo stressare troppo il cliente sul discorso abbinamento al piatto, preferendo assecondarlo nei suoi desideri”. Parliamo di bollicine...: “Il Valdobbiadene Spumante Docg fa la parte del leone, circa il 90% di bollicine in carta, anche se la clientela non distingue ancora la nuova ‘Garantita’ dai Prosecco a Doc di pianura, circa 40 referenze di 7 cantine; è statico il Cartizze, un po’ troppo costoso, molto morbido al gusto. Poi abbiamo una ventina di Champagne, alcuni Franciacorta classici, più un paio di piccole realtà, qualcosa da Trentino e Alto Adige, oltre all'immancabile Ferrari; non abbiamo nulla di Oltrepò, mentre abbiamo 2-3 referenza del Piemonte (Poderi Rocche dei Manzoni e Contratto)”. Un ultima questione. A che prezzi medi vendete attualmente le vostre bottiglie e che strategie commerciali avete adottato per fronteggiare il calo dei consumi? “Quanto ai bianchi siamo intorno ai 30 Euro, per sui rossi si sale a 35-40. A
Franco Solari, pagina a sinistra, va controcorrente e propone in carta oltre 1.000 referenze. Gigetto Bortolin, a Miane, ha a sua volta ridotto il numero di referenze presenti nella storica cantina. ben vedere si tratta di cifre che non sono scese rispetto al passato. Ciò che è drasticamente calato sono i consumi, soprattutto di certe tipologie, come già accennato. Quanto alle strategie, abbiamo sistematizzato l'offerta alla mescita (scelta ormai vincente), con una macchina per sbicchierare e una serie di vini in lista, a rotazione, pronti a esser stappati; inoltre di volta in volta concordiamo anche dei menu con in abbinamento 3-4 vini serviti al calice, decisi di comune accordo con il cliente”. Enoteca con mescita, i consumi salgono Ronnie Penati, staccatosi dal ristorante di famiglia: Pierino Penati di Viganò Brianza, ha creato pochi anni fa l'originale Enoteca Penati con mescita, a Oggiono (Lc). Da subito con un'impostazione dedita a distinguersi dai soliti wine-bar, improntata a una non scontata proposta di vini, forgiata su di una precisa filosofia. Ce la racconta lo stesso Ronnie: “Quando creai il mio locale già i consumi di vino erano in calo; il mercato era saturo di etichette create per stupire, ma caratterizzate da scarsa bevibilità. Mi sono allora posto dei paletti: creare una carta improntata a vini più capaci di lasciarsi bere, e tipici: ossia riconoscibili quanto a provenienza e vitigno. Per raggiungere questo obiettivo ho individuato un prerequisito importante: la naturalità del vino. Che va oltre le etichette di biologico e biodinamico. I vini cosiddetti ‘naturali’, ossia basati in primo luogo sull'impiego dei lieviti indigeni per la loro fermentazione, oltreché su varietà autoctone, sono garanti della loro capacità di esprimere il territorio di provenienza; inoltre si mostrano più equilibrati, in quanto ‘non costruiti’, epperciò più beverini, ma al contempo più longevi, come il grande Montepulciano d'Abruzzo di Emidio Pepe per citarne uno. Chi impiega i lieviti propri, non può permettersi interventi chimici in vigna; inoltre è più prono all'impiego di varietà locali, da secoli acclimatate al terroir di origine. Da ciò scaturiscono anche vigne
che seguono una selezione naturale, più robuste e longeve: e si sa quanto le viti vecchie incidano su ricchezza e complessità di un vino. Anche i concimi, ulteriore fattore di omologazione, sono banditi da questi viticoltori. Tutto ciò conduce a vini più autentici, armonici, inediti e fruibili. Certamente ciò può condurre a dei gusti a cui non si è abituati, che vanno spiegati; ma poi quando li si cominciano ad apprezzare, l'innamoramento è assicurato. In fondo è questo che ricerca il consumatore evoluto: vini diversi, unici e lontani dall'omologazione. In questo modo, prodotti originali, espressivi della loro provenienza, più armonici e appetibili, favoriscono un maggior consumo di vino, che va a bilanciare gli effetti di una crisi che colpisce proprio i consumi della bevanda di Bacco. Non ultimo, queste tipologie di nettari si prestano di più anche agli abbinamenti gastronomici”. Ma, più nello specifico, come si compone la vostra carta e quali sono le aree viticole più rappresentate? Seguita Ronnie Penati: “In carta abbiamo stabilmente circa 300 referenze, di cui un 40% rosse, 35% bianche, 20% bollicine, il resto vini dolci e da dessert. Inizialmente, la ragione che la faceva da padrone era il Piemonte, realtà da sempre più legata alla tradizione, e non per moda, ma proprio per spontaneo approccio contadino alla vitivinicoltura. Il che fra l'altro dimostra come non sia vero che produrre vini 'naturali' sia così difficile o particolarmente costoso o rischioso, per il produttore. Oggi viticoltori che sposano questa filosofia ve n'è un po' ovunque, con particolari punte di eccellenza in Campania e nel Collio Sloveno, per esempio. Parlando di tipologie, vi è una leggera prevalenza di vini bianchi prodotti con questi approcci, questo perché la vinificazione in rosso di uve bianche – attraverso la macerazione delle loro bucce – è tra le principali tecniche adottate da questi vitivinicoltori: un vero e proprio nuovo modo di intendere questa tipologia. Per gli spumanti è un poco più complicato, pur se non mancano esempi di bollici-
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ne provenienti da vini base 'naturali'; non manca anche qualche caso estremo in cui anche il processo di rifermentazione è gestito con questi criteri. Abbiamo in carta un particolare Prosecco dell'azienda Costadilà, appartenente al gruppo Triple A, prodotto in modo del tutto naturale, fermentato sur lie, assolutamente non dosato: un ritorno ai gusti secchi che segna un’ulteriore tendenza dei consumatori”. Un ultimo aspetto, la gestione pratica della cantina e dell'offerta, per invogliare gli avventori a tornare con soddisfazione...: “Abbiamo la fortuna di avere un magnifico caveau sotterraneo, del 1500, completamente ristrutturato; dove abbiamo posto anche due tavoli per degustare, coi vini, anche una selezione di salumi particolari – eccezionale la bresaola – e dei migliori formaggi lombardi: quali Bitto e Taleggio. In questo ambiente dimorano anche le etichette più importanti. Nell’enoteca vera e propria, abbiamo un’ampia scaffalatura refrigerata a temperatura di conservazione, a vista, con le etichette suddivise per tipologia. Detto
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questo, grazie alla fidelizzazione della nostra clientela e alla bevibilità dei nostri vini, non necessitiamo - (in controtendenza rispetto a tutti gli altri casi analizzati in questa inchiesta, n.d.a.) di un servizio alla mescita. In genere da noi anche la coppia ordina tranquillamente una bottiglia, al limite poi se la può portare a casa, o lasciarla da noi per il giorno dopo! Inoltre, grazie a un servizio completo ma essenziale, riusciamo a non effettuare ricarichi supplementari, per cui il costo di una bottiglia consumata in loco piuttosto che asportata è il medesimo. A livello di costi, i nostri clienti si indirizzano su una fascia media di 15-20 Euro o poco più; fra parentesi un luogo comune farebbe pensare che i vini 'naturali' costino di più: non è affatto vero! Si può dire che hanno una forbice di prezzi inferiore, nel senso che sotto o sopra una certa soglia di costi non si trova quasi nulla, ma a parità di prezzo, si beve meglio rispetto ai vini da agricoltura convenzionale; e con 40 Euro si possono già assaggiare bottiglie molto importanti”.
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& p a r t n e r s
R O N O M A R K
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Stile in Weinstrasse
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di Alberto P. Schieppati La Cantina di Tramin / Termeno (www.cantinatramin.it), magicamente adagiata nel punto più suggestivo della Strada del vino, è la seconda cantina cooperativa dell’Alto Adige. Ha costruito la propria immagine lavorando assiduamente, in vigna e in cantina, sull’eccellenza dei vini bianchi aromatici, di cui il Gewürztraminer è il protagonista assoluto. Negli ultimi quindici anni, la cantina ha raggiunto una posizione di primo piano tra i produttori altoatesini, grazie anche alle scelte di Willi Stuerz, eletto miglior enologo d’Italia nel 2004.
Una cosa va subito detta: quando parliamo di Alto Adige, rischiamo di essere di parte. Il fatto di frequentare il Tirolo del sud da oltre trent’anni, mi fa dire che in quella terra, amministrativamente definita Provincia autonoma di Bolzano, le cose hanno un passo diverso, comunque difforme dall’andazzo generale del resto d’Italia. So di deludere molti “italianisti”, ma al tempo stesso credo di dare un contributo obiettivo al dibattito sul “sistema Italia”, in evidente fase di stallo. Qui si respira aria d’Europa: le strade sono curate, i villaggi e le città ben tenute, l’ospitalità intelligentemente segmentata, la cucina eccellente (nove stelle Michelin non sono certo poche, ma anche nella fascia media –tra buschenshanck e gasthof- non si scherza). Qualcuno, con un pizzico di polemica, dirà: bella forza, quei signori godono di finanziamenti importanti da parte dello Stato italiano. Vero: ma il fatto è che li sanno usare con intelligenza e senso civico, a differenza di quanto succede da altre parti. Il fascino della Weinstrasse, che si snoda dalla stretta di Salorno fino ad Appiano, non ha uguali: uscendo dall’autostrada del Brennero a Mezzocorona, la si può percorrere tutta fino alle porte di Bolzano. Tra vigne e meleti, la Strada del vino si dipana dolcemente e ricorda a chi la percorre ritmi antichi, fatti di soste intelligenti e di gradevoli scoperte, non solo enogastronomiche. È proprio qui –dove magiare bene e bere bene sono due aspetti della stessa visione del mondo- che il Progetto Tramin ha visto la luce, e il successo. La storia è lunga, risale al 1898, ma non partiremo da Adamo ed Eva e salteremo a piè pari quasi un secolo di vita della Cantina: è il 1989 l’anno chiave, che vede l’avvio del progetto “Selezione Terminum”, ovvero il primo intervento di promozione della qualità enologica mai avviato nei cento anni precedenti. La Selezione Terminum sarà destinata ad orientare la produzione verso valori di eccellenza e darà vita dal 1991 alle prime annate dei vini che successiva-
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mente verranno premiate nei più ambiti contesti internazionali. “Il nostro progetto –dice ad Artù il direttore marketing della Cantina, Wolfgang Klotz- è essenzialmente di comunicare la particolarità dei nostri vini, svelandone la complessità aromatica e consentendo di vivere in presa diretta la massima espressione delle potenzialità della terra e dell’impegno dell’azienda. Alla straordinaria concentrazione di profumi dei nostri vini corrisponde una felice combinazione di fattori, in cui l’intreccio fra condizioni naturali, climatiche e ambientali e creatività umana sono indistinguibili”. Saper comunicare attraverso i propri vini la ricchezza di un territorio (la superficie vitata è di circa 230 ettari) non è un fatto così semplice: la forza di Cantina Tramin è di saper riassumere in sé tutti i caratteri tipici della propria terra: la bellezza della natura e le sue suggestioni, la precisione creativa e produttiva verso una qualità costante, la capacità di fare sistema e di cooperare in modo efficace. La forza degli uomini fa il resto: un gruppo di persone determinate e appassionate ha portato cantina Tramin a produrre e commercializzare vini di
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altissimo livello, divenuti un simbolo nella migliore ristorazione e presso l’universo degli enoappassionati: nel 2010 il fatturato totale ha superato i 10 milioni di euro, a riprova di un forte consolidamento sul mercato. Quando si parla di uomini non si può fare a meno di citare Willi Stuerz, l’enologo e direttore tecnico della Cantina Tramin. Nelle sue parole e nelle sue scelte si identifica concretamente il bisogno di esprimere al meglio le qualità enologiche della terra di Tramin/Termeno, dosando con sapienza tecnologia e rispetto della terra. Si deve a Willi, e al management che lo ha sempre sostenuto, il consolidamento di quella “strategia dell’eccellenza” che ha condotto l’azienda ad ottenere grandi riconoscimenti internazionali. “Anche se la nostra azienda è molto estesa, dice Stuerz ad Artù, la struttura a rete diffusa ci consente di raggiungere agevolmente ogni filare, aspetto molto importante in quanto la vendemmia da noi viene rigorosamente eseguita a mano”, dice Stuerz, che aggiunge: “In cantina accompagniamo le uve senza alcuna forzatura, preservandone ad ogni passaggio la carica aromatica sviluppata durante la maturazione”. Con l’obiettivo di salvaguardare al massimo le uve nel loro percorso dalla vigna alla tavola, sono
stati fatti importanti investimenti: dal 2001 il nuovo centro di torchiatura sfrutta la forza di gravità e consente di lavorare le uve con massima cura e con estremo rispetto della materia prima. “Non c’è spazio per l’improvvisazione: sia in vigna che in cantina la cura e l’attenzione per i dettagli sono massime, affinché ogni singola bottiglia possa esprimere aromi ben definiti per tipologia e varietà di uve”, gli fa eco Wolfgang Klotz. La microzona di Tramin/Termeno gode dei favorevoli influssi del clima caldo mediterraneo provenienti dal lago di Garda, associati a notevoli sbalzi di temperatura fra il giorno e la notte. Proprio le forti escursioni termiche, dovute alla vicinanza con le montagne, sono tra gli elementi che imprimono eleganza e struttura ai vini della cantina: le temperature che si abbassano molto nelle notti di fine estate consentono alle viti, in piena fase di maturazione, di riposare senza la necessità di dover compensare lo stress del giorno. “Questo permette di conservare i profumi di base e di mantenere integra la carica olfattiva. Il terreno calcareo, poi, fa il resto e gioca un ruolo fondamentale nell’evoluzione degli aromi primari, conferendo spessore, corposità e struttura ai nostri grandi vini”, sottolinea Klotz. “L’elevata mineralità rende i vini, soprattutto i bianchi, freschi, agili e di piacevole bevibilità”. Siamo nella terra natale del Gewürztraminer, come indica anche il cartello segnaletico di Tramin/Termeno e, a dispetto degli alsaziani (che a loro volta ne rivendicano la paternità), il vitigno nasce qui e in questo ampio, smisurato fondovalle trova la sua mi-
Il progetto architettonico firmato dall’architetto Werner Tscholl è stato ultimato nella primavera 2010. L’idea da cui ha preso vita il progetto è la vite, nella sua morfologia e nella sua funzione sul territorio. La struttura è una scultura, capace di segnalare la presenza e la missione della cantina. Tscholl è nato a Bolzano nel 1955. A lui si deve anche la Cascina Mondadori, a fianco della sede centrale della casa editrice, a Segrate, e il Messner Mountain Museum del capoluogo altoatesino.
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gliore espressione (senza nulla togliere ai grandiosi omologhi francesi, comunque differenti per stile e impronta aromatica). Questa zona è considerata ideale per la produzione di vini bianchi aromatici, grazie alle temperature fresche che si alternano alla ottima esposizione solare e consentono vini molto concentrati e profumati. “Le sinfonie olfattive che caratterizzano ogni calice di Gewürztraminer sono frutto di una combinazione di fattori magistralmente gestiti, tanto che la cantina risulta essere la più premiata d’Italia per questo vitigno”, si legge nel folder predisposto per la stampa. Ma, premi e riconoscimenti a parte, crediamo sia corretto sostenere che la forza di Cantina Tramin risieda nella capacità di saper esprimere al meglio le potenzialità della propria terra: un “credo” totale che caratterizza tutta l’attività produttiva e si trasferisce chiaramente sulla qualità del prodotto finale. Girando per la cantina si respira questa atmosfera di passione, energia e coraggio, uno spirito di sfida che si evidenzia perfettamente nella gamma di prodotti proposti al mercato. Il Gewürztraminer è ovviamente il prodotto di punta della Cantina di Tramin: le uve provengono dalle zone di Termeno e Montagna, a un’altitudine compresa fra i 300 e i 450 metri. I migliori vigneti consacrati a questo vitigno hanno un colore giallo-rossastro con sfumature verdi al momento di massima maturazione. Qui il vino diventa ricco di texture setose, minerali e ricco di struttura: elegante e intenso il profumo di spezie, petali di rosa e frutti orientali. Insieme a Pinot Bianco, Chardonnay, Pinot grigio, Sauvignon e Muller Thurgau, il Gewürztraminer “base” occupa il suo spazio nella gamma di etichette monovitigno della linea “I Classici”. Della stessa linea fa parte anche il gioiello di casa, il Nussbaumer, il cru di Gewürztraminer le cui uve provengono dai vigneti di Sella, una frazione di Tramin che si estende fra i 350 e i 600 metri di altitudine. La resa è bassissima, 45 hl per ettaro: dopo la vendemmia le uve
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vengono pigiate e e macerate brevemente nel mosto per catturarne le tipiche note aromatiche. Dopo la pressatura il mosto viene lasciato fermentare a temperatura controllata in autoclavi di acciaio inox. Il Nussbaumer ha una tradizione di oltre 700 anni nella coltivazione della vigna ed è uno dei masi più antichi della zona di Tramin Termeno:la selezione Nussbaumer racchiude in sé tutte le caratteristiche di questa varietà di uve. Con un intenso e luminoso colre giallo-paglierino, il Nus sbaumer sprigiona note fragranti che rimandano a cannella, petali di rosa, frutti tropicali maturi. L’aroma è decisamente gradevole e delicatamente speziato. La gamma di Cantina Tramin spazia, come abbiamo visto, dai grandi bianchi ai rossi della tradizione alto-atesina, tra cui spicca la Schiava, il rosso più diffuso della provincia di Bolzano, pro posto in due varianti: Freisinger (il cru) e Hexenbichler (il base, ottimo). Ma vanno degustati anche Lagrein e
Blauburgunder (ribattezzato da Cantina Tramin con il nome italiano di pinot nero), Merlot e Caberet Sau vignon. Notevole anche il Gewürz traminer Vendemmia Tardiva, il Terminum, la cui annata 2007 è stata giudicata la migliore bottiglia dell’anno 2010 dalle principali guide del vino: una sintonia inaspettata, che conferma l’effettivo e oggettivo valore di questo straordinario prodotto.
Nella pagina di sinistra, Leo Tiefenthaler, presidente della Cantina Tramin. In basso a sinistra, l’elegante bottiglia di Nussbaumer, il Gewürztraminer prodotto dalla cantina. Morbido, elegante, profumato e aromatico, il bianco altoatesino per eccellenza ha conquistato migliaia di enoappassionati.
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Vila Joya Chef stellati a rapporto
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di Gianni Ventura
Qui a lato Chicco e Bobo Cerea insieme a Dieter Koschina alle prese con un tonno da 180 chili! Sopra: Mr. Saulius Karosas, sostenitore del gourmet festival “Tribute to Claudia” a Vila Joya e in alto la “Galletta di manioca e cappesante marinate con caviale alla Leis” del cuoco Henrique Leis, una stella Michelin in Algarve.
Eccoli, oltre cinquanta fra i cuochi più famosi al mondo, riuniti in Portogallo, in un esclusivo boutique hotel sull’Oceano atlantico, dominato dalla presenza di Dieter Koschina, il grande chef bistellato del ristorante dell’albergo. Un Festival gourmet in stile perfetto, dove chef stratosferici, fra cui i tristellati Cerea, di Vittorio a Brusaporto, lo svizzero Andrea Caminada di Schauenstein, Arnaud Donckele della Pinede di St. Tropez, Hans Van Wolde, del Beluga di Maastricht e decine di altri, hanno cuicnato piatti memorabili. Presente alla kermesse anche il grande catalano Santi Santamaria, purtroppo mancato prematuramente pochi giorni dopo.
“Siamo all’ultima curva, Sinthon dopo una lunga rincorsa durata una decina di giri supera Koerper sull’interno con una manovra al limite del regolamento, affianca il giovane Avillez e lo regola in volata andando a vincere la gara con cinque metri di distacco. Il brasiliano Leis e il tedesco Wurger, che avevano dato vita a un entusiasmante duello, finiscono malinconicamente nelle retrovie. Sul palco, durante la premiazione, la gioia del pilota francese, giunto alla sua prima affermazione del 2011, si mescola al rammarico dei due sconfitti relegati ai gradini meno nobili del podio”. Il racconto sembra preso in prestito dalla telecronaca di una gara del motomondiale, ma i nomi non sono certo tra i più famosi e conosciuti. Qui non ci sono Rossi e Lorenzo, Schumacher o Alonso, bensì un eterogeneo gruppo di cuochi portoghesi che, ormai da quattro anni a questa parte, si sfidano in una singolare gara di kart sul circuito lusitano di Lagos, nell’Algarve. Con tanto di pubblico (tutti addetti ai lavori in ambito gourmet, ovviamente), di premiazione e di buffet per i presenti. Poi, una volta terminata la gara, si rientra a Vila Joya, a una trentina di
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Qui sopra, da sinistra, Vicent Farge, chef del ristorante situato all’interno del Relais&Chateaux portoghese Fortaleza do Guincho e due assistenti ai fornelli . Sotto: Dieter Koschina e Santi Santamaria. Nella pagina accanto dall’alto: gli antipasti di Santi Santamaria sono pronti per uscire dalla cucina di Vila Joya e work-shop degustazione di jamon iberico, in compagnia di 5-Jotas “El Cortadores”.
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chilometri di distanza, nell’ambiente caldo e rilassante di un hotel che ospita nel mese di gennaio uno dei gourmet festival più divertenti e interessanti in Europa. Vila Joya si trova a una manciata di chilometri da Albufeira, una delle località turistiche portoghesi più rinomate soprattutto per gli amanti del golf, ed è un piccolo boutique hotel di sole venti stanze, magnificamente posizionato di fronte all’Oceano Atlantico. Si tratta di un albergo lussuoso e per pochi intimi, perfetto per una vacanza rilassante nel tepore quasi familiare offerto dalla famiglia Jung, gelosa proprietaria di questo angolo di paradiso. Discreto e circondato dalle ville di un quartiere esclusivo, l’hotel ospita anche la cucina portoghese più premiata dalla rossa Michelin, con le due stelle del cuoco di origine austriaca Dieter Koschina, ma non mancano una deliziosa Spa in stile thai orientale per chi vuole concedersi piacevoli momenti di relax, due piscine e una vasca idromassaggio open air, un giardino ricco di piante e fiori esotici e una spiaggia che nei mesi estivi ospita un frequentato chiringuito in stile Formentera. In mezzo a tutto questo, la dinamica e giovane proprietà dell’albergo ha ben pensato quattro anni fa di inventarsi un gourmet festival per ricordare la figura di Claudia Jung, che di Vila Joya è stata l’anima per molti anni. Ora, dopo la sua scomparsa, ad occuparsi della gestione dell’albergo in prima persona é la vulcanica figlia Joy Jung che, insieme al padre, ha creato un evento della durata di dieci giorni,
durante il quale si affacciano sulle coste dell’Algarve alcuni dei più celebrati cuochi a livello planetario. L’evento è giunto alla sua quarta edizione nel 2011, si intitola “A Tribute to Claudia” e in qualche modo rappresenta un unicum nel panorama dei festival internazionali dedicati alla gastronomia. Innanzitutto per la location decisamente straordinaria. Siamo in un piccolo hotel ai margini dell’Europa, che nel corso della stagione invernale (ma in Algarve le temperature in gennaio si mantengono sui venti gradi…) si apre a un evento celebrato nel ristorante di casa, in grado di ospitare al massimo ottanta coperti, con uno spiegamento di forze imponente
Lisbona
Albufeira
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per una manifestazione, tutto sommato, realizzata per pochi intimi. Tra curiosi, addetti ai lavori e appassionati che dopo pochi giorni si conoscono molto bene, perché si incrociano puntualmente a tavola o nel corso dei work-shop che animano il pomeriggio. Come il signor Saulius Karosas, imprenditore lituano che, oltre ad essere un fine gourmet e un bon vivant (una sera distribuiva ai presenti con nonchalance cucchiai di caviale Imperial accompagnato da una vigorosa vodka), partecipa finanziariamente alla realizzazione del festival. Lo sforzo organizzativo dello staff di Vila Joya è tale che quest’anno nello spazio di dieci giorni sono transitati dalle cucine ben 51 stelle Michelin presenti nelle vesti di amici del cuoco Dieter Koschina o, più semplicemente, impegnate nel costruire la cena del giorno, che rimane il momento celebrativo più importante della rassegna. Tanto per rendere l’idea del livello raggiunto in brevissimo tempo, vale la pena citare alcuni dei cuochi ospiti nel gennaio scorso. Tra i big abbiamo incontrato incontrato Sven Elverfeld (del ristorante Aqua di Wolfsburg), Enrico e Roberto Cerea (Da Vittorio, Brusaporto), Andreas Camina da (neo tristellato svizzero a
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Schauenstein), Santi Santamaria (del Can Fabes a Santceloni), i bistellati Arnaud Donckele (alla Pinede di Saint-Tropez), Hans Van Wolde (al ristorante Beluga a Maastricht) e Menno Post (di Ron Blaauw in Olanda). A fare da contorno prestigioso erano presenti anche il bostoniano emergente Kenneth Oringer (una delle “sorprese” più entusiasmanti della rassegna) e il private chef Alain Caron. Senza dimenticare le due sera-
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te celebrative che hanno visto la partecipazione di numerosi cuochi La prima con ospiti in cucina tutti i portoghesi stellati impegnati ognuno su una singola portata, la seconda con una parata di amici di Dieter Koschina provenienti soprattutto da Austria e Germania. Tra questi figuravano Heinz Winkler, Thomas Dorfer, Nils Henkel, Peter Knogl e Martin Klein. La singolarità della rassegna, poi, risiede non solo nella dimensione familiare che
solo a fine cena, quando l’intera brigata, con il cuoco ospite e Dieter Koschina in testa, fanno l’ingresso in sala per una passeggiata celebrativa tra i tavoli. Ed è anche questo il momento dove esce la personalità e il carattere dei cuochi. Quando i giochi sono fatti e si può ragionare più serenamente su quanto è appena accaduto. Lo svizzero Caminada mantiene il suo aplomb nonostante la giovane età e rimane serioso e professionale anche di fronte a un paio di brindisi, a differenza di un sorridente e divertito Kenneth Oringer, che vive la sua trasferta d’oltreoceano come un curioso viaggio in un mondo lontano anni luce dagli States. Più giocosi e trascinanti i Cerea, che si sono concessi la loro prima trasferta culinaria in terra portoghese, mentre è quasi timido e spaesato l’olandese Menno Post. Senza dimenticare la presenza impoNella pagina a lato: il piatto “Il piccione di Anjou con foie gras e grano” by Alain Caron e Menno Post. Sopra, in senso orario: il dolce di Santamaria, “Mini Banana avvolta in una foglia di albero di Banano e gelato alla vaniglia”, accanto il piatto “Foie Gras, frutto della passione, limone” del neo tristellato elvetico Andreas Caminada che sta per arrivare al tavolo… e Sven Elverfeld del ristorante Aqua di Wolfsburg nelle cucine di Vila Joya. Qui a lato il piatto “gamberi e tartare di vitello – dolce e speziato” di Sven Elverfeld.
consente un continuo interscambio e dialogo con i protagonisti della cucina (nel corso della giornata o nell’animato dopocena, con tanto di deejay o musica dal vivo), ma anche nello stile friendly e poco ingessato, come se ci si trovasse a un incontro tra amici per scambiare quattro chiacchiere. Al punto che capita spesso di intrufolarsi in cucina nel via vai di cuochi per vivere in presa diretta i momenti che caratterizzano tutte le fasi di costruzione di una cena. Dal briefing tra i camerieri, alla lezione del sommelier sui vini da servire al tavolo, dalla preparazione e degustazione da parte dello staff dei piatti che verranno serviti durante la serata alla disposizione dei tavoli, sino alla formazione di una “catena di montaggio” tra i cuochi ospiti e la brigata di cucina. È un “dietro le quinte” affascinante che rappresenta una danza ininterrotta, della durata di alcune ore, un susseguirsi di movimenti ritmici, di sincronismi che non ammettono errori o indecisioni. D’altro canto, basta il mal funzionamento di un singolo ingranaggio per bloccare una macchina ben oliata. Il momento di maggiore relax giunge
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Qui sotto il piatto “My Memories of Dubai ‘1999’”, sella di agnello e aromi orientali di Sven Elverfeld.
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nente e la simpatia istintiva (condita sempre da una innata verve polemica) del catalano Santi Santamaria, scomparso prematuramente poco più di un mese fa. Lo stile informale dell’evento è, come detto, certificato da un momento assolutamente unico come la gara di kart tra i cuochi, ma anche i tasting quotidiani diventano un’occasione per conoscere nuovi prodotti o degustare vini comodamente seduti sulle poltrone della terrazza, contemplando l’oceano. Gli sponsor, di assoluto prestigio, hanno
consentito di scoprire i segreti del prosciutto iberico 5-Jotas (presente un cortador che ha distribuito generosamente jamon ai presenti), delle praline di cioccolato del produttore portoghese Casa Grande, ma anche le peculiarità dello champagne Perrier Jouet e degli ottimi schnaps della distilleria austriaca Freihof, tra gli altri. A fine pasto, non mancava neppure il caffè, gentilmente offerto dalle hostess di Nespresso. Una serie di work shop che, in sostanza, hanno svolto la funzione di aperitivo prima della lunga lista di portate che caratterizzavano ogni cena. Tra i piatti che sono rimasti nella memoria vale la pena ricordare il geometrico “Foie gras, frutto della passione e limone” di Andreas Caminada, la classica (ma sempre vincente) Cappasanta nella conchiglia con tartufo di Alba proposta da Heinz Winkler, il “gamberetti e tartare di vitello, dolce e speziato” di Sven Elverfeld, la Cassolette di ricci di mare e aragosta dell’Atlantico con limone candito e scalogno di Kenneth Oringer, la Bouillabaisse di Thomas Bühner. Ma anche i fratelli Cerea hanno riscosso la loro dose di consensi con i Conchiglioni al ragù di mare e il Bombom di triglia con rucola, clorofilla, miele e mostarda. Enrico e Bobo si sono tolti perfino lo sfizio di una divagazione ittica in compagnia di Dieter Koschina, con il quale hanno partecipato in un clima goliardesco al “taglio” di un tonno dal mastodontico peso di 180 chili. Parte di questo ha poi contribuito alla realizzazione del primo piatto della serata, un delizioso hamburger di tonno accompagnato da un Perrier Jouet Blason Rosé.
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ALFONSO IACCARINO dalla parte delle radici
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di Jerry Bortolan Lo chef di Sant’Agata dei due golfi, sulla Penisola sorrentina, è uno dei pochi che possono davvero vantare una cucina a “chilometro zero”. In questa intervista esclusiva per Artù, Alfonso si apre a 360 gradi e racconta il suo punto di vista, sincero e obiettivo, sulle tendenze in atto. Dalla sua azienda agricola di Punta Campanella arriva la gran parte delle materie prime e degli ingredienti utilizzati per la sua grande cucina, recentemente protagonista di una memorabile cena al Gour met Festival di St. Moritz.
“La cucina è divina perché dà la possibilità di tradurre sensazioni cosi forti nello spazio limitato di un piatto, nella fuggevolezza di un assaggio. La cucina, come la musica, è un linguaggio universale”. Così scrive Alfonso Iaccarino nel suo recente volume (v. Artù n.42), quasi a voler sottolineare l’internazionalità della buona cucina: un fatto che travalica i confini nazionali e che assume una sembianza globale, universale appunto. Lasciamo per un momento da parte le considerazioni generali sulla cucina, sulla capacità di spesa della clientela, sulla crisi economica che pesa sulla ristorazione, e parliamo con Alfonso Iaccarino della globalizzazione che ha per protagonista il food, delle nuove realtà che si sono inserite a pieno titolo nella sfida della gastronomia globale: paesi finora estranei alla competizione, come il Brasile, il Perù, la Cina, oggi sembra-
no risvegliarsi da un grande sonno, si stanno espandendo, si muovono rapidamente, stanno invadendo un po’ tutti i campi. Alfonso Iaccarino ha attraversato il mondo gastronomico in tutte le sue forme, traghettando la “sua” cucina mediterranea nel mondo e persino in Asia, quando ancora non era esplosa la “movida” gastronomica globale. Per questo il “Don Alfonso” è famoso e conosciuto nell’universo dei gourmet internazionali: perché ha saputo diffondere e affermare il suo brand, che è innanzitutto espressione di una particolare capacità di scelta e utilizzo delle materie prime italiane, in un’armonia di gusto e sapori difficilmente riscontrabili in altre cucine... Ed ora il Don Alfonso è il primo ristorante italiano che dà il suo nome ad un brand che parte da Sant’Agata dei due Golfi, passa per Macao, l’affascinante isola del Mar della Cina, per arrivare a Mar rakech, in Marocco, dove nella cucina di uno dei più esclusivi hotel del pianeta, il Mamounia, Iaccarino ha tracciato la linea gastronomica da percorrere. Attraverso una nuvola di fumo azzurrino, lasciata dal suo sigaro
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“Puro Cubano” che ne incornicia il volto da gentiluomo d’altri tempi, Alfonso si lascia andare a valutazioni sul suo mondo che “sta vivendo un momento di grande confusione, stretto tra l’avanguardia dei giovani cuochi e la tradizione di quelli più maturi che, forse, non vogliono capire che molto è cambiato nelle cucine e nelle tradizioni culinarie del nostro paese. Io - afferma – che sono tra i vecchi del mio lavoro, ritengo di essere abbastanza moderno, perché non mi fermo all’oggi e, anzi, guardo sempre a quello che potrà succedere domani. La gente sta velocemente cambiando le proprie abitudini, le esigenze, i desideri. Mangiare bene non è più solo un fatto edonistico, ma coinvolge sempre più la cura del corpo e il rispetto della salute. Da trent’anni
Castellammare di Stabia Salerno
Sant’Agata sui Due Golfi
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mi sono dedicato a questo aspetto, mettendo al primo posti l’attività della mia azienda agricola, dove si sperimenta in continuazione e si mettono a confronto le varietà dei prodotti.”. Che ne pensi della cucina destrutturata,o della molecolare: cucine che volano, cucine in sospensione, idrogeno, spume, schiume, il fumo e così via. Forse parlarne in continuazione tiene vivo l’interesse per il settore ma, in concreto, che cosa vuol dire modernismo in cucina? “Per modernismo in cucina si intende tutto ciò che nasce dal movimento creato da Ferran Adria, mio grande amico, che stimo e ammiro moltissimo. La sua scuola ha offerto ottimi spunti per la creatività, lavorando sul fronte dell’ evoluzione ma generando, al tempo stesso, moltissime deviazioni, perché qualcuno si è fatto tentare anche in modo esagerato. Esagerato, sì, perché di Ferran Adria ce n’è uno solo: lui è arrivato a certe soluzioni in virtù di una grande esperienza, ed è stato cosi intelligente da cogliere il momento giusto per scardinare tutti i concetti della cucina tradizionale e uscire dalle solite proposte gastronomiche. Oggi, dopo una lunga ubriacatura, si coglie una inversione di tendenza: i direttori delle guide gastronomiche internazionali dichiarano che il cuoco deve essere soprattutto un artigiano, che deve usare materie prime eccellenti, che deve rispettare i singoli
gusti degli ingredienti eccetera. Noi lo avevamo previsto diversi anni fa e allora nessuno mise in risalto la nostra scelta. Non bisogna mai lasciare alle spalle la tradizione, la tua storia, la tua cultura, che ti servono sempre per volare più in alto. Non devi allontanarti dalle esigenze e dai gusti della gente. Dopo quarant’anni di esperienza, ho capito che un critico gastronomico, o un giornalista, possono scrivere male o bene di te ma, alla fine, è il cliente la componente più importante per il successo della tua attività. Inoltre, oggi, bisogna seguire in modo ferreo regole economiche chiare, perché si può essere i più bravi del mondo ma, se non si riesce a coordinare tutto il resto dell’azienda e a far quadrare i conti, si è letteralmente finiti.”. Che cosa consideri sbagliato nel mondo gastronomico e, in generale, nell’offerta di ristorazione? “Penso che l’arroganza e la presunzione siano elementi molto pericolosi. In genere, il cuoco arrogante pensa di essere in assoluto il numero uno. Pensa che tutto quello che fa lui è giusto e tutto quello che fanno gli altri è sbagliato. È un atteggiamento da evitare. Ai giovani consiglio di avere molta modestia, perché certe sensibilità, certe attitudini nascono con gli anni. È come per un pilota di formula uno: c’è l’eccezione, c’è il fuoriclasse, ma un buon pilota di formula uno si forma con l’esperienza che riesce sempre a migliorare le sue performance.In molti casi, parecchi giovani si sono bruciati perché hanno avuto subito molto credito, troppa importanza”.
amici. Significa che siamo diventati globali anche nel modo di fare cucina fra le mura domestiche: e questo, in un certo senso, è già futuro”. Sono definitivamente cadute le barriere protezionistiche come elemento culturale della nostra storia, ma cosa si sostituirà a questa fase? “Siamo in un momento di stallo. Dovuto anche alle carenze del nostro Paese che non ha saputo promuovere, attraverso la gastronomia, una politica di sviluppo della migliore industria alimentare e dell’utilizzo intelligente delle materie prime. Materie prime nelle quali il nostro Paese è decisamente unico. Non abbiamo avuto il supporto istituzionale e governativo che, viceversa, hanno avuto gli spagnoli, gli inglesi, i francesi. Loro sono superdifesi e valorizzati, basti vedere cosa è successo ultimamente con le stelle Michelin a Tokyo. Prima la Michelin era la tradizione francese, ora, si sta globalizzando e diventando un fatto mondiale”. La Michelin ha globalizzato l’informazione, ma non la cucina. Secondo te, chi è oggi il Michelangelo della cucina? “Per la perfezione esasperata penso a
Ma in che cosa consiste il futuro della gastronomia? “Mi pare un po’ difficile da spiegare. Venti anni fa sostenevo che si stesse andando verso una multietnia della cucina e mi dicevano che ero un visionario, un pazzo. Oggi, basta girare per le strade delle città del nostro Paese e vedere quanti ristoranti etnici, cinesi, indiani, turchi, giapponesi, ci sono. La gente oggi fa il sushi a casa e invita gli
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Joel Robuchon: con il gruppo di professionisti che lo seguono e gli stanno accanto, è sicuramente il Michelangelo della cucina. Il mondo della gastronomia si sta allargando velocemente, il tam tam delle cucine ci informa in continuazione di “new-entry”, nuove tendenze, ma la creatività è stata decisamente spagnola: non avevano nulla e l’hanno saputo inventare alla grande. Noi, che avevamo tutto, ci siamo seduti sulla convinzione che la cucina italiana fosse unica, dando per scontato che tutto andasse sempre avanti così… Indubbiamente abbiamo un grande vantaggio, perché è stato dimostrato scientificamente che la cucina mediterranea è la più sana, la più onesta e la più qualitativa del mondo. Non a caso l’Unesco ha definito la cucina mediterranea come patrimonio dell’umanità”. Cerchiamo allora di capire questa impasse nella cucina italiana. Tu hai detto una cosa giustissima: noi pensavamo di essere tutelati dalla nostra inventiva, dalla nostra capacità di realizzare un grande piatto con un pomodoro e un po’ di pasta. È così? “Per fare una grande cucina. il sistema richiede di essere anche imprenditore. Un cuoco di qualità deve avere sempre una squadra, una equipe nella quale saper accostare ed unire caratteri, competenze, differenze culturali: la muniziosità e l’applicazione al lavo-
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ro del giapponese è molto diversa da quella del napoletano. L’esperienza ti fa capire in che modo è possibile assemblare tutte queste storie di vita e questi diversi modi di pensare, creando nuove e inedite sinergie. Una delle più grosse soddisfazioni della mia vita è di aver fatto dormire un israeliano e un palestinese nella stessa stanza per sette mesi mentre lavoravano per me. Il grande professionista deve essere completo e arricchirsi di queste esperienze che permettono di capire a fondo il cliente. In Italia abbiamo peccato di presunzione, trascurando certi aspetti del sistema che nel frattempo è diventato globale”. La cucina italiana ha un futuro solido? “Sicuramente sì, perché in alcune cose è unica. Ci sono prodotti che esistono solo in Italia, come il tartufo bianco e la mozzarella di bufala”. Però, non si può conquistare il mondo con il tartufo che è un prodotto stagionale, raro e carissimo, con la mozzarella probabilmente sì e già lo hanno fatto.- “Per futuro della cucina italiana intendo la realizzazione di una moderna “fusion”, non quella incomprensibile, ma quella che serve ad aggiustare, a migliorare, a reinterpretare”. Come mai Iaccarino, che è uno dei padri della cucina mediterranea, non viene citato tra quegli chef che vengono considerati la nuova espressio-
ne della cucina italiana. Che cosa vuol dire essere la nuova cucina italiana? “A volte quando uno pensa le cose prima degli altri, forse sbaglia i tempi. Quelli che ti sono intorno ti capiscono solo successivamente. Non è presunzione ma vedo che, oggi, si sta verificando tutto quello che io ho pensato, che ho sempre raccontato, che ho cercato di creare, di inventare, di studiare: la cantina, l’azienda agricola di qualità, l’ospitalità, il rispetto del cliente.” “In cucina non ci sono regole. I grandi del passato, per esempio, avevano a disposizione materie prime diverse, grassi diversi, attrezzature tecnologiche diverse. Trenta anni fa l’olio utilizzato era ben lontano dall’attuale, di altissima qualità. Per cui si usava tantissima cipolla, aglio abbondante, peperoncino in eccesso: tutte cose inaccettabili per il gusto di oggi. Il mio primo impatto è stato con i vecchi gastronomi, abituati allo stufato, al brasato, allo stracotto. Oggi, mangiare uno stracotto vuol dire non digerirlo più per una settimana. Al contrario, della carne cotta in una maniera veloce, al sangue, ben sfilettata significa avere una buona digeribilità. Quando si va al ristorante si finisce sempre per mangiare più del solito e la verifica avviene la mattina dopo: se ci si sveglia in forma, senza problemi di digestione, significa che il ristorante era serio, che le materie prime erano quelle giuste e che aveva-
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protagonisti
no cucinato nella maniera più corretta possibile. Per me, è questa la nuova cucina italiana, non quella delle gelatine, delle schiume. Noi abbiamo grandi cuochi: sono valutati correttamente o supervalutati? “Credo di essere il meno indicato a dare una risposta anche se in questo paese non si lavora per l’interesse generale, perche gli interessi di una regione vanno contro gli interessi di un’altra. Questo è un paese dove si difende l’amico degli amici ma non si vanno a guardare i risultati e la professionalità. Noi abbiamo avuto tante persone che hanno fatto tantissimo per la cucina italiana e sono state abbandonate. Continuo a ripetere che Marchesi non ha avuto quella importanza che meritava per il valore, la cultura e l’impegno professionale. Ha creato uno stile, una scuola. È stato un capostipite. Dove apriresti un altro ristorante nel mondo? “In questo momento mi piacerebbe Londra e poi anche gli Stati Uniti per-
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ché è una realtà che mi appassiona”. Sei pronto ad affrontare nuove fatiche? “Sì, mi sento di farlo tranquillamente, perche insieme a mia moglie Livia, ai miei figli Mario e Ernesto, formiamo un poker vincente dove ognuno di noi dà il massimo per offrire il meglio ai nostri clienti”. Quali segreti del mestiere hai insegnato ad Ernesto? In molti casi è Ernesto che insegna a me. Io metto l’esperienza, ma lui è vincente sotto l’aspetto culturale. Oltre ad avere entrambi una grande passione per la cucina, in me forse prevale la fantasia creativa ma lui è sicuramente più perfezionista di me: Ernesto non accetta in alcun modo l’errore, l’approssimazione: se da una cucina escono mille piatti, lui li assaggia tutti e mille. Nel mio caso, può darsi che mi dimentichi, mi distragga, forse è una questione di età. Lui è più “teutonico” di me, io sono molto più napoletano Verace.
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TRADIZIONE DI ECCELLENZA
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E se il patron fa il
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di Alberto P. Schieppati Un altro caso di locale “tutto carne” conferma la tendenza in atto nella ristorazione a tema. Dopo anni di vuoto, la cucina a base carne sta vivendo il suo grande momento, soprattutto a Milano. Molte le aperture, tra cui Al Bechée, nella zona di Porta Genova, dove un grande commerciante di carni ha aperto il suo primo punto-vendita, con l’obiettivo di raggiungere il break even entro tre anni. Il segreto del successo? Carne di alta qualità, ambiente e servizio cordiale, vini con il giusto ricarico. E conto finale molto, molto ragionevole. A quanti si lamentavano per l’assenza, nelle grandi città, di steak house ortodosse, di impronta perlopiù nordamericana, una prima risposta è arrivata, due anni fa, dall’apertura di Roadhouse grill: la catena “tutto carne” della
famiglia Cremonini si è rivelata un successo di notevoli proporzioni, che ha letteralmente conquistato la clientela carnivora, grazie a location strategiche nella cintura milanese. Ma anche la risposta “indipendente”, fuori da logiche di catena o di franchising, non si è fatta attendere: dopo un anno di rodaggio, il 2010 ha visto consolidarsi un’insegna particolare, adatta a una “griglieria” in piena regola che, grazie anche a una cantina intelligente, è entrata nelle corde di una clientela come quella milanese, alla ricerca di ambienti caratterizzati da un eccellente rapporto fra prezzo e qualità, del food ma anche del beverage. È il caso del Bechée (che in dialetto lombardo, direi brianzolo, significa macellaio), in Corso Genova 25, all’angolo con una vietta che porta a quella che, un tempo, era definita la “Casbah” di Milano: un arcipelago di stradine fra la Darsena e la cerchia dei Navigli nelle quali, fino agli
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anni settanta, prosperava la piccola malavita. Oggi è un quartiere trendy, pieno di locali più o meno modaioli: a poche centinaia di metri da qui ha aperto la sua boutique gastronomica Fiorella Missoni, la “fiduciaria” lombarda del movimento “i sovversivi del gusto”, creato dallo chef Adriano Liloni (primo premio a Parigi per la miglior pubblicazione enogastronomica del 2010). Ma non facciamola lunga: El Bechée è un bel ristorante, con molto legno a riscaldare l’ambiente, completamente insonorizzato, per una cinquantina di coperti, nel quale la regina dell’offerta è la carne. Frollata, ben marezzata, cruda in tartare, alla griglia su fuoco a legna, proposta nei tagli migliori e più succulenti, la carne rossa di manzo –per essere precisi- è il perno principale del menù. Ma non mancano polli, agnello, costine di maiale e quant’altro appartiene a pieno titolo al pianeta carne. E non potrebbe essere altrimenti, visto che il patron del ristorante è Marco Marchiante, 42 anni, commerciante e importatore di carni provenienti da molte parti del mondo (ma anche da allevamenti italiani nelle zone vocate), autore di una selezione qualitativa senza uguali, che lo ha portato ad essere il fornitore di gran parte della ristorazione milanese di qualità, vale a dire di quei clienti che, ironia della sorte, sono anche i suoi principali competitor sulla piazza cittadina. “L’apertura del Bechée, avvenuta nel febbraio 2009 –ci dice Marchiante-, è nata sulla base di un’intuizione, che si sta rivelando vincente: quella di poter offrire alla clientela preparazioni di carne di alta qualità, proposta con un ricarico corretto e ragionevole. È chiaro che l’attività imprenditoriale di famiglia, da anni nel settore, ci ha aiutato non poco”. “Ci interessava –gli fa eco Massimiliano Perrone, quarantenne socio del patron- seguire dal vivo le reali problematiche più attuali del comparto della ristorazione, per definire al meglio una strategia che fosse per-
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cepita come coerente dalla nostra clientela”. E il successo, a due anni dall’apertura, non ha tardato, visto che il Bechée è sempre pieno: il target medio è sui trenta-trentacinque anni, giovani coppie ma anche gruppi di amici che riempiono le loro serate (il ristorante è aperto solo per cena, tutti i giorni) all’insegna di un’esperienza sicuramente memorabile. Coordina la sala il bravo Silverio Stefanini, maitre di grande esperienza, di quelli il cui sguardo è attento ad ogni esigenza della clientela, aiutato da Marco Milesi, 24 anni, di Bellagio (esperienze di sala in Australia, al “Grappa” di Sidney) e da una ragazza molto efficiente. “Le carni utilizzate arrivano da tutta Europa, dice Marchiante, con la Germania in pole position: la scottona della Foresta Nera (allevata nello Schwartzwald ma anche in Baviera), per esempio, è molto apprezzata per la sua tenerezza, che deriva da una frollatura adeguata”. Ma anche Nebraska, Texas, Australia sono mercati dai quali vengono importati tagli importanti: “attenzione, però, agli amanti delle carni italiane El Bechée risponde concretamente, offendo tagli selezionati, garantiti dal Consorzio delle 5 R, ovvero le cinque razze più importanti allevate nel nostro paese: Marchigiana, Podolica, Chianina, Romagnola, Maremmana”. La carta del Bechée è ampia ma non smisurata, il che consente di non rischiare che alcune proposte restino, appunto, “sulla carta” e, quindi, invendute: il ristorante al passo coi tempi è quello che non tiene in menù proposte desuete o piatti che non vanno, ma che è capace di concentrare l’offerta in poche voci di sicura presa e gradimento, proposte al prezzo corretto. Il menù è diviso essenzialmente in 5 “zone”: i salumi, le insalatone (di pollo disossato o di controfiletto alla griglia, entrambi complementari a lattughino, radicchio di Treviso, patate al vapore, pomodoro), le tagliate di Angus proposte in dodici differenti versioni, la “griglia” e gli “hamburger”. È in questi due segmenti che si svela l’anima più verace e schietta del ristorante: alla griglia, notevoli e tenerissi-
me la costata (19,80 euro), la entraña (succulento taglio bovino del Centro America, 16, 50 euro), le costine 5 dita, la catalana del Bechée, il filetto di fassone con polenta gialla alla griglia. Ma la la Fiorentina di scottona tedesca, proposta per due persone a 52, 50 euro, con un peso mediamente intorno ai 1.300 grammi, è il piatto più
gettonato. Ad un prezzo superiore del 10% a persona, c’è in alternativa la Fiorentina di manzo del Nebraska, anch’essa con una frollatura di almeno 24 giorni. Servite già scaloppate, ma con il loro grande osso al centro del vassoio, sono abbinate a verdure fresche grigliate e –come la gran parte dei piatti del Bechée- a patatine fritte sotti-
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lissime e croccanti, preparate durante tutto il servizio dalla brigata di cucina, guidata da Eugenio Cozza. “Le patatine meriterebbero un capitolo a sé”, ci dice Giacomo Di Francesco, un cliente che accetta di dichiarare il suo nome. E aggiunge: “Le patate del Bechée varrebbero da sole la visita, considerato anche che vengono offerte gratuitamente, come l’acqua minerale e il coperto!”: Sarà anche per questa scelta “politica” dei gestori che il conto finale per l’ospite difficilmente supera i quaranta euro a testa, ovviamente variabile a seconda del vino ordinato e della quantità di carne consumata. Anche la voce “hamburger” è ricca e variegata: ad un prezzo intorno ai sedici euro il cliente può gustare duecento grammi di carne trita di Angus (australiano) declinati anche nelle versioni hamburger classico e formaggioburger, affiancati da polloburger e speckburger. La carta dei vini, lontana da inutili orpelli, è costruita sulla base delle esigenze di un cliente moderno, che vuole innanzitutto semplificazione: divisa in “bianchi leggeri”, “rossi leggeri”, “bianchi strutturati”, suggerisce 55 etichette tra i 15 e i 20 euro a bottiglia. Per la clientela più esigente, c’è la carta dei rossi “di corpo e struttura” e dei”grandi vini rossi”: una trentina di grandi etichette, con Frescobaldi, Or nellaia, Antinori in pole position. Ma, anche in questo caso, con un mark up di rara onestà, che dovrebbe essere preso da
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esempio da tanti ristoratori che, senza nemmeno pensarci, moltiplicano per tre il valore della bottiglia e lo mettono in carta a prezzi esagerati. Con un risultato assicurato: che i clienti berranno acqua.
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DODICI APOSTOLI Quanto vale l’emozione? 56
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di Alberto P. Schieppati Il ristorante di Giorgio Gioco e della sua famiglia resta un punto fermo della ristorazione veronese e italiana. Luogo culto, da cui sono passati i più grandi intellettuali della storia italiana, il locale propone cucina di tradizione e grandi vini veronesi, nel solco di una saga familiare che vive grazie alla continuità espressa dal figlio Antonio, che accoglie e guida gli ospiti.
Verona è sempre stata, per quanto riguarda l’offerta di ristorazione, una città-laboratorio: qui è nata la grandiosa esperienza di alta cucina del Desco, qui le Arche hanno fatto storia, rivoluzionando le tradizioni e personalizzandole, qui si è sviluppata la formula unica del Pompiere, la trattoria che ha valorizzato i grandi formaggi e la salumeria regionale, qui Giancarlo Perbellini ha lasciato la sua impronta creando forme di ristorazione moderna (come il Du de cope, la migliore pizza della città) che si affiancassero informalmente alla bistellata struttura originaria di Isola Rizza. Verona città gourmet, nella cui area si sono sviluppate cucine memorabili, che hanno attirato la migliore critica gastronomica da tutto il mondo: Bruno Barbieri, fino al 2010 a Villa del Quar, è stato un grande esempio, “fuori dal coro”, di offerta gastronomica di assoluta raffinatezza. Come non ricordare il suo amore per l’esotismo e per l’incredibile versatilità delle materie prime? Ma Verona, anche, città senza fronzoli, lontana da voli pindarici fine a se stessi. Concreta, essenziale, fascinosa. Verona fedele alla sua storia, come nel
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Giorgio Gioco, classe 1924, è l’anima di un locale unico, ricco di storia, frequentato da “un prestigioso campionario di personaggi”.
caso di Castelvecchio che, nei secoli fedele, propone bolliti di effettiva e autentica matrice locale. E attira frotte di turisti del cibo. O nel caso della Bottega del Vino di Vicolo Scudo di Francia, dove Severino Barzan inventò la sua formula, capace di fare proseliti a Manhattan e di riattualizzarsi ora, con la gestione di Stefano Ganzerla (l’ex patron del Pompiere) e la cucina del bravo Ferruccio Girelli Consolaro. Che lungo preambolo, dirà qualcuno. Ma ci voleva, perché Verona è un crocevia importante di stili differenti, un mix di tradizione e innovazione, un luogo di piacere autentico ma anche di raffinatezza e di stile. Uno stile che vede spesso nella famiglia uno dei suoi “fondamentali”, il valore vincente, capace di interpretare e trasmettere formule antiche che riescono ad attualizzarsi ed a rispondere egregiamente alla domanda della nuova clientela. Il Ristorante Dodici Apostoli (www.12apostoli.it) è l’e-
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sempio concreto di questa “fedeltà nella continuità”. Non opportunamente valutato dalle guide gastronomiche, che vantano spocchiosamente di essere concentrate sulle novità (salvo poi citare ogni anno per lo più le stesse insegne, talvolta anche quelle che hanno chiuso i battenti o cambiato gestione: poveri noi), il locale di Corticella San Marco 3, nel cuore del centro storico della città, è una vera e propria istituzione. Cercherò di spiegarne il perché, anticipando che sono molto sensibile verso i locali che comunicano con forza il valore del tempo, che superano indenni le prove più dure, che antepongono –grazie a chi li conduce con sapienza da decenni- gli aspetti culturali al facile business. Questi luoghi mi emozionano, per loro provo un rispetto che è, in un certo senso, sacro. Provo questo rispetto per uomini come Gualtiero Marchesi, Aimo Moroni, Gianluigi Morini. L’ho provato per personaggi come il giornalista Massimo Alberini. Lo provo, ancora, per un uomo che si chiama Giorgio Gioco. Quasi trent’anni fa, nel 1984, la Guida Michelin gli assegnava due stelle, ponendolo ai vertici della ristorazione non solo veronese ma addirittura nazionale. Nell’edizione del 1989 ne troviamo soltanto una: ma della stelletta non abbiamo più traccia dal 2002. E, anno dopo anno, l’interesse della mitica Michelin scema (nel senso che diminuisce vistosamente), fino a non citare più il locale dall’edizione 2008 in avanti. Nessuna polemica, per carità! Ma, essendomi capitato nel recente passato di visitare recentemente il locale e di gustarne la cucina e di “respirarne” l’atmosfera, vorrei esprimere il mio sconcerto per la leggerezza con cui si avvalorano certe decisioni. Stop. E qui ci fermiamo davvero con le polemiche, anche perché l’Italia è un paese strano, persino un po’ ipocrita, che ama intravedere liason e amicizie anche quando i fatti sono (come diceva il giornalista Lamberto Sechi) “separati dalle opinioni”. E a me interessano i fatti. Ma andiamo avanti. Ho incontrato Giorgio Gioco nel suo locale nell’arco degli ultimi vent’anni rare volte, spesso in occa-
sione di eventi ai quali ero invitato da produttori vinicoli, durante il periodo del Vinitaly. Ci siamo sempre salutati con rispetto, ma non siamo mai stati amici: nel 2010, dopo anni di assenza, sono ritornato al Dodici Apostoli, ospite di amici gourmet veronesi. Accolto dal figlio Antonio con professionalità, ho avuto l’opportunità di verificare il livello di un’offerta certo classica e tradizionale, ma forse proprio per questo di grande attualità: una vera riscoperta, in cui
è adolescente, il suo approccio è vitale, diretto, intenso. Non si possono scindere il valore e la statutarietà del personaggio dalla storia del locale, dalle illustri frequentazioni, dalla correttezza della cucina. Dodici Apostoli è un mix di elementi diversi che, combinati, fanno del ristorante una sorta di cenacolo, una “casa della cultura” prestigiosa e raffinata, un luogo unico per lo spessore e la ricchezza di memoria. Di qui passavano Enzo Biagi e Indro Mon-
la proposta complessiva di Giorgio Gioco (e della moglie Iole e del figlio Antonio con la moglie Simonetta) è coprotagonista della scena, grazie a una cucina di fedele osservanza veronese e ad un’atmosfera decisamente d’altri tempi. Giorgio Gioco, non è un caso, è nato a Verona il 26 aprile del 1924: tra pochi giorni festeggerà il suo ottantasettesimo compleanno ma la sua verve
tanelli, Giovanni Spadolini e Mario Rigoni Stern, Maria Callas e Beniamino Gigli, Luca Goldoni e Gianni Brera: una galleria di personaggi interminabile, di cui la cantina storica ricorda il passaggio con bottiglie dall’etichetta personalizzata. Un rito, questo, che continua ancora oggi –anche in questi tempi tristi di veline e gossip- e che viene riservato ai “grandi” della cultura e del gior-
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nalismo, protagonisti prestigiosi di iniziative di valore come il premio letterario Dodici Apostoli, nato nel 1968 da un’idea di Orio Vergani. La cucina del Dodici Apostoli è assolutamente speculare alla storia del locale: “la buona cucina, dice Gioco nell’introduzione al suo volume, uscito nel 2010, intitolato ‘Una vita in Gioco’, è un indice di civiltà, non vale meno di un bel paesaggio o di un’opera d’arte”. Per chi crede che sia davvero così, entrare nel locale di Corticella San Marco equivale ad intraprendere un viaggio nei sapori della tradizione veronese, espressa da piatti di grande aderenza al territorio. Piatti che ostinatamente hanno resistito ad ogni tentativo di “rivisitazione”, come qualcuno usa dire oggi, e che si esprimono nella pienezza delle tradizioni più antiche. Senza se e senza ma. Piatti come la terrina di radicchio rosso veronese ai formaggi di malga, o la salsa con le acciughe, prediletta dal
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presidente Pertini. Portate semplici, come le tagliatelle fresche con i carciofi, la pasta e fagioli, risi e bisi, il risotto con asparagi, o il risotto col tastasàl, ovvero con carne di maiale impastata con sale grosso e spezie e utilizzata per preparare il salame, i tortelli e tutte le paste fresche ripiene. La forza della cucina di Giorgio Gioco e, oggi, della sua brigata è proprio quella di non avere mai accettato alcun tipo di contaminazione, neppure quella – secondo alcuni inevitabile, per altri necessaria, per altri ancora il nemico assolutodella cucina cosiddetta creativa. I Dodici Apostoli sembrano essere passati del tutto indenni da ogni influenza “francesizzante”, non hanno mai ammiccato alla nouvelle couisine, hanno sempre messo al primo posto la cultura delle materie prime e la personalità dei grandi vini veronesi, dall’Amarone ai Valpolicella, di cui la suggestiva cantina –monumento nazionale, da visitare in religioso silenzio- è straricca. Al riparo da tentazioni avveniristiche, hanno saputo insistere sulla concretezza della tradizione e, con la complicità fondamentale della cultura e del rispetto per la storia, i Gioco hanno caparbiamente tenuto botta allo scorrere del tempo. E, con la presenza di Antonio (classe 1957), in sala, hanno visto l’affermazione delle generazioni più giovani, figlie di un sapere trasmesso giorno dopo giorno e fatto di esperienze di vita contrassegnate da frequentazioni di altissimo rango… Avranno perso la stella Michelin, ma hanno conquistato un posto (e che posto) nella geografia dello stile, dei luoghi inossidabili della memoria e della cultura. Scusate se è poco.
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BUONISSIMO a Brescia Degustare prima di acquistare 62
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di Luisa Contri Nasce a Brescia il primo “Arcipelago del gusto”, un emporio gastronomico voluto da Valter Martini, imprenditore trentino nel settore della grande distribuzione. Vero e proprio gourmet store, l’ampio locale punta sulla vendita di prodotti artigianali di qualità, proposti anche in degustazione.
Gustare e degustare, acquistare e informarsi, imparare a cucinare e prendersi una pausa di relax. Questo ed altro è quanto offre ai bresciani e ai visitatori della «Leonessa d’Italia» Buonissimo|L’Arcipelago del gusto, l’innovativo gourmet store che ha aperto i battenti il 30 dicembre scorso sul centralissimo corso Mameli al civico 23, a due passi da piazza della Loggia, e che si sta affermando come punto d’incontro dei buongustai della città. Nel primo mese dall’apertura ha emesso mediamente 1.500 scontrini al giorno con punte di 2.450 scontrini. Con i suoi 3.600 mq distribuiti su quattro livelli, il Buonissimo|L’Arcipelago del gusto di Brescia è al contempo un moderno e raffinato negozio ove acquistare poco meno di 4 mila prodotti agroalimentari d’eccellenza bresciani, trentini e nazionali e un accogliente e funzionale locale ove consumarli presso il ristorante al piano interrato oppure presso l’area di degustazione con servizio ai tavoli del primo piano o ancora presso il caffè letterario del secondo piano. Il tutto a prezzi «da supermercato».
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Non per niente, questo nuovo concept, destinato a replicarsi nel centro storico di almeno altre due città del Nord-Est entro il 2012, è stato ideato da un imprenditore del commercio moderno: Valter Martini, titolare di una piccola catena di supermercati a insegna Sisa in provincia di Trento, con la passione per la ricerca di specialità agroalimentari tipiche di produzione artigianale. Una passione condivisa con i figli Davide e Tommaso e che da sei anni si è trasformata nel presupposto per lanciare un nuovo concept, aiutati dal fiuto per le specialità anche di Giuseppe Bertuzzi. «Il Buonissimo di Brescia», spiega ad Artù Martini, «è l’evoluzione di un format da noi concepito nel 2000 e che conta due punti vendita, il capostipite
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a Rovereto e il secondo a San Benedetto del Tronto. Entrambi, in una superficie di 800 mq, propongono prodotti tipici locali sia artigianali che industriali e dispongono di un’area con sedute ove degustarli e ospitare eventi legati al cibo, ma anche culturali». Rispetto ai Buonissimo dei primi anni 2000, il gourmet store di Brescia è, in effetti, molto più focalizzato sulla somministrazione. Ospita sotto lo stesso tetto, accanto ai diversi reparti a vendita assistita o self service (ortofrutta, carni, pesce, salumi, formaggi, surgelati, pane, drogheria alimentare, enoteca, prodotti naturali per la cura della persona, detergenti ecofriendly, casalinghi e libri) allestiti come altrettante isole di un arcipelago, un ristorante vero e proprio con 80 sedute al piano
Buonissimo
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interrato, l’area di degustazione con servizio ai tavoli per una trentina di sedute al primo piano e ancora il caffè letterario con un’altra trentina di sedute al secondo piano e l’area per i corsi di cucina. «Ampi spazi per le aree di somministrazione», evidenzia Martini, «avranno anche i due Buonissimo che andremo a realizzare insieme a partner privati nel centro storico di altrettante città del Nord-Est. Uno avrà una superficie di poco inferiore rispetto allo store di Brescia. Il secondo disporrà di 1.800 mq complessivi. Ove le superfici saranno più contenute, ridimensioneremo i banchi ed eventualmente qualche reparto, ma non il caffè letterario gli spazi per la ristorazione. Proprio questi ultimi, d’altronde, a Brescia hanno avuto fin da subito performance superiori alle previsioni. Il caffè letterario, a un mese dall’apertura, generava più del 10% degli incassi contro il 5% messo a budget. Ne abbiamo quindi prontamente raddoppiato le sedute. La ristorazione sviluppava oltre il 25% degli incassi, quando avevamo stimato potesse contribuire per un 12-13%». Sempre in considerazione della sostenuta domanda di servizi di sommini-
Spiccata vocazione gourmet per il format innovativo di Buonissimo. “Il cliente deve essere libero di scegliere, senza obblighi né condizionamenti. E contando una vasta gamma di proposte”, dice Martini. Che aggiunge: “Stiamo pensando anche di estendere l’orario di apertura fino alle 23” .
strazione, Martini sta valutando la possibilità di ritardare l’orario di chiusura serale dello store di Brescia (il piano interrato, quello che ospita il ristorante fin da subito è aperto fino alle 23,00. «L’idea», spiega Martini, «è tenere aperta anche l’area degustazione al primo piano fino alle 22,00». Sempre se paragonati ai primi Buonis-
Quattro piani di prelibatezze La realizzazione, all’interno del palazzo del XVIII secolo di corso Mameli 23, del Buonissimo|L’Arcipelago del gusto di Brescia ha richiesto ai suoi ideatori, il gruppo Martini di Rovereto, un investimento di circa 4 milioni di euro, oltre un anno e mezzo di lavoro di scouting per mettere a punto l’assortimento e poco meno di cinque mesi per la ristrutturazione dello stabile che lo ospita. Stabile che l’amministrazione comunale di Brescia ha messo a disposizione dei Martini, dopo averlo acquistato, a patto che il gruppo Martini lo ristrutturasse. La nuova vetrina delle eccellenze agroalimentari bresciane, trentine e italiane,
come anticipato si sviluppa su quattro piani, per 3.600 mq complessivi, e dà lavoro a 35 persone. La sua ambientazione moderna, funzionale e supertecnologica, ma allo stesso tempo accogliente e raffinata è stata curata dall’architetto Flavio Albanese. In un tour virtuale, un negozio di fiori, nel portico d’ingresso, accoglie il visitatore e lo indirizza verso le scale che portano al Club del Gusto, ossia al piano interrato. Qui è allestito il ristorante vero e proprio, intorno al quale, a mo’ di isole del gusto, ci sono la macelleria, le cucine, il forno del pane e la cantina, che vanta oltre 600 etichette di vini e una selezione di birre artigia-
nali. Al piano terra, denominato «Le vie della freschezza», si trova invece il grande mercato della frutta e verdura, provenienti dall’ortomercato di Brescia, e del pescato. Al primo piano, quello delle «Delicatessen», si trovano i banchi dei salumi e dei formaggi, l’area di degustazione con sedute e servizio al tavolo e la bottega dei sapori, dove sono esposti paste, condimenti, biscotti, cioccolato, caramelle, alimenti per la prima colazione, sughi, salse e quant’altro. Il secondo piano, «De gustibus», approfondisce l’esperienza del food a tutto tondo con la scuola di cucina, il mondo del casalingo, la libreria e il caffè letterario.
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simo, il nuovo store di Brescia, come pure quelli a venire, saranno focalizzati sulle specialità tipiche d’eccellenza di aziende artigiane, a esclusione quindi di quelle industriali trattate a Rovereto o San Benedetto del Tronto. Una scelta dettata dal fatto che il format è oggi concepito per inserirsi nei centri storici di città con una spiccata vocazione enogastronomica e per fare da vetrina alle piccole realtà produttive locali, quelle che difficilmente riescono a inserirsi nel circuito della distribuzione moderna. I nuovi store saranno inoltre improntati a un più spiccato localismo: esattamente come avviene a Brescia il 40% dell’offerta di ciascun Buonissimo sarà costituito da prodotti forniti da aziende della provincia in cui lo store s’inserisce. Se l’assortimento dei Buonissimo di nuova generazione si differenzierà in modo netto rispetto a quello di specialità tipiche regionali che ormai pullulano nei punti vendita della distribuzione moderna, ciò nondimeno questi gourmet store non si sottrarranno ad alcune logiche da grande distribuzione. Come anticipato, attueranno una poli-
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tica prezzi improntata alla convenienza: a parità di qualità intrinseca i prodotti in vendita al buonissimo non saranno più cari di quelli che si pagherebbero in un supermercato. Fra l’altro nei Buonissimo il margine di ricarico è e sarà unico, identico cioè sia che il prodotto sia acquistato per l’asporto sia che lo si consumi sul posto, seduti al tavolo. Si potrà così mangiare a prezzi modici, spendendo 9-11 euro. Altra logica mutuata dalla distribuzione moderna è quella dei Buonissimo di firmare alcune linee di prodotti. «Finora», racconta Martini, «abbiamo selezionato 160 specialità di drogheria che proponiamo a marchio Buonissimo: dalle confetture alle conserve, dai capperi di Pantelleria a uno speciale tipo di pasta all’uovo abruzzese. La nostra offerta private label si arricchirà però presto di una linea di pasta semola di Nola in formati speciali e stiamo progettando di firmare una gamma d’affettati in vaschetta take away. E non ci fermeremo qui». Nei Buonissimo come nei supermercati non mancheranno inoltre le pro-
mozioni e gli eventi a tema volti stimolare l’assaggio e l’acquisto. Pur non escludendo di ricorrere in alcuni casi a tagli prezzo, le promozioni consisteranno principalmente nell’organizzazione di momenti d’incontro con i produttori, nell’evidenziazione di possibili d’abbinamenti. Moltissime informazioni sulle specialità in vendita, sui loro metodi di produzione e sulle aziende che li producono saranno fra l’altro consultabili dalla clientela
Il franchising Buonissimo Buonissimo potrebbe in futuro trasformarsi in una catena in franchising di buoutique del tipico. Valter Martini, ideatore dei gourmet store Buonissimo|L’Arcipelago del gusto, ma anche responsabile affiliazione del più importante socio del gruppo distributivo Sisa (Cedi Sisa Centro Nord), sta valutando quest’opportunità insieme alla direzione dell’Ortomercato di Brescia, organizzazione cui s’è appoggiato per la logistica (riassorbire un grande negozio in piena zona Ztl non è certo agevole). «In tempi in cui i gruppi della distribuzione moderna accentrano sempre più presso le loro strutture la logistica anche dei prodotti freschi e freschissimi», spiega Martini, «presso gli ortomercati si sono liberati spazi che potrebbero tornare a essere produttivi utilizzandoli come vetrina delle produzioni tipiche delle aziende artigianali locali. Spazi cui i dettaglianti alimentari potrebbero accedere per acquistare anche di modeste quantità di merci». E per chi decidesse di specializzarsi nella vendita di soli prodotti tipici, potrebbe ravvisarsi la possibilità d’aderire a una vera e propria catena in franchising Buonissimo, che il gruppo Martini sta progettando di mettere lanciare.
scannerizzando il loro codice a barre con i lettori collegati agli schermi touch screen presenti in vari punti dello store. Sempre per promuovere determinate specialità, Buonissimo organizzerà cene tipiche regionali (in onore all’origine dei titolari la prima, il 27 gennaio scorso, è stata dedicata ai prodotti trentini) o corsi di cucina tenuti da chef qualificati presso l’apposito spazio allestito per quest’attività al secondo piano, in collaborazione con il produttore di cucine di fascia alta Arclinea. «Buonissimo|L’Arcipelago del gusto», sottolinea Martini, «intende essere luogo di cultura del buon cibo e del ben bere, ma non solo. Presso il caffè letterario del secondo piano abbiamo già cominciato a ospitre concerti, presentazioni di libri, letture di poesie e altri incontri fra il pubblico e realtà associative locali. E in occasione di eventi culturali di forte richiamo, come per esempio la mostra di René Magritte, Buonissimo farà da cassa di risonanza, prevedendo menu a tema, ispirati ai colori e alle forme del pittore surrealista».
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tendenze
Il LUGANA di Provenza con FRANKIE per i bimbi di Monica Zani Decolla il progetto Lugana for Children, voluto da Provenza: l’iniziativa nasce dalla sensibilità di Fabio Contato, patron dell’azienda agricola di Desenzano del Garda, verso l’impegno sociale a favore dei più deboli. Fabio Contato, già membro e socio fondatore di un Lions Club Gardesano, è convinto che si possa legare un prodotto della terra al miglioramento delle condizioni di bambini fortemente disagiati. Per questo ha cercato una fondazione, a livello mondiale, che si occupasse a tempo pieno delle problematiche legate alle condizioni di disagio. La scelta è caduta sull’associazione ‘Les enfants de Frankie’, con sede a Montecarlo e prima ambasciatrice a livello europeo sulle situazioni precarie dei minori; “si tratta di un'associazione calorosa e benefica. Nel 1997 un piccolo clown di nome Frankie iniziò ad agire in favore dei bambini malati, sfavoriti e dimenticati nella regione delle Alpi Marittime. Frankie opera senza sosta durante tutto l’anno, accoglie bambini di diverse origini con problemi differenti, toccati da una grande solitudine interiore. Il suo apporto dona conforto attraverso la gaiezza e i sorrisi che esprime”- afferma la presidentessa Francine Giraudi.
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Les enfants de Frankie
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Da qui, la creazione di Lugana for Children, un prodotto, ovviamente Lugana DOC, in serie limitata, il cui ricavato viene in parte devoluto a sostegno della fondazione. Le uve del Lugana DOC 2007 ‘Les Enfants de Frankie’ provengono da viti di età compresa tra i 35 ed i 45 anni, allevate nell’ottica di raggiungere il massimo qualitativo proprio in quest’età, producendo uva perfetta per essere trasformata in vini longevi, equilibrati e di grande legame col territorio. Il Lugana DOC 2007 ‘Les Enfants de Frankie’, esprime identità con la terra di origine, sia dal lato espressivo - grande mineralità, sapidità e forte carattere -, sia dal lato produttivo - solo uve vendemmiate a mano da operatori di decennale esperienza, provenienti dagli appezzamenti dell’area della denominazione, da grappoli scelti prima della pigiatura, fermentato in barrique nuove di rovere francese proveniente dalla foresta di Allier e successivamente affinato 12 mesi -.
L’etichetta della bottiglia posta in commercio è stata dipinta dal Maestro Francesco Toraldo; sul retro è stata inserita una poesia di Eugenio Farina, autore contemporaneo. Sono state dipinte altre 15 etichette su carta fatta a mano, sempre a tema Frankie, numerate e siglate sia dal Maestro Toraldo, sia da Fabio Contato, destinate alla produzione di 15 matusalem (6 litri). La prima delle 15 si trova nello showroom dell'azienda, la numero 2 è stata omaggiata ad Alberto II di Monaco, che ha posto la fondazione sotto il suo Alto Patronato, la terza si trova nella sede di ‘Les Enfants de Frankie’, la 4 e la 5 sono state oggetto di una gara d’asta durante la serata di gala della fondazione il 16 dicembre scorso, battute a 7500 euro l’una, quota interamente devoluta all’Associazione. Le altre verranno annualmente assegnate dall’Azienda Provenza a quei soggetti che si distingueranno particolarmente per progetti nel sociale e nella comunicazione del vino.
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Pranzo al MUSEO? di Monica Zani Lo studio Design Research Studio, ha creato gli interni del nuovo ristorante presso la Royal Academy of Arts di Londra. 19 gennaio 2011: apertura al pubblico del nuovo ristorante presso la Royal Academy of Arts di Londra, l'ultimo progetto per il ristoratore di Oliver Peyton e Byrne. Le notizie che confermano che la ristorazione museale è una tendenza in ampio sviluppo, che la ristorazione museale è il tema clou negli sviluppi e nei programmi delle strutture culturali, siano esse di nuova costituzione o di ‘antica tradizione’, sono di portata quotidiana. Esempio ne è, appunto, la Royal Academy of Arts di Londra, che ha affidato il concept del suo ristorante al designer inglese Tom Dixon. Il progetto riesce a miscelare elementi legati all'ambiente in cui si trovano, ad esempio le mensole usate come piedistalli per le sculture, una volta relegate negli archivi dell'accademia, ed elementi contrastanti, come mobili e lampade su disegno dello stesso Dixon; cercando di utilizzare materiali che convivano con quelli preesistenti, quali il marmo, l'ottone e il velluto...
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La zona pranzo è stata suddivisa in aree ispirate ad architetti o artisti chiave nella storia della Royal Academy, da Sir John Soane a JMW Turner. Il centro dello spazio è occupato da una struttura composta da cubi di vetro che ospitano una selezione di sculture e busti risalenti al 1897, appartenente alla collezione permanente della Royal Academy, ma a lungo tenuta al di fuori della vista del pubblico. La struttura è stata creata per sottolineare il concetto di ‘galleria’ ai commensali. La zona bar è impostata per essere il punto focale del ristorante; i materiali utilizzati in questa zona sono la pietra lavica dell'Etna, mattoni fatti a mano e vetri ed è stata progettata come un oggetto scultoreo, la cui grandezza è amplificata da un lampadario in vetro.
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Extravergine ENCICLOPEDICO di M. Z. Un insolito packaging per l'olio, che rievoca le sue tradizioni e il suo territorio. Roma, Dicembre 2010. Junko Kirimoto, socio fondatore dello studio di architettura Alvisi Kirimoto + Partners, firma il nuovo progetto di packaging design ‘Il Triangolo dell’Olio’ della Tenuta di Carma. Il cofanetto di tre pregiati oli extravergini d’oliva deve la sua nascita all’amicizia tra Giulio Figarolo di Gropello, Gianluca Pizzo e Giovanni Bulgari. Essenza di Carma, Podere Ermellino e Formica Alta sono i vertici del triangolo geografico che racchiude i tre oli prodotti in altrettante tenute, situate in tre regioni del centro Italia. La confezione per la collezione di oli d'oliva ‘Il Triangolo dell’Olio’, ha le sembianze di una grande libro, una sorta di enciclopedia, per comunicare come la produzione dell'olio extra vergine di oliva, in Italia, è considerata quasi un culto fortemente radicato su tutto il territorio e tramandato da generazioni. La seconda di copertina e la terza pagina di questo cofanetto raccontano la storia della nascita del triangolo con la descrizione tecnica dei tre oli in italiano, inglese e tedesco. Al centro del libro, tra le pagine spesse e poste in una cavità perfettamente sagomata attorno alle bottiglie di olio d’oliva, sono accolte le prelibatezze oliere ‘Formica Alta’, ‘Podere Ermelino’ e ‘Essenza di Carma’. I colori del cofanetto sono un chiaro rimando al verde delle foglie d’ulivo e al prodotto che deriva dalla spremitura dei suoi frutti. Semplice e naturale, il materiale del cofanetto, carte di tipo differente e cartone ondulato, rispecchia la naturalezza del suo contenuto e la filosofia di produzione naturale dei tre oli. Il cartone ondulato da imballaggio utilizzato per mantenere rigida la confezione, svolge non solo la funzione pratica di proteggere le bottiglie di vetro al suo interno, ma anche e soprattutto
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un ruolo estetico, simulando i tanti fogli che compongono una vera enciclopedia. Oltre alla grafica del packaging, con un forte riferimento a quella di una vera enciclopedia, arricchita di simboli per l’appropriata gestione del cofanetto ispirata agli imballi industriali Junko Kirimoto ha sviluppato anche il logo de ‘Il Triangolo dell’Olio’, il logo e l'etichetta dell’olio ‘Formica Alta’, con un acquarello che ritrae una formica appoggiata su una foglia d’ulivo. Il nome deriva dall’omonima zona della bassa Toscana dove si estende la coltivazione che produce questa miscela d’olio gestita da Giovanni Bulgari; il logo e l'etichetta dell’olio ‘Podere Ermellino’; che ritrae un albero con tronco e rami in argento satinato come il retro delle foglie di ulivo, mentre le radici sono di color oro, perché sono la parte più preziosa che mantiene vivo l’albero.
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di Alberto P. Schieppati Il Kempinski Grand Hotel des Bains di St.Moritz (www.kempinski.com) ha recentemente ospitato alcune sessioni del Gourmet festival, l’evento che porta ogni anno in Engadina decine di celebri chef da tutto il mondo. La grande struttura, che ha proposto a clienti ed ospiti la cena del bistellato austriaco Thomas Dorfer, è un esempio di accoglienza superlativa: una sapiente combinazione di offerta raffinata, edonistica e salutistica. A riprova del fatto che grande cucina e benes sere possono perfettamente convivere a favore della soddisfazione di un target di clientela molto esigente.
Betina Welter, pr manager del Kempinski Grand Hotel Des Bains di Sankt Moritz, è una forza della natura: nell’arco di poche ore è riuscita a comunicare in modo efficace tutti i plus della straordinaria struttura in cui opera. Non è così comune imbattersi in professionisti che riescano a trasmettere, con competenza e precisione, tutte le opportunità che un un luxury hotel di questo calibro possa offrire. Il pretesto per la visita al Kempinski è stato offerto dal diciottesimo Gourmet Festival (www.stmoritzgourmetfestival.ch), l’evento che annualmente convoglia a St. Moritz il gotha degli chef internazionali più celebri e prestigiosi. Quest’anno, fra gli altri, hanno partecipato i “nostri”Andrea Berton, Alfonso Iaccarino (grande la sua cena al Badrutt’s Palace), Philippe Leveillé, Herbert Hintner, insieme a Edgard Bovier, Thomas Buhner, Palle Enevoldsen, Passim Hallal, Alexandre Bourdas. Il Kempinski Des Bains, per l’occasione, ha ospitato lo chef bistellato austriaco Thomas Dorfer, della Landhaus Bacher, un delizioso alberghetto con cucina gourmet a Mautern/ Wachau. Gault & Millau, una bibbia gastronomica che è ormai ben affermata e che, in Europa, è in un certo senso concorrente di Michelin, lo ha definito un “portento di infallibile genialità”. Accolto dall’executive chef del grand hotel, il geniale (a sua volta) Mattias Roock, il giovane Tommy Dorfer ha predisposto per gli ospiti una cena gourmet memorabile, il cui menù degustazione
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di Mattias Roock, nato nel 1980 in Germania, si è formato (anche) al Culinary Institute of America ma le esperienze fondamentali sono state presso grandi chef internazionali del calibro di Alain Ducasse, Charlie Trotter (Chicago), Joachim Wissler (Bensberg), Daniel Bouloud (New York), Thomas Keller (Napa Valley, California): un mix di maestri che – grazie a metodo e approfondimento – gli hanno trasmesso una grande cultura delle materie prime e lo hanno messo nella condizione ideale per condurre egregiamente le cucine delle quattro strutture gourmet del Kempinski: il ristorante internazionale
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Rupert Simoner è alla direzione del Kempinski St. Moritz dal giugno del 2004. La sua esperienza nel mondo dell’ospitalità di lusso è vasta e diversificata.
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ha suscitato entusiasmo e curiosità. Molti fra gli ospiti, alla fine della cena, avevano già predisposto una “incursione gourmettara” in Austria e dibattevano fra loro su quale fosse la data migliore per il viaggio….. Il Tafelspitzraviolo, di Dorfer, un piatto di pasta fresca ripiena con carne e spinaci, con roll a base di salsa di rafano e crema di Daikon con gelatina di cedro, è stato molto apprezzato, così come la terrina di fegato grasso, il petto di piccione di Bresse e il Pure Caraibe Schokolade. Gli sponsor di Gourmet Festival, ovviamente, avevano messo a disposizione le loro etichette, a cominciare da Laurent Perrier fino ai vini distribuiti in Svizzera da Caratello Weine, una società di Zurigo molto attenta alle eccellenze vinicole italiane. La cucina dell’austriaco ha avuto come co-esecutore Mattias Roock, il giovanissimio executive che ha fatto gli onori di casa, insieme al suo sous chef Axel Rudlin: “sempre di più…sempre meglio!” è il motto del giovane chef (il più giovane di tutti gli alberghi Kempinski nel mondo). Grazie a questa filosofia improntata a vitalità e decisionismo, Mattias è riuscito a conquistare e consolidare la sua importante posizione ed a proporre una grande cucina, che sa valorizzare la tradizione engadinese ma non delude affatto sul fronte dell’utilizzo di materie prime di altra provenienza. Il talento culinario
Les Saisons, famoso per offrire la migliore prima colazione della Svizzera (provata in prima persona: confermo), l’Enoteca (15 punti Gault & Millau), Chesa Chantarella (12 punti Gault & Millau), il ristorante di montagna splendidamente ubicato sulle piste da sci, il ristorante gourmet Ca d’Oro, a cui la guida francese assegna ben 16 punti, ponendolo di fatto ai vertici della ristorazione elvetica. E, in fatto di vertici, il Kempinski decisamente non scherza: inaugurato il 15 dicembre 2002, è un edificio sfarzoso che vanta un patrimonio edilizio di ricca tradizione. Malgrado questo impatto monumentale, appena si varca la soglia e si entra nella grande hall, l’atmosfera cambia ed è dominata da una sensazione di leggerezza e di-
screzione “contemporanea”. La luce chiara pervade gli spazi e, grazie alla complicità del personale preparatissimo (molti gli italiani presenti nello staff) ed attento ad ogni esigenza dell’ospite, ci si sente immediatamente all’interno di un mondo ovattato, nel quale nulla è lasciato al caso. Il direttore generale Rupert Simoner, di origine austriaca, con esperienze precedenti in altri hotel del gruppo tra cui il Kempinski di Pechino, il St.Lawrence di Gozo e il Giardino di Costanza in Sicilia, è un grande professionista (è stato nominato albergatore dell’anno dalla rivista svizzera di economia Bilanz, nel 2006), la cui personalità è ben radicata nella vita quotidiana di questo albergo. Dotato di 184 fra camere e suite, i cui arredi sono un riuscito connubio di tradizione e modernità, il grand hotel si rinnova in continuazione, perché –come dice Rupert Simoner- “un albergo deve proporre ai suoi ospiti qualcosa di conosciuto e familiare e allo stesso tempo deve saperli sorprendere piacevolmente con qualcosa di nuovo”. Sarà anche per questo che nel 2009 si è provveduto al rinnovamento totale delle camere ai primi tre piani, “dando loro nuovi colori e stoffe ed uno stile alpino di nuova impronta”, aggiunge Betina Welter. Ulteriore vanto della struttura è la spa,
un centro idroterapico di grandi dimensioni che si estende per 2.800 metri quadrati distribuiti su due piani. Gli arredi interni rispecchiano la filosofia naturale che domina nell’intero complesso e donano all’ospite una sensazione di relax totale, “senza per questo rischiare di scivolare nell’isolamento”, sottolinea Betina Welter. Alla base del programma di relax, trattamenti e bellezza, sono le diverse sale per il riposo e il relax, una zona di idroterapia per sole donne, una piscina coperta intrisa di luce, uno “studio” dedicato al fitness, cabine per trattamenti personalizzati ed un parco saune diversificato, così come un “alpen garten” e un bacino Kneipp naturale. Dopo una giornata trascorsa all’aria fresca e pungente dell’Engadina, o dopo una discesa sugli sci, non c’è nulla di meglio che ritirarsi in questo luogo piacevole e rilassarsi in una sauna biologica o nella “grotta aromatica”, assaporando il relax, in attesa di una serata all’insegna delle prelibatezze di Mattias Roock e della sua brigata.
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PARCO DEI PRINCIPI lo chef è di Lione
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di Theo Smith Il destino ha voluto che a guidare la cucina del ristorante “Pauline Borghese” del Parco dei Principi Grand Hotel & Spa sia stato chiamato proprio uno chef francese, Patrice Guillet. Particolare che sarebbe molto piaciuto alla capricciosa sorella di Napoleone, detta “Venere Imperiale” per la sua bellezza, che dispiega tuttora il suo fascino immortale nel marmo del Canova nella Galleria Borghese, a due passi dall’albergo, appartenente alla catena Naldi Hotels. Patrice Guillet è nato a Lione, capitale gourmand, patria di Paul Bocuse (tre stelle Michelin da più di 30 anni), che Guillet ammira sopra ogni altro e considera suo maestro. Una passione, quella della cucina, che Patrice coltiva fin dai suoi più teneri anni, quando guardava ed imitava la mamma che cucinava per la famiglia. Terminata la Scuola alberghiera, il giovane Patrice va a fare esperienza presso i migliori ristoranti stellati di Lione e poi si trasferisce a Parigi, alla celeberrima Tour d’Argent (pure tre stelle Michelin). Nel 1994 Guillet sente il richiamo di Roma
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e va a raggiungere la brigata del famoso ristorante “Sans Souci”, un’icona gastronomica di quegli anni coronata da 1 stella Michelin, creatura del patron Bruno Borghesi. “È stato proprio il grande Borghesi ad insegnarmi la “psicologia” della ristorazione - spiega Guillet - perché nessuno più di lui ha brillato a Roma per lo stile, non solo dal punto di vista gastronomico, sotto l’aspetto dell'accoglienza e dell'ospitalità, del savoir faire e del buon gusto”. Oggi Buno Borghesi gestisce il ristorante Mirabelle (1 stella Michelin) dell’Hotel Splendide Royal, appartenente alla stessa catena, Roberto Naldi Hotels. Sempre operando nel solco della grande tradizione gastronomica francese, Guillet innova la sua cucina portandovi tutta la ricchezza dei sapori italiani. Pochi ingredienti di qualità eccelsa scelti a seconda della stagione per realizzare piatti leggeri e delicati, dove i sapori non si sovrastano, ma sviluppano profumi prettamente mediterranei. Le cotture sono preferibilmente brevi e la cucina in genere è espressa. Per le emulsioni l’olio extravergine di oliva è preferito al burro. Sulla sua carta autunnale, la sua prima carta al Pauline Borghese, spiccano i prodotti
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del momento: funghi, carciofo, verza, zucca, castagne, radicchio, tartufo. “Le specialità che mi rappresentano maggiormente sono i volatili e i crostacei, spiega Guillet, e amo particolarmente la frutta esotica e gli abbinamenti tra l’agro e il dolce. Per questo presento in carta il Rotie di pescatrice in crosta di parmigiano e rosmarino con salsa di curry e chutney di mango e zenzero. L’astice è la mia passione ed non ho mancato di inserire in carta l’Astice Breton al profumo di arancia e asparagi. Curo molto la presentazione dei piatti. Pane e pasticceria sono tutti fatti in casa”. Il menu è articolato ed inizia con “Le golosità uniche”, piatti unici che vengono scelti soprattutto al lunch, come il Flan di verdure con ragù ai funghi di bosco e cremolato di parmigiano. Vengono quindi gli “Antipasti freddi”, tra cui segnaliamo il Carpaccio di agnello in salsa citronette e melissa con julienne di carote e sedano, e gli “Antipasti caldi”, dove spicca la Scaloppa di foie gras sauté con pere e pistacchi caramellati. I primi si dividono in “Zuppe”, “Risotti” e “Paste”. Due zuppe rappresentano tutta la tipicità francese: sono la Marmitta di pesce in bouillabaisse al profumo di zafferano con calamaretti e la Zuppa di cipolle gratinate ai due formaggi. Il Risotto ai funghi porcini e tartufo di Acqualagna è un deciso richiamo alla stagione. Le Linguine di Gragnano all’astice con ciliegini non mancheranno di deliziare gli appassionati di crostacei. Sono fatti in casa gli Agnolotti ripieni di purea di patate, tartufo nero e bianco, mascarpone e parmigiano, conditi con una salsa cremolata profumata all’olio al tartufo, anch’esso fatto in casa, ed infine gratinati. Per realizzare alla perfezione la sua Anatra all’arancio con mele confites, piatto simbolo della Tour d’Argent dove ha lavorato, Guillet fa venire dalla Francia delle vere canette de barbarie, a conferma dell’attenzione esasperata verso le materie prime! Il raffinato Filet de boeuf en boîte flambé e le deliziose Crêpes Suzette sono un omaggio alla
Con il ricco brunch domenicale, proposto a quaranta euro, il ristorante del Parco dei Principi sta riscuotendo un grande successo.
sua terra natale molto gradito agli italiani, non insensibili al fascino del rituale di un piatto flambé à la table. Una sezione a parte è dedicata alla carne alla griglia, di cui la Chateaubriand con salsa bearnaise e verdure è regina. Molti i piatti di pesce proposti. Una fragranza provenzale esalta la freschezza di un piatto squisitamente mediterraneo come la gustosa Pezzogna stufata con capperi, olive taggiasche, pomme noisette e cicoria croccante, che ben figura accanto a pesci più nobili come la ricciola e la spigola. Tra i dessert, un’originale Millefoglie di mele renette calde con gelato alla cannella e frangipane testimonia del gusto di Guillet per la frutta esotica, che dona ai dolci un tocco di fresca acidità, mentre la Crème brûlée “Pauline” ricorda la grande ammaliatrice. Un’attenzione particolare viene prestata ai bambini e ai vegetariani, che hanno il loro menu, e ai celiaci, che trovano angoli loro dedicati anche al breakfast e al brunch domenicale. “Sono una persona molto curiosa e aperta, vado spesso in sala a parlare con i clienti per rendermi conto di persona della loro reazione ai miei piatti” - dichiara Guillet – “I loro commenti positivi sono la mia migliore ricompen-
sa. È la prima volta che sono Executive chef in albergo e il mio compito è molto complesso, tra il ristorante gourmet, i banchetti e il room service. Qui al ‘Pauline Borghese’ lavorerò con passione con la mia squadra per ottenere delle buone recensioni nelle guide più prestigiose. Stiamo anche rinnovando la carta dei vini. La mia cucina è tradizionale e nello stesso tempo innovativa. Nel menu delle scorse feste natalizie ho inserito ad esempio un nuovo antipasto: Tartare di pesce con mango e coulis alla papaya. Ma un ingrediente essenziale per il successo di un ristorante è l’accoglienza impeccabile e il sorriso, elementi che al Pauline Borghese curiamo molto attentamente.”
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Lo chef è allievo di ROUX, Grande cucina all’Eden
di Monica Zani La Campania è la protagonista del nuovo menu dello chef Fabio Ciervo a La terrazza dell’hotel Eden di Roma. Posto a due passi da via Veneto e Trinità dei Monti, all’angolo fra via Ludovisi e via di Porta Pinciana, nel cuore storico di Roma, si trova l'hotel Eden, appartenente al gruppo Starwood Hotels & Resorts e associato a The Leading Hotels of The World. Con 120 anni di vita alle spalle, nel 2007 ha vinto il Prix Villégiature, in seguito a una severa selezione da parte di una giuria internazionale di giornalisti. La prima impressione che si percepisce entrando nella hall è di una calda accoglienza: lo spazio è arredato con divani avvolgenti, mobili e quadri, il tutto 'riscaldato' da composizioni floreali e, d'inverno, da un camino. Le camere sono di diverse tipologie, ma tutte accomunate da una particolare attenzione alla scelta degli arredi, dalla cura dei particolari, dalla presenza di tutti i comfort, tecnologici e non. L'Eden è stato scelto come residenza
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romana da molti ospiti illustri che si sono succeduti nel tempo. Fra i primissimi, Umberto di Savoia e i Borbone, poi Gabriele d’Annunzio, Eleonora Duse, Julie Christie, Omar Sharif, Maria Callas, fino ad arrivare a Tina Turner, Cameron Diaz, Richard Gere, Leonardo Di Caprio, Bruce Willis e tanti altri, come Federico Fellini, che ha nominato l'hotel Eden il suo luogo preferito per rilasciare interviste. Per una pausa rigenerante, gli ospiti possono disporre di una palestra, che in seguito a un recente riammodernamento, è dotata degli attrezzi dell’ultima generazione e a breve, in una zona adiacente, sarà presto disponibile un esclusivo bagno turco. Fiore all’occhiello dell’Eden è poi la ristorazione, declinata in due realtà: il ristorante La Terrazza (dove viene servita anche la ricca prima colazione) e l’adiacente Il Giardino (che nella bella stagione fa servizio all’aperto), sempre al sesto piano, entrambi con un panorama mozzafiato sui tetti e sui principali monumenti del centro cittadino. Ancora al sesto piano, tra i due ristoranti, il Bar, punto d’incontro per aperitivi e break in qualunque ora del
giorno che in più, di sera, offre piacevole musica di piano bar dal vivo. Proprio al ristorante La Terrazza Fabio Ciervo, beneventano 31enne, ex braccio destro di Michel Roux (uno degli chef più acclamati al mondo, tre stelle Michelin al Waterside Inn di Bray in Inghilterra per ben 25 anni) è l'artefice del nuovo menu che rende omaggio alle sue origini campane, offrendo alla clientela alcuni piatti a base dei prodotti della sua terra. Dall’amore per le sue origini, dalla ricerca attenta di ingredienti di stagione del suo territorio e dalle significative e numerose esperienze in giro per il mondo in 'case' di grande prestigio, tra cui il ristorante gourmet Tre Rosette del Grosvenor House di Londra e il tre stelle Michelin dello chef Martin Berasategui a San Sebastián in Spagna, nasce un menu a base di materie prime campane, arricchito con influssi gastronomici di tutti i paesi. Punti chiave della filosofia culinaria dello chef sono: l’attenzione per le cotture e l’uso delle spezie sperimentata in Oriente, l’impeccabile preparazione delle salse acquisita in Francia, la conoscenza dei prodotti italiani determinata dalle sue origini, l’apprendimento delle avveniristiche tecnologie mutuate dalla Spagna.
Olio extravergine d’oliva delle colline Santagatesi, castagne del Sannio Beneventano, frutta e verdure di stagione tra cui la mela annurca e i 'friarielli', scialatielli e paccheri, ricotta di bufala, agnello Laticauda: questi sono solo alcuni esempi delle materie prime partenopee con cui Fabio si misura. Ecco qualche suggestione dal ricco menu de La Terrazza, che cambia con le stagioni: bocconcini di mozzarella in carrozza con insalatina di puntarelle e bottarga, emulsione all’olio delle colline Santagatesi; capesante con purea di castagne del Sannio Beneventano, indivia e vinaigrette al tartufo; risotto alle rape rosse con triglia alla senape, 'friarielli' e pistacchi di Bronte; Scialatielli all’aneto con crema di finocchio, calamaretti a spillo e ostrica Belon in tempura; rombo chiodato in crosta di spugnole con involtino di verza e cavolfiore, salsa al Taurasi e carrè d’agnello Laticauda in crosta di nocciole, crema di funghi, vegetali in agrodolce e salsa alla senape Dijon.
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iPAD, rivoluzione per menù e wine list di Davide Deponti Innovazione fa sempre più rima con ristorazione. Tablet e app sono oggi l’ultima frontiera dell’organizzazione di un’attività di ristorazione qualificata e permettono di rinnovarsi per migliorarsi, in sala e non solo. La necessità di adeguarsi alla domanda di mercato è sempre più forte e le tecnologie più evolute aiutano il professionista a ottimizzare la gestione, soddisfando il cliente nelle sue esigenze. Nel mondo elettronico del 2.0, quello cioè della seconda generazione delle intuizioni informatiche che hanno comunque già radicalmente mutato le
nostre abitudini in pochissimi anni, un posto di primo piano l’hanno guadagnato di certo i computer – anche se in alcuni casi è riduttivo definirli così – portatili. Avere a disposizione subito e senza fatica quegli strumenti che seduti alla scrivania davanti a una tastiera riteniamo indispensabili per le nostre attività lavorative e commerciali, vuol dire davvero avere una marcia in più. Tanto è vero che quel segmento della tecnologia legato proprio alla “portabilità” estrema, e del quale fanno parte non solo computer, ma soprattutto telefoni di ultima generazione, laptop e tablet, oggi è sempre più spesso utilizzato come vero e proprio strumento di business, anche in settori nei quali non è semplice immaginarsene applicazioni veramente utili. E uno di questi contesti si sarebbe portati a pensare essere quello della ristorazione, nel quale fino ad ora le innovazioni si sono viste quasi esclusivamente nella parte gastronomica e in cucina, legate a tecnologie evolute certo, ma legate alla strumentazione per cottura e conservazione dei cibi. Facciamo un salto negli Stati Uniti allora, per scoprire sulle pagine dell’autorevole New York Times come la bisteccheria della grande mela Bone’s sia riuscita ad incrementare di oltre il 10% il consumo di bottiglie di vino da parte dei suoi clienti, dopo aver creato una speciale applicazione per iPad per mezzo della quale chi è seduto a tavola può spulciare in modo elettronico la lista e insieme scoprire consigli sui giusti abbinamenti e storia e origini di ogni etichetta. Ordinazioni a portata di clic Insomma sembra finalmente giunto il momento per far entrare in modo prepotente la tecnologia più all’avanguardia anche in sala. Anzi, qualcuno l’ha già fatto, in Australia per la precisione: il ristorante Global Mundo di Sydney ha da un anno sostituito i vecchi menu cartacei con degli iPad tramite i quali i clienti possono scegliere i piatti e ordinarli direttamente in cucina. Ma la lista di locali che hanno compiuto questa svolta elettronica più di recente potrebbe ancora continuare e sempre con un
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minimo comune denominatore presente: l’iPad. Il tablet creato dalla multinazionale Apple è visto sempre di più come l’ultima frontiera della rivoluzione mediatica al ristorante e non solo per le possibilità informatiche che dona lo strumento in sé. Esiste infatti un già ampio mercato delle cosiddette app – ovvero i software che inseriti nel piccolo laptop permettono di utilizzarne le peculiarità in diversi modi – legate proprio al mondo della ristorazione professionale. Ci sono programmi per la gestione globale di un ristorante, vere e proprie enciclopedie telematiche di ricette che lo chef può avere a portata di mano con un clic, applicazioni per l’organizzazione aziendale (amministrativa e gestionale) di un locale e perfino giochi che permettono di scoprire il mondo della cucina in modo divertente e interattivo. Prendiamo ad esempio iMenu (www.apple.it), un applicazione
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professionale creata per trasformare iPad in uno strumento dedicato alla gestione di un ristorante. Grazie alle sue funzioni può essere utilizzato sia dal proprietario del ristorante sia dal cliente. Il ristoratore potrà infatti gestire al meglio il proprio locale, dalla stesura dei menù alla carta dei vini, dal magazzino agli eventi, mentre il cliente potrà consultare le proposte in modo diretto e interattivo, creando a sua volta abbinamenti particolari. Altro esempio è il software per iPad pensato dagli esperti di gestione del Sole24Ore: si chiama Azienda Facile e permette di organizzare tutti gli aspetti contabili e fiscali, fino ai rapporti contrattuali, dell’impresa ristorante. Sfruttare la sfida tecnologica Non tutti gli imprenditori però avvertono la sfida della modernizzazione come utile a prescindere e molti la ritengono ancora fine a se stessa perché non percepiscono appieno la portata di utilità, anche nella gestione di un locale pubblico o in termine di mero guadagno economico. Allora con la nostra pietra filosofale iPad come riferimento, vediamo uno per uno quali sono i diversi singoli vantaggi operativi garantiti dalla nuova via informatica. Innanzitutto totali controllo e coordinazione delle proposte ai clienti. Grazie alla multimedialità, dell’iPad ma non solo, è possibile ad esempio organizzare il proprio menu in categorie e sottocategorie rendendone più chiara e immediata la consultazione. Quindi una maggiore praticità nell’aggiornamento in tempo reale delle proposte gastronomiche e delle bevande senza bisogno di rivoluzionare di volta in volta il proprio archivio. E ancora una maggiore percezione del valore di quello che si sta per ordinare, grazie al collegamento diretto con excursus virtuali sulle ricette e sugli ingredienti e magari pure con filmati nei quali lo chef mostra la preparazione del piatto o racconta da dove ha preso l’idea per crearlo. Ultimo, ma non per importanza, in una società oramai permeata a 360 gradi
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dalla tecnologia, l’aspetto ludico che garantisce un sistema tramite il quale non solo si può ordinare direttamente allo chef ma pure mettere a disposizione degli altri le proprie impressioni e valutazioni. Come in un piccolo social network gastronomico. Oggi che la sfida tecnologica è lanciata perciò, è assolutamente indispensabile almeno conoscere le tante possibilità che l’uso dell’informatica 2.0 apre alla ristorazione: perché chi si ferma è perduto. iPhone In un mondo sempre connesso, non basta più avere il telefono all’avanguardia. Concepito come un vero computer in miniatura, iPhone è il fratello minore di iPad e ne condivide le logiche informatiche e di utilizzo. Le sue applicazioni sono altrettanto fantascientifiche, comprese quelle che permettono di localizzare, prenotare e recensire ristoranti e locali pubblici con il semplice tocco delle dita (store.apple.it). iPad Definito dalla casa madre Apple (www. apple.it) come un tablet computer in grado di riprodurre contenuti multimediali e di navigare su internet, iPad è stato l’ultimo boom del mercato tecnologico grazie alla strumentazione “touch”, all’interfaccia grafica accattivante e alla evoluta strumentazione di software disponibili, tra quelli già in dotazione e quelli scaricabili gratuitamente o acquistabili a pagamento. Apps Gestione completa di un’attività commerciale, creazione di menu con grafica personalizzata, coordinamento del lavoro del personale e archiviazione o consultazione di un infinito numero di ricette. Tutto questo e molto di più è possibile sfruttando le capacità delle app, le applicazioni, ovvero i software pensati per rendere iPad uno strumento indispensabile nella ristorazione del futuro. Tra le tante, da non perdere l’americana Epicurious (www.epicurious.com), che raccoglie, gestisce, ordina e aggiorna un database di 30mila ricette.
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L’aria non c’è. Ma il GUSTO è pieno di Davide Deponti Salutare ma saporita, facile da usare ma completamente tecnologica: la tecnica per la cottura sottovuoto è oggi indispensabile in ogni cucina professionale all’avanguardia. La dimostrazione del successo di questa formula arriva dalle centinaia di chef professionisti che utilizzano per le loro creazioni materie prime e preparazioni conservate (e cucinate) sottovuoto. Non solo conservazione, ma anche cottura fatta ai più alti livelli di qualità per la ristorazione e, da qualche tempo, utilizzata anche da importanti chef che ne hanno intuito le grandi potenzialità anche a livello professionale. Così sottovuoto è diventato la nuova parola d’ordine di chi in cucina vuol portare un metodo di lavoro all’avanguardia, in termini sia dell’efficacia della preparazione sia del risparmio energetico legato ai tempi di lavorazione. In primo luogo perché già da qualche anno questo
tipo di cottura viene considerato, proprio dagli chef più autorevoli, come il metodo più sano, saporito e sicuramente più innovativo – il che non guasta mai per chi sperimenta la propria professione in creatività - nell’ambito della ristorazione professionale. Tra i vantaggi pratici della cottura sottovuoto poi ci sono la notevole riduzione del calo di peso degli alimenti, che passa da un 30% della cottura normale, ad un 7%, e ancora il notevole risparmio di tempo nella gestione della cucina, poiché questo tipo di cottura non richiede interventi del cuoco durante le varie fasi della stessa, consentendogli dunque di potersi nel frattempo dedicare ad altro. Insomma, a chi sta in cucina per professione non sembra vero di poter utilizzare un metodo di cottura che, semplicemente attraverso l’assenza di aria, consenta di valorizzare al massimo grado i profumi e i sapori degli ingredienti, ottimizzando pure l’uso dei condimenti e del sale senza per questo perdere in termini di gusto ma guadagnando comunque in fatto di salute. I segreti della cucina sottovuoto perciò sono sempre meno tali e il metodo di lavorazione è sempre più praticato nei grandi ristoranti, come nei locali più piccoli e di tendenza. Tecnologia che fa bene Prima di vedere, passo dopo passo, come è possibile cucinare sottovuoto con facilità e quali strumenti servono per questa tecnica, facciamo un piccolo salto indietro. Siamo all’inizio degli anni Settanta, quando grazie a uno studio scientifico dei ricercatori francesi Georges Pralus e Bruno Goussault, viene codificato il metodo per questa cottura oggi considerata, a ragione, tanto all’avanguardia. Ebbene quello studio in realtà aveva come scopo principale quello di indagare le tecniche di cucina per mezzo delle quali uno chef potesse avere la possibilità di ottimizzare, in funzione della struttura organica dei cibi utilizzati come ingredienti nelle proprie ricette, lo sviluppo dell’aroma e dei sapori, in modo che questi ultimi giungessero a tavola il più
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possibile ricchi delle loro caratteristiche. Il risultato fu che, utilizzando una cottura molto delicata, condotta in assenza di aria, si vide come i sapori, gli aromi e i liquidi non risultavano dispersi e i piatti prodotti con questa modalità fossero contraddistinti proprio da un gusto straordinariamente intenso. Non per nulla persino l’Organiz zazione Mondiale della Sanità, anche se in tempi più recenti, si è interessata al metodo sottovuoto proprio per via della cottura sana ed estremamente delicata che esso garantisce. Ma allora perché sono dovuti passare trent’anni perché questa tecnica diventasse finalmente padrona delle cucine più importanti al mondo? La risposta sta tutta nei grandi passi avanti fatti dalla tecnologia, che finalmente ha messo a disposizione degli chef macchinari in grado di rendere la cucina sottovuoto sfruttabile quotidianamente. Proprio la tecnica per realizzare lo stesso sottovuoto, elemento fondante di questa cucina, è oggi finalmente all’avanguardia, tanto che esistono confezionatrici che permettono di raggiungere un livello di sottovuoto del 99,9%. Ed insieme alla macchina per il sottovuoto sono poi necessari altri due strumenti tecnologici: un forno elettronico multifunzione e abbattitore di temperature. Quest’ultimo è un macchinario tanto importante, quanto quello per il sottovuoto, perché permette di abbassare velocemente la temperatura di un piatto cucinato a freddo positivo o negativo, impedendo la proliferazione batterica e mantenendo intatte tutte le caratteristiche organolettiche dei cibi, che verranno poi rigenerati proprio in forno.
I vantaggi per lo chef Organizzata la propria cucina con il posizionamento di queste tre macchine il più è fatto, quindi: basta allora comporre la ricetta con i suoi ingredienti conditi “a crudo”, ma in alcuni casi anche rosolati o marinati, mettere tutto il preparato sottovuoto e riporlo infine all’interno del forno professionale. Al termine della cottura si passano i piatti pronti direttamente nell’abbattitore di temperatura e alla fine si conserva il tutto in una apposita cella frigorifera. Al momento dell’ordine e quindi appena prima di essere serviti, poi, i cibi preparati col sottovuoto verranno rimessi nel forno e riscaldati all’interno dello stesso sacchetto. Quindi prelevati e completati a seconda del piatto. In questo modo lo chef ha davvero la certezza “scientifica” che i cibi rimangano morbidi e che mantengano inalterate le loro proprietà nutrizionali, spesso disperse con la cottura tradizionale. Senza dimenticare che questo tipo di preparazione consente di evitare l’aggiunta di oli e grassi e di portare in tavola dei piatti che risultano molto più leggeri per l’organismo, non certo senza rinunciare al gusto. Certo, non va sottovalutata la diversa organizzazione che deve essere predisposta in una cucina dove si lavora col sottovuoto. Perché con questa tecnica si possono sfruttare al meglio i tempi morti della giornata lavorativa, evitando di dover mettersi sotto stress solo al momento dell’arrivo dell’ordinazione, magari di una ricetta particolarmente complicata. Il maggior tempo libero inoltre potrà magari permettere allo chef di ritagliarsi più “uscite” in sala per interagire con i propri clienti, spiegando loro le caratteristiche
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creative che stanno alla base della propria cucina. Angelo Po Combistar FX È il sistema completo pensato dalla modenese Angelo Po (www.aneglopo.it) per riassumere in un unico set tutte le strumentazioni indispensabili alla cottura sottovuoto. Ne fanno parte il forno Combistar FX, l’abbattitore surgelatore Chillstar e l’armadio frigorifero Zenith: un tris che in meno di due metri quadrati di ingombro racchiude tutto il percorso di cottura, abbattimento della temperatura, conservazione refrigerata e rigenerazione dei piatti. Ogni processo di preparazione poi è facilmente gestibile dallo chef per mezzo del grande pannello comandi EVC ad alta definizione. Angelo Po MS2 È la confezionatrice sottovuoto costruita interamente in acciaio inox Aisi304 e che può essere montata su
carrelli rotanti per un suo più comodo uso in cucina. Realizzata da Angelo Po (www.angelopo.it), può essere azionata attraverso un pannello di comando digitale, tramite il quale si possono impostare 9 diversi programmi di utilizzo. Un sensore elettrico volumetrico permette infine il controllo costante del vuoto e del confezionamento con gas. Il tutto certificato CE. Rational Sous-Vide Disponibile anche nella tecnologica versione Sous-Vide, il sistema SelfCooking Center di Rational (www.rational-italia.it) permette a un’impresa di ristorazione di gestire i carichi di lavoro legati alla cottura sottovuoto in modo semplice ed efficace. Fa parte del sistema lo speciale sensore della temperatura del nucleo Sous-Vide che, estremamente fine ed elastico, si inserisce nell’apparecchio senza rovinare il sottovuoto.
libri
Il ragazzino gourmet e le CUCINE di tradizione
Titolo: Slurp! Diario di un giovane gourmet Autore: Tito Cima Editore: GL Editore Anno: 2010 Pagine: 200 Prezzo: 14 €
Titolo: La cucina siciliana Autore: Maria Teresa Di Marco, Marie Cécile Ferré Editore: Guido Tommasi Editore Collana: Gli illustrati Anno: 2010 Pagine: 224 Prezzo: 25 €
Titolo: Cucina giapponese di casa Autore: Harumi Kurihara Editore: Guido Tommasi Editore Collana: Gli illustrati Anno: 2010 Pagine: 192 Prezzo: 25 €
Titolo: Tradizione Gusto Passione Viaggio tra i sapori italiani (Vol. 1) Autore: Roberta Corradin, Paola Rancati Editore: Silvana Editoriale Anno: 2010 Pagine: 427
Tito Cima, piccolo gourmet A quattrordici anni non si può ancora essere ispettori della Michelin, né critici gastronomici paludati o blogger impenitenti che “spingono” mediaticamente questo o quel ristorante. Però, e Tito Cima lo dimostra concretamente, si può avere una sensibilità non comune per ingredienti, materie prime, ambienti e cucina di molti ristoranti, in Italia e nel mondo. Cosi’ questo ragazzo milanese si è misurato con la realtà di centoventidue locali descrivendone piatti, atmosfera e simpatia (o antipatia totale) di chef, titolari e addetti al servizio. Senza peli sulla lingua, senza necessità di tutelare od osannare nessuno, ne esce un quadretto molto stimolante. Da leggere assolutamente le “schede” di Smith & Wollensky a New York e di Nobu a Milano.
La cucina sicula di cortile La cucina siciliana è cucina di curtigghiu, ovvero “di cortile” con il sottile gusto delle variazioni che corrono di porta in porta, di balcone in balcone, di quartiere in quartiere. Ma, al tempo stesso, la siciliana è cucina che misura se stessa sullo scenario di grandi tradizioni gastronomiche: quella araba dell’agro e del dolce, quella francese dei Monsù e quella contadina che amministra, con grande e oculata sapienza, i tanti prodotti della terra. Si deve a due donne lo sforzo (riuscito) di dare un sistema ad un grande universo di piatti, influssi e condizionamenti, di cui la cucina siciliana è ricchissima. Oltre duecento pagine di ricette storiche, importanti e sfiziose, che mettono letteralmente l’acquolina in bocca.
Giappone, la cucina delle case Harumi Kurihara ha deciso di raccontare la vera cucina giapponese, quella che esce dallo stereotipo “sushisashimi” al quale i media specializzati ci hanno abituato. In realtà –e il libro lo dimostra grazie ad oltre cento ricette “di famiglia”- la cucina nipponica è estremamente vasta e conta su un repertorio di materie prime eccezionali e ben diversificate. Manzo, pollo, maiale, verdure, erbe, legumi sono utilizzati in centinaia di gustosissime ricette e contraddicono parzialemente l’idea che la cucina giapponese sia essenzialmente a base di piatti in cui il pesce crudo è protagonista assoluto. Le immagini che illustrano il volume sono molto efficaci nel descrivere la qualità dei piati e i procedimenti di preparazione e cottura. Da comprare e consultare, per dimiostare che esiste anche una cucina nippo senza sushi.
Un viaggio fra i sapori italiani Si deve alla lungimiranza di Unilever Food Solutions l’idea di questo volume, splendidamente curato sotto l’aspetto estetico e mirabilmente redatto da Roberta Corradin, scrittrice, giornalista di Repubblica, e da Paola Rancati, food expert e autrice a sua volta di parecchi volumi di cucina. Insieme hanno “tastato” il polso dell’offerta alimentare più autentica delle regioni italiane, scovata in quelli che le autrici definiscono “templi dell’artigianato”, ovvero ristoranti, trattorie, locande, friggitorie, ma anche mulini, salumifici, acetaie, allevamenti di oche o di cinghiali…. Un vero e proprio viaggio, fatto con la curiosità di chi vuole scoprire ma anche con l’irrequietezza di chi vuole godere, assaggiare, gustare, proporre, comunicare. Un elenco di ristorantichicche e negozi di gastronomia chiude il bel volume di 420 pagine.
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