Artù 2011 05/06

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In caso di mancato recapito inviare al CMP di Milano Roserio per la restituzione al mittente previo pagamento resi

Artù n°44 - Maggio - Giugno 2011

Gusto ⦁ Tendenze ⦁ Mercati

La cucina d’avanguardia dello chef Daniel Facen Ricarico vino elevato? Riapriamo la discussione L’alta ristorazione ripensa se stessa e semplifica l’offerta Scuole di cucina: Congusto, una storia tutta italiana Outdoor strategico per la crescita del business

Maggio Giugno 2011

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EDITORIALE n°44

edi to al L’offerta RAGIONEVOLE

Segmento medio addio? Tutt’altro, segmento medio presente. Anzi, presentissimo! A dispetto di quanti vorrebbero il cosiddetto ceto medio ormai in via di dissolvimento, a fronte di un’economia a forbice che pone l’Italia fra i paesi più diseguali sotto il profilo sociale (sempre più ricchi e sempre più poveri, e sempre più distanti fra loro), il target di mezzo torna ad essere fondamentale per chi vuole fare business nel nostro settore. Una conferma arriva dalla scelta di centinaia di ristoratori di “alta gamma” che hanno aguzzato l’ingegno per diversificare la propria offerta in senso riduttivo (soprattutto per quanto riguarda i prezzi, così almeno hanno riferito alla nostra giornalista che ha realizzato l’inchiesta di pagina 24). A fronte della diminuita capacità di spesa dei clienti, diluita drasticamente nell’ultimo triennio, in tanti hanno inventato “seconde linee”, bistrò informali, osterie moderne con la tovaglia a quadri, con formule semplificate di offerta. Come quel locale milanese la cui insegna un po’ spartana con la scritta “cucina al vassoio” evoca memorie dimenticate. A cosa si deve questa new wave di tanti ristoratori? Alla decisione di andare incontro alle esigenze dei clienti impoveriti? Può darsi, ma soprattutto nasce per far vivere e crescere la propria attività, considerato che qualche miliardario russo in rari periodi dell’anno non è certo “la rondine che fa primavera”. E, constatata la difficoltà nel mantenere fedele la clientela affluente, sempre meno incline alla frequentazione di ristoranti gourmet (si sa che i ricchi, nel nostro paese, preferiscono la trattoria ruspante e la pizzeria di quartiere, meglio se un po’ modaiola, al locale di prestigio che –dicono- mette soggezione e costa troppo), anche i grandi chef si rassegnano all’andazzo generale. E

sparigliano le carte, in attesa della ripresa che non sembra vicinissima. Sarà vera rivoluzione? Nasceranno autentiche trattorie d’autore? Gli ingredienti usati saranno sempre di prim’ordine, seppure all’interno di menù ridotti e meno ridondanti? I prezzi saranno compatibili con le esigenze del “nuovo” cliente? Speriamo. Nel frattempo viene da chiedersi a quali critieri si ispireranno certe guide (Michelin in testa) per assegnare le proprie valutazioni. Toglieranno le stelle a chi fa grande cucina con materie prime di pregio e le daranno ai sostenitori della cucina del quinto quarto? Premieranno gli chef che valorizzeranno materie prime povere (già in parte accade, vedi Davide Oldani del D’ò, vero antesignano di questa tendenza) e penalizzeranno chi da decenni lavora su ingredienti preziosi e costosi? Citeranno nelle loro schede piatti come “cubetti di polmone gratinato con crema di patate” o “diaframma alla brace su letto di erbe dell’orto”, sentenziando che si tratta di piatti memorabili? Per carità, nulla in contrario: non siamo certo noi gli apologeti del caviale (a sua volta diventato accessibile) o della carne di Kobe o di quant’altro. Diciamo solo che non bisogna esagerare, né da una parte né dall’altra. Le esagerazioni sarebbero solo speculari all’andamento a forbice dell’economia, di cui si diceva prima. E, alla fine, perderemmo un patrimonio di qualità e di equilibrio che è l’asse portante della nostra ristorazione. Ma per non perderlo, dobbiamo sostenerlo e valorizzarlo, individuandone i migliori protagonisti. È per questo che, sulle pagine di Artù, troverete spesso l’invito a costruire un’offerta “ragionevole”, ovvero dalla parte della ragione e del buon senso. Ma anche del valore delle materie prime e della loro qualità intrinseca.

Che siano a kilometro zero o a chilometro mille ha un’importanza relativa: non ci interessano gli slogan ad effetto, anche perché siamo consapevoli della impossibilità di “usare” il territorio a proprio piacimento, raccontando balle inverosimili. Quello che ci interessa è che la ristorazione e i suoi chef più competenti (sia titolari che dipendenti) sappiano capire le esigenze del cliente, offrendogli il massimo possibile al minimo del profitto realizzabile. Sfida complessa ma non impossibile. L’eliminazione di molti “fronzoli” gioca a favore di risparmi nella gestione e di costi più controllati. Insieme alla riduzione di mark up troppo alti su vino e materie prime (spesso creati al fine di poter sopravvivere a spese generali e pressione fiscale, come sostiene Matteo Scibilia a pagina 4, ma più sovente nati da errori marchiani nell’impostazione del food e wine cost), potrebbe davvero nascere un’offerta ragionevole di ristorazione. D’altronde, il mondo è cambiato e la presunzione ha necessariamente ceduto il posto all’umiltà, all’analisi, al rispetto: valori, appunto, ragionevoli, proprio perché in sintonia con le esigenze di trasparenza e chiarezza del “nuovo cliente” in cerca di gusto, valore e prezzo. Alberto P. Schieppati

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SOMMARIO n°44

In copertina, Daniel Facen, executive chef dell’Anteprima di Chiuduno (Bg), ripreso nella cucina a vista. Facen, nato nel 1966 in Svizzera da famiglia trentina, ha al suo attivo esperienze presso grandi chef. All’Anteprima, lo “show cooking restaurant” di Vincenzo Tallarini, Facen realizza una cucina, che si caratterizza per l’equilibrio dei sapori, l’attenzione per i dettagli e la godibilità totale. La foto è di Maurizio Nava.

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Rubriche

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Opinioni Ricarico sul vino: basta accuse ai ristoratori di Matteo Scibilia Naturalità addio? Bene, dice il chimico di Maurizio Forte Info people&brand Vinitaly da record e Artù fa discutere di Theo Smith News, protagonisti, eventi del fuoricasa Prodotti, flash, novità, le aziende e il mercato Numeri Luoghi, fatti, consumi. Notizie in cifre Focus vino Villa Franciacorta: un sogno che si rinnova di Theo Smith Focus food Alta ristorazione: così affronta la crisi di Luisa Contri Scuole di cucina: una storia italiana di Fiorenza Auriemma Protagonisti food Cent’anni di pasta di Elisa Facchetti Format Pesce ok... Gusto e prezzo al Sale Grosso di Theo Smith Mucche & Buoi: il progetto carne funziona di Fiorenza Auriemma Al Fico d’India il tipico stravince di Marta Lai Sushi Zen: il coraggio di Germana Tan di Alberto P. Schieppati L’Anteprima riparte e la creatività esplode di Elio Ghisalberti Tendenze Imperativo, non sprecare: Alce Nero insegna di Isa Grassano La birra di Busseto conquista il mondo di Davide Bernieri Tipico Strolghino di Culatello, il non salame che piace di Davide Bernieri Lusso E la pizza d’oro entrò nel Guinness di Claudio Zeni Accueil Antonio Batani: il signore degli alberghi di Theo Smith Spa Mamounia: il cuore pulsante di Marrakech di Sara Alberti Equipment Sediamoci fuori! E il business cresce di Davide Deponti Lunga vita al sito di qualità di Davide Deponti Le scelte di Artù Estro e ragionevolezza ma anche “grandi numeri” Libri Roma, Noma, Boscaini e la Sicilia gourmet Artù n°44

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opinioni

Ricarico sul VINO Basta accuse ai ristoratori Da più parti si legge che il vino costa troppo per colpa dei prezzi fissati dalle aziende vinicole, ma soprattutto per colpa dei ristoratori che applicano ricarichi elevati. Non sono per nulla d’accordo, anzi. Intanto una breve parentesi: se alcune aziende premiate per i loro vini lo aumentano di prezzo, ed è vero e non da oggi, la colpa è anche di una certa stampa che ha esaltato, con la complicità delle guide, certe bottiglie, contribuendo a creare “immagine”, valore sicuramente gratificante, ma che oggi rappresenta anche un costo da gestire.

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Di chi è la colpa se oggi ci sono ristoranti con un peso finanziario della cantina insopportabile? Per un buon punteggio sulle guide ci sono ristoranti che si sono rovinati. Ma questa osservazione è direttamente legata all’altra accusa che in maniera strisciante viene sempre più diffusa, ovvero che il vino è caro non tanto per colpa dei produttori, ma soprattutto dei ristoratori: d’altronde è sport comune attaccare il nostro settore. A chi diamo oggi la colpa di tutto? Ma sì, diamola ai ristoratori, tanto quelli lavorano 14 ore al giorno e non hanno neanche il tempo per protestare! Non è semplice capire come vengono giudicati i prezzi di un ristorante… Forse in tanti sono convinti che al ristorante il prezzo di un piatto o di una bottiglia di vino sia semplicemente la somma delle materie prime nel piatto! O forse qualcuno pensa al detersivo della lavastoviglie, all’elettricità della stessa, ai bicchieri, magari concedendo una differenza di costo tra un calice di cristallo e uno di vetro. Non vorrei scandalizzare nessuno, ma al costo di un piatto o di un vino dovrebbe forse aggiungersi anche la carta igienica che il cliente utilizza, il costo del giardiniere laddove c’è il giardino, il costo del rotolino di carta dei pos o la candelina sul tavolo, tutti costi che vengono spalmati sul piatto o su una bottiglia. Naturalmente con queste prime osservazioni mi sto divertendo, ma quando penso ai veri costi che un ristorante deve sostenere, allora non mi diverto più. Il costo del personale, 35/40% dei costi, tra mensilità dirette e costi indiretti siamo quasi a 16 mensilità, il fisco è ormai una sanguisuga: non di-

mentichiamo che la nostra categoria paga la tassa della spazzatura tra le più alte del commercio, e poi c’è il costo delle materie prime, quelle vere, le famose eccellenze dei nostri artigiani del gusto. Certo, ci sono ristoranti che per complessità di gestione o per prestigio, hanno ricarichi molto alti, ma fa parte del gioco: non sono ristoranti da tutti. Ma come mai in Francia o in Germania il vino costa 3 volte di più che in Italia e l’acqua minerale costa come una nostra bonarda o un prosecco!? Per non parlare del caffè, 3 euro in piedi in un qualsiasi bar. Certo, la gente beve sempre meno, forse meglio, ma sicuramente meno. Dimenticavo, la storiella del palloncino, dei controlli sulle strade, i clienti che non bevono non solo non lo fanno più perché il vino è caro, ma perché hanno paura di perdere la patente. Chi viene a trovarci vedrà come ormai il calo del vino sia spaventoso: vino a bicchiere, mezze bottiglie, vino sfuso, ci stiamo provando con tutto. La grappa e i superalcoolici sono nell’occhio del ciclone, con un bicchierino sei oltre lo 0,5 del limite di alcool per la guida. Neanche gratis il cliente accetta un bicchierino. Il mondo del vino assiste in silenzio a questo oltraggio dei consumi e la colpa è

dei ristoratori? Quando il mercato estero rallenterà la sua corsa dove si venderà il vino? Cerco di essere attento osservatore di quello che ci circonda, non mi sembra di avere mai letto la critica di un giornalista del settore, per esempio dell’abbigliamento, che, pur criticando il proprio settore, lo attacchi denunciando che i capi prodotti in paesi a basso costo di lavoro, diano poi luogo in patria ad un costo elevato, grazie alla firma del capo stesso. Credo che un giornalista di questo calibro non verrebbe più invitato ad una sfilata di moda. È mai stato rilevato il costo delle nuove bevande soft-drink o i nuovi succhi di frutta? Quanto costano? E quanto si pagano in un qualsiasi bar? Pubblicizzate quasi come toccasana per la salute, costano, in proporzione al litro, come un Franciacorta di qualità! La nostra categoria non è immune da colpe, anzi, ma invece di colpire in maniera indiscriminata tutti, perché non si comincia a valorizzare quelli bravi? Magari sarebbero di esempio e si potrebbe creare un virtuosismo contagioso su tutta la categoria. di Matteo Scibilia Presidente Consorzio Cuochi di Lombardia



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Naturalità addio? Bene, dice il CHIMICO

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della birra, alcuni usassero la stricnina. Stava iniziando il secolo d’oro della chimica, ma non si era certo atteso fino ad allora per manipolare gli alimenti: già lo scrittore romano Plinio il Vecchio descriveva i metodi di adulterazione di prodotti di largo consumo come pepe e farine. Dal medioevo in poi i sofisticatori, nonostante le pene eccezionalmente severe previste, hanno dato prova di una creatività pari solo alla loro mancanza di scrupoli. Dalla farina tagliata con gesso, allume o col tossico loglio, fino al vino addizionato di calce e piombo e alle acquaviti prodotte con acquaragia e acido solforico, il campionario dei crimini alimentari è di una impressionante varietà. Fortunatamente l’ingegno umano è stato utilizzato anche in altre direzioni: già nella seconda metà del ‘700, Benjamin Thompson, conte di Rumford, sperimentava la cottura a bassa temperatura, con l’intento di migliorare l’efficienza delle mense per i poveri. Incidentalmente otteneva risultati pregevoli dal punto gastronomico che, anche se pressochè ignorati allora, oggi vengono riscoperti e valorizzati. L’importanza della sua opera, comunque, sta soprattutto nell’uso senza preconcetti delle scarse conoscenze scientifiche della sua epoca per migliorare dei procedimenti fino ad allora dominati dall’idea del “ma si è sempre fatto così”. E oggi? La situazione in fondo non è cambiata: da un lato i Tra frodi alimentari e presunta natura- rischi di ben più subdole frodi, dall’altra lità, sarebbe auspicabile accettare le l’idea mitica del cibo “naturale” e di una nuove tecnologie e coglierne gli aspetti presunta “tradizione”. In realtà, l’abbandono legati a sicurezza e standard qualitativi. del cibo naturale è iniziato quando abAnche grazie a questa evoluzione, oggi biamo smesso di cibarci di bacche e rapossiamo permetterci di non rimpian- dici: di lì in poi è stato tutto un selezionare gere “i bei tempi andati”. Che forse alimenti, sperimentare tecniche di cottura, tanto belli non erano… mettere a punto metodi di conservazione. Se consideriamo questi ultimi, risulta eviNel 1821 il chimico tedesco Friederich dente come i processi più moderni e tecAccum doveva lasciare precipitosamente nologici, tra cui la surgelazione, la pastoLondra, dove lavorava da quasi trent’anni. rizzazione, la conservazione sotto vuoto L’anno prima aveva pubblicato un trattato o in atmosfera modificata siano meno insulle sofisticazioni alimentari col suggestivo vasivi e più salutari di quelli antichi, come sottotitolo “There is death in the pot”. Da la salatura e l’affumicamento. Pensiamo subito vendutissimo, il libro documentava, quanto sarebbe diversa la disponibilità tra l’altro, come i bei colori dei dolciumi di cibi, in quantità e varietà, e quanto il inglesi fossero dovuti all’aggiunta di nostro attuale benessere dipenda da metalli tossici come rame, piombo e ar- queste tecniche. Ma con l’abbondanza e senico, e come, per risparmiare sul luppolo la disponibilità di tutto sempre, la cucina

ha forse perso anima e radici, ha lasciato alle spalle la tradizione? In realtà la cucina è un’arte fortemente evolutiva: passeggiando nelle belle città del nostro paese godiamo della vista di sculture e architetture rinascimentali e medievali, talvolta romane e greche. Difficilmente però un piatto autenticamente medioevale o romano sarebbe tollerato dal nostro palato, le distanze su cosa è considerato appetibile oggi e qualche secolo fa sono siderali. Più recentemente il buon Artusi (e siamo alla fine dell’800) propone un uso dei condimenti e dei grassi oggi assolutamente improponibile. Per contro, il simbolo forse più rappresentativo della cucina mediterranea, la “pummarola” ha esordito sulle tavole solo a metà del diciottesimo secolo, immediatamente colpita dagli strali della Chiesa ed inserita nel libro nero degli “alimenti riprovevoli”: il pomodoro era giunto dalle Americhe due secoli prima ma era ancora considerato un “frutto del demonio”. Cosa possiamo concludere? Forse che dobbiamo temere non l’innovazione (inevitabile!), ne’ l’uso delle conoscenze, che si chiamano anche chimica, fisica, microbiologia, ma l’ignoranza e la speculazione. Se poi vogliamo sperimentare nuovi sapori, nuove consistenze e chiamiamo questo “cucina molecolare”, è solo un’altra faccia dell’eterno gioco umano dell’inventare. di Maurizio Forte Chimico, dirigente laboratorio pubblico analisi



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VINITALY da record e Artù fa discutere

di Theo Smith Alla grande fiera del vino di Verona svoltasi ad aprile si è registrato un ulteriore aumento dei visitatori (+10%) a conferma del fatto che, forse, possiamo parlare di ripresa di interesse e di consumi in un comparto segnato da una crisi evidente. Al più grande Vinitaly della storia, anche Artù ha fatto la sua parte, coinvolgendo in una conferenza stampa produttori, ristoratori e giornalisti. Gli interventi di Giancarlo Perbellini e Alessandro Scorsone. Il “nuovo” Artù si è presentato a Vinitaly nel corso di un incontro al PalaExpo, nel quale sono intervenuti rappresentanti di Edifis (l’editore di Artù), produttori vinicoli, ristoratori e sommelier. Tema della conferenza stampa, quella

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che è stata definita “l’offerta ragionevole”, vale a dire quella particolare offerta che tenga conto di quanto siano cambiate abitudini (e attitudini di consumo), scelte e propensioni di spesa fuoricasa, ma anche gusti e desideri in materia enogastrononomica. Il direttore di Artù, Alberto P. Schieppati, ha descritto la filosofia editoriale del magazine che vuole, attraverso case history di locali e personaggi, approfondimenti e notizie dal mondo del beverage e del food, analisi mirate sull’evoluzione dei format, fare il punto sullo stato dell’arte del settore, monitorandone il continuo cambiamento. Non a caso, dopo gli interventi di Antonio Savoia, presidente Edifis, e Andrea Aiello, direttore editoriale del gruppo, i quali hanno introdotto la giornata attraverso l’esposizione della mission imprenditoriale della casa editrice, hanno preso la parola due professionisti dell’offerta, particolarmente attenti e preparati nel saper cogliere i mutamenti del mercato. Giancarlo Perbellini, due stelle Michelin, imprenditore veronese nel settore della ristorazione di qualità, ha messo in evidenza la necessità di sapersi rapportare a differenti segmenti di mercato: “È l’unico modo per restare sul mercato con successo”, ha sottolineato, evidenziando come la diversificazione dell’offerta sia l’elemento vincente su quale puntare. “Non a caso la mia attività imprenditoriale punta sulla diversificazione dell’offerta, ma ad una condizione: che la qualità delle materie prime e dell’acco-

glienza siano sempre ai massimi livelli di coerenza”. Gli ha fatto eco Alessandro Scorsone, sommelier di razza, responsabile del cerimoniale di palazzo Chigi e del Quirinale: “Lo stile dell’offerta è un aspetto fondamentale del rispetto verso il cliente e le sue esigenze. Perciò non sono più ammesse in alcun modo ingenuità e presunzioni”. Di grande impatto l’intervento di Angelo Gaja, il produttore di Barbaresco la cui immagine internazionale rappresenta l’eccellenza del vino italiano nel mondo, che ha sottolineato la necessità di “un rapporto continuo con le decine di giovani imprenditori della ristorazione, che vogliono raggiungere il successo grazie alle loro capacità e alla caparbietà che li contraddistingue”. Sul concetto di offerta ragionevole si è poi soffermato Alberto Schieppati che ha insistito sulla necessità di affrontare la clientela della ristorazione con maggiore trasparenza, evidenziando i valori reali delle materie prime e posizionandone il prezzo con un criterio oggettivo. “Proporre carte dei vini e menù che siano compatibili con le necessità del mercato è oggi un imperativo assoluto. Il mondo è cambiato, anzi, si è ribaltato: e gli scenari attuali impongono un approccio corretto, anche da parte dell’industria alimentare e del beverage”. La filosofia editoriale di Artù tiene conto del cambiamento in atto e –attraverso report e articoli miratiinforma sull’evoluzione dell’offerta in relazione ai mutamenti continui della domanda.



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News, PROTAGONISTI, eventi del fuoricasa Prestigiosi riconoscimenti

Anne-Sophie Pic Nel 1805 Barbe-Nicole Ponsardin, nota come Madame Clicquot, prende le redini dell’azienda di famiglia fondata nel 1772 dal suocero e riesce a portare il suo prezioso vino in tutte le corti d’Europa, conquistando un posto d’onore nella storia. Grande successo commerciale dell’epoca, lo Champagne Veuve Clicquot diviene presto un mito, "le vin roi". Nel 2005, anno di celebrazione del bicentenario dell’ascesa di Madame Clicquot alla guida dell’azienda, ha preso il via in Italia il Premio Veuve Clicquot, per celebrare donne di tutto il mondo capaci di rispecchiare la stessa espressione di forte personalità e determinazione. Il 2011 ha dato il via alla prima edizione del Veuve Clicquot World’s Best Female Chef Award dove, una giuria composta dagli 837 membri della Electrolux World's 50 Best Restaurants Academy, ha conferito il primo premio alla francese Anne-Sophie Pic, della Maison Pic, quarta donna ad aggiudicarsi anche la terza stella della Guida Michelin. Stephane Gerschel, direttore delle comunicazioni internazionali di Veuve Clicquot, ha così commentato: “È un piacere annunciare il conferimento ad AnneSophie Pic del Veuve Clicquot World’s Best Female Chef Award 2011. Le realizzazioni di Anne-Sophie Pic nella Maison Pic sono l’esempio migliore delle qualità che Veuve Clicquot World’s Best Female Chef Award intende valorizzare. Celebre per il suo impegno nella creatività e nell’innovazione, Anne-Sophie

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Pic ha continuato a seguire e onorare le tradizioni del ristorante fondato da suo nonno. Come nel caso di Madame Clicquot 200 anni fa, Anne-Sophie Pic apre la via alle donne nel mondo della cucina creativa e Veuve Clicquot desidera congratularsi con lei per questo straordinario traguardo”. La presidenza dell'Accademy ha inoltre conferito l'ambito riconoscimento Lifetime Achievement Award alla carriera allo chef spagnolo Juan Mari Arzak, terza generazione della sua famiglia nella conduzione del Restaurant Arzak, aperto a San Sebastian, in Spagna, da suo nonno nel 1897.

La Bourriche, tra coquillage e collezionismo

La particolarità de La Bourriche è proprio l’unione di due passioni, quella per il cibo e quella per il collezionismo. Il nuovo ristorante, nel centro di Torino, propone cruditè di mare in un'atmosfera anni '50: la sala è quasi un piccolo museo dove sono esposti oggetti interessanti e da collezione, come i poster anni’50 o le automobili giocattolo del primo dopoguerra. I re del menù sono i plateau: aragoste, astici, granchi, scampi, gamberetti, mandorle di mare, cozze, lumache di mare, bocconi di mare, tartufi di mare e ovviamente ostriche. Tutto il coquillage arriva fresco dalle coste della Francia, dalla Bretagna, dal Calvados e dalla Manche (il canale della Manica), varietà speciali provenienti anche dall’Irlanda e affinate in Bretagna o a Cancale, oltre ai percebes (tipo di crostacei) della Galizia e ai ricci dell’Islanda. Da sottolineare la scelta degli aceti francesi a base di frutta: mango,

fico, pomodoro, frutto della passione, peperone, fragola e ribes da abbinare ai frutti di mare o insalate; pane e grissini sono presentati sul tavolo nei vecchi barattoli delle ostriche. Non mancano i prodotti legati alla terra, come gli affettati di Greve in Chianti, formaggi e tartare di carne, tutto rigorosamente crudo. Una piccola sala al piano inferiore espone oggetti sempre nuovi e pezzi rari, tutti da collezione.

Estate 2011: Carnia, alla scoperta di cibi e tradizioni La Carnia, terra di confine fra Italia, Austria e Slovenia propone, per le prossime vacanze estive, gustosi pacchetti all'insegna del buon cibo e delle tradizioni. Da metà maggio a metà luglio protagoniste indiscusse della tavola carnica sono le erbe (ingrediente per frittate, cjarsòns, risotti, insalate). Per imparare a raccoglierle, cucinarle e assaporarle, ecco “Le mille erbe della Carnia”, un pacchetto – dai 145 ai 160 € a secondo della struttura prescelta – che comprende due pernottamenti, cena tipica a base di erbe, passeggiata naturalistica con accompagnatore, corso di cucina con degustazione, e visita a un'azienda agricola. Per gli amanti della buona cucina e per coloro che sono a caccia di sapori antichi e prodotti genuini è riservato, durante tutto l'anno,

il pacchetto “Alla ricerca dei sapori della Carnia”, che prevede la visita a un caseificio e un pranzo tipico. In programma anche la visita a Bosco di Museis per vedere la produzione e la lavorazione del miele ApiCarnia e ad altri piccoli produttori, quali la Distilleria Casato dei Capitani che produce la prelibata Slivowitz (grappa di prugne). Per concludere, tre entrate alle Terme di Arta per concedersi momenti di puro relax. Pacchetto a partire da 320€. Info: www.carnia.it

Buon Ricordo, eletto nuovo presidente Nel corso dell’ assemblea svoltasi a Mira - Riviera del Brenta, Ovidio Mugnai è stato confermato alla Presidenza dell’Unione Ristoranti del Buon Ricordo, eletto vicepreseidente Antonio Pagani del ristorante "I 5 campanili" di Busto Arsizio. La nomina del nuovo Direttivo del sodalizio fra ristoratori più antico e più noto d’Italia (126 soci, 47 anni di vita), è avvenuta nel corso dell’Assemblea dell’associazione, svolta durante l’incontro annuale fra i soci ospitati sulla Riviera del Brenta: tre giornate intense di lavori, cibi raffinati, visite, il tutto organizzato sotto l’attenta regia della famiglia Carraro de Il Burchiello di Oriago di Mira, quartier generale dell’evento e insegna storica del Buon Ri-


Ovidio Mugnai, presidente dell’Unione Ristoranti del Buon Ricordo cordo. La convention è stata realizzata con il Patrocinio del Comune di Mira e la collaborazione della Camera di Commercio di Venezia, dell’Amministrazione provinciale di Venezia/Villa Widmann Foscari e della Confcommercio Ascom Riviera del Brenta.

Ritorno alla "Materia Prima" "Materia Prima". La fisolosia del nuovo ristorante di Fabrizio e Marco Colzani a Cassago Brianza, in provincia di Lecco, è già scritta nel nome: garantire sempre l'utilizzo di materie prime di alta qualità e ricercare nuove tecniche per valorizzare l'essenza della freschezza. Ogni singolo ingrediente viene selezionato in fase d'acquisto, dalla carne al pesce, dalle verdure ai vini, scelti dallo stesso Marco Colzani – esperto enologo –, eliminando l'utilizzo di basi pronte o semilavorati. In cucina lo chef Fabrizio Colzani – che vanta un curriculum di tutto rispetto grazie alle importanti collaborazioni con Gualtiero Marchesi e

Davide Oldani, nonchè parte del terzetto vincitore nel 2008 al concorso "Giallo Milano" – è sempre alla ricerca della tecnica perfetta per esaltare al massimo tutte le materie prime utilizzate: “la materia prima, quella eccellente, è l’essenza della qualità. La rispetto, evito di coprirla con salse, gusti o aromi ingombranti, esalto la sua unicità rendendola protagonista nel piatto. Una lezione che ho imparato in Giappone, dove ho lavorato per diverso tempo".

Agriturismo.it: restyling di primavera Nuova veste per il portale agriturismo.it, che mira a una maggiore velocità di consultazione, semplificazione di ricerca e tante informazione dettagliate: un restyling nella grafica, migliorata con accorgimenti tecnici, e anche nei contenuti che elevano la qualità delle prestazioni e favoriscono una maggiore velocità di consultazione. Questa nuova impostazione ha consentito di ridurre del 50% il tempo in cui i visitatori scelgono la sezione da visitare, dimezzando anche il numero di utenti che abbandonano il sito. La struttura delle pagine è divenuta più chiara alleggerendo i testi, a favore di immagini e contenuti più significativi. Potenziata sia la ricerca a testo libero, sia la ricerca ad hoc di una tipologia di vacanza ben precisa –

una pausa benessere, un week-end goloso, un soggiorno a misura di bambino -, grazie a un sistema di filtri ancora più efficiente per trovare la struttura ideale fra le oltre 1800 presenti sul sito. Agriturismo.it è anche su Facebook, Twitter e presenta un "ap" gratuito per iPhone: sono oltre 100.000 i download effettuati e sono stati registrati picchi di 3.000 visitatori al giorno.

sapori autentici, veraci, vivi. L’abilità di abbinare ingredienti facendo percepire distintamente ogni nota di valore.”

Park Hyatt Milano: un nuovo executive chef Park Hyatt Milano annuncia di aver conferito ad Andrea Aprea l’incarico di Executive Chef per il ristorante The Park. Lo chef napoletano prenderà servizio a partire dall’8 agosto prossimo, dopo aver maturato esperienze importanti, sia in Italia, sia all’estero: Inghilterra presso i Gourmand Restauranttre stelle Michelin, e un'importante esperienza specifica nell’hotellerie super lusso. “L’obiettivo della nostra ricerca - afferma Claudio Ceccherelli, direttore del Park Hyatt Milano – è stato quello di individuare un executive chef che sapesse coniugare due importanti caratteristiche: quella di saper sorprendere ed emozionare con la propria creatività e tecnica, ma anche quella manageriale. È fondamentale saper gestire con attenzione l’insieme delle esperienze gastronomiche che si svolgono nella vita quotidiana di un hotel come il Park Hyatt, nel quale l’eccellenza è un requisito di ogni momento, dalla colazione al brunch. Aprea è un brillante esempio di come queste due anime possono essere complementari. Della sua cucina ho apprezzato la capacità di conservare

Andrea Aprea ph. Vincenzo Lonati Edizioni Gribaudo

Cristian Mometti celebra Eat’s e la Vasocottura Grande successo per Cristian Mometti, Chef Executive Eat’s, che ha proposto le sue prelibatezze in Vasocottura durante la manifestazione Vinitaly e il Salone del Mobile di Milano. Due appuntamenti che hanno confermato ancora una volta il consenso del pubblico alla presentazione del cibo in piccoli vasetti, creativa idea portata alla ribalta proprio dallo chef trevigiano nel suo libro di ricette, pubblicato a dicembre 2010 dal titolo “Vasocottura”, edito dall’Associazione Culturale “Club Magnar Ben”. Cristian Mometti, medaglia d'argento alla “Culinary World Cup 2010”, Artù n°44

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Competenza addio! Il locale-latrina stravince

Cristian Mometti

ha contribuito al successo del Risto-Bistrò nello store di Conegliano, un foodstore unico nel suo genere: aperto ogni giorno (escluso la domenica pomeriggio) fino alle ore 21.00, comprende, oltre ai reparti con i principali marchi della grande distribuzione, le eccellenze alimentari, il mercato del fresco, dei formaggi, del pesce, della carne, dell’ortofrutta di stagione e non solo, il banco dei lievitati (dal pane ai dolci), un’area pensata appositamente per chi soffre d’intolleranze, un’ecoarea con prodotti sfusi, un bar con piccola pasticceria fresca, una cantina con oltre 800 etichette d’Italia e del mondo e un centinaio di birre artigianali, un ristorante-bistrò con la cucina a vista aperto fino alle 24.

Fiorentine, pretendete la certificazione! Dopo il periodo di sospensione della macellazione di bistecche fiorentine (interrotto a partire dal 2006) e superato il fenomeno mucca pazza o Bse, si è di fatto registrata una esplosione di commercializzazione di carne chianina, sia all’ingrosso, sia al consumo diretto. Secondo le stime di Assomacellai, gli italiani consumano circa 87 kg di carne pro-capite, dato che eleva l’Italia al secondo posto dopo la Francia per consumo di carne bovina. La carne chianina risulta essere la preferita e la più richiesta: "si tratta di una carne certificata e garantita dal Consorzio 5R (razze pregiate italiane)" – afferma Alfredo Landucci, titolare di Boscovivo Arezzo – di cui Boscovivo fa parte. Secondo i dati forniti dal Consorzio del Vitellone bianco, i capi di chianina certificati nel 2009 sono stati 6799 e i

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capi macellati sono stati circa 5000, 4151 nella provincia di Arezzo". Ed è proprio da questi dati che sorge il dilemma, ovvero capire come il canale Ho.re.ca possa soddisfare tutte le richieste di carne chianine, calcolando che su un totale di 5000 capi macellati in un anno è possibile ricavare, secondo il disciplinare, solo 230.000 fiorentine. Già nel 2007 un’importante operazione realizzata dai Nas dei carabinieri in collaborazione con il Consorzio Ccbi di Perugia (Consorzio carni bovine italiane), aveva portato alla scoperta di un traffico di bestiame con certificati contraffatti. "Per questo motivo – afferma Landucci – bisogna richiedere la certificazione ai venditori, compresi i ristoranti. Il consumatore deve pretendere l’esibizione del certificato che vale dalla data di macellazione al consumo, e diffidare anche dall'eccessiva morbidezza della carne".

Sfogliando il “Dizionario dei termini desueti e passati di moda”, mi sono soffermato sul vocabolo “competenza” e ho letto: “sostantivo femminile, un tempo utilizzato per definire la conoscenza specifica su determinati argomenti o aspetti del sapere e delle professioni, legato a talento, esperienza, cultura”. Oggi, evidentemente, tale termine è pressoché scomparso, lasciando spazio ad altri termini ritenuti più

chiede un po’ seccato cosa vuoi. Perché è lui a fare un piacere a te. Lo scenario è abbastanza triste: detersivo per le stoviglie appoggiato sul forno a microonde di fronte, stracci sporchi vicini ai bicchieri, piattini con pseudo appetizer baciati dai batteri e trasfigurati per forma e colori, bicchieri orlati sul bordo dal rossetto di una cliente precedente. Alla faccia dell’happy hour! Il bar italiano è diventato questo, nella stragrande maggioranza: un luogo in cui è del tutto casuale la presenza di materie prime destinate all’alimenta-

funzionali per l’affermazione personale, come: “furbizia, sopraffazione, corruzione, approssimazione, favoritismi”. Ci siete cascati! Quel famigerato dizionario non esiste (per il momento), ed è soltanto frutto dell’immaginazione di Sisifo…Ma è pur vero che anche l’esercizio dell’immaginare nasce da suggestioni e stimoli che trovano riscontri nella realtà. E che riscontri! Un tempo la competenza e l’onestà erano valori necessari per l’affermazione sociale e creavano concretamente un differenziale notevole fra chi possedeva certe conoscenza e chi, invece, ne era privo. Oggi, a giudicare da come gira il mondo, pare proprio che la situazione si sia ribaltata. Competenza e professionalità sembrano davvero scomparse o comunque in via di estinzione. Un esempio arriva dai bar. È sempre più frequente entrare in un bar, non venire salutati, trovarsi di fronte, dall’altra parte del banco, un addetto che parla dei fatti suoi al telefonino e che, a un certo punto, ti

zione umana. Avete mai dato uno sguardo all’affettatrice? Raramente brilla, spesso è sommersa dai resti e dai budelli (sintetici) degli pseudosalumi che vi ci vengono affettati. Ovvio, ci sono alcune centinaia di splendide eccezioni (e Artù è in prima linea nel descriverle e additarle a esempi da imitare) che però, su un totale di oltre sessantamila esercizi, rappresentano una percentuale minima, troppo scarsa numericamente…Sisifo gradirebbe conoscere il pensiero di Fipe su questa evidentissima caduta (di stile, di professionalità, di competenze) che affligge il bar italiano. E anche ai Nas vorremmo chiedere: com’è che spesso si legge di vostre operazioni in locali le cui cucine sembrano sale operatorie per ordine, pulizia e cura dei dettagli (il ristorante milanese di Carlo Cracco docet) ma raramente si sente di interventi nei locali latrina in cui l’igiene è un optional? Grazie in anticipo se ci darete una risposta. Sisifo


Loison a Milano: Insolito panettone con Angè e Ferrari Geniale Dario Loison: coraggioso, instancabile e pieno di iniziativa, ha da tempo eletto il suo mitico panettone a protagonista di piatti e menù di grandi chef. Anche nell’ambito di Tuttofood, a Milano, il pasticcere di Costabissara (Vi) ha stupito gli ospiti grazie alla creatività di Danilo Angé, chef consultant mila-

nese) già executive di importanti locali cittadini) e Fabrizio Ferrari (una stella Michelin, Rorf Garden del bergamasco San Marco). L’idea di Loison risale a qualche anno fa, ma gli ultimi sviluppi sono sempre più interessanti sotto l’aspetto gustativo: ci piace ricordare i piatti proposti all’NH della Fiera di Milano: fra gli altri, tortelli di mozzarella di bufala, bottarga e limone, crema di asparagi bianchi e verdi, arancia e panettone, il risotto con crema di robiola, il cubo di tonno gratinato, crema di piselli e capperi. Piatti di elevata creatività, che hanno visto il panettone protagonista discreto, non invasivo, ma molto caratterizzante, capace comunque di equilibrare il gusto delle materie prime in chiave inedita e stimolante.

Ferran Adrià con Dom Pérignon alla cena di chiusura del Bulli Per la prima ed ultima volta, Ferran Adrià, la chef celebrity famosa nel mondo per avere rivoluzionato in modo decisivo l’offerta di eccellenza, ha aperto le porte del suo mitico El Bulli alle bollicine di Dom Pérignon. Per celebrare le affinità di due veri e propri vertici, Ferran Adrià e Richiard Geoffroy, chef de cave di Dom Pérignon, hanno curato insieme l’ultima cena del Bulli,

la cui chiusura è prevista per il prossimo luglio. La cena ha rappresentato il contributo della Maison francese alla Fondazione di Ferran Adrià (El Bulli: Libertad para Crear), basata sul concetto di libertà totale nella creatività culinaria, principio da sempre condiviso dalla celebre marca di champagne. La fondazione aprirà nel 2014 e si prefigura l’obiettivo di diventare un centro di creazione e di ricerca culinaria, con le materie prime, gli ingredienti e la genialità dello chef protagonisti assoluti.


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PRODOTTI, flash, novità, le aziende e il mercato I nuovi gusti di Amita il business cresce Amita, il brand di succhi di frutta distribuiti da Coca-Cola HBC Italia, lancia tre nuovi gusti: Pompelmo Rosa, Lemon Lime e Mango&Friends. In edizione limitata fino a settembre 2011, i nuovi gusti sono disponibili nella classica bottiglietta da 200 ml, un packaging sempre molto colorato, come tutta la gamma dei succhi Amita: 13 gusti che vanno dai tradizionali Nettari, ai Succhi 100% senza zucchero, fino ai Gusti Mix. "I succhi e i nettari rappresentano per Coca-Cola HBC Italia una delle categorie di prodotto più importanti, la terza dopo acqua e bevande gassate ha dichiarato Erika Picerno, Brand Manager di Coca-Cola HBC Italia -. In futuro, grazie all’innovazione continua e all’efficienza del nostro canale di vendita, intendiamo rafforzare la conoscenza tra i consumatori di Amita brand che nel 2010 ha raggiunto ottimi risultati con una market share del 15% nel canale bar diurni, puntando a diventare leader nel mercato dei succhi di frutta". Una tendenza confermata anche da una naturale evoluzione del consumatore finale: da un’iniziale baricentro sul target infantile a un progressivo allargamento della gamma in direzione più adulta. Amita è infatti presente in più di 30 mila bar con oltre 50 milioni di consumazioni su tutto il territorio nazionale.

Mozzarella di bufala: arriva il francobollo Nuovo riconoscimento per la mozzarella di bufala campana: dal 25 marzo, per tutti i “filatelici gastronomi”, è in circolazione il francobollo dedicato alla Dop campana per eccellenza. L'annullo filatelico, emesso nell'ambito della serie tematica “Made in Italy” e realizzata da Poste Italiane e dal Ministero dello Sviluppo Economico, arriva in occasione dei festeggiamenti per i trent’anni dalla costituzione del Consorzio di Tutela, nato nel 1981: “la mozzarella di bufala campana Dop – dichiara il presidente del Consorzio di Tutela, Luigi Chianese – è un

Coevo 2007: da Pinchiorri a Monaco prodotto simbolo dell’eccellenza del made in Italy, capace di coniugare tradizione e modernità in un legame fondamentale con il territorio. Inoltre, è il marchio Dop più importante di tutto il Centro-sud Italia. Esprimo pertanto soddisfazione per il riconoscimento: è la testimonianza preziosa di un lavoro quotidiano che punta alla qualità ed è un omaggio all’immagine dell’Italia nel mondo, indissolubilmente legata alla bontà e genuinità delle sue produzioni agroalimentari”. L'iniziativa è stata presentata negli stessi giorni di Milanofil, il Salone Internazionale del Francobollo a fieramilanocity.

Majolini compie 30 anni La famiglia Majolini, produttore di pregiati Franciacorta, lancia un nuovo marchio: Major Luxury Selection, un'attenta selezione di prodotti d’eccellenza.

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Segnaliamo, tra gli altri, il Caviale Major, un prodotto scelto in collaborazione con l’Agroittica Lombarda, grazie alla quale la Cantina Majolini è riuscita a individuare la tipologia di caviale che più si adatta ad accompagnare i suoi Franciacorta. Il nuovo marchio contribuisce ancora una volta a sottolineare l'intensa attività della Cantina Majolini che, per celebrare i suoi 30 anni di attività, presenta al pubblico la nuova etichetta Blanc de Noir, una Franciacorta ottenuta esclusivamente da Pinot nero vinificato in bianco, affinato in bottiglia per 24 mesi. Queste bollicine dal sapore pieno sono perfette con carni bianche e rosse e a tutto pasto.

L’iter enogastronomico promosso dalla famiglia Cecchi durante tutto il 2010 è arrivato anche in Germania: dopo l'Enoteca Pinchiorri, Le Calandre e il ristorante Da Vittorio, continuando poi con la Pergola e Dal Pescatore, sono stati ben 80 gli chef coinvolti in questo

percorso, approdato con la nuova vendemmia anche a Monaco. A fare gli onori di casa Mario Gamba, patron eclettico dell'Acquarello, il più famoso ristorante italiano in Germania. "È una soddisfazione arrivare in Germania dopo un anno come quello appena trascorso – afferma Cesare Cecchi –. Il 2010 ci ha visto impegnati in un tour che ha toccato i migliori ristoranti italiani. Abbiamo coinvolto oltre 80 chef e altrettanti giornalisti italiani che hanno condiviso con noi questo importante progetto". La seconda annata di Coevo, quella del 2007, ha suscitato molto interesse non solo in Italia, ma anche oltralpe, una grande soddisfazione per la famiglia Cecchi che produce un vino fortemente legato al territorio e al vitigno Sangiovese. L’evento, inaugurato con un excursus di Cesare e Andrea Cecchi dedicato al vino Coevo, ha poi visto sfilare una successione di piatti realizzati dallo chef Mario Gamba, ispirati dall’abbinamento con Coevo 2006 e Coevo 2007 Magnum.

Rummo: la lenta lavorazione piace anche all'ambiente Nel cuore del beneventano nasce una pasta a "Lenta Lavorazione", un metodo innovativo che preserva l'elevato contenuto proteico della semola di qualità superiore impiegata, ed è oggi l'unica pasta approvata dalla


nuova gamma Rummo Le Biologiche, anche nella versione integrale: tre formati – spaghetti, penne rigate e fusilli – prodotti nelle due linee con la sola semola italiana al 100% biologica certificata. Da oggi anche in vendita online su www.emporioecologico.it

Montalcino: Rinaldi distribuisce Poggio Rubino FIC – Federazione Italiana Cuochi. Stiamo parlando del pastificio Rummo che, in occasione della terza edizione di Tuttofood a Milano, ha proposto assaggi di pasta serviti nelle flûte da champagne. Un'idea originale per festeggiare 165 anni di esperienza e un metodo di lavorazione antico e unico nel suo genere. A coronare l'impegno di un secolo e mezzo di lavoro è giunto anche nel 2010 un importante riconoscimento, il Premio all'innovazione Amica dell'Ambiente, ideato da Legambiente in collaborazione con Confindustria. Il riconoscimento è legato all'avvio di un trigeneratore installato nel 2009 e realizzato con C.I.R.E. - Compagnia Italiana Risparmio Energetico. Il moderno impianto non solo permette di produrre energia termica ed elettrica coprendo il fabbisogno di circa l'80%, ma ha permesso di abbattere l'emissione di anidride carbonica di oltre il 30%. L'occasione della manifestazione Tuttofood è stata anche il trampolino di lancio per la

La Fratelli Rinaldi Importatori di Bologna ha acquisito la distribuzione dei vini di Montalcino Poggio Rubino. La Società Agricola Poggio Rubino è situata nella zona che sovrasta le colline di

Massimo Benetello, Direttore Generale Cantina Ponte Montalcino, a 470 metri sul livello del mare, e si sviluppa su una superficie complessiva di 15,5 ettari, di cui quasi 7 vitati. La conduzione dei vigneti di Poggio Rubino è impostata sulla forte limitazione dell’uso di fitofarmaci, sulla rinuncia totale alla pratica del diserbo chimico, e la vendemmia viene effettuata rigorosamente a mano. Le uve di ogni vigneto vengono vinificate separatamente in vasche d’acciaio, con macerazione lunga (2530 giorni) e a temperatura controllata. L’evoluzione del vino avviene con il metodo tradizionale, in botti mediograndi da 25 – 32 ettolitri.

Cantina Ponte: i bilanci sono positivi Nuovo packaging per la linea rivolta al canale GDO della Viticoltori Ponti, azienda veneta che oggi si conferma come prima cantina vinicola della provincia di Treviso e punto di riferimento per la nuova Doc Prosecco. La Linea VP Viticoltori Ponte si distingue per la bottiglia "collio", il pratico tappo a vite e le etichette stampate tono su

tono: il logo Viticoltori Ponte appare al centro esaltato dalla laminatura a secco, mentre per i Prosecco Frizzante risaltano i colori dell'argento e del bronzo. Cantina Ponte s.c.a. controlla di fatto la società commerciale Viticoltori Ponte, con 2.200 ettari vitati, 1.500 soci conferitori, 4 punti di raccolta e vinificazione, 32 mila quintali di uva prodotta, 14 linee di pigiatura e 3 linee di imbottigliamento. Numeri che consolidano i risultati della storica cooperativa vinicola: il bilancio 2010 presenta un fatturato di 32 mln, stabile rispetto all'anno precedente, con un buon incremento pari al 25% sui mercati esteri. "Il 2010 è stato un anno difficile per i consumi nel canale horeca in Italia, a seguito delle normative e della restrizione dei consumi del fuori casa – ribadisce Massimo Benetello, DG della Cantina Ponte – ma siamo riusciti a recuperare molto bene sui mercati esteri, in paesi come la Germania, l’Inghilterra e gli Stati Uniti". Cantina Ponte esporta infatti in 25 paesi che rappresentano il 32% del volume d'affari globale, pari a 10 mln di euro.

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Medaglia d’oro all’Arèle di Cavit Cavit si aggiudica, per il secondo anno consecutivo, il Premio Speciale “Vinitaly Regione” e porta l’unica medaglia d’oro in Trentino Alto Adige con Trentino DOC Vino Santo "Arèle" 1999, per la categoria vini dolci naturali. Il premio speciale “Vinitaly Regione”, istituito per la prima volta lo scorso anno, è il riconoscimento che viene assegnato al produttore di ogni regione italiana che raggiunge il maggior risultato in base alla somma dei punteggi riferiti ai tre migliori vini. A questa soddisfazione si aggiunge, per la cantina di Ravina, quella di una medaglia d’oro, l’unica della regione Trentino Alto Adige: l’ha conseguita il Trentino DOC Vino Santo "Arèle" 1999, all’interno della categoria “Vini Tranquilli a denominazione di origine e a indicazione geografica, vini dolci naturali” che contava ben 79 vini iscritti alla competizione. Lo stesso vino Arèle si aggiudica anche il premio speciale Banca Popolare di Verona (riservato ai vini provenienti dal Veneto, Emilia Romagna, Trentino e Friuli Venezia Giulia) e ben 8 Gran Menzioni. Così ha commentato Adriano Orsi, presidente di Cavit: “Questi prestigiosi riconoscimenti si uniscono alla chiusura di un bilancio nuovamente in crescita e sono per noi la conferma che stiamo procedendo nella direzione giusta.”

Buttafuoco, con Giuseppe Palmieri, sommelier e direttore di sala del ristorante "La Francescana" di Modena, e con Raffaella Bianchi, giornalista di costume e di moda. L'obiettivo è stato quello di parlare d'amore riscoprendo quanto è stato e quanto sia importante condividere una pietanza o un buon calice, e in quale modo tale gesto abbia consolidato grandi amori del passato e contemporanei. In occasione dell'evento è stato possibile degustare à la flute la cuvée Dom Pérignon Rosé Vintage 2000 e ricevere una copia della guida "Un tavolo per due" in edizione limitata. La guida è soprattutto un diario dove annotare impressioni ed esperienze dei ristoranti visitati e provati, per costruire un itinerario personale. Poesie e citazioni letterarie e cinematografiche legate al tema del cibo e del vino ne arricchiscono le pagine.

Levoni, cento anni, duecento prodotti

di attività. Marella Levoni, che segue la comunicazione e le relazioni esterne dell’azienda, ha accolto gli ospiti nelle splendide sale di palazzo Bagatti Valsecchi, dove sono stati allestiti banchi d’assaggio dei salumi Levoni. Con un fatturato in continua crescita (100 milioni nel 2010) e un export di tutto riguardo (20 milioni contro i 17 del 2009), Levoni copre 8.000 punti vendita nel canale tradizionale (salumerie, macellerie, gastronomie). L’incontro milanese ha offerto l’occasione per verificare i livelli qualitativi raggiunti dall’azienda mantovana, le cui referenze sono oltre duecento, con una copertura perfetta delle principali (ma anche delle più ricercate) tipologie di salumi italiani.

Mumm Blanc de Blancs, Chardonnay d’eccezione La Maison G.H. Mumm presenta una nuova etichetta, nata in collborazione con la il noto marchio internazionale Montblanc: Mumm Blanc de Blancs, 100% Chardonnay, una Cuvée unica tra gli champagne, che deriva unicamente dal vigneto di Cramant di una sola annata. Mumm Blanc de Blancs è un vino prodotto so-

Il salumificio Levoni, di Castellucchio (Mn), ha scelto la nuova sede del Salumaio di Montenapoleone, a Milano, per festeggiare il primo secolo

Rosé Love Week 2011 Anche quest'anno Dom Pérignon Rosé celebra l'amore con la Rosé Love Week, la settimana dedicata allo stare in tavola in coppia. L'inaugurazione si è aperta a Milano con una conversazione sull'amore e la tavola con gli scritti di Laura Laurenzi e Pietrangelo

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Nicola e Marella Levoni

lo in piccole quantità, contraddistinto da un'importante mineralità che deriva dal terreno gessoso della Côte des Blancs, nel cuore della Champagne nella Francia. Il prodotto viene esaltato anche dalla confezione, realizzata dal designer Neil Barrett, che ha disegnato in onore della Maison G.H. Mumm il Trunck Champagnerie, un baule-champagnerie di lusso che richiama lo stile vintage dei primi del ‘900.

Psenner inaugura la nuova distilleria con Herbert Hintner Lo scorso maggio, a Tramin-Termeno (Bz), la famiglia Psenner ha incontrato la stampa per presentare la nuova distilleria, completamente ristrutturata. Una grande festa ha accolto gli ospiti, che hanno avuto modo di gustare i prodotti in gamma, a cominciare dal famoso distillato di pera Williams, celebre in tutto il mondo, fiore all’occhiello dell’azienda altoatesina. Per l’occasione, Psenner ha organizzato un “press tour” negli estesi frutteti di proprietà, dove è stato possibile verificare la procedura originale legata alla produzione della Williams: questo tipo di coltivazione, come è noto, vede crescere la pera direttamente in bottiglia, con l’effetto finale di ritrovare il frutto all’interno della bottiglia stessa. La festa Psenner è culminata in un gala dinner, curato da Herbert Hintner (lo chef di Zur Rose di Appiano, una stella Michelin) che ha proposto


gamberi in pasta fillo con carpaccio di cavolo e rapa e sorbetto ai peperoni, cannelloni ripieni di asparagi verdi e prosciutto rosolato (memorabile), sella di vitello con tartufo nero su letto di sedano, praline allo spumante su tartare di fragole e gelatina di grappa.

Cretico di Tollo, Chardonnay premiato Alla 18° edizione del concorso Meilleurs Chardonnay du Monde, il Cretico

2009 di Cantina Tollo conquista la medaglia d'oro piazzandosi al primo posto tra 914 vini esaminati rappresentanti di 38 paesi. “La medaglia d’oro del Concours Meilleurs Chardonnay du Monde rafforza il palmarès Cantina Tollo – afferma il direttore di Cantina Tollo Giancarlo Di Ruscio –. Cretico, appena uscito nel 2004, già si era aggiudicato la Gran Medaglia d’Oro al concorso mondiale di Montreal in Canada. È il progetto che aumenta la cultura di tutto il territorio”. Il premio viene dopo il titolo di Miglior vino

rosato del mondo, assegnato a Hedos dal Club del la Presse di Bordeaux, quello di miglior vino rosso autoctono del mondo, dato in Inghilterra da Decanter al Cagiolo e quello di Migliore produttore europeo 2010, consegnato dal premio Mundus Vini in Germania.

Pupillo, crema al caffè, si gusta a passeggio Il Caffè del Nonno, la classica ricetta firmata Antonelli, da oggi diventa Pupillo. La ricetta originale, ideata da

Simone e Sandro Antonelli nel 2002, prendeva spunto dalla crema casalinga oldstyle a base di caffè e zucchero mantecata a mano: la nuova ricetta Antonelli rappresentava un prodotto nuovo, che non rientrava in nessuna delle tradizionali categorie dei prodotti da bar. Caffè del Nonno Antonelli è una crema fredda da realizzare mixando la base Antonelli con i vari ingredienti freschi nella macchina per le granite e il risultato è una mousse fresca, un mix dalla consistenza di un frullato o di un sorbetto. Da oggi l'originale crema al caffè per antonomasia diventa Pupillo: stessa ricetta, ma nuova im-


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magine, un prodotto da gustare anche a passeggio, grazie alla comodo contenitore a forma di bicchiere.

una mezza bottiglia per camera o una bottiglia per villa, di Krug Grande Cuvée, presentata all’interno dell’apposito cestello porta ghiaccio e accompagnata da una lettera di benvenuto realizzata ad hoc dalla Maison.

Cartizze Vigna Rivetta a quota diecimila bottiglie

I resort Equinoxe scelgono lo Champagne Krug Il tour operator Equinoxe, fondato nel 1986, si distingue per l’offerta di prodotti sofisticati ed esclusivi ed è leader italiano nel noleggio di yacht in tutto il mondo e specializzato in vacanze presso prestigiosi resort, hotel di charme e maison d’hôtes. Recente l'importante partnership con la Maison de Champagne Krug, per offrire ai propri ospiti l’esclusività del servizio Krug Concierge. Gli ospiti che prenoteranno una vacanza settimanale presso uno dei 12 resort proposti da Equinoxe nel Mediterraneo, saranno omaggiati di un “Krug Welcome” esclusivo:

Tra le degustazioni svoltesi nell’ambito di Vinitaly segnaliamo ai lettori quella di Vigna la Rivetta, il Cartizze Superiore prodotto dalle uve dei vigneti di proprietà di Villa Sandi ubicati proprio sulla collina del cartizze. In uno stand affollatissimo, Giancarlo Moretti Polegato, presidente dell’azienda di Crocetta del Montello, ha accolto gli ospiti proponendo una degustazione delle preziose bollicine, condotta dal sommelier Alessandro Scorsone (nella foto con l’enologo Riccardo Cotarella e Giancarlo Moretti Polegato). L’incontro veronese è stata anche l’occasione per ribadire i successi raggiunti dalla Rivetta (non ultimo, il riconoscimento dei Tre bicchieri sulla guida 2011 del Gambero Rosso).

prestigiosi green italiani: il Golf Club di Bogogno, l’Olgiata Club di Roma, il Golf Club Milano di Monza. Il torneo vedrà impegnate 300 donne in ogni competizione: cento giocatrici per ogni tappa, scelte fra golfiste, opinion leader, giornaliste che si sfideranno in un’atmosfera unica, impreziosita dall’inconfondibile twist di Veuve Clicquot. Le bollicine francesi saranno le protagoniste di un intenso momento promozionale che accompagnerà tutti gli eventi mediante assaggi, degustazioni, educational sulle caratteristiche del prodotto e sulle occasioni di consumo.

Le nuove frontiere del Lugana di Zenato Una degustazione di Lugana, ottenuti da 14 vinificazioni sperimentali realizzate nel 2010, ha letteralmente conquistato la platea di enologi, degustatori e giornalisti del settore vinicolo che hanno avuto modo di conoscere e ap-

Villa Sandi

Veuve Clicquot sponsor del torneo Women Golf La maison di champagne Veuve Clicquot ha presentato il primo Veuve Clicquot Women Golf Invitational, il primo torneo “al femminile” che si svolge tra giugno e settembre su tre

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collaborazione con la Fondazione Mach di san Michele all’Adige, sono state elaborate anche tesi di laurea in Viticoltura ed Enologia, a conferma della unicità di tali sperimentazioni. Condotta da Nadia e Alberto Zenato, la degustazione ha visto proporre in anteprima, oltre alle annate 2009 e 2010, anche annate storiche di Lugana Riserva Sergio Zenato, come il 1995, 1999, 2004, 2007.

prezzare l’evoluzione delle uve di Trebbiano che danno vita al Lugana dell’azienda Zenato. Il progetto ha analizzato sette diverse partite di uve Lugana, vinificate sperimentalmente in azienda nel 2009 e 2010. Sui risultati delle ricerche, coordinate da Fulvio Mattivi e dallo staff tecnico di Casa Zenato, in

Lugana di Zenato

Stüffer, mousse da spalmare Stüffer, azienda altoatesina, produce e commercializza in Italia formaggi e latticini, yogurt, dessert a base di latte e basi pronte, numerosi prodotti rappresentati da diversi marchi: Stüffer, Crea, Cremolo, Vivita e Vanetta. A completare la gamma dei formaggi freschi da spalmare, Stüffer propone oggi la nuova Mousse, disponibile al salmone, alle olive e alle erbe. A basso contenuto calorico – 50 grammi equivalgono a 147 kcal –, la Muosse Stüffer è in vendita in confezioni da 100 grammi con un packaging innovativo: la vaschetta arrotondata evita gli sprechi di prodotto negli angoli, e il solido coperchio salva-freschezza conserva la bontà del prodotto più a lungo. Rafforzata anche la campagna pubblicitaria, una forte comunicazione presente in tutta Italia rivolta al restyling delle confezioni e all'introduzione di nuovi prodotti e grammature.



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Luoghi, fatti, consumi Notizie in CIFRE

44,75 milioni di ettolitri di vino sono stati prodotti in Francia nel 2010, contro i 42,58 realizzati in Italia. I cugini d’Oltralpe riprendono così il primo posto nella classifica mondiale, pur avendo perso un -2% sull’anno precedente. Il nostro paese, con una riduzione dell’11% circa rispetto al 2009, è al secondo posto nella classifica mondiale, seguito da Spagna (35 milioni di ettolitri), Usa (19), Argentina (16), Australia (10), Sud Africa (9,5), Cile (9), Germania (8,7), Portogallo (5,8). La diminuzione della produzione italiana è essenzialmente dovuta a un riequilibrio necessario, a fronte delle mutate condizioni di mercato e del calo dei consumi. “Ma la qualità –ha commentato Federico Castellucci in un’intervista a Le Figaro- è in costante ascesa: a fronte di un calo quantitativo, assisteremo comunque a grandi performance sotto il profilo qualitativo”.

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-0,5% è la percentuale dell’abbassamento della frequentazione della ristorazione commerciale da parte della clientela francese. Il dato riguarda il 2010 e va confrontato con l’anno precedente, nel quale il calo fu del -1,2% sul 2008. Dunque, un differenziale che, seppur sempre con il segno meno, fa sperare che l’inversione di rotta sia vicina. La spesa media complessiva, invece, è leggermente aumentata, dopo anni di discesa vorticosa: un segnale che, come ha sottolineato Christine Tartanson, responsabile della divisione ristorazione di NPD, non può certo far parlare di ripresa. NPD è una società internazionale di ricerche di mercato, i cui focus sul foodservice (ma anche su molti altri segmenti di mercato) sono particolarmente attenti e precisi: oltre 1.800 aziende si rifanno a NPD per le proprie decisioni strategiche.

500 milioni di euro è il fatturato al consumo della mozzarella di bufala DOP nel 2010. Il dato è stato diffuso nei giorni scorsi dal Consorzio della mozzarella di bufala campana DOP, salita recentemente alle cronache per gli exploit commerciali legati soprattutto all’esportazione di prodotto in Giappone, dove il prodotto italiano è ormai un cult. La mozzarella viene prodotta (per un totale di 36.000 tonnellate) nelle province di Caserta e Salerno, in alcune aree delle province di Napoli e Benevento, nelle province di Latina, Frosinone e Roma, nella provincia di Foggia e, in Molise, nel solo comune di Venafro: così recita il disciplinare che conferma come, pur definendosi campana, la mozzarella di bufala viene prodotta anche in aree extraregionali. Come il prosciutto di Parma, che consente di utilizzare maiali allevati in tutte le province che hanno uno sbocco sul Po. Dunque, Parma o Padania?

1960 è l’anno in cui venne effettuata la prima “festa della focaccina di Recco”. L’autostrada Genova-Livorno fu ultimata proprio in quel periodo e Recco visse –da allora in poi- un grande momento di espansione turistica e commerciale. Risale dunque a 51 anni fa il primo momento promozionale di questa preparazione straordinaria per gusto e versatilità. Eppure, nonostante oltre mezzo secolo, la focaccia di Recco –sottolinea Lucio Bernini, del Consorzio della focaccia di Recco- è ancora in attesa della IGP, un riconoscimento che ne aumenterebbe l’immagine. Per ora, a salvaguardarne la qualità e il sapore ci pensano panettieri e ristoratori dell’area recchese (Tossini e Manuelina in testa) che ne valorizzano quotidianamente la percezione, grazie al loro lavoro e alla loro professionalità.



focus

Villa FRANCIACORTA Un sogno che si rinnova di Theo Smith Villa, la storica cantina di Franciacorta che non finisce mai di stupire. Dopo la creazione di Sparkling Menù, l’evento con il quale Villa stimola la ristorazione a creare piatti da abbinare alla Cuvette, fiore all’occhiello dell’azienda, lancia sul mercato un nuovo brand, l’Extra Blu: un extra brut di notevole eleganza e complessità, prodotto in sole 9.000 bottiglie destinate ai ristoranti di eccellenza. Potenza delle idee chiare, ma anche del bisogno di innovazione continua, nella consapevolezza che, in campo vitivinicolo (ma non solo), l’eccellenza ha bisogno di amore, continuità, perseveranza. Non a caso Alessandro Bianchi, che con la figlia Roberta e il genero Paolo Pizziol è l’anima di Villa, ha recentemente dedicato all’attività di famiglia uno splendido volume fotografico, intitolato “Storia di un sogno”. E, come tutti i sogni che si rispettino, nel tempo si è trasformato in un grande progetto, in una realtà che richiama l’interesse e l’attenzione di esperti, appassionati, professionisti di tutto il mondo, attratti da questa case history eccezionale che ha fatto della difesa del terroir (ovvero l’insieme di territorio vocato, atmosfera e offerta di paesaggio, natura e prodotti) il proprio grande obiettivo. Villa Franciacorta ha scelto come filosofia imprenditoriale proprio quella di esaltare le caratteristiche uniche del territorio vitato, vinificando esclusivamente uve provenienti dai cru di proprietà. A questa scelta ha abbinato un’altra decisione, certo non facile, ma molto coraggiosa: quella di commercializzare unicamente i Franciacorta docg millesimati che esprimano le vendemmie migliori. Se un’annata, pure ottima, non consente di produrre eccellenza ai massimi livelli, la scelta è di soprassedere, in attesa delle condizioni che consentiranno la perfezione. Il rispetto per la natura, per l’azienda di Monticelli Brusati (Bs), è un imperativo categorico: insieme all’amore per le migliori tradizioni e alla ricerca di una qualità totale, è il valore che caratterizza al meglio l’attività produttiva della cantina. L’utilizzo di sostanze naturali e biologiche nella gestione del vi-

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gneto e nei processi di vinificazione, è un esempio concreto di una filosofia di vita (prima ancora che di impresa), nella quale la proprietà dell’azienda crede fermamente: questa linea di condotta si rispecchia evidentemente nella produzione vinicola complessiva, ma anche nella cura e nel decoro dell’antico borgo medioevale, annesso alla cantina, all’interno del quale c’è una struttura di ospitalità tanto semplice quanto raffinata: ventuno appartamenti, di cui 10 bilocali e 11 trilocali. La visita del “Borgo Villa” è un affascinante viaggio nel tempo e nei profumi che circondano l’incanto della conca naturale ai piedi del Colle Madonna della Rosa. Ricoperto alla sommità da boschi di querce, eriche e ginepri, accoglie un microclima ideale per i vigneti, ottenuti da una “certosina opera di terrazzamenti sorretti da muri a secco fino ai piedi del declivio”, dove si trovano le cantine perfettamente interrate, anche per consentire un naturale condizionamento termico ideale per i Franciacorta, che riposano molti anni in attesa del rito della sboccatura. La produzione dei grandi cru di Villa è il risultato di una ricerca maniacale della qualità, bene espressa dalla “collezione” dei celebri Franciacorta commercializzati nella ristorazione d’eccellenza: Villa Satén, morbido e di grande finezza, Villa Rosé, eleganti bollicine dalle tonalità di colore tenui e delicate, Diamant Pas Dosé, Cuvette, il fiore all’occhiello della famiglia.


Ed è proprio la Cuvette, chardonnay 85% e pinot nero 15%, la protagonista di Sparkling Menù, la manifestazione diventata, nel tempo, una sorta di festival degli chef emergenti. Queste bollicine vengono infatti proposte come abbinamento ideale per i menù realizzati da giovani ristoratori di tutta Italia che, sottoposti al vaglio di una giuria professionale di giornalisti ed enoappassionati, preparano piatti i cui gusti devono risultare in assoluta coerenza con le bollicine a tutto pasto. La manifestazione, partita nei mesi scorsi, darà poi vita a una selezione di una rosa di finalisti che – nel prossimo mese di settembre- saranno protagonisti di un grande evento fra le mura dell’antico borgo di Villa: lo scorso maggio la giuria Villa ha testato un ristorante di Carate Brianza (MB), dove un giovane chef ha proposto la sua interpretazione culinaria in abbinamento alla Cuvette, con risultati di indubbio valore. Ed è proprio nell’indole imprenditoriale di Villa la volontà di scoprire e inventare nuovi eventi, ma anche nuovi prodotti, destinati a stupire positivamente l’universo degli “enogourmet”. Dopo l’esclusiva riserva RNA, la Riserva Nobile Alessandro Bianchi (creata in occasione del 50° anniversario dalla fondazione di Villa), è di questi giorni la nascita di un Franciacorta Extra Brut, che in etichetta riporta il nome Extra Blu: una “bollicina” dal bassissimo residuo zuccherino, che racchiude nella sua struttura tutta la storia geologica dei terreni di proprietà Villa. Con una resa per ettaro tra gli 80 e i 90 quintali per ettaro, l’Extra Blu nasce su terreni vergini, ricchi di sostanze naturali; il suolo è collinare, prevalentemente argilloso e marnoso, ricco di minerali e microelementi. Vinificato con pigiatura soffice e sedimentato naturalmente a freddo,

fa la prima fermentazione in serbatoi di acciaio inox, dopodiché viene effettuato un parziale affinamento in barrique prima del tiraggio (messa in bottiglia). Questa fase avviene nella primavera successiva all’anno della vendemmia, rifermentazione e presa di spuma in bottiglia con lieviti selezionati e successivo affinamento sugli stessi per 48 mesi nelle cantine interrate, ad una temperatura costante compresa tra 12 e 15 gradi. Allo scorso Vinitaly è stato presentato il millesimo 2006, che ha colpito per eleganza e complessità: di colore giallo paglierino brillante, ha un perlage fine e persistente, al naso è elegante e complesso, per poi aprirsi con un bouquet ampio e di grande personalità. In bocca conquista per freschezza, sapidità e struttura. Villa Franciacorta Extra Brut è ideale come aperitivo, ma grazie alla sua versatilità rappresenta l’abbinamento ottimale con primi e secondi piatti delicati e di gusto, soprattutto a base di pesce.

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di Luisa Contri Sono sempre più numerosi gli chef di fama che firmano bistrot. Locali più easy, come spesso sono definiti dai diretti interessati, dall’ambiente curato, ma dal servizio informale, fruibili anche per pasti veloci e, soprattutto, che propongono ottimo cibo a prezzi accessibili ai più. Dobbiamo considerarli un escamotage dei grandi chef-imprenditori per far quadrare i conti del ristorante gastronomico, recuperando quella fascia di clienti che, complice la crisi, se n’è allontanata? O rappresentano un vivaio di futuri clienti, che avvicina soprattutto le nuove leve alla cucina con la C maiuscola? Oppure sono un’evoluzione naturale dell’alta ristorazione, a fronte del prevalere di un consumo più frugale sia del cibo sia del vino, improntato ora al wellness ora al ritorno ai fondamentali, che spinge i menu degustazione sul viale del tramonto?

La risposta non è univoca e non s’esaurisce nei tre postulati che vi abbiamo enunciato, stando almeno alle parole di Morgan Pasqual, per 10 anni chef e patron del “Ristorante 5 Sensi” di Malo (Vi), di Moreno Cedroni, chef che ha ideato il ristorante “Madonnina del pescatore” di Senigallia nonché il susci bar “Clandestino Portonovo”, il “Clandestino Milano” presso la maison Moschino, la salumeria ittica “Anikò” di Senigallia e “l’Officina”, il laboratorio specializzato in conserve di pesce di Marina di Montemarciano; di Fulvia Salvarani, maître de “il Rigoletto” di Reggiolo (Re) e moglie e madre degli chef Gianni e Federico D’Amato, di Angelo Sabbadin, sommelier del ristorante “Le Calandre” di Sarmeola di Rubano (Pd)–chef Massimiliano Alajmo, e di Mauro Mattei, sommelier del ristorante Piazza Duomo di Alba (Cn)–chef Enrico Crippa. Dei cinque personaggi interpellati da Artù, Pasqual è lo chef che ha fatto la scelta più radicale. Il 28 febbraio scorso ha chiuso il suo ristorante di via Pacinotti 2 a Malo e il successivo 11 marzo ha aperto il “5 Sensi bistrò”, in strada Sant’Antonino 63 a Vicenza. Come spiega questa decisione sua e di sua moglie e maître, Luciana Silvestri? «Dopo 10 anni d’attività del ristorante», scrive Pasqual in una lettera a clienti e conoscenti, «abbiamo maturato la volontà di confrontarci con un progetto nuovo. Questa decisione è figlia di un’attenta analisi del cambiamento epocale che stiamo vivendo. Cambiamento che ha inciso notevolmente sulle abitudini di consumo del cibo e sulle modalità di frequentazione dei ristoranti di una certa fascia di prezzo. Negli ultimi tre anni abbiamo avuto una crescita importante dei servizi di catering e banqueting e della fornitura di cene take-away. Dall’altra parte l’attività del ristorante era sempre più incostante e concentrata nei fine settimana, durante i quali, paradossalmente, eravamo costretti a rifiutare prenotazioni per l’eccesso di domanda. Abbiamo Artù n°44

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quindi pensato di creare un nuovo locale, fruibile tutti i giorni, dove trovare del buon cibo, genuino e sano, senza impegni particolari e con l’assoluta libertà di consumare anche un solo piatto». A spingere Pasqual al cambiamento sono stati, dunque, la variabilità e imprevedibilità delle presenze infrasettimanali che negli ultimi anni hanno messo a dura prova le sue capacità di garantire sempre la freschezza degli ingredienti di un menu ampio, un must per un ristorante gastroLa ristorazione di fascia elevata cerca nuove strade per superare la crisi, sparigliando le carte e rivoluzionando la propria offerta. L’obiettivo è la fidelizzazione di una clientela più informale, in cerca di un rapporto qualità-prezzo chiaro e trasparente. Molti gli esempi presi in esame da Artù: in questa pagina, il 5 Sensi bistrò di Malo (Vc), ospitato nel Circolo Tennis Vicenza.

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nomico. Pur senza stravolgere il suo modo d’interpretare il cibo, nel nuovo “5 Sensi bistrò” Pasqual – affiancato in cucina dagli chef Davide Salata e Matteo Biasio e in sala dalla moglie Luciana – pone ora l’accento sulla digeribilità/leggerezza del menu (più asciutto di prima) come del conto. La scelta della leggerezza del cibo è obbligata per il nuovo locale, in considerazione del fatto che è destinato ad avere parecchi sportivi fra i suoi clienti. È sì aperto al pubblico, ma è ospitato nei locali della club house del Circolo Tennis Vicenza (i soci avranno diritto a uno sconto del 10%). È per questo che al classico logo del 5 Sensi Paqual ha affiancato il disegno di un cuoco panciuto (come vuole l’immaginario collettivo) che gioca a tennis. Gigantografie di tennisti di fama adornano le pareti della sala interna del ristorante-bistrot, dall’ambientazione sobria, funzionale e raffinata. Sala cui s’aggiunge la veranda a bordo piscina (in totale ora le sedute sono 100, contro le 50 del preesistente ristorante). Giocati sul tema tennis anche i menù: Wimbledon (due piatti a scelta più il dessert) o Grande Slam (tre piatti più il dessert), che complementano l’offerta alla carta e i piatti pensati appositamente per gli sportivi. «In fatto di cucina», spiega Pasqual, «nel nuovo locale avrei qualche problema a proporre un piedino di maiale farcito con foie gras, che invece era ben accetto al cliente supergoloso del ristorante di Malo. Ho dunque alleggerito le mie ricette mediate un maggior ricorso alle verdure fresche ed escludendo i grassi animali, che ho sostituito con dell’ottimo olio extravergine d’oliva». Per i primi la scelta di Pasqual ricade ora spesso su paste integrali o di cereali particolari come il farro. Per i secondi, largo a volatili da cortile e al pesce: baccalà ovviamente, ma anche gamberi grigliati o branzino al vapore; senza comunque escludere manzo e agnello. Una summa di gola e salutismo nei dessert. Qualche esempio: la millefoglie golosa al cioccolato fondente e salsa alla Prugna di Schiavo, il gelato alla vaniglia, croccantini e salsa Mou. «Per alleggerire il conto», prosegue Pasqual «e intendo sia il mio, sia quello dei


clienti, cucino con materie prime di qualità, ma di stagione, per lo più acquistate direttamente da produttori della zona, che conosco personalmente e di cui mi fido, perché so come lavorano. Evito, comunque, di spingermi troppo oltre sul fronte del km zero per non impoverire troppo il menu, che cambio due volte la settimana». Sempre per contenere i prezzi, la carta dei vini, pur ampia, privilegia quelli locali. E il servizio è principalmente al calice, così da consentire un più corretto abbinamento con il cibo. Attento e professionale, ma ora più informale, il servizio. Il risultato è un conto medio per persona che dai 65-75 euro del “Ristorante 5 Sensi” di Malo è sceso a 25-35 euro nel “5 Sensi bistrò”. Ma si può scendere ulteriormente, anche a 15 euro, se il cliente opta per un piatto unico. «L’idea del bistrot», ribadisce Pasqual, «va incontro al cambiamento d’abitudini di consumo della clientela, a necessità reali. Sono sempre meno coloro che scelgono il menu degustazione. Oggi il cliente medio ordina due piatti, non di più». Un’affermazione, questa di Pasqual, solo parzialmente condivisa dalla maître de “il Rigoletto”, dalle cui parole emerge una certa preoccupazione per le sorti future dell’alta ristorazione. «Ciò che mi fa paura», ammette Salvarani, «è non riuscire a capire che cosa vuole il cliente. Non si nota una tendenza prevalente. Risultasse chiaro che la gente non vuol spendere più di una certa cifra, si potrebbe ritarare l’offerta del ristorante per starci dentro, eliminando quei dettagli che fanno salire i costi. Invece ci ritroviamo a dover soddisfare le più svariate esigenze: da quelle del cliente alla ricerca dell’esperienza gastronomica sontuosa, a

quelle del commensale che non ordina più di due portate. L’unico trend, ma sarebbe più corretto parlare di una pretesa generalizzata, è quello di spendere meno, indipendentemente dal tipo di servizio di cui si è usufruito, con la scusa della crisi». Complice, da un lato, il ridimensionamento del 15-20% del giro d’affari de “il Rigoletto” in questi anni di crisi e, dall’altro, il fatto che non valeva la pena mantenere aperta l’adiacente osteria moderna “il Rigolettino” soltanto per la clientela dell’hotel Villa Nabila (un tre stelle con ospiti business da 26 camere, realizzato nelle scuderie della villa Manfredini che ospita il Rigoletto e la Locanda, con quattro camere, inserita nel circuito Relais & Chateaux), da marzo scorso la famiglia D’Amato ha aperto al pubblico anche questo secondo locale, la cui cucina è diretta da Federico D’Amato, il ventitreenne figlio di Gianni, che ne è anche responsabile di sala. «Il Rigolettino», sottolinea Salvarani, «non intende essere una replica del Rigoletto, bensì un locale più easy, ove ordinare alla carta piatti della cucina emiliana: dal gnocco fritto alle tagliatelle, ai cappelletti in brodo. Una cucina tradizionale, semplice, ma sempre d’elevata qualità: le materie prime sono le stesse che utilizziamo nella cucina del Rigoletto. Un locale dove si può mangiare, dall’antipasto al dolce, spendendo una trentina di euro. Puntiamo in questo modo ad avvicinare a una cucina di qualità una clientela più vasta. Trovo d’altronde ingiusto che un bravo chef non abbia modo di lavorare e d’imporsi su ristoranti mediocri dove non si mangia bene o su bar che a mezzogiorno propongono dei piatti pronti precotti». Pur nettamente diversi come Artù n°44

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impostazione – servizio impeccabile e menu degustazione “Il territorio” o “Contemporaneo” da otto portate (130 euro a persona vini esclusi), “i Classici del Rigoletto” da cinque portate (85 euro più vini) ne “il Rigoletto” contro servizio informale con menu à la carte stampato sulla tovaglietta di carta all’osteria “il Rigolettino” – i due locali già oggi possono condividere la clientela e non solo quella. «Quando parlo d’assenza d’imposizioni», spiega Salvarani, «intendo dire che oggi si dev’essere flessibili. Innanzitutto bisogna scordarsi di lavorare con prenotazioni prese con largo anticipo. La gente, soprattutto gli italiani, vuole decidere cosa fare e dove andare all’ultimo momento. È vero poi che per mangiare due piatti, sarebbe meglio che il cliente andasse al Rigolettino. Ciò non toglie che per pranzi e cene di lavoro prevediamo al Rigoletto il menu “Attuale” da due portate a 55 euro, vini inclusi. Se poi il cliente del Rigolettino vuol bere vini importanti, può chiedere la carta dei vini del Rigoletto. È caduta da tempo anche la rigida divisione: chi dorme alla Locanda mangia al Rigoletto, chi scende al Villa Nabila al Rigolettino. Oggi capita spesso che chi fa

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del turismo enogastronomico alloggi alla Locanda, ceni al Rigoletto e durante la sua permanenza, oltre che in altri ristoranti di fama, si fermi a mangiare al Rigolettino. Un classico è infine che i clienti del Rigoletto cenino al Rigolettino in occasione della serata a tema “I giri del gusto” che organizziamo tutte settimane. Serate non di degustazione. Quelle ormai le fanno tutti. Quanto d’approfondimento su temi specifici del tipo pizza pop, riso & risotti con molluschi, dolci dolci e dolci salati, tapas, blu come il mare ecc.». Tornando alla questione se sia in atto o meno un cambiamento dei consumi e della modalità di fruizione dei grandi ristoranti, Cedroni non ne è affatto convinto. E ciò nonostante alla “Madonnina del pescatore” negli ultimi anni si sia registrato un calo di presenze e della spesa media. «Rispetto a una media di 100 euro a persona degli anni pre-crisi», ammette Cedroni, «siamo scesi di un 15%. E questo nonostante la clientela che frequenta il mio ristorante gastronomico non mi sembri cambiata. Il lavoro, però, s’è ulteriormente concentrato nei fine settimana. E nei momenti più difficili abbiamo avuto anche dei fine settimana tranquilli». La situazione pare però stia migliorando. In questo primo scorcio d’anno, Cedroni ha registrato una lieve ripresa del lavoro della “Madonnina del pescatore” rispetto al 2010. Dopo un gennaio e un febbraio sui livelli dello scorso anno, marzo è stato più vivace. «Che negli ultimi anni ci siano stati dei cambiamenti», prosegue Cedroni, «è indubbio. Quello che stiamo vivendo, però a mio parere, è un cambiamento riconducibile semplicemente a una minore disponibilità di denaro. Il grosso della clientela dell’alta ristorazione è fatta da persone che lavorano, guadagnano e spendono. Avendo avuto meno soddisfazioni dal lavoro negli ultimi tempi hanno speso meno, sono andati al ristorante con minor frequenza e, per non incappare nei controlli dovendo guidare all’uscita dal ristorante, hanno bevuto meno vino. Per chi il denaro ce l’ha, invece, non è cambiato nulla. Costoro hanno continuato a godere dell’esperienza gastronomica nella sua forma più com-


pleta, senza badare a spese. Sono però soltanto il 20% della clientela di un ristorante di fascia alta». Va da sé che Cedroni non è per nulla convinto che i menu degustazione dei ristoranti gastronomici stiano diventando obsoleti. «Quello delle tante portate», sostiene lo chef marchigiano, «è un falso problema. Se si va da Ferran Adriá ce ne sono 42, ma sono piccoline. Molto spesso risulta più pesante un pasto composto soltanto da un primo e da un secondo, che non il mio menu creativo da 12 portate. Quest’ultimo è infatti calibrato per consentire al commensale d’arrivare bene alla fine del pasto». Il menu gastronomico, fa insomma capire Cedroni, è e resta il modo migliore per scoprire come un grande chef interpreta il cibo. «È un’esperienza, una scoperta attraverso tanti piccoli assaggi», evidenzia Cedroni. «Sta allo chef far in modo che il menu gastronomico abbia il giusto apporto calorico e la giusta digeribilità. Per me è una soddisfazione quando il cliente mi dice di sentirsi leggero dopo aver terminato il mio menu degustazione». «Non direi che stiamo andando verso un superamento del menù gastronomico», gli fa eco Salvarani. «Chi viene al Rigoletto per la prima volta, lo fa per scoprire la cucina di mio marito, quindi predilige ancora il menu degustazione. Sono i clienti abituali, circa il 50%, che tendono invece a lasciar fare a Gianni. Chi decide di mangiare alla carta, comunque, normalmente sceglie due piatti e, tutto sommato, penso che, per capire uno chef, due piatti possano essere sufficienti. Talvolta si comprende un cuoco anche solo entrando nel suo locale». Sulla stessa linea d’onda Sabbadin, il sommelier de “Le Calandre”. Normalmente il cliente abituale del ristorante gastronomico padovano s’affida a Massimiliano Alajmo e prova le novità. Ma il neofita o chi ritorna dopo

un certo tempo, s’orienta sul menu degustazione. «Un calo di fatturato, nell’ordine di un 15-20%», ammette Sabbadin, «lo abbiamo registrato anche noi in questi anni di crisi. Sono diminuite in particolare le presenze nei primi giorni della settimana. Non direi però che chi viene da noi s’orienti sui menu estrazione (175185 euro a persona, vini esclusi, ndr), da cinque portate, invece che su quelli da otto portate (225 euro più 110-140 euro di vini, ndr), per risparmiare. Fra i due, d’altronde, c’è una differenza di 40 euro, che non influisce poi molto sul conto totale. Sul menu estrazione s’orientano più spesso le signore, preoccupate di non riuscire ad arrivare alla fine. Se dobbiamo parlare di una maggior attenzione alla spesa, piuttosto la riscontro nella scelta dei vini, anche perché ormai

La famiglia D’Amato, un esempio magistrale di alta ristorazione (chef Gianni D’Amato, con il figlio Federico, e la moglie Fulvia Salvarani in sala), ha abbinato allo storico Rigoletto di Reggiolo (RE) l’attività “minore” (si fa per dire!) del Rigolettino. “Qui proponiamo una cucina più semplificata”, dice Fulvia, “anche con serate a tema, ma sempre nel solco della nostra offerta, fatta di materie prime e ingredienti d’eccellenza”.

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Anche Massimiliano Alajmo, chef delle Calandre di Rubano (Pd) crede da tempo nella necessità di soddisfare le esigenze di una clientela più giovane e informale. Non a caso, l’apertura del Calandrino risale a sette anni fa e rappresenta tuttora un esempio di diversificazione dell’offerta, pur partendo dalla stessa filosofia culinaria della famiglia Alajmo: “Dare sempre il massimo”, dice Raffaele, patron della struttura.

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non si può bere più di tanto. Chi guida non può andare oltre i tre calici. Più attenzione sui vini dunque. E questo nonostante non applichiamo ricarichi elevati e stiamo attenti a contenere i costi proponendo etichette poco note, ma d’elevata qualità». L’apertura da parte della famiglia Alajmo de “Il Calandrino”, un locale che fa da bar, enoteca, pasticceria e ristorante, risale quasi a 7 anni fa, a tempi precrisi. Non è dunque riconducibile al desiderio di compensare i minori introiti de “Le Calandre”. Piuttosto, l’avventurarsi in una ristorazione più economica appare dettata dal desiderio di rivolgersi a un pubblico più giovane e informale di quello del ristorante gastronomico o, comunque, anche alla clientela del ristorante gourmet, ma in momenti e contesti diversi: una semplice prima colazione (il locale è aperto fin dalle 8,00 del mattino), un aperitivo, un veloce pranzo di lavoro (a mezzogiorno si può anche consumare un piatto unico), una cena elegante, ma


non impegnativa, o una festa privata. Piatti più semplici, per quanto sfiziosi e preparati al momento con le migliori materie prime di stagione sono ovviamente proposti a prezzi ben più contenuti di quelli de “Le Calandre”. I menu degustazione de “Il Calandrino”, da cinque portate, vanno dai 65 a 75 euro a persona, vini esclusi. «Va detto», sottolinea Sabbadin, «che la clientela del Calandrino è molto attenta, quasi più di quella delle Calandre. L’aspettativa di chi viene al Calandrino è molto elevata. Più elevata di quella che s’attende in un altro locale di pari categoria. Il Calandrino è poi un ristorante che si presta perfettamente all’organizzazione di serate a tema o di presentazioni di paste, oli, formaggi, salumi, vini e quant’altro selezionati da Massimiliano e che lui si propone d’impiegare nella sua cucina. Dispone infatti anche dell’area bottega. Dopo la degustazione il cliente ha dunque l’opportunità di fare un acquisto. Di recente abbiamo organizzato una serata dedicata al crudo di carne e stiamo pensando a quella del crudo di pesce. Il Calandrino, insomma, offre una maggior possibilità di sperimentazione, mentre alle Calandre tutto dev’essere perfetto». La chiusura del cerchio Cedroni Come dobbiamo leggere gli altri format ristorativi e non che lo chef Moreno Cedroni ha affiancato nel tempo alla “Madonnina del Pescatore” di Senigallia? «Con il Clandestino, Anikò e l’Officina», spiega lo chef marchigiano, «ho chiuso un cerchio. Ho completato un lavoro con il cibo e intorno al cibo inteso a soddisfare modi di magiare diversi. Non sono un appassionato dell’aprire locali. La mia è una passione per diversi stili di pensare e d’intraprendere il cibo. Il Clandestino Portonovo, aperto nel 2000, è un locale dove c’è tutto un pensiero sul crudo, che ogni anno si rinnova, pur restando fedele al concetto di naturalità trasmesso anche dall’ambiente in cui è inserito: in un parco naturale. Nel Clandestino di Milano mi ha fatto piacere soprattutto interpretare il momento della prima colazione. Anikò è la salumeria di pesce pensata per il mangiare per strada,

mentre le conserve e i salumi di pesce dell’Officina rappresentano l’immortalità del cibo, ossia il cibo che puoi mangiare fra due mesi o fra tre anni. Se posso permettermelo, sottolineerei il fatto che ho voluto fare in prima persona prodotti che molti miei colleghi si limitano a firmare». Se i diversi format ristorativi di Cedroni hanno prezzi diversi, ciò è dato non tanto dalla qualità del cibo che è la medesima ovunque, quanto dalla modalità di proporlo e di servirlo. «Componente importante è il costo del personale», evidenzia Cedroni. «Alla Madonnina è estremo, perché ci sono 20 dipendenti per 40 persone, quindi il rapporto è di uno a due. Al Clandestino Portonovo è diverso perché ci sono 15 dipendenti per 60 coperti. E alla salumeria Anikò è ridotto all’osso. È spogliato del tovagliolo di stoffa, sostituito da quello in carta. Il cucchiaio è di plastica. Mancano insomma tutti i costi aggiuntivi». Non va poi dimenticato che, nei diversi locali dello chef marchigiano, il cibo è preparato in modo differente. «All’Anikò», prosegue Cedroni, «ci sono meno tipologie di prodotti: la bresaola di tonno e di spada, alcuni salmoni e ricciole, non il menu da 30 piatti della Madonnina. Anche le ricette sono più semplici. Affettare un salume di pesce e abbinarlo a un’olio è una ricetta semplice. Molto più complesso è fare un piatto con sei ingredienti». Contaminazioni di successo Nel caso dello chef Enrico Crippa, come Artù n°44

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in quello di Massimiliano Alajmo di cui abbiamo già detto, il fatto d’affiancare due diverse formule ristorative, la gastronomica e l’informale, risponde al desiderio d’offrire a un più vasto pubblico la possibilità di godere di una cucina di livello, seppur di diversa impostazione. Non va interpretata, insomma, come una mossa anti-crisi. L’apertura (in società con la famiglia Ceretto) nello stesso palazzo di piazza Risorgimento, nel cuore di Alba, al piano terreno della trattoria “La Piola” e al primo piano, del ristorante “Piazza Duomo”, risale al maggio del 2005. Nella trattoria un’offerta è legata alla più classica tradizione di cucina e vini di Langa e Roero, a sottolineare il legame con questo territorio. Nel ristorante gastronomico la cucina è più internazionale, ha proposte che lasciano libertà espressiva all’estro di Crippa. Stando almeno alle parole del sommelier del “Piazza Duomo”, Mauro Mattei, l’accoppiata è baciata dal successo: il ristorante gastronomico richiama una clientela sempre più numerosa e che proviene via via da più lontano. E “La Piola” ne complementa e alimenta il buon andamento, con una frequentazione sia di clientela locale sia, principalmente, di turisti. I due ristoranti sarebbero insomma una delle rare isole felici dove la crisi globale non s’è fatta sentire. Enrico Cricca, oltretutto, è riuscito a trasformare in un’efficace strumento di marketing

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l’inserimento nel ristorante bistrot di un tocco d’alta ristorazione. Proprio quell’elemento che, come ha ammesso lo stesso chef Giancarlo Perbellini nel suo intervento durante la presentazione alla stampa e agli operatori del nuovo corso di Artù al Vinitaly, gli creò dei problemi e lo spinse a porre fine alla conduzione della trattoria “La Cantinetta”, aperta nel 1993 al piano inferiore del “Ristorante Perbellini” di Isola Rizza (Vr), locale che tuttora gestisce con successo. «Avevo evidentemente precorso troppo i tempi», ha ricordato Perbellini, «quando aprii la trattoria. In quel locale più informale intendevo proporre a prezzi modici una cucina tradizionale, con piatti semplici, come gli antipasti all’italiana o la fiorentina. I tempi, ripeto, evidentemente non erano maturi. La clientela non era pronta a cogliere la differenza fra le due proposte. Con questo non voglio dire che la trattoria non lavorasse. Anzi. Il problema è che, di frequente, si creava una commistione ingestibile: molti clienti prenotavano al ristorante gastronomico e poi pretendevano d’ordinare il menu della trattoria a prezzi da trattoria. Morale preferii soprassedere». Perbellini, come ha lui


stesso annunciato, tenterà nuovamente di dar vita a un ristorante bistrot, prudenzialmente a una certa distanza da Isola Rizza. «Nelle prossime settimane», ha detto, «aprirò una trattoria del ristorante Perbellini all’interno del Forte Village, il luxury resort di Santa Margherita di Pula, nel cagliaritano. Proporrà piatti della cucina tradizionale italiana a un prezzo centrato intorno ai 30-35 euro». Lo chef veronese farà dunque in Sardegna la prova del 9 del fatto che si possa fare dell’ottima ristorazione a prezzi ragionevoli, come sta già facendo in Italia il collega Davide Oldani nel suo “D’O” di Cornaredo, alle porte di Milano, e in Francia lo chef Inaki Aizpitare nel ristorante “Le Chateaubriand” nell’XI arrondissment di Parigi. Tornando in Piemonte, ad Alba, ai due ristoranti regno di Crippa, bisogna dire che lo chef d’origini brianzole ha saputo implementare quella stessa flessibilità di cui ci ha parlato Fulvia Salvarani de “Il Rigoletto”, spingendosi ancora un po’ oltre. Come? «Da un po’ di tempo», risponde Mattei, «abbiamo inserito nel menu della trattoria La Piola un piatto d’alta cucina realizzato da Matteo. Si tratta di un piatto che cambia con frequenza come minimo settimanale e che, non necessariamente, è contemporaneamente presente anche nel menu del Piazza Duomo. È un modo per dare la possibilità alla clientela del bistrot, d’assaggiare un piatto gourmet, facendosi così un’idea della mano di un grande chef in cucina». Crippa insomma sembra aver trovato la giusta via per rivolgersi a un vasto pubblico: la sua è una formula ristorativa elegantemente rustica, informale, adatta anche per pasti veloci. Consente a ciascuno di comporre liberamente il suo menu piemontese, che può limitarsi anche a un solo piatto, d’accompagnarlo con vini al calice, di cantine locali poco note ma di qualità, e di spedere intorno ai 30-35 euro (gli antipasti s’aggirano sui 7,5 euro, i primi sugli 11, i secondi sui 14-16, i dolci su 6 euro e i vini al calice vanno da 3,5 a 10 euro al massimo). Con l’inserimento nel menù, scritto a gesso sulla grande lavagna che domina una delle pareti del locale, di un piatto d’alta gastronomia,

poi, dà modo a chi può prolungare la sua permanenza ad Alba, di prenotare per il pranzo o per la cena al ristorante “Piazza Duomo” e fare così l’esperienza gastronomica completa. Al “Piazza Duomo” si possono provare i tre menu degustazione da sette, dieci o 11 portate (costo 120, 130 o 150 euro). E li si può accompagnare con una selezione di vini al calice, in un percorso tematico non predeterminato, bensì confezionato sartorialmente da Mattei per il singolo cliente, in funzione del menu che ha ordinato, per una spesa che dai 35 euro a persona può salire fino a 80 euro.

Nella pagina a lato, in basso, il panino con baccalà di Anikò: Moreno Cedroni è da sempre maestro di diversificazione e segmentazione dell’offerta. Dalla sua Madonnina del Pescatore sono nate, nel tempo, altre declinazioni di offerta, come il Clandestino e l’Anikò, recentissima apertura. Anche la famiglia Ceretto, patron del Piazza Duomo di Alba, ha condiviso l’intuizione geniale di Enrico Crippa, lo chef del ristorante, di offrire “cucina ragionevole” alla “Piola”, la “trattoria” moderna al piano terreno del ristorante più blasonato.

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di Fiorenza Auriemma Nate per dare una risposta all’ambizione di massaie irrequiete, che cercavano di uscire dalla quotidianità per stupire i propri invitati, si sono trasformate in veri e propri network, organizzati con modelli imprenditoriali. Il caso di Congusto, con sedi a Milano, Roma e Catania, è significativo e ben rappresenta le tendenze in atto: conoscere a fondo le materie prime, le tradizioni culinarie del territorio, le tecniche di cottura e di presentazione, affinando il proprio gusto e mettendo le conoscenze acquisite a disposizione degli ospiti (o dei clienti).

Imparare a cucinare, che passione! Almeno, questa è l’impressione che si ha di fronte al proliferare di programmi televisivi che ruotano intorno alle ricette e alla loro preparazione, di canali tv tematici e - last but not least - di svariate scuole di cucina che offrono corsi di ogni genere. Il tutto, appunto, allo scopo di insegnare che cosa mettere in pentola, e soprattutto come. Non si tratta di un fenomeno di moda esploso negli ultimi anni. Però è un dato di fatto che la voglia, la curiosità e l’interesse verso il magico mondo dei fornelli sia decisamente cresciuto negli ultimi tempi: come se darsi da fare per appropriarsi delle chiavi dell’arte culinaria servisse quasi a compensare altre perdite e/o a distogliere da una realtà non certo confortante. Comunque sia, ben venga tutto ciò: anche perché imparare a far da mangiare vuol dire spesso avere l’occasione per saperne di più sulle materie prime, e per approfondire temi come nutrizione, alimentazione ecc. Se tutto questo poi avviene in modo attivo, tanto di guadagnato. Da questo punto di vista, le scuole di cucina sono un punto di riferimento importante. Sul mercato ce n’è una miriade, e – giusto per restare in tema – in tutte le salse e per tutti i gusti. Per evitare di perdersi in questo fiume di corsi, proposte e iniziative culinarie, abbiamo perciò scelto due esempi particolarmente rappresentativi, attraverso i quali provare a fotografare lo stato attuale delle cose. “Negli ultimi tre anni, c’è stato un aumento dell’interesse per i corsi che proponiamo”, conferma Anna Prandoni, responsabile de La Scuola de La Cucina Italiana. Nata a Milano nel 1987, quindi quasi 25 anni, questa struttura - che si trova nello stesso edificio della rivista

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cui fa riferimento, ovvero La Cucina Italiana - è tuttora la più grande del settore. “Ogni anno, circa 6-7mila allievi passano dalle nostre aule: la maggior parte per seguire corsi, altri per le serate di degustazione che organizziamo periodicamente, cui si aggiungono eventi di vario genere”. Perché imparare a stare ai fornelli può essere un modo anche per allenare e migliorare lo spirito di squadra aziendale. “Il 50% del fatturato della scuola proviene da eventi speciali e per aziende, da cooking traning e team building”, spiega Prandoni. In sostanza, si ricorre al lavoro in cucina come palestra per l’attività in azienda. In questi casi, lo chef è un vero e proprio formatore, in grado di tenere lezioni anche in inglese e francese. Perché, come sottolinea Anna Prandoni: “Sono molti gli stranieri interessati a questo genere di esperienza”. Ecco dunque un aspetto forse meno noto, ma altrettanto interessante di questo segmento della gastronomia nostrana: al fianco delle numerose donne e uomini che a un certo punto della loro vita decidono di perdere il timore di fronte a pentole e fornelli, ci sono altre realtà che, pur non avendo apparentemente nien-

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te in comune con la cucina, ne sfruttano però alcune peculiarità a proprio vantaggio. Curiosità ed elementi sui quali riflettere non finiscono qui: “Il 50% circa dei nostri studenti sono uomini, e dimostrano di avere uno spiccato interesse più per alcuni corsi rispetto ad altri. Ad esempio, quelli dedicati a ‘Riso e risotti’ vedono una partecipazione prevalentemente maschile; al contrario, è decisamente femminile il pubblico dei corsi incentrati sui dolci lievitati”. Forse che le donne in cucina non temono i chicchi di riso? O si tratta piuttosto di un fenomeno di moda? Perché non ci sono dubbi che anche in questo ambito esistono correnti più o meno trendy. Anche se non sempre chi gestisce una scuola opta per tenerne conto. “Proponiamo qualche corso che ha a che fare con la cucina indiana, mentre la cucina etnica in generale, o il sushi, non rientrano nelle nostre proposte, perché complesse dal punto di vista della cultura”, spiega Federico Lorefice, del network Congusto, che ha la sua sede principale a Milano, ma ha aperto una scuola anche a Catania – l’unica in città - e più di recente a Roma; con l’ambizioso obbiettivo di diventare il primo network di scuole di cucina a gestione diretta, coprendo lo stivale in modo capillare e con un’offerta ampia. “Cerchiamo di non seguire le mode, bensì le tendenze che arrivano direttamente dai clienti. Ad esem-

In basso a sinistra il Carpaccio di manzo con fettine di mele Val Venosta e burrata della scuola Congusto.


pio, a Milano funzionano bene tutte le cucine del territorio, tranne quella milanese. Lo scorso anno, perciò, abbiamo scelto di proporre nuovamente il corso, chiamandolo però ‘La cucina milanese con gli occhi di Gio Ponti’. Ed è stato un successo, tanto che abbiamo deciso di metterlo in calendario anche quest’anno”. Chi prende parte a questa serata di avvicinamento alla gastronomia meneghina impara a preparare quattro tra le ricette preferite dall’artista. “Teniamo anche in considerazione l’interazione con il design, e quindi usiamo piatti particolari e presentati in un determinato modo. Il corso sta piacendo moltissimo anche a designer e architetti. I quali accorrono numerosi per imparare tra le altre ricette come preparare la vera costoletta alla milanese, tagliata con il giusto spessore e proposta in quattro diverse panature e altrettante cotture”, specifica Lorefice. Ovvio che un corso simile duri diverse ore, e che tutti gli alunni alla fine assaggino i propri manicaretti. “Li accogliamo con un piccolo aperitivo con stuzzichini offerti dagli sponsor, in modo da non mettersi al lavoro a stomaco vuoto”, precisa Lorefice. In questo e in altri aspetti di una scuola di cucina giocano un ruolo importante i main sponsor e i partner tecnici, ovvero quelle aziende che sono presenti con prodotti alimentari, elettrodomestici, attrezzature in genere. “Nella scuola di Milano, passano ogni anno quasi 3000 persone, ed è inevitabile che la struttura si usuri molto: le pareti vanno rimbiancate spesso, i coltelli sostituiti ogni 3-4 mesi, e lo stesso vale per tutti gli attrezzi”, sottolinea Federico Lorefice. Che, dopo una lunga esperienza nel settore del catering, insieme a Daniel Stoico otto anni fa ha scelto di cambiare direzione puntando fin da subito sull’offerta come elemento distintivo da altre iniziative analoghe: “Volevamo creare una struttura che potesse permettersi questa definizione, anche in base a quella che è la nostra idea di scuola di cucina. Ci rifacciamo al concetto francese: la scuola come luogo

dove si può andare in qualunque giorno e momento della giornata e trovare corsi e/o una formazione. Sia legati a un prodotto - quindi monotematici -, sia alla creatività della cucina”. Il caso di Congusto è interessante per più aspetti: innanzitutto, il “format” sta avendo successo, come dimostra il fatto che la scuola è già alla sua terza sede, ingrandendosi ogni volta. E poi, perché quando sbarca in altre città ne tiene in considerazione la realtà e le esigenze, modellando di conseguenza l’offerta: se a Milano i corsi si possono seguire di mattina o di sera, e ogni lezione dura in media tre ore e mezza, a Catania la scelta è tra pomeriggio e sera, e il singolo incontro è di almeno quattro ore. “È vero che tre ore non sono sufficienti ad approfondire un tema, ma bastano per aprire un varco, incuriosire e colmare la necessità di quel momento”, dice Lorefice. “Per questo, molto spesso privilegiamo tematiche come lo zafferano, il radic-

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chio, gli asparagi, che possono essere affrontate in 6-7 ricette. Diverso è il discorso per le basi della cucina classica: ovviamente offriamo corsi ad hoc, e in questo caso i percorsi sono più lunghi”. Della sessantina in calendario, il corso “Basi della cucina” è la punta di diamante de La Scuola de La Cucina Italiana: è composto da sette lezioni di tre ora l’una, ed è così “gettonato” da generare liste di attesa molte lunghe. “E questo, nonostante sia disponibile in tutte le fasce orarie, quindi mattino, pomeriggio e sera”, puntualizza Anna Prandoni. “Da quest’anno poi abbiamo introdotto anche corsi prima delle basi, proprio per chi ha bisogno di cominciare da zero. E non sono in pochi”. In altre parole, chi sceglie di avventurarsi nella creazione e nella gestione di una scuola di cucina non può non tenere conto delle esigenze dei propri potenziali clienti, comprese quelle meno evidenti. E anche dei professionisti, che sempre più si rivolgono a strutture di questo tipo per approfondire le proprie conoscenze, ampliarle e diversificarle. “Il 90% dei nostri corsi è per amatori”, racconta Anna Prandoni. “Però proponiamo anche tre-quattro corsi intensivi all’anno, composti di 22 lezioni di quattro ore l’una, che sono un primo approccio a un livello di cucina professionale. Spesso li frequentano nostri ex allievi che decidono di iniziare una piccola attività catering o aprire un bar, e hanno bisogno di fare i primi passi in quella direzione”. Da Congusto, la percentuale di corsi professionali è più alta, e costituisce il 25% circa del totale. “Siamo cresciuti molto in questo settore: a Milano, ad esempio, vengono professionisti per approfondimenti tematici, come i dolci finger food o le torte al taglio per i ristoranti. Arrivano un po’ da tutta Italia, e spesso sono liberi professionisti che hanno voglia di crescere, o manager della ristorazione intenzionati a capire meglio i temi della cucina per poi apportare cambiamenti nel loro team. Perché finché io stesso non conosco, non posso dire agli altri che cosa fa-

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re”, aggiunge Federico Lorefice. Conoscere invece può non essere sufficiente per il docente di una scuola di cucina: il quale deve essere anche in grado di trasmettere, e a un pubblico mol to spesso eterogeneo. “Fin dal primo colloquio con uno chef che si propone come docente, cerchiamo di capire chi abbiamo davanti”, sottolinea Lorefice. Questo ci permette di scegliere con maggior precisione e individuare subito le prerogative di ognuno, così da assegnare loro il corso più idoneo”. In tutto, nelle varie sedi di Congusto sono quasi una ventina gli chef professionisti, compresi i pasticceri, che tengono i corsi. Più o meno la stessa cifra di quelli che ruotano attorno a La Scuola de La Cucina Italiana. “Attualmente sono 15 circa, tutti professionisti”, dice Anna Prandoni. “Ma prima di essere chef, sono insegnanti: è fondamentale che oltre a possedere le conoscenze tecnico scientifiche della cucina sappiano, anche spiegare e avere a che fare con le persone”.



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Cent’anni di PASTA

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Qui sotto: Davide Scabin, chef del Combal.zero di Rivoli e Riccardo Felicetti, patron del Pastificio Felicetti e Presidente dell’Unione delle Associazioni degli Industriali Pastai Europei. di Elisa Facchetti Da un piccolo centro ai piedi delle Dolomiti si impastano da sempre materie prime di alta qualità e tanta passione: il risultato è un prodotto apprezzato in tutto il mondo. Scopriamo con Riccardo Felicetti la storia del pastificio e qualche piccola curiosità. “Sono baciata dal sole, seguo il vento in ogni direzione, ma le mie radici restano sempre lì. La pioggia mi inebria con il suo profumo di terra e la mia vita è scandita dal ritmo delle stagioni”. Se una spiga di grano potesse parlare forse direbbe proprio questo, portavoce di tempi remoti, unico e vero sostentamento di intere generazioni, elemento base dell'alimentazione di popoli antichi. Bastano pochi

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semi e un fazzoletto di terra per tenere in pugno una manciata di chicchi, ma occore un genio attento e caparbio per trasformarli in oro. Siamo ai primi del '900, in Val di Fiemme. Valentino Felicetti, dopo alcuni anni trascorsi come operaio nell'allora Impero Austro Ungarico, decide di fondare la sua imprese edile a Vienna, ma l'amore per le sue valli lo riporta a Predazzo e nel 1908, rilevato l'opificio dell'amico Luigi Giacomelli, intraprende una nuova carriera: produrre pasta. Solo grano tenero, avena e orzo, acqua purissima e aria delle Dolomiti, e tanto impegno: si producevano cinque quintali di pasta al giorno, con turni di 12 ore. Dopo tanti successi e qualche caduta – lo scoppio della prima e della seconda Guerra Mondiale, un terribile incendio nel '45 – la produzione artiginale di pasta continua e, alla fine degli anni sessanta, la piccola attività si trasforma in un’organizzazione industriale: oggi la quarta generazione, con Riccardo Felicetti, porta avanti l’antica ricetta di Valentino, con lo stesso impegno e caparbietà di un tempo, selezionando e controllando le materie prime direttamente dai campi di coltivazione: "la passione è nata da ragazzi – ci racconta Riccardo – e si è sviluppata piano piano, accompagnata dalla guida sapiente dei nostri genitori. Loro sono stati i nostri sponsor e i primi fan dei progetti che stiamo sviluppando". Le tecnologie produttive hanno poi di fatto consacrato il pastificio come importante realtà nella produzione di pasta: una superficie di 5000 metri quadrati, 60 dipendenti e quattro linee di produzione che lavorano a ciclo continuo, due per la pasta corta, una per gli spaghetti e una per le tagliatelle a nido. E i numeri parlano da soli: la

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produzione giornaliera è di circa 70 tonnellate, suddivise in 35 di pasta corta, 30 di pasta lunga e 5 tonnellate di pasta nido, in cento diversi formati. Nuovi gli investimenti attuati a partire dagli anni novanta, che puntano i riflettori sul biologico, una vocazione "naturale" che da tempo accompagna la famiglia: salvaguardia per l'ambiente e soprattutto tutela della biodiversità dei grani. "Per noi biologico non è da considerarsi un concetto di marketing – spiega Riccardo – tantomeno un asset commerciale. Si tratta di una scelta volta al rispetto dell'ambiente che ci circonda e la vocazione al biologico è qualcosa che ci appartiene, quanto la sensibilità per le cose ben fatte". E dal 2000 entra in piena produzione la linea Monograno Valentino Felicetti, che rinnova ancora una volta il forte legame con il passato, riscoprendo gli antichi cereali come kamut e farro. Il risultato? Non possiamo certo essere imparziali! Le nuove tipologie di pasta rappresentano un prodotto unico e pregiato, una volta assaggiate è davvero difficile dimenticarle! Il settore del food service decolla, rappresentando un canale molto interessante per l'azienda: ogni giorno, da Predazzo, la pasta Felicetti varca i confini per approdare in Europa – con punte d'eccellenza in Germania – Stati Uniti, Giappone, Emirati Arabi e Australia. Coerenza, programmazione e flessibilità sono i tre principi che animano da sempre, e più che mai in questi anni, il metodo organizzativo dell'azienda, per garantire un servizio tempestivo e di qualità. Il prodotto finale può essere così inteso come un incontro di collaborazioni: i fornitori di sfarinati, italiani e del Nord America (Montana e Canada), i punti vendita bio e le boutique gourmand, nonchè i piccoli negozi della Val di Fiemme e Fassa, gli chef sensibili all'autenticità di un prodotto esclusivo, nazionali come Peter Brunel del ristorante Chiesa di Trento, e internazionali. Tra le ultime interpretazioni di Monograno Felicetti risaltano gli inediti piatti creati da Davide Scabin durante la manifestazione Identità Golose 2011:


“Nord Centro Sud”, Conchiglioni Matt Monograno Felicetti con tre ripieni diversi – alici al pesto, stracotto alla fiorentina, straccetto di burrata con pomodoro e basilico –, “Spaghetti Pizza Margherita”, realizzati con Spaghetti Monograno, piatto simbolo del Congresso Identità Golose 2011 e già proposto da Davide Scabin in occasione dell'evento Pure Monogram Pasta con Felicetti, svolto a Londra. Ecco gli ingredienti: pomodorini glassati in forno, acciuga, straccetto di burrata, olio verde, salsa inglese di burrata, olio, peperoncino. E la distribuzione? Riccardo ci spiega che la Linea Monograno Felicetti rimarrà distribuita in negozi selezionati, puntando a un'espansione del mercato coerente con la filosofia dell'azienda. Sono passati più di cento anni dalla sua fondazione – nel 2008 la famiglia ha festeggiato il centenario

– ma il Pastificio Felicetti è più che mai attivo e percorre la strada di sempre, volta alla continua ricerca della qualità, rispettando in primis tutte quelle persone che gravitano intorno all'azienda e che permettono ogni giorno di realizzare il sogno di Valentino: "la storia e la tradizione dopo 100 anni restano sempre il nostro punto di partenza. Il centeneraio ci ha dato l'opportunità di rivivere in modo più netto quanto diamo per ovvio e scontato, che è invece il DNA della nostra azienda, ma ancor di più della nostra famiglia. Il futuro ci prospetta nuove sfide produttive e commerciali che vogliamo affrontare con lo spirito dei nostri genitori". La nostra curiosità si esaurisce chiedendo al patron Riccardo Felicetti quale sia il formato di pasta preferita: “I miei preferiti sono i rigatoni di grano Khorasan Kamut”. Da provare!

Nella pagina a lato una fase della lavorazione e una confezione della pasta Monograno Felicetti, evento Identità Golose 2011. Qui sotto gli Spaghetti Pizza Margherita, piatto ideato da Davide Scabin con Spaghetti Monograno Felicetti.

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PESCE OK... Gusto e prezzo al SALE GROSSO 44

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di Theo Smith Eppur si muove. La clientela milanese detta le sue leggi e la ristorazione si adegua. Prezzo e qualità devono andare di pari passo, senza però scivolare in minimalismi che rischierebbero di compromettere l’affidabilità delle materie prime. Il Sale Grosso Restaurant & Bistrot rappresenta un esempio di questa new wave, attenta alla qualità dell’offerta e rispettosa delle leggi di mercato. Milano in movimento. La scena della ristorazione meneghina si va arricchendo di nuove unità. Alla faccia della crisi e dell’abbassamento qualitativo (presunto) dei consumi, la metropoli lombarda nel 2010 ha registrato l’apertura

continua di nuove insegne, come Giacomo, all’Arengario, all’interno del Museo del Novecento, o come El Porteno, ristorante di carne di impronta argentina o, ancora come Cacio e Pepe, locale moderno di impronta gastronomica romana, dove si gusta la miglior “carbonara” della città. O come Sempione 42, recentemente ristrutturato, dove lo chef Andrea Alfieri propone una cucina d’autore, che parte dalle materie prime per arrivare alla definizione di piatti di acuminata creatività. O come il Bacaro del Sambuco, che propone cucina semplice e curata nella location più ambita della città, via Montenapoleone. Bene, dopo anni movimentati che hanno visto modificarsi decisamente la fisionomia dell’offerta ristorativa (con una schiacciante prevalenza di bar “prestati” alla picco-

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Lo chef Alberto Santambrogio, al centro, insieme a Fabrizio Chiappini (direttore di sala) e Gianluigi Marrone. La cucina del Sale Grosso punta sulla freschezza delle materie prime e su cotture che ne sappiano valorizzare gusto e sapore: fondamentale il ruolo di Chiappini nell’orientare le scelte della clientela del locale.

la, ma grande ristorazione di mezzogiorno), dopo la moda dell’etnico (che comunque non si ferma e vede proliferare locali cino-giapponesi a un ritmo impressionante), dopo l’esplosione di “panifici con cucina e mescita” (dal risultato spesso dubbio e approssimativo), la ristorazione milanese si è recentemente arricchita di un ristorante che ci piace suggerire ai lettori per una formula -in un certo senso ammiccante al bistrot- che si rivolge a una clientela informale, ma attenta alla qualità dell’esperienza gastronomica. Stiamo parlando del Sale Grosso (www.alsalegrosso.it), un locale in via Ippolito Nievo, zona Fiera (intesa come la vecchia Fieramilano City), che ha preso il posto dello Spice, un ristorante di cucina thai che si pensava avesse avuto discreto successo. Prima ancora, qui c’era il Settecupole, un grande locale frequentato dalla clientela della zona, che tenne banco per molti anni. Il Sale Grosso Restaurant & Bistrot ha una guida giovane e spigliata: è Fabrizio Chiappini, quarantenne, a condurre le danze introducendo i clienti dentro a un ricco menù essenzialmente a base di pesce, declinato in quattro sezioni: i 15 antipasti (“per iniziare”), i 9 primi piatti (“a seguire…”), “il nostro pescato” –dieci pesci importanti con indicazione di prezzo a peso-, e le preparazioni al forno, alla griglia e fritte (“… e le sue cotture”). La cucina è

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presidiata da una giovane brigata, coordinata dal trentaduenne Alberto Santambrogio: un’esperienza molto milanese, in locali alla moda (Verdi, Resentin e altri) più che di impronta “stellata” ma, forse anche per questo, molto attento a capire i gusti della clientela milanese, che antepone un ”bisogno di concretezza” ad un sacro rispetto verso la cucina creativa. Il locale è molto ampio e dominato dal bianco, con tavoli ben distanziati e buona insonorizzazione, il che lo rende luogo ideale sia per incontri di lavoro, sia per cene più intime. A pochi mesi dall’apertura, il Sale Grosso ha dimostrato di sapersi adattare alla mutevolezza di una clientela fluttuante, molto esigente e sempre più attenta al rapporto fra prezzo e qualità: una variabile, questa, che sembra applicata egregiamente dalla attenta gestione. Fra gli antipasti, nei quali è fondamentale l’influenza di Fabrizio Chiappini, sono molto richieste le tartare (di tonno, di salmone, di pesce spada) leggermente condite con olio extravergine di diverse provenienze. I “crudi” sono sempre più scelti dalla clientela, che predilige anche ostriche, misto mare gratinato, vapore di mare condito con misticanza ed asparagi, insalata tiepida di baccalà con patate al vapore, olive taggiasche e cipolla rossa. Da provare, sempre fra le entrate, la piccola parmigiana di verdure e fondente al pomodoro: proposta a


dieci euro, è un ottimo esempio di price for value. Ma tutte le voci in menù sono coerenti con il momento di mercato, che vede la clientela alla ricerca di esperienze memorabili sotto l’aspetto gustativo, ma non sotto quello della spesa… “Ovviamente, solo riducendo al minimo i margini di profitto, riusciamo a mantenere dei prezzi in carta molto appetibili”, conferma Chiappini. Tra i primi, oltre agli spaghettini di grano duro alle vongole veraci nostrane, alle chitarrine fresche all’astice, ai tagliolini con scampetti dell’Adriatico, sono molto “popolari” i paccheri con battuto di pescatrice, pomodorini e guanciale croccante, le pappardelle con gamberi rossi di Sicilia, i ravioli di borragine alle vongole e bottarga. Per i secondi, la cui materia prima è in bella vista ai margini della cucina, in appositi spazi refrigerati, notevole la spigola (che i milanesi chiamano branzino), l’orata e il dentice: il cliente può sceglierne pezzatura e tipo di cottura, sapendo che il valore è intorno ai 5 euro per hg. Sarà poi la professionalità di Alberto Santambrogio a decretare il gradimento della clientela che, dato il ritmo di fedeltà nella frequentazione del ristorante, ci pare decisamente soddisfatta. Il fritto di paranza (in base al pescato) è di notevoli proporzioni, ma è nel leggerissimo “gran fritto di pesce con verdurine croccanti” (proposto a 25 euro) che la clientela –soprattutto le famiglie con bambini-

soddisfa il proprio bisogno di gusto. E, nel fritto di calamaretti spillo e zucchine fresche (20 euro), si toglie la voglia di sfiziosità. La carta dei vini comprende 55 etichette, per un totale di oltre un migliaio di bottiglie nella cantina: come è d’obbligo per un ristorante a base di pesce, la gran parte è occupata dai bianchi, con Friuli, Campania, Alto Adige, Trentino, Sardegna e Lombardia degnamente rappresentate. Soltanto cinque bottiglie superano i 20 euro, a conferma di un’attenzione “civile” al ricarico, elemento che più rischierebbe di penalizzare il volume d’affari del locale. “Il nostro ricarico è intelligente, e punta alla soddisfazione del cliente, che non vuole spendere cifre esagerate per il vino”, commenta Filippo Chiappino. Che aggiunge: “Inoltre, proponiamo una selezione di vini al calice, destinati a quanti preferiscono cambiare tipologia di vino nel corso della cena, o a quei single o coppie che non ordinano la bottiglia nella convinzione di non consumarla tutta”. Un’intuizione che gode sempre più del plauso della clientela, come abbiamo visto dalla inchiesta pubblicata sullo scorso numero di Artù.

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Mucche & Buoi Il progetto carne funziona 48

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di Fiorenza Auriemma Intorno alla carne si sta concentrando l’attenzione di imprenditori che creano veri e propri locali a tema, dalla proposta molto caratterizzata. Il caso di Giovanni Ferrieri, l’eclettico napoletano inventore di Cioccolati Italiani, è emblematico. Il suo obiettivo: rendere popolare il consumo di carne di qualità, non solo “dei paesi tuoi” ma anche di importazione. Il locale, aperto a Milano, punta anche sulla clientela del mezzogiorno Ed è un successo. La carne è quasi sempre presente nei menu dei ristoranti. Però, nella maggior parte dei casi, riveste un ruolo secondario, paradossalmente quasi “accessorio”. Tranne alcune eccezioni. Una delle ultime in ordine temporale è Mucche & Buoi dei Paesi Tuoi: aperto da pochi mesi nel centro di Milano, come si evince dal nome, questo ristorante è un vero e proprio tempio della carne, buona e cotta nel modo corretto. “Fare bene quello che si conosce, e custodire quello cui si tiene”, si legge sul biglietto da visita di Mucche & Buoi. Ed è anche il motto di famiglia di Giovanni Ferrieri, lo stesso imprenditore napoletano che qualche anno fa, sempre a Milano, ha dato vita al fortunato Cioccolati Italiani, e che ora ha voluto l’apertura di Mucche & Buoi. “Ho sempre respirato aria di carne: la mia famiglia ha una lunga tradizione nella macelleria, dal 1860, tanto che a Napoli avevamo otto negozi, il primo dei quali aperto nel rione Sanità e l’ultimo al Vomero negli anni 80”, racconta Ferrieri.

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Il dato di fatto che già nelle prime settimane dopo l’apertura, l’afflusso di clienti avesse superato ogni aspettativa, è segno che sia la carne, sia la formula sono valide. Per poter far fronte alle diverse esigenze gastronomiche e temporali, il menu ad esempio è doppio, uno per la pausa pranzo e uno per la sera. Così, chi si ferma a mezzogiorno da Mucche & Buoi, può sedersi al bancone “conviviale” per circa 12 persone o a uno dei tanti tavoli (i coperti in tutto sono un centinaio), e ordinare ad esempio “I Panini del Macellaio”, dove tra due fette di pane al latte, morbido e fresco, è racchiuso un hamburger di pura razza Chianina IGP o di Maialino Nero di Caserta IGP, entrambi da 180 grammi e accompagnati da polpette di formaggio, pomodori ramati, formaggio di alpeggio, Fior di latte di Agerola, insalata croccante e/o patatine chips tagliate e fritte al momento. Ancora più interessante e insolito è il panino con la salsiccia napoletana di Maialino Nero di Caserta tagliata a punta di coltello, lavorazione tipica campana che preserva la carne e ne esalta il sapore; la si può gustare in porzioni da 150 grammi all’interno di una baguette, insieme al Fior di Latte di Agerola, oppure con melanzane arrostite, o ancora provola affumicata fusa. Chi preferisce un piatto, può scegliere

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tra il Carpaccio Gradisca, dove la carne Piemontese del Consorzio “La Granda” viene prima marinata nel miele e nel tè Suchong, e poi servita su un’insalatina con filetti di arancia e granella di mandorle alla paprika; o il Carpaccio di Chianina massaggiato al sale e portato in tavola con gherigli di noce, pere julienne e pane caldo al gorgonzola. Direttamente dal banco del fresco è invece possibile ordinare vari tipi di insalate; a base di pollo ruspante allo spiedo, per l’occasione abbinato a misticanza, peperoni, mais, carote e pomodorini; alla “lombarda”, con i nervetti, olive, misticanza e pomodorini; o a “tutta mozzarella”, dove l’opzione è tra Bufala Campana Dop, Treccia di Fior di Latte Sorrentina, o Bufala Cilentana, tutte servite su un letto di rucola e pomodorini. La sera, dalle 19.30 alle 24, la possibilità di scelta si amplia: il piatto forte è la Fiorentina di pura razza Chianina da un chilo, altamente marezzata e con una frollatura di almeno due settimane. Chi preferisce può ordinare una Fiorentina di Scottona Bavarese, proveniente esclusivamente da esemplari femmine di massimo 18 mesi, oppure una Fiorentina di Scottona Irlandese: entrambe le porzioni sono da 600 grammi. In alternativa, il menu comprende costate di vario genere, il Tegamino di polpette con vellutata di


San Marzano e Ricotta di bufala campana Dop; oppure il Crudo del Banco del macellaio, dove la Fassona piemontese de “La Granda” viene battuta al coltello al momento e servita con solo olio, sale di Trapani e limone, o volendo con salse più ricche. E poi c’è la Salsiccia napoletana di Maialino Nero di Caserta, altro fiore all’occhiello del locale: la si può ordinare solo “a metro”, a partire da un minimo di 25 centimetri, e sia in versione naturale, sia farcita con provola affumicata o friarielli. È praticamente introvabile a Milano, se non qui. Così come il Lanzardo, un salume molto particolare che unisce dell’ottimo lardo a un'altrettanto gustosa lonza di maiale, e/o la pancetta di manzo. Infine, i dessert. Oltre a Pastiera, Torta Caprese – anche in versione al limone - e altro ancora, una specialità di Mucche & Buoi è il Sanguinaccio: un’antica ricetta a base di sangue di maiale prodotta un tempo direttamente nelle macellerie, che viene qui riproposta con il cioccolato al posto del sangue, arricchita però con le medesime spezie della preparazione antica, cioè cannella e chiodi di garofano. Particolare attenzione viene riservata alla materia prima, carne in primo luogo:sono in tutto cinque le tipologie di carne servite da Mucche & Buoi: tre nazionali e due estere. La Marchigiana,

ad esempio, è la carne che si usava in prevalenza a Napoli, ed è particolarmente pregiata. “L’acquistiamo direttamente da Sabatino Cillo, attento e fidato fornitore del beneventano che al locale procura anche il Maialino Nero di Caserta e i polli allevati allo stato brado”, sottolinea Ferrieri. Non manca nemmeno la Chianina: molto apprezzata e richiesta, è un altro dei punti di forza del locale, e proviene da diversi fornitori. E poi c’è la Piemontese: certificata Slow Food, arriva direttamente dal consorzio La Granda e con la supervisione del suo fondatore Sergio

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Carne frollata correttamente ma, soprattutto, proposta in decine di versioni e di tipologie. Il concept della “macelleria-ristorante” sembra funzionare bene ed incontrare il gusto della clientela milanese.

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Capalbo, fornitore ufficiale di Eataly. Dall’estero provengono la Scottona Irlandese e Bavarese, anch’esse di grande qualità e procurate da fornitori che garantiscono un ottimo rapporto qualità prezzo. In un locale dove si mangiano in prevalenza carne e salumi, è scontato che la carta dei vini dia ampio spazio ai rossi. La scelta iniziale spazia tra una trentina di etichette, destinate ad aumentare e a coprire l’intero territorio nazionale. Si va dal Veneto, con l’Amarone 2006 dei Fratelli Tedeschi al Barolo 2006 di Terre di Vino, nelle Langhe piemontesi; dal Rosso Conero 2009 di Umani Ronchi nelle Marche al Montepulciano d’Abruzzo 2009 di Zaccagnini; dal pugliese Negroamaro 2007 di Tormaresca al siciliano Nero d’Avola 2007 di Cantina Settesoli. Tra i bianchi, ricordiamo il Gewürztraminer altoatesino di Elena Walch, la campana Falanghina del Sannio di Santiquaranta, e il Montù dell’Azienda Agricola Bassi in Emilia Romagna. Chi invece preferisce accompagnare panino o pasto con una “bionda”, può ordinare una birra artigianale Theresianer: Bock, Premium, Lager o Vienna. In un momento complesso come quello attuale, dove il settore della ristorazione è inflazionato e frammentato, la specializzazione è sicuramente una carta vincente sulla quale puntare. Ferrieri ne è davvero convinto, e anche per questo ha preferito limitare le referenze e concentrarsi su poche cose. “In questo modo, Mucche & Buoi può diventare un locale di riferimento per chi ha voglia di mangiare carne di qualità, sapendo che qui la può trovare”. Perché, come ogni altra cosa, la carne richiede cura, attenzione e competenza sia durante l’allevamento, sia al momento della macellazione e poi della cottura. “Ad esempio, deve essere frollata in modo corretto, nel frigorifero adatto. E prima di essere cucinata deve restare per un po’ a temperatura am-

biente. E in fase di cottura, è importante far sì che i succhi non si disperdano bensì restino all’interno della carne”, spiega Ferrieri. La specializzazione, sempre secondo Ferrieri, è una scelta favorevole anche dal punto vista finanziario: “Riducendo le referenze si è in più in grado di avere un costo pasto”, sottolinea Ferrieri. “Al contrario, quando le varianti sono molte, si può perdere il controllo dei vari costi. Oggi come oggi è importante essere bravi nell’offrire qualità al giusto prezzo. E Il successo consiste nel proporre un prodotto di lusso accessibile a tutti: da Mucche & Buoi si spende una media di 12 euro a testa, a pranzo, che salgono a 25 la sera”. Così, già a distanza di poche settimane dall’inaugurazione avvenuta lo scorso dicembre, il locale aveva già raggiunto gli obiettivi prefissati per i primi 7-8 mesi. “Avevo messo in conto di ottenere all’inizio il 30% di quello che invece siamo riusciti a raggiungere già nelle prime settimane di apertura”, sottolinea Ferrieri. “Il primo mese, venerdì, sabato e domenica sera abbiamo avuto una media di 150-200 coperti, e durante il resto della settimana mai meno di 100 coperti”. Appena inaugurato, il locale era aperto solo la sera, ma già prima dello scorso Natale la saracinesca è stata alzata anche per l’ora di pranzo: “Nella fascia che va dalle 12 alle 15, andiamo dai 40 agli 80 coperti, e siamo più che soddisfatti. L’imprenditore napoletano ha affidato la gestione della nuova creatura meneghina a due giovanissimi campani: il nipote di 28 anni, Vincenzo Ferrieri, figlio del fratello Antonio, e l’amico Giovanni Borrelli, 27 anni, entrambi mossi da una grande voglia di darsi da fare e lavorare in questo settore. In cucina c’è Michele Andretta, 24 anni, di origini napoletane e con una solida esperienza, mentre il servizio ai tavoli è affidato a una efficiente squadra, altrettanto giovane e quasi esclusivamente al femminile.



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Al Fico d’India il tipico stravince 54

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di Marta Lai Cucina di rispetto del territorio e delle tradizioni siciliane, con punte estreme come il cous cous alla trapanese. Il tutto piace alla clientela di Milano, alla ricerca di un corretto rapporto fra qualità e prezzo, soprattutto in materia di cucina di pesce. Milano non è certo una città avara di ristoranti, alcuni dei quali stentano però ad attirare clientela, mentre altri sembrano quasi miracolati da tanto sono sempre affollati, nonostante il periodo non sia dei più floridi nemmeno per la ristorazione. È il caso de Al Fico d’India, che, come suggerisce il nome, propone una cucina dell’Italia più solare, ovvero la Sicilia. Come recita il menu del locale, questo angolo di meridione gastronomico meneghino è situato “nell’entroterra del Naviglio Pavese”, ovvero in via Bonghi, strada angusta, per niente modaiola e ancor meno generosa di posti auto e collegamenti con i mezzi pubblici. E allora, come mai i 40 coperti del ristorante sono quasi sempre “sold out”, e ogni sera della settimana? Forse perché la formula de Al Fico d’India è un’intelli-

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gente via di mezzo fra i locali top che puntano alla sperimentazione, e quelli che invece continuano a essere fedelissimi alla tradizione: in altre parole, cucina creativa sì, ma senza voli pindarici. Però, forse c’è anche dell’altro. “Il motivo del successo penso dipenda anche dal fatto che io mi alzo tutte le mattine all’alba per andare a fare la spesa per il ristorante, prima di andare nel mio studio. Questo mi permette sia di controllare i costi, sia di creare buoni rapporti con i fornitori e offrire così ai nostri clienti un giusto rapporto tra qualità delle materie prime e prezzo”, spiega Daniela di Blasi, proprietaria del locale ma di professione architetto. Al Fico d’India un piatto di pesce costa intorno ai 20 euro: si va dai 21 euro della Spigola in fagottino di sfo-

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glia di patata con Tuma e pesto al basilico, ai 22 del Dentice con fonduta di porri e salsa al Nero d’Avola. Un prezzo non stracciato dunque, ma nemmeno eccessivo. Un altro punto di forza del locale e motivo di attrazione è il Couscous di pesce alla trapanese, orgoglio e passione del giovanissimo chef, il 28enne Salvatore Giaramida. Il quale non ha perso né l’accento né l’amore per la sua terra natia, la Sicilia appunto, né tantomeno la riconoscenza per chi sull’isola lo ha istradato alla carriera di cuoco: Salvatore ha voluto espressamente dedicare in carta al suo maestro Giorgio Graziano, chef del ristorante Il Ficodindia di San Vito Lo Capo, uno dei suoi piatti più intriganti, la Caponata siciliana con gambero in gomitolo di patate. Anche per il personale, Daniela di Blasi ha scelto di puntare a qualche cosa di diverso: “Credo molto all’importanza della creatività, forse perché io in primo luogo sono creativa. Per questo i quattro dipendenti fissi che lavorano qui per me hanno esperienze e interessi che vanno oltre la loro professione, e così possono metter anche altro nel lavoro di tutti i giorni al locale”. Oltre a Salvatore Giaramida che firma appunto i piatti, fa parte dello staff fisso Patrizia Iaconelli, preparata e spigliata somme-


Zona Navigli: il quartiere milanese è letteralmente invaso da locali “della notte”. Il Fico d’India fa eccezione: con la sua cucina siciliana accontenta la clientela gourmet. lière di 32 anni. Ed è a lei che spetta il ruolo di protagonista nel corso delle serate di degustazione che Al Fico d’India organizza periodicamente per i suoi clienti più affezionati e per chiunque sia interessato a provare l’esperienza di una cena “guidata”; durante la quale con circa 40 euro si possono mangiare tre abbondanti piatti a tema, abbinati ad altrettanti vini scelti da Patrizia. “Abbiamo una mailing-list di clienti ai quali comunico tutte le iniziative del ristorante. E le adesioni che ricevo per queste serate extra sono davvero numerose”, aggiunge Daniela di Blasi. In effetti, entrando in questo locale elegante, tutto giocato sui toni del rosso scuro e del giallo senza però essere freddo o impersonale, si ha la sensazione di mettere piede nel salotto di casa di amici più che un ristorante. Soprattutto a pranzo, quando è Salvatore stesso a suggerire i piatti del giorno a chi si siede a tavola, piuttosto che dirottarli sulla carta. “Mi sono occupata personalmente di arredamento, tendaggi e tappezzerie”, aggiunge Daniela, “curando in particolare l’insonorizzazione, in modo che ognuno possa farsi sentire da chi gli siede accanto, anche parlando a bassa voce”. E nemmeno questo è un particolare di poco conto.

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SUSHI ZEN Il coraggio di Germana Tan

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di Alberto P. Schieppati Non si ferma il successo dello Zen, il ristorante di cucina giapponese aperto a Milano (e a Roma) dodici anni fa. L’ambiente elegantemente informale e l’atmosfera “friendly” ne fanno il luogo ideale per un’esperienza di qualità: ma la forza sta nella freschezza delle materie prime e nell’impronta che la responsabile del locale ha saputo dare alla gestione. Passione, attenzione al cliente e senso di responsabilità: tre valori a cui si dovrebbero ispirare in tanti. Perché lo Zen piace? Perché è così difficile trovare un posto libero di fronte al kaiten, il nastro girevole sul quale scorrono i piattini colorati con gli osomaki e gli uramaki, i gunkan e i temaki? Insomma, perché la clientela milanese innamorata del sushi (quello vero) lo ha eletto a luogo ideale per le proprie incursioni gastronomiche? Una prima risposta potrebbe essere: lo Zen è apprezzato innanzitutto per la freschezza delle materie prime (e con il

pesce crudo, si sa, è vietato scherzare). Un’altra chiave del successo potrebbe risiedere nell’ambiente, particolarmente curato e attento ai dettagli dell’arredo, delle luci, dei colori. Origami e ikebana trovano qui la sede ideale per svelarsi ed apparire discretamente, in chiave “zen” verrebbe da dire. E anche l’armatura medioevale che campeggia nella sala principale evoca storie di samurai, che in questi ambienti non guastano mai. Chiudiamo un occhio sulla rima baciata e, per capire le ragioni del gradimento di Zen, pensiamo alle centinaia di locali cosiddetti sushi aperti negli ultimi anni nell’area milanese. E ci viene un groppo in gola: arredi dai colori omologati, accoglienza impostata, incuria generale (fatte le solite, dovute eccezioni). Per non dire del servizio, spesso inadeguato o, per non dire altro, impacciato. Allo Zen, viceversa, la qualità del servizio, cortese e informale ma efficace ed attento, gioca un ruolo molto importante: le ragazze orientali e brasiliane che, con gentilezza ed efficienza, aiutano il cliente a scegliere i piatti in un menù complesso e imponente,

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Germana Tan con Philippe Daverio, il critico e intellettuale milanese, ex leghista, affezionato cliente dello Zen: adora il tempura.

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sono un elemento indispensabile di quel famoso marketing mix, fondamentale per il successo.E come non citare, tra i fattori di successo, il sushiman che, con elegante decisione e l’occhio sempre rivolto ai clienti, taglia e porziona salmone e tonno e, con precisione acuminata, prepara tataki (carpacci) magistrali. Accanto a questi valori non certo trascurabili, ne emerge però uno sopra tutti: la responsabile del locale, Germana Tan, è una persona speciale, che ha fatto della direzione dello Zen la sua missione di vita. Tutto nasce da una passione per l’enogastronomia che l’ha portata, negli anni, a identificare la propria vita con l’impegno professionale: merce rara di questi tempi, in cui l’entusiasmo totale sembra appartenere a ricordi di altri tempi, in una società in cui ha preso il sopravvento la sottocultura del “freno a mano tirato”. Disvalore contagioso che, insieme alla dismissione di ogni forma di re-

sponsabilità, ha notevolmente peggiorato il livello qualitativo dell’offerta. Per fortuna ci sono le eccezioni e Artù lavora proprio per raccontare queste storie caratterizzate, controtendenza, coraggiose: storie di persone che hanno il cuore, sempre, oltre l’ostacolo. Germana è una di queste: quando ha intuito che il mondo stava cambiando, ha sparigliato le carte, diversificato l’offerta, personalizzato le proposte, memorizzato nomi e preferenze dei clienti. “Ogni cliente è diverso da un altro: perciò merita un’attenzione particolare, deve essere ascoltato nelle sue esigenze. E accontentato, se vogliamo farlo ritornare”. Così, a quasi dodici anni dall’apertura, Zen si è ormai configurato come il Sushi restaurant più friendly della città. E dire che, considerato che i locali di impronta giapponese (e sottolineo “di impronta”) superano le duemila unità (!), non ci dovrebbe essere l’imbarazzo della scelta. Invece c’è: i “sushi” sono molto


diversi fra loro, per tipologia di offerta, professionalità dello staff, freschezza delle materie prime. Lontano da impostazioni troppo formali nei rapporti con la clientela, il ristorante di via Maddalena (dietro corso di Porta Romana) ha scelto la strada del “lusso accessibile”. Come avrete capito dal primo numero di Artù, questa filosofia di offerta –che, in un certo senso, abbiamo fatto nostravuole essere in linea con le aspettative di un consumatore che non intende rinunciare al piacere e, nello stesso tempo, vuole salvaguardare il portafoglio. Zen rappresenta la personalizzazione dell’offerta, destrutturata in relazione ai desideri mutevoli della clientela: qui ci troviamo forse in uno dei pochi luoghi in cui il cliente ha effettivamente “sempre ragione”. E le sue necessità vanno assecondate. “E’ dai

suoi gusti e dalle sue esigenze che parte la concezione dei piatti dello Zen”, dice orgogliosa Germana Tan. “Non è un caso se, accanto ai grandi classici del sushi e del sashimi, abbiamo recentemente introdotto in menù almeno una ventina di novità”: così, oltre ai tradizionali piatti sushi al salmone, al tonno e misti, o all’ussuzukuri (il carpaccio di branzino con salsa ponzu e spezie), si sono imposti i tataki, i nighiri sushi, i menrui (ovvero, gli spaghetti giapponesi di grano duro –o di grano saraceno- con alghe e cipollotto, con tempura misto, con verdure e frutti di mare). Ebi-furai, i gamberi impanati e fritti in tempura, rappresentano sempre una scelta molto popolare, ma sono i tempura-udon e i tempura-soba a dominare le scelte, insieme alle classicissime “barche” (fune moriawase). Con i loro diciannove (non uno di più né uno di meno!) pezzi a persona fanno la felicità dei gourmet e delle famiglie: proposte per 2, 3, 4, 5, 6, 7 persone, appagano la “voglia di crudo” degli amanti di salmone, tonno, e di altri tipi di pesce disposti armoniosamente sulle lucidissime barche di legno. E i bambini, attratti dai cromatismi di rolls e sashimi, soddisfano le proprie curiosità culinarie: una risposta intelligente ai rispettabilissimi hamburger di Mc Donald’s, la meta preferita dai piccoli gourmand metropolitani (nonostante l’opposizione di tanti genitori). Germana Tan è sommelier professionista, è innamorata del vino di qualità e crede fermamente che l’accostamento della cucina nipponica alle nostre grandi etichette sia possibile, anzi, auspicabile. Teorica convinta del valore commerciale delle “mezze bottiglie” (e l’inchiesta di Artù dello scorso numero ne ha confermato la diffusione presso la ristorazione), ha introdotto prodotti di grandi cantine: Terredora, Pio Boffa, Provenza, sono solo alcune delle aziende che vedono i loro vini abbinati a nighiri, menrui, cirashi e tempura. Nel mondo che si va sempre più globalizzando, ci sembra un fatto sempre più normale.

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L’Anteprima riparte E la creatività esplode 62

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di Elio Ghisalberti I maligni avevano paventato il rischio che la prolungata chiusura per ferie, da dopo le feste di Natale fino al primo giorno di primavera, celasse chissà quali ripensamenti sul modello di cucina o, addirittura visti i tempi che stiamo vivendo, fosse un escamotage per anticipare senza traumi la chiusura. Invece, il ristorante Anteprima di Chiuduno in provincia di Bergamo (ad un paio di minuti dall’uscita del casello di Grumello sulla A4), insegna che fa capo alla San Lucio Events e che vede protagonista in cucina il cuoco trentino Daniel Facen, ha riaperto regolarmente i battenti riproponendo senza alcuna modifica, anzi se possibile enfatizzandone i concetti, lo stile che la contraddistingue sin dall’apertura avvenuta nel 2006. Le illazioni, dunque, non avevano fondamento: si è trattato solo di una pausa necessaria per eseguire alcuni lavori di sistemazione ed abbellimento, ma soprattutto per riprendere fiato dopo un lustro di lavoro ininterrotto, un “fermo macchina” per così dire fisiologico che è servito a ripartire con idee nuove, nuovi stimoli e la giusta tensione sul lavoro. Del resto a pretenderlo è proprio lo stile scelto ed interpretato da Daniel Facen, sin dall’apertura, improntato all’esibizione - non a caso il locale è sottotitolato

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La linea di cucina di Daniel Facen nasce e si concretizza sulla base di una ricerca continua delle possibilità offerte dalle materie prime: ingredienti che consentono percorsi artigianali e caratterizzati. “show cooking” - delle tecniche di cucina più moderne e, in un certo senso, spregiudicate. Serviva un po’ di spazio per riflettere, magari anche per prendere possesso delle nuove attrezzature, come il distillatore-evaporatore di ultima generazione arrivato nella cucina-laboratorio ad arricchire il già nutrito bagaglio tecnologico a disposizione. Giochi? Certo, al tavolo l’effetto, tra fumi e profumi, scoppiettii e “tatticismi”, il divertimento è assicurato. Ma dopo il bello della coreografia e l’immaginifico della messa in scena, occorre che arrivi il buono della sostanza. E lì molti interpreti di questo stile di cucina incespicano, se non cascano. Non Daniel Facen che dimostra, anno dopo anno, di avere sempre più consapevolezza e padronanza della materia, di saperla intelligentemente coniugare alla concretezza, attraverso la perfetta conoscenza delle basi della cucina classica-tradizionale. Per rendersene conto ci si può avvicinare ai suoi “giochi” per gradi, approfittando della presenza nel menu sia di una lista di piatti diciamo così più convenzionali, sia dei menu degustazione, l’uno di pesce l’altro di carne, che disegnano un percorso misto tra “innovazione e tradizione”. Ma per il gourmet curioso ed indagatore, il percorso più interessante resta quello totalmente creativo. Dalla pausa di riflessione invernale, che sarà il caso diventi prassi se il risultato sarà sempre come quello che abbiamo avuto modo di appurare pochi giorni orsono, sono scaturite addirittura una ventina di portate (costo 105 euro) tra le quali perdersi in congetture e supposizioni sul come sia stato possibile realizzarle nelle forme e nelle consistenze con cui si presentano nel piatto e quindi

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Daniel Facen Nato in Svizzera (nel 1965) da famiglia trentina, Daniel Facen ha fatto tutta la trafila che necessita ad un cuoco per costruirsi una solida esperienza, quindi una carriera, infine un’identità. Diploma all’Alberghiera, stagioni passate a farsi le ossa nelle grandi strutture alberghiere, esperienze nei migliori ristoranti classici, frequentazioni dei “santuari” della cucina d’avanguardia. Quando ha accettato la proposta di Vincenzo Tallarini, di occuparsi della cucina del San Lucio azienda leader del cateringbanqueting bergamasco, era dunque un cuoco già dotato di un bagaglio professionale di primo piano. La voglia di metterlo a frutto in maniera compiuta si è materializzata nel 2005, appunto con l’apertura dell’Anteprima “show cooking”.

all’assaggio. Data la ricchezza di ingredienti e di elaborazioni, ci limiteremo a descriverne un paio tra quelle che ci hanno più colpito. La “brezza” è una sfera di acqua di ostriche (sottilissima, ghiacciata, che dopo un paio di minuti comincia a sciogliersi andando a condire l’insalatina dove la parte croccante è data dai crostini di pane di miele e quella più morbida al corallo di cappesante, anguilla, bruscandoli e agretti, il tutto rinforzato nel gusto dalla


salsa di ostriche e di peperone servita nel cucchiaio. “L’illusione” è una deliziosa crema agli anenomi di mare servita con una tartare di seppie, degli sconvolgenti (per difficoltà di esecuzione) ravioli croccanti alle carote farciti al caviale, pane al Campari - il pane è inserito spesso nel piatto, mai viene dato in accompagnamento - ed infine, a sormontare il tutto, il “di zucchero” alle erbe e fiori. Complicato? Per chi ha il compito - leggi la squadra dei giovani cuochi che affianca Daniel Facen in cucina - di elaborare i piatti certamente, se si vuole anche per chi li “smonta” al tavolo, perché il tutto va gestito con una certa attenzione ed accuratezza magari seguendo le direttive impartite da Carlo Pierato, il bravo maitre che, dopo l’esperienza trascorsa sulle navi da crociera, è tornato a ricomporre la squadra che ha offerto fino ad oggi le prestazioni più convincenti. Poi arriva la percezione del gusto, e le cose lì si fanno meno complicate di quel che sembra. Le “tesine” di laurea gastronomica contenute in ciascun piatto si traducono in un’equilibrata sommatoria di sapori che si rende leggibile e godibile immediatamente e senza intermediazioni. Con-

San Lucio Events No, non è un caso se Anteprima, il ristorante-laboratorio di cucina moderna aperto dalla San Lucio Events, è sorto proprio dove la famiglia Tallarini ha mosso i primi passi nel mondo della ristorazione. In fondo, si tratta di un’accelerazione dei concetti che hanno sempre ispirato il lavoro di un gruppo coeso nella ricerca e nella sperimentazione. Mai arroccarsi sulle proprie posizioni, sguardo aperto sul mondo della gastronomia, soprattutto quella all’avanguardia, per coglierne i movimenti

più interessanti. Proiettarsi nel futuro avendo sempre ben presente da dove si arriva, evolversi con misura e cognizione. Principi che Vincenzo Tallarini, leader del gruppo, ha applicato in tutte le attività cui si è dedicato. In primis naturalmente il servizio di catering di alto profilo per banchetti e ricevimenti, sviluppato in una dozzina di location di prestigio, alcune condotte in esclusiva, altre in sinergia con la proprietà, concentrate nel territorio bergamasco con qualche incursione nelle province limitrofe.

cetti che, insieme a quello della trasparenza, vengono enfatizzati nella cucina a vista totale che praticamente entra dentro la sala. E per chi non si accontenta nemmeno di cogliere i dettagli delle elaborazioni attraverso i video che tappezzano le pareti, c’è il tavolino in cucina per il full immersione integrale nello show cooking dell’Anteprima.

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Imperativo, non sprecare

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di Isa Grassano La cultura bio può essere una risposta (e un antidoto) alla sottocultura dello spreco generalizzato, diventato ormai una vera e propria piaga sociale. Alce Nero Caffè Bio di Bologna prova ad invertire la rotta, spostando il focus sul recupero intelligente e sulla valorizzazione di prodotti di qualità, invenduti o imperfetti sotto il profilo dell’apparenza. E il consumatore evoluto sposa l’idea, impegnandosi a soddisfare il proprio gusto e la propria cultura della sostenibilità, con l’aiuto di iPad e touchscreen. Vasetti di yogurt in scadenza, pomodori un po’ “raggrinziti”, patate germogliate, un cespo di insalata ammosciato in frigorifero. E la lista potrebbe allungarsi all’infinito. Sono tanti e sempre di più gli acquisti alimentari non consumati, che ogni giorno finiscono direttamente nell’immondizia. Un fenomeno, quello dello spreco, che aleggia sul nostro modo di vivere, come un fantasma. Si calcola, infatti,

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Alce Nero ha aperto a Bologna un vero e proprio last minute market, destinato a sensibilizzare la cultura della sostenibilità ambientale, ancora insufficientemente sviluppata presso il pubblico dei consumatori. “Il nostro obiettivo, dice Andrea Segré, preside della facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, che sostiene l’iniziativa, è soprattutto culturale e punta a portare agli occhi della gente lo scarto che quotidianamente viene prodotto immotivatamente”.

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che ogni anno finiscono tra i rifiuti, senza nemmeno essere stati messi in tavola, circa 18 milioni di tonnellate di prodotti: l’8% del totale del cibo smerciato in Italia. Secondo l’Associazione per la Difesa e l’Orientamento dei Consumatori (ADoc), ogni famiglia in Italia getta via circa 600 euro di prodotti alimentari: milioni di euro che se ne vanno in fumo. Finiscono in discarica il 15% del pane e della pasta, il 18% della carne e il 12% di frutta e verdura. E gli altri Paesi non sono certo in una situazione migliore. Ogni anno negli Usa vengono buttati il 40% degli alimenti commestibili, in Svezia il 25% e in Cina il 16%; la Gran Bretagna getta 6,7 tonnellate di cibi. Queste cifre assumono ancora più rilievo perché il Parlamento europeo ha deciso di dedicare tutto il 2011 alla lotta contro lo spreco. Il primo passo da fare, è ridurre del 50% le perdite lungo la filiera alimentare. Il Presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo, Paolo De Castro, ha inserito il tema “sprechi” nell’agenda delle priorità della commissione Ue affinché, entro il 2025, vi sia una netta riduzione: dal 1974 gli sprechi sono aumentati nel mondo del 50%. A perderci è anche l’ambiente: una tonnellata di rifiuti alimentari genera 4,2 tonnellate di Co2 (anidride carbonica). Insomma l’imperativo è “non sprecare”. Tra i primi ad accogliere l’invito a riutilizzare e riciclare tutto c’è Alce Nero Caffè Bio di Bologna, il nuovo format di locale (unisce ristorante, caffetteria, negozio) che è stato certifi-

cato “a spreco zero”. L’originale riconoscimento arriva da Last Minute Market, uno spin-off (ovvero una società nata con il sostegno dell’università e voluta da Andrea Segrè, preside della facoltà di Agraria) che offre servizi per attivare progetti di recupero delle merci invendute. Questa certificazione vuole spronare gli esercenti alla progressiva riduzione dello spreco di risorse e a limitare al massimo le emissioni nocive nell’ambiente: prodotti, materiali utilizzati, acqua, energia elettrica, rifiuti solidi, scarichi (anche durante le fasi di trasporto e distribuzione). «Il nostro obiettivo – sottolinea l’economista Segré – è anche culturale. Portare agli occhi della gente lo scarto, quantificare lo spreco, valorizzarlo in termini di costi significa spesso creare le condizioni per diminuirlo, senza modificare, per questo, il livello di benessere a cui si è abituati». E così, per Alce Nero Caffè Bio la cultura delle “4 R” (rifiuta, riduci, riusa, ricicla) è, soprattutto, un approccio verso la sostenibilità, in chiave di rivisitazione dei consumi che diventano utilizzo e non sfruttamento. Ad iniziare dalla location, a due passi da Piazza Verdi, in piena zona universitaria, che si caratterizza per il risparmio energetico: il locale è coibentato con cappotto interno e isolamento con doppi vetri, contro la dispersione termica. Le lampade, così come gli elettrodomestici, sono a basso consumo. Grande attenzione non solo per smaltire i rifiuti, ma soprattutto per limitarne la produzione. Per la somministrazione di cibo e


bevande si utilizzano soltanto materiali riutilizzabili e lavabili (vetro, metallo, legno, ceramica) e mai piatti o posate usa e getta. Ai tavoli si serve solo acqua in caraffa di vetro, proveniente dall’acquedotto cittadino e filtrata. Le tovagliette e i tovaglioli sono di carta riciclata, mentre i carrelli per fare la spesa in plastica, ottenuta dal riuso di bottiglie. Ovunque si parla di natura con arredi (opera di Costa Group) realizzati esclusivamente in materiali che rispettano l’ambiente,

quali legno, marmo, vetro, ceramica. Il fiore all’occhiello? Il circolo virtuoso di recupero degli alimenti in eccedenza che vengono donati, gratuitamente, alla vicina mensa di Santa Cecilia e utilizzati per preparare una settantina di pasti per i poveri della città. Del resto, il “Last Minute Market” prevede la rete di donazioni in un ambito locale, proprio perché si deve trattare di un progetto ecosostenibile. Sarebbe assurdo pensare di donare un tir carico di alimentari facendogli percorrere chilometri e chilometri. E non solo. I prodotti vicini alla scadenza, quelli difettati (ad esempio per errore di etichettatura), e l’ortofrutta “imperfetta” dal punto di vista estetico vengono venduti ad un prezzo scontato o sfruttati in cucina. Alce Nero Caffè Bio è un bistrot davvero unico (ha un suo gemello a Cesena), dove ogni cosa va a braccetto con una cucina sana, bio e di stagione. La proposta culinaria spazia da un piatto unico a buffet (a 10 euro)

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con menù per tutti i gusti e tutte le preferenze, da quello vegetariano a quello specifico per i bambini, fino al menù Libera Terra di Don Ciotti, provenienti dalle terre confiscate alla criminalità. «Il nostro locale – spiega Lucio Cavazzoni, presidente di Alce Nero & Mielizia - è il luogo in cui l’arte di produrre si unisce all’arte della cucina: dai prodotti ai piatti, dalla terra ai profumi e al gusto. Insieme agricoltori e cuochi, per una cultura e diffusione del cibo vero, buono, biologico e possibile». E qui la ristorazione si fonde con il negozio in un tutt’uno. Si fa la spesa bio, scegliendo tra le 800 referenze di prodotti a marchio Alce Nero, Alce Nero Equosolidale, Mielizia, Libera

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Terra. Completano l’offerta la verdura fresca, i formaggi, i salumi, la carne con una attenzione speciale ai produttori locali selezionati. Sul packaging di ciascun prodotto, così come per il menù, è riportato il linguaggio Braille per dare la possibilità anche ai non vedenti di selezionare e scegliere ciò che più piace. Attraverso iPad e touchscreen, disponibili all’interno del locale, si possono conoscere informazioni aggiuntive su tutto ciò che è esposto, oltre ai diversi abbinamenti possibili con i vari alimenti. Alla fine le ricette e i suggerimenti ai fornelli si possono comodamente spedire via email, dal negozio al proprio computer o smartphone, così da avere anche a casa tutto a portata di mano, senza sprecare nemmeno un foglio di carta.



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La birra di BUSSETO conquista il mondo di Davide Bernieri È successo in continua crescita per il Birrificio del Ducato (di Parma, naturalmente). Tre soci appassionati di birra hanno fondato quattro anni fa una realtà molto dinamica, che in pochissimo tempo ha conquistato una schiera di consumatori fedelissimi, in Italia e all’estero. La Bassa parmense, quel lembo di pianura che bagna i piedi nelle acque del Po, evoca nella mente dei gourmet una tradizione di cucina schietta e raffinata al tempo stesso, fondata su grandi salumi maturati nell’umida nebbia invernale e su vini frizzanti e beverini, che ben si sposano con pietanze che traggono la loro forza dal territorio. Così come Roncole di Busseto, nell’immaginario dei melomani di tutto il mondo, è il luogo di nascita di Giuseppe Verdi, il Maestro, la cui popolarità ha raggiunto i quattro angoli del mondo partendo proprio da

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un’umile dimora contadina locale. Eppure, proprio a pochi passi dalla casa che fu di Verdi, oggi trasformata in un museo a lui dedicato, si sta compiendo una piccola rivoluzione cultural/gastronomica che ha la birra come protagonista: il Birrificio del Ducato, microbirrificio artigianale nato nel 2007 dalla passione di tre soci (Giovanni Campari, Emanuele Aimi, Manuel Piccoli) in pochi anni ha conquistato il vertice mondiale della categoria, facendo incetta di premi nazionali ed internazionali e imponendosi sul palcoscenico birrario mondiale come una delle realtà più dinamiche. Ultima consacrazione, la conquista del premio di Birrificio dell’anno 2011, nel concorso organizzato da Unionbirrai, l’associazione di categoria dei microbirrifici italiani. Birrificio del Ducato bissa il successo dello scorso anno e certifica lo stato di grazia della realtà parmense, punta di diamante del crescente movimento nazionale della bevanda artigianale con la


schiuma, che annovera un numero sempre crescente di produttori e conquista una schiera folta di appassionati. “La nostra ricetta è tanto semplice quanto efficace – dichiara Giovanni Campari, mastro birraio del Birrificio del Ducato – una passione sconfinata, massima attenzione ai dettagli e una ricerca minuziosa sulla qualità delle materie prime. Abbiamo deciso fin da subito di intraprendere una sperimentazione che donasse alle nostre birre una personalità unica, senza pregiudicarne la bevibilità, essenziale quando si parla di birra”. VIÆMILIA e A.F.O., le prime due birre create, che fin da subito hanno incontrato il favore di pubblico e critica, con la prima che continua a mietere successi ancor oggi, visto che si è aggiudicata il premio di “Birra dell’anno 2011” nella sua categoria, insieme a Chimera, Wedding Rauch, L'Ultima Luna, La Luna Rossa, nell’ultima edizione del concorso indetto da Unionbirrai, tenutasi il 19 febbraio a Rimini. Un quintetto di ori che premia l’impegno del Birrificio del Ducato e proietta il birrificio parmense verso nuove sfide: il lancio di un nuovo brand, Ducato, e il tentativo di sbarco in un mercato molto promettente come quello della Cina. Con Ducato, il birrificio di Roncole Verdi completa un trittico di gamme, ognuna destinata a uno specifico canale commerciale: Birrificio del Ducato per la ristorazione e il dettaglio specializzato, BIA per la grande distribuzione e Ducato per i grossisti bevande. Tre gamme, la stessa attenzione alla qualità. “Ducato – spiega Campari – è un marchio in piena coerenza con la nostra filosofia produttiva. Con questo nuovo lancio, abbiamo voluto dare un segnale di continuità al mercato, allargando la possibilità a un pubblico più vasto di bere birra di qualità, con una maggiore attenzione al prezzo finale”. Infine, a suggellare una stagione ricca di successi, il Birrificio del Ducato approccerà il mercato cinese, con una missione esplorativa nel paese della Grande Muraglia. Un grande balzo in

avanti, dalle “cotte” di Roncole Verdi alle sfide imposte dal mercato internazionale, dalle nebbie della bassa parmense alle atmosfere esotiche dell’Estremo Oriente.

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tipico

STROLGHINO di Culatello, il non salame che piace di Davide Bernieri Per molti anni è stato un oggetto misterioso, al di fuori della sua zona d’origine, ossia quel lembo di pianura parmense bagnata dal Po. Poi, sulla scia della riscoperta delle produzioni alimentari tipiche, lo Strolghino ha conosciuto le luci della ribalta, diventando presto un simbolo, peraltro inflazionato, delle tavole più ricercate, tutte orientate alla tipicità e alla nicchia. Una situazione, quella dello Strolghino, comune ad altri prodotti dei tanti giacimenti enogastronomici che punteggiano il Belpaese da nord a sud, passati spesso dall’anonimato alla notorietà nel breve spazio di poche stagioni, magari sull’onda di un commento favorevole di un food blogger o in virtù di poche, azzeccate, azioni di marketing da parte di un produttore particolarmente illuminato. Per questo, oggi è facile trovare in tutt’Italia, nel negozi più forniti, ma anche in qualche punto di vendita della grande distribuzione, questi piccoli salametti avvolti tradizionalmente nella carta paglia, ripiegata a proteggerne la gentile tempra. Certo, lo Strolghino rimane produzione di piccolo cabotaggio: infatti questo salame gentile, morbido e dolce, è legato a filo doppio a

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un’altro grande prodotto della tradizione salsamentaria della Bassa Parmense, cioè il culatello che, come molti sapranno, si ricava rifilando una coscia suina di maiale pesante fino a ottenere la caratteristica forma a pera, poi insaccata e legata per la stagionatura. Come tanti miracoli della inimitabile tradizione alimentare italiana, lo Strolghino si ricava proprio dalle carni “avanzate” dalla lavorazione del Culatello (e del suo cugino più povero Fiocchetto), macinate finemente e insaccate nella budellina suina. Del resto anche il suo nome simpatico deriva proprio da questa origine particolare: nel dialetto parmense, strolgär, significa inventarsi qualcosa, trovare una soluzione. E quale migliore soluzione, nell’attenta economia contadina di una volta, di utilizzare i ritagli di carne, peraltro pregiata, per creare un salametto piccolo e sottile, da consumarsi giovane dopo una stagionatura di appena 20 giorni? Lo Strolghino è rimasto, quindi, per tanti anni oscurato dal cono d’ombra dei suoi illustri “genitori”, in particolare del Culatello, che dal dopoguerra in poi è uscito dalla sua connotazione prettamente rurale ed è diventato il simbolo di un nuovo modo di intendere il buono in tavola. Sapori veri e unici che hanno conquistato estimatori in tutto il pianeta. Associato al brand Culatello come lasciapassare, anche lo Strolghino ha saputo scalare rapidamente le classifiche di gradimento, passando dai robusti stomaci contadini (alcune fonti certo non dimostrabili testimoniano come i lavoratori dei campi usassero lo Strolghino come pranzo “al sacco”, mangiandolo direttamente a morsi) alle tavole metropolitane più modaiole. Oltretutto in un frangente nel quale la destrutturazione dei pasti ha portato un momento come la merenda, da tempo in disuso se non tra i pochi contadini tuttora avvinghiati alle tradizioni, a divenire momento di consumo privilegiato e apprezzato da tutti gli strati sociali, per il suo carattere conviviale e informale. Così, se il tagliere di salumi e formaggi oggi è divenuto un must, lo Strolghino, tagliato a fette spesse con la sua morbidezza al tatto e il suo sapore delicato, in abbinamento a pane fragrante e a vini

Morbido, gustoso, succulento. E salato quanto basta. Lo strolghino rappresenta al meglio la nuova generazione di salumi “salutisti”, con pochissimi grassi e un’alta percentuale di carne magra. Prodotto con i “ritagli” della carne pregiata del culatello, da alcuni anni riscuote un grande successo presso il popolo dei gourmet. Ma la ristorazione, a parte quella parmense e parmigiana, non lo ha ancora scoperto come si dovrebbe.

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Bassa Parmense

Pamra


parmensi frizzanti come Malvasia o Fortana, oppure con le “bollicine” ha saputo dare il meglio di sé. Una delle caratteristiche più spiccate di questo salame è la sua morbidezza. Per questo, prima della vendita, è confezionato in carta paglia, accorgimento che ne impedisce l’asciugatura troppo pronunciata che ne pregiudicherebbe sapore e texture. Lo Strolghino ha un diametro di circa 3 centimetri e raggiunge una lunghezza compresa tra i 15 e i 30 centimetri. Le carni utilizzate sono magre e poco aromatizzate con i canonici sale, pepe e poco altro (alcuni sostengono di utilizzare miele per accrescere dolcezza e morbidezza). Anticamente seguiva i ritmi di produzione del Culatello, quindi realizzato da ottobre a febbraio, quando il clima della Bassa parmense meglio si presta alla lavorazione del maiale con le giornate fredde e nebbiose, e commercializzato al massimo fino a marzo. Oggi lo Strolghino si può trovare tutto l’anno in versione industriale, anche confezionato in atmosfera protettiva. Anche questo è un segnale che testimonia il successo di questo piccolo e gentile salame della Bassa Parmense. Artù n°44

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lusso

E la pizza d’ORO entrò nel Guinness gorante di ricoprirla d’oro. “Non volevamo dar vita alla migliore pizza del mondo continua Camilleri - ma semplicemente creare il miglior peccato di gola, tutto in una pizza!”. E, aggiungiamo noi, trovare un modo per farsi pubblicità. Niente pomodoro, la cui acidità copre la delicatezza del tartufo, fa di questa pizza un nuovo Guinness dei Primati per prezzo ed è già stata ordinata ben due volte da un noto proprietario alberghiero maltese. Questo nuovo record batte di gran lunga la pizza del Maze di Londra, il celebre ristorante dello chef-star Gordon Ramsay: la sua pizza venduta a £100 (circa 120 €) è ricoperta da scaglie di una preziosa qualità di tartufo bianco italiano. “Non ho voluto creare questa pizza per un ritorno economico - tiene a precisare Claude Camilleri sul quotidiano Times of Malta - anzi, indi Claudio Zeni tendo darne in beneficenza i ricavi. L’abChi dice che la pizza è uno dei piatti biamo pensata a puro scopo di immagipiù economici? Immaginate di sedervi ne”. Ricordatevi solo che la “pizza d’oro” al tavolo per gustarvene una, buona, di Margo’s dev’essere ordinata con una calda, croccante. Superate il vostro li- settimana d’anticipo in quanto, per reamite di immaginazione mentre scorrete lizzarla, il tartufo viene consegnato appoil dito sulla carta del menù, perché vi sitamente via corriere espresso. imbatterete in una pizza fuori dall’ordinario. Non solo per gli ingredienti. “Pizza con tartufo bianco e foglie d’oro 24 carati, unitamente a mozzarella di bufala su uno strato di pasta sottile. Prezzo: 1800 euro. L’importante è esagerare…Uno scherzo? Assolutamente no, anzi, una creazione davvero particolare, per non dire altro. Siamo a Malta, seduti nella Pizzeria Margo’s, una delle più prestigiose al mondo. Chic, per palati da gourmand, si trova nel cuore della capitale, La Valletta. Claude Camilleri, il titolare di Margo’s, racconta che l’idea gli venne lo scorso inverno insieme al pizzaiolo Giovanni Staiano, realizzatore della preziosa pizza. “Annusando entusiasta il profumo inebriante di un tartufo da Mistra a Palazzo Santa Rosa (altro ristorante di Camilleri, ndr) ci venne l’illuminazione di farne una pizza speciale, che fosse in grado di esaltarne tutte le proprietà organolettiche!”. L’idea di una pizza che soddisfacesse quattro sensi non poteva però essere completa senza coinvolgere anche il quinto, la vista. Da qui l’idea fol-

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La Valletta ●



accueil

Antonio BATANI Il signore degli alberghi Gli inglesi lo definirebbero un “tycoon”, gli economisti nostrani un manager, ma Nativo di Bagno di Romagna, nota per Antonio Batani, preferisce definirsi “imle terme e per il grande chef Paolo Te- prenditore” nel settore turistico, con, in verini, Batani aprì a soli ventun anni più, la passione per il mattone e la ferrea una pensioncina sulla riviera romagnola. determinazione di raggiungere quanto di Oggi è a capo di una catena alberghiera meglio la professione consente. In questa di altissimo profilo, la Select Hotels ottica si comprende la grande soddisfaCollection, che vanta undici strutture zione di Batani per aver perfezionato, d’eccellenza, segmentate per tipologia dopo un inseguimento durato tre anni, di offerta e categoria, compresa quella l’acquisto del Grand Hotel Rimini, autentica icona del lusso e della memoria che è icona mondiale del turismo italiano. A il Grand Hotel di Rimini. Un impero capo di Select Hotels Collection, una catutto italiano, caratterizzato da forte tena che vanta oggi undici alberghi (due spirito imprenditoriale e da professio- a cinque stelle, sette a quattro, i rimanenti nalità dello staff. a tre) con quasi 850 dipendenti, di cui circa oltre 200 provenienti da paesi stranieri, Batani è il classico romagnolo, tenace al limite della testardaggine, in continuo movimento fino a quando non ha raggiunto l’obiettivo cui mira. Dopo di che non c’è riposo, ma altre mete da inseguire. Tipo semplice, disponibile, pronto alla battuta in dialetto, Tonino (così è conosciuto da clienti e amici) è una persona che non ama la ribalta, pur comparendo ritratto in foto assieme a Valeria Marini e a tanti altri vip, abituali frequentatori dei suoi hotel. “La mia è una storia come tante” sostiene l’imprenditore, anche se la realtà testimonia quanto di suo abbia messo Batani nella scalata al successo. Classe 1936, nativo di Bagno di Romagna, in provincia di Forlì-Cesena, comune dell’entroterra cesenate, terzo di sei fratelli, arriva a Cervia con la famiglia quando ha poco più di 14 anni. Il padre Sante trova lavoro in una cooperativa di muratori, mentre per Tonino si aprono nuove prospettive occupazionali in Svizzera. Là, esattamente nel Cantone dei Grigioni, risiedeva, da tempo, una famiglia originaria di Bagno di Romagna, che aveva fatto fortuna nel settore edile. Tonino viene così affidato alle cure dei conterranei, che gli trovano un lavoro, come cameriere, presso un albergatore, proprietario di un hotel a Saint Moritz, ma gestore anche del buffet della stazione da cui parte il trenino che trasporta i turisti nella località sciistica. Essendo affollato di vip, il buffet aveva servizi di prima categoria e il giovane Batani, proprio qui, si fa le ossa come cameriere. Un di Theo Smith

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Antonio Batani, imprenditore dell’ospitalità italiana, è a capo di una catena che ha saputo coniugare l’innovazione (e il lusso) delle strutture al rispetto delle tradizioni locali, garantendo livelli di accoglienza superlativi ma mai asettici: a questa strategia contribuisce il ruolo attivo e professionale dello staff di tutti gli alberghi del gruppo.

Batani frequenta la scuola alberghiera, dove affina le sue doti e competenze in materia di gastronomia, specializzandosi nei menù a base di pesce. Lavoro, studio e cucina, ma Tonino ha tempo anche per altre cose. Al bureau della pensioncina, si muove, con grazia, una ragazzina, Luciana Perugini, originaria di Meldola, nel forlivese, e Tonino non resta indifferente al fascino della giovane, tanto che i due convoleranno a nozze nel 1967. Nel frattempo il piccolo imprenditore comincia a guardarsi attorno. Acquista un terreno verso la zona di Pinarella e costruisce la Pensione Batani, un due stelle, con 32 stanze. La costruzione, però, non è in prima linea e Tonino non è soddisfatto. Lui vuole, per i suoi clienti, il lungomare e la vista dell’Adriatico. Turbamenti che lo inseguono fino a quando prende la decisione di vendere la pensione per comlavoro che svolge per sei anni, fino a prare l’Hotel Universal, cinquanta stanze, quando il padre, notando lo sviluppo turi- in Viale Grazia Deledda. È a questo punto stico delle località adriatiche, non lo con- che Tonino scopre la “vocazione” per il siglia di ritornare in Patria, per mettersi in mattone e la sua anima di illuminato alproprio. E così, nel 1957, ad appena 21 bergatore. Acquista l’hotel a fianco, il anni, ma con una qualificata esperienza Beau Rivage, compra due pensioni, alle spalle, Tonino prende in affitto una Niagara e Barbara, che stanno alle spalle pensioncina di nome “Delia”. Un due degli alberghi, quindi rade al suolo i stelle, poche camere (sedici in tutto), quattro stabili e ne costruisce uno solo, ma ambiente familiare, pulito, dove si elegante, modernissimo, con tutti i confort: mangia bene e, soprattutto, si spende il quattro stelle Hotel Universal, con 120 poco. È il lavoro dell’intera famiglia. Mam- stanze. Inizia, a questo punto, l’attività ma Paola, si occupa della cucina, due imprenditoriale di Batani nel settore turisorelle delle pulizie, Tonino e il padre stico. Prende in gestione l’Hotel Diplomatic, Sante servono a tavola. Al termine di ma è Milano Marittima la località su cui ogni stagione, per cinque anni, il giovane punta e che costituisce l’oggetto del desiArtù n°44

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derio. Si accorge, infatti, che là un albergo di pari categoria all’Universal ha prezzi più alti. Stesso mare, stesso comune, una distanza di poche centinaia di metri, ma differenze abissali tra le due località, divise dal porto canale. Tenta, allora, il grande passo, prendendo in affitto, nel 1983, l’Hotel Gallia, un quattro stelle da 120 camere (lo acquisterà, poi, 16 anni dopo). Nel frattempo la famiglia è cresciuta. Sono nati Gianni 1968, Cristina 1972 e Paola 1978, oggi impegnati a seguire la strada paterna. Intanto papà Tonino è sempre sulla breccia. Di fronte allo sconforto dei suoi colleghi albergatori per la presenza della mucillaggine, e alla loro convinzione che il mare non tiri più, Tonino compra l’Hotel Aurelia, uno dei più belli della zona: 108 stanze aperto tutto l’anno; prende in affitto l’Hotel Doge 86 stanze ed il prestigioso Mare e Pineta, il primo albergo costruito a Milano Marittima, 160 stanze, 10 campi da tennis, spiaggia privata, meta di tutti i vip. E a conferma che nel suo dna c’è il male del mattone, compra ad Acquapartita, il paese della madre, 800 metri di altezza nei pressi di Bagno di Romagna, una trentina di ettari di terreno, con molto bosco ed addirittura un laghetto. Qui costruisce, alla fine degli anni ’90, l’Hotel Miramonti, 62 stanze, quattro stelle, aperto nove mesi l’anno. Frenetica attività imprenditoriale che da sola però non giustifica il successo. Batani, infatti, ha una sua filosofia vincente. “Ogni albergo è una famiglia” sostiene e dai suoi dipendenti, i migliori in assoluto in ogni campo, dalla ristorazione, al servizio in sala, ottiene quanto desidera, perché offre loro ciò che si aspettano. La sua presenza è continua in ogni albergo. Durante la stagione estiva viaggia, senza sosta, a bordo del suo pulmino, per seguire di persona ogni hotel, con frequenti puntate in cucina dove discute, con gli chef, menù e ricette. Compra carne e pesce, ma la verdura e la frutta (biologica al 95%) provengono dalla sua azienda agricola di una quindicina di ettari, pochi chilometri nell’entroterra. Tutto bene, ma mancava il tocco di gran classe che si concretizzerà con l’acquisto di un albergo in centro a Milano Marittima. Immediata

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la demolizione e la costruzione del Palace Hotel, 130 stanze: nel 2005 l’unico cinque stelle costruito sulla Riviera adriatica negli ultimi 50 anni. Il Palace Hotel ha piscina, idromassaggio, beauty farm, sale congressi, parcheggio sotterraneo, quanto di meglio si può cercare per funzionalità ed estetica. D’altra parte, sostiene Batani, per rimanere al passo con le richieste di clienti sempre più esigenti, “gli hotels vanno demoliti e costruiti, con i rattoppi si va poco lontano”. L’attività imprenditoriale di Batani, però, non finisce qui. Nel 2007, infatti, ha perfezionato l’acquisto, a Cesenatico, della ex Colonia Veronese, un grandioso complesso sul mare a poche decine di metri dal porto canale in posizione strategica. Il progetto edilizio di ristrutturazione, in fase di avanzata elaborazione, prevede la realizzazione di un albergo a cinque stelle extralusso, dotato di 80 camere e 20 suite, sala congressi con 500 posti e sale collaterali, un ristorante e una zona fitness-benessere. A tutto ciò si aggiunge anche la concessione demaniale marittima, su un tratto di spiaggia di 4.500 metri quadrati. Sarà questa la dodicesima perla di una catena che, con l’acquisto nel dicembre 2007, del Grand Hotel Rimini, pone la Select Hotels Collection ai vertici del mondo imprenditoriale turistico alberghiero.



spa

Mamounia

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di Sara Alberti Una delle immagini consegnate alla storia è quella di James Stewart e Doris Day che, diretti da Alfred Hitchcock nel film “L’uomo che sapeva troppo”, sono in viaggio a Marrakech e, dopo aver sostato nella pittoresca piazza di Jemaa El Fna, si dirigono su un curioso calesse verso l’albergo nel quale alloggiano, prendendo possesso della loro stanza. L’albergo in questione, ripreso più volte dalla cinepresa del famoso regista, è La Mamounia, il leggendario edificio tramutato in hotel nel 1923 nel luogo dove già si trovavano i lussureggianti giardini donati dal Re Sidi Mohamed Ben Abdellah ai figli Abdessalam, Mamoun, Moussa e Hassan.

La storia della residenza reale e dei quattro giardini, il più famoso dei quali, quello del figlio Mamoun, ha poi dato il nome all’intera magione, affonda le sue radici nel diciottesimo secolo, quando il Re decise la costruzione di un edificio e di un grande giardino che fossero situati al di fuori della caotica Kasbah cittadina e a ridosso delle mura che circondano Marrakech. Solo negli anni Venti, a cavallo delle due Guerre Mondiali, il parco e il palazzo sono stati riconsiderati in chiave di ospitalità alberghiera, modificandone l’originale destinazione di residenza privata. Dapprima con sole cinquanta stanze e un’accoglienza che si poteva definire davvero d’altri tempi se si pensa Artù n°44

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spa

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che gli ospiti avevano l’opportunità, per “sentirsi a casa propria”, di scegliere e comprarsi l’arredamento della propria stanza. Ma già nel 1946 la capienza de La Mamounia era raddoppiata, vista la clamorosa richiesta di soggiorno da parte di facoltosi europei e nordamericani che volevano concedersi una full immersion marocchina dal gusto, ai tempi, davvero esotico. Il vero successo internazionale dell’hotel però risale all’immediato dopoguerra, con l’arrivo dei registi del momento (Hitchcock, Tissier) che immortalano le bellezze di Marrakech, degli attori più celebrati come Charlie Chaplin, Kirk Douglas, Charlton Heston, Yul Brinner, e di uno statista in particolare, Winston Churchill, che sceglierà proprio La Mamounia come luogo di molti dei suoi soggiorni invernali in Africa e come panorama privilegiato per alcuni dei suoi dipinti. L’albergo inizia ad acquistare così un alone di leggenda giustificato ampiamente dalla bellezza delle sue decorazioni Art Deco, dall’unicità dell’architettura marocchina, ma specialmente dalla grandiosità dei suoi giardini, talmente vasti da coprire lo spazio di un intero quartiere della città. Al loro interno fanno ancora oggi bella mostra sei specie di alberi da palma, 200 olivi (alcuni dei quali hanno 700 anni di vita alle spalle), un aranceto, tre “angoli” esotici con piante e fiori da tutto il mondo e un orto che soddisfa le esigenze delle cucine raggruppando molte delle spezie e delle erbe che ritroviamo abitualmente nella gastronomia marocchina. Qui è davvero difficile non concedersi una lunga passeggiata contemplativa e restare ammirati dalla perfezione messa in scena giornalmente da un manipolo di provetti giardinieri, abili quanto discreti nel lasciare all’ospite il gusto di scoprire di volta in volta le sorprese botaniche che si celano ad ogni angolo. L’ultima ristrutturazione de La Mamounia risale al settembre 2009, quando il celebre hotel è stato consegnato alla città in una nuova e

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Nel giardino del Mamounia ci sono oltre duecento olivi, alcuni con più di settecento anni di vita. Fiore all’occhiello del leggendario hotel di Marrakech è la spa di 2.500 metri quadrati: massaggi, trattamenti e cure in ambiente letteralmente da favola. Oltre allo splendore dell’atmosfera, colpisce la cura complessiva della struttura, forte anche di una ristrutturazione recentissima che ne ha valorizzato, pur ridefinendolo, lo stile.


più moderna veste. La ridefinizione dello stile è stata affidata al designer/decoratore d’oltralpe Jacques Garcia che ha giocato su un caldo mix di modernità e tradizione rispolverando ambienti dal gusto ara bo/andaluso, e considerando, in particolar modo, le necessità del viaggiatore moderno e le esigenze di lusso ed eleganza che richiedono una location con più di duecento camere di diverse tipologie (e con tre grandi Riad appartati per i Vip più esigenti) a disposizione degli ospiti. Ora si può godere di moderne sale fitness nel padiglione situato in un angolo del parco, di una grande piscina open air, di due campi da tennis in terra battuta firmati da

Henri Leconte, di molti negozi di marchi fashion che sono presenti all’interno dell’albergo (tra questi non mancano Prada e Gucci) e, soprattutto, di un centro benessere e di ristoranti di assoluto prestigio internazionale. Ma andiamo per ordine. La Spa di 2500 metri quadrati, uno dei punti di forza del nuovo La Mamounia, offre la qualità dei prodotti a marchio Shiseido, MarocMaroc, Jean Michel Faretra Paris e Laric e trattamenti specifici ben conosciuti dagli amanti del benessere più esotico. Si va dai massaggi con il mitico olio di Argan agli scrub con il sapone nero, dall’utilizzo del ghassoul estratto dalle montagne dell’Atlante per il rituale dell’hamman alle più raffinate cure per il viso e per il corpo, per lei e per lui. O, volendo, per più persone visto che la Spa, su richiesta, può diventare ad uso privato per un massimo di sei ospiti. Nell’ambiente sotterraneo ovattato e rilassante, anch’esso rimodellato dalla mano del designer francese, il tempo sembra fermarsi all’infinito. I rumori di fondo sono ridotti al minimo e perfino il personale della Spa, che pure è presente per soddisfare ogni richiesta, sembra muoversi

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su nuvole di cashmere. La sensazione è davvero irreale se si pensa al caos evidente che anima buona parte di Marrakesh al di fuori de La Mamounia, tra le estenuanti trattative d’acquisto dei prodotti di ogni genere nell’affollato suk e il traffico perenne che coinvolge automobili, persone, carri trainati da animali, biciclette e motocicli. Ma qui, non va dimenticato, siamo davvero in un mondo a parte, in uno scrigno di preziosi segreti tutti da scoprire e in un‘oasi del lusso capace di attirare l’attenzione del viaggiatore amante della bella vita, ma anche di quella storia che la location si porta appresso da quasi un secolo. Non a caso anche la ristorazione qui si divide fra tradizione locale (con un lussuoso ristorante marocchino che propone gustosi piatti di tajine e kefta accompagnati da te alla men ta) e nomi

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Duplice la linea di ristorazione della struttura: francese e italiana, in sintonia con le aspettative di una clientela esigente, alla ricerca di grandi piatti. La prima è curata dal giovane chef Guillame Monjuré, allievo del bistellato Jean-Pierre Vigato, dell’Apicius di Parigi. La seconda è nelle mani di un discepolo di Iaccarino, il ventisettenne De Nadai: entrambi eccellenti interpreti di cucine magistrali e aderentissime al territorio d’origine.

altisonanti da raffinati gourmet. I ristoranti principali sono due e sono stati ribattezzati in ma niera molto semplice e diretta Le Français e L’Italien. Il primo vede al ponte di comando il giovane Guillame Monjuré impegnato a rappresentare l’impronta di Jean-Pierre Vigato, cuoco bistellato del ristorante Apicius di Parigi, mentre nel secondo si muove con agilità il ventisettenne Christian De Nadai, delfino di Alfonso Iaccarino, il patron del Don Alfonso 1890, ristorante anch’esso bistellato a Sant’Agata sui Due Golfi, in Campania. La volontà di celebrare le cucine più apprezzate a livello internazionale permette di vivere diverse esperienze gastronomiche, contaminate da curiose commistioni dettate dalla vicinanza logistica e dagli innumerevoli intrecci che la storia della cucina ha rivelato tra francesi e italiani. Capita così di trovare nel menù italiano una deliziosa fricassea di pollo “fermier” (da Iaccarino) che va a bilanciare qualche divagazione tra paste e risotti messa in carta da Vigato a pochi metri di distanza. Certo, se poi si capita a cena al ristorante L’Italien è davvero difficile resistere alla tentazione nazionalista di scegliere classici della costiera come il Vesuvio di rigatoni, gli Gnocchetti di patate con scamorza affumicata, pomodoro e basilico (presentati anche al Gour met festival di St. Moritz) o il più innovativo soufflé di mozzarella di bufala. La scelta a pranzo è invece per la tavola francese (Iaccarino è aperto solo a cena) o per il pratico lunch nel quarto e ultimo ristorante de La Mamounia, quello a bordo piscina, con una fresca cucina mediterranea e piatti più light. Magari prima di concedersi una passeggiata fino a Jemaa El Fna. La piazza centrale rimane il cuore pulsante di Marrakech e il luogo più divertente per osservare il frenetico via vai dei venditori, dei turisti, degli abitanti della città, sempre accompagnati dall’inebriante profumo di spezie che giunge dal vicino suk.

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Sediamoci FUORI! E il business cresce

di Davide Deponti Organizzare al meglio gli spazi esterni del proprio locale vuol dire potersi avvalere, soprattutto nella stagione più calda, di una risorsa molto importante per attrarre i clienti e aumentare il lavoro. In questo articolo troverete alcune soluzioni intelligenti, che consentono di diversificare l’offerta e di richiamare clientela e business. Mangiare una granita in piazza del Duomo a Catania, facendo spaziare lo sguardo tra la Cattedrale e la fontana dell'Elefante, oppure sorseggiare oziosamente un aperitivo in piazza del Popolo ad Ascoli, godendosi la scenografia formata dal Palazzo dei Capitani e dalla Chiesa di San Francesco. È arrivata la bella stagione, dopo un inverno particolarmente lungo e piovoso, sono tantissime le persone che hanno voglia di godersi un momento di relax, gastronomico magari, finalmente all'aria aperta. E questo vuol dire che per bar e ristoranti è giunto il momento di capire come occupare al meglio gli spazi esterni vicini al locale, con tavolini e sedie ma non solo, per permettere ai clienti di poter sorbire le consumazioni finalmente en plein air. Sfruttare insomma, per chi ne ha la possibilità, la parte esterna del ristorante è una mossa vincente che

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però non va improvvisata, ma invece studiata con cura e precisione, magari affidandosi alla mano esperta di un architetto o progettista specializzato in outdoor. Oggi, infatti, il cliente non si aspetta più di trovare semplicemente, due tavolini piazzati fuori da un locale, ma piuttosto di potersi accomodare in quella che sia una vera e propria estensione del ristorante. La strategia vincente è allora quella di creare anche all'esterno una struttura ampia e confortevole che sia declinata, dove possibile, nella riproduzione dello stile dell'ambiente interno, ma più in generale nel garantire a chi ama “consumare” all'aria aperta di potersi avvalere di tutte le caratteristiche di comodità garantite da una sala interna. Proprio per questo sono sempre di più le aziende specializzate nell’arredamento di un dehor o di una sala esterna che hanno predisposto soluzioni complete per la realizzazione di queste soluzioni di arredo che comprendono ombrelloni di design e arredi che permettano di dare confort ai clienti e siano, allo stesso tempo, belli da vedere e pure resistenti agli urti e al maltempo. Per trovare soluzioni il più possibili rispondenti a questi criteri allora vengono sempre più utilizzati nuovi materiali durevoli, leggeri, facili da assemblare, trasparenti e personalizzabili con colori e forme ad hoc. Molti gli esempi: ecco la


poltroncina con o senza braccioli Pepper di Scab. Realizzata con una struttura in polipropilene rinforzato con fibra di vetro, questa seduta pensata dal designer Roberto Semprini è, allo stesso tempo, disponibile in diversi colori, impilabile per gli spostamenti e ideale per l'outdoor in quanto super resistente alle intemperie. O ancora, sempre da Scab, ecco Saint Tropez, altra sedia progettata da Roberto Semprini utilizzando una scocca in policarbonato trasparente intrecciato che è perfetta per integrare qualsiasi tipo di ambiente esterno, anche perché è proposta in versione a quattro gambe o a slitta. Tra le proposte di un'azienda storica per l'arredo outdoor come Emu c'è invece la collezione Charleston: comprende sedute in tre versioni e tavoli che sono un perfetto ed originale connubio tra una forma tradizionale e un mix unico di materiali come alluminio e Wicker intrecciato. Per chi preferisce strutture amovibili e non fisse, la soluzione di copertura ideale è quella di un ombrellone. Ecco allora che Poggesi, storica azienda toscana del settore outdoor propone, tra gli altri, Junior, realizzato completamente in alluminio, acciaio inox e teli acrilici che offre un’ampia gamma di colori sia per il tessuto, sia per la struttura portante. Frutto di un brevetto, si muove grazie a un arganello e a una manopola, che permettono l’inclinazione del braccio e l’apertura del telo.

La clientela cerca sempre più soluzioni improntate su comodità, design, relax: quasi un “prolungamento” esterno dell’ atmosfera del locale.

Occhio alle leggi Arredamento di qualità e coordinato con un progetto ad hoc, ma non solo. Prima di partire con i lavori di costruzione o di ammodernamento del proprio spazio outdoor bisogna pure essere sicuri di non avere problemi con la legge. Negli spazi urbani, ad esempio, la presenza di un nuovo arredamento su suolo pubblico come quello di vie e piazze, è soggetto ad autorizzazione da parte del Comune poiché la sua presenza rischia di rendere disagevoli al transito aree già assediate da turisti, automobili e altri mezzi di trasporto. Anche perché, una volta ricevuta dal Comune nel quale ci si trova la concessione di utilizzo dello spazio esterno, si deve di conseguenza pagare un canone di affitto temporaneo del suolo

pubblico. Ottenuto l'uso dell'area però, per chi vuole realizzare un dehor, i problemi non sono finiti poiché, per realizzare il proprio progetto di ambiente outdoor, è necessario interpretare al meglio le complesse norme che regolano l’allestimento degli spazi esterni e che variano per ogni comune d’Italia. Per le questioni di arredo urbano, infatti, le Amministrazioni impongono regole minuziose, che possono andare dal colore delle coperture fino alla dimensione o all’altezza delle pareti esterne e interessare anche i tipi di sedute, i materiali, i particolari decorativi. Questa situazione ha, per fortuna del ristoratore che deve realizzare un simile progetto, fatto sì che le più importanti aziende che si occupano dell’allestimento di dehor

per ristoranti abbiano dovuto, negli ultimi anni, trasformarsi da semplici fornitori di paraventi e ombrelloni in società di consulenza con progettisti, arredatori, allestitori che lavorano per consentire all'imprenditore di districarsi in un labirinto di norme e autorizzazioni. Un consiglio su tutti: data l'estrema variabilità di queste leggi, prima di partire con i lavori è sempre bene munirsi di un progetto e compilare una relazione, cosa del resto richiesta espressamente da molte amministrazioni comunali. Sottoposta questa all'ufficio competente, è possibile farsi dare un'autorizzazione preventiva, con in mano la quale procedere alla conferma dell'ordine e alla messa in posa della struttura.

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equipment

Lunga vita al SITO di qualità di Davide Deponti Uno spazio sul web è oggi sempre più una vetrina di richiamo per ogni attività, anche per quelle legate alla ristorazione. Ma bisogna saperla usare bene, puntando su qualità, visibilità, contenuti, ma anche su glamour e capacità di attrarre l’attenzione di chi visita il sito, solleticandone la curiosità. Altro dettaglio fondamentale: la chiarezza e la trasparenza di prezzi, proposte, location, ambiente, tipologia di offerta. Altrimenti rischia di rappresentare solo un costo, finalizzato ad appagare ambizioni virtuali, piuttosto che a produrre vero business. Internet che paura. Molti ristoratori legati a un’idea un po’ datata di comunicazione non hanno ancora capito che usare il web per mettere in mostra la propria attività imprenditoriale vuol dire avere una “vetrina” virtuale perfetta per aiutare il passaparola tra i clienti e, soprattutto, far colpo su tutte quelle nuove e giovani generazioni che, anche per prenotare una cena – o il cinema, il teatro, lo stadio e un concerto –, il primo luogo che esplorano è quello elettronico della rete. Il segreto è allora fare in modo che il proprio sito web sia un valido aiuto e non un limite: per ottenere ciò però bisogna sapere che ci sono delle regole da seguire, e per nulla banali, per far si che il portale del locale sia un procaccia-

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tore di clienti e invece non li respinga. Per questo abbiamo voluto chiedere a dei professionisti del settore di raccontarci come è possibile appropriarsi degli strumenti adeguati per dialogare in modo corretto e fattivo con chi naviga in rete. «Per la nostra esperienza, gli ingredienti fondamentali sono senz’altro, in primo luogo, riconoscibilità e coerenza del “marchio”». Raffaella De Martini, Content Manager di LBi Italia, agenzia internazionale leader nel settore del marketing e della tecnologia, non ha dubbi su quale sia il punto di partenza di ogni buon sito internet di ristorante. A questo punto però nasce spontanea una domanda: come dovrebbe essere la grafica del sito di un ristorante per poter rendere sul web lo stile e l’immagine del ristorante vero? «Il sito web dovrebbe sicuramente riprendere e interpretare gli stessi elementi dell'identità aziendale presenti sul biglietto da visita o dentro i locali del ristorante. Appena arrivato sul sito del locale, infatti, per l’internauta dovrebbe subito essere chiaro che si tratta di un ristorante e soprattutto del “vostro” ristorante. Sembra banale specificarlo, ma assicuro che non lo è: in molti, anzi in troppi, trascurano il fatto che la costruzione di un sito richiede la stessa cura del dettaglio di quella di un menu. Ad ogni modo, non è che sia necessario predisporre un sito complesso e approfondito nei contenuti o nella grafica. La vera missione da compiere per il ristoratore è quella di solleticare la curiosità di un navigatore e incentivare la visita di persona al ristorante». Coerenza e pochi fronzoli insomma. «Comunicazione chiara e corretta – continua Raffaella De Martini –, ecco la chiave: testi introduttivi piacevoli e descrittivi senza prolissità, pochi segni grafici, riconoscibili e ricorrenti, una tavolozza di colori armonica e delicata e, soprattutto, una fotografia impeccabile. Perché, proprio come a tavola, anche l’occhio vuole la sua parte». Ed infatti grafica e scelta delle immagini sono due variabili fondamentali nel lavoro di costruzione di una pagina web che funzioni al meglio. «Sia le foto del locale, sia quelle delle portate presenti nel menu – ci spiega Clio Zippel, Art Director di LBi Italia - parlano della cura messa da un ri-


Nella pagina a fianco, in basso, il sito web di Combal Zero, il ristorante creato dallo chef Davide Scabin. A lato, il sito di Gualtiero Marchesi e, sotto, quello del milanese Giannino.

storatore nel volersi presentarsi al cliente nel modo migliore e più interessante possibile. Poi il sito deve rispecchiare l'immagine che il ristorante vuole dare di sé: tradizionale, minimal, etnico o chic. Ancora, dovrebbe essere organizzato per aree fotografiche che permettano di conoscere virtualmente l’atmosfera del locale. Un sito sciatto e poco curato ha vita breve, proprio come un ristorante di scarsa qualità». Semplicità e immediatezza È insomma molto chiaro che un sito internet serve all’imprenditore per comunicare al cliente virtuale le proprie capacità reali: ma quali sono le parole d’ordine da tener presente per costruirne uno che funzioni bene? «La nostra esperienza – chiarisce Raffaella De Martini – è principalmente su brand di dimensioni medio-grandi. Ciò non toglie che alcune regole valgano anche per le realtà medio-piccole, che abbiano a disposizione budget limitati. Certamente le dinamiche sul web in Italia stanno cambiando e si stanno avvicinando a grandi passi alla realtà anglosassone, nella quale la comunicazione online è un fattore chiave anche per la ristorazione. Sempre più

persone consultano la rete alla ricerca di idee per una cena o prima di prenotare un ristorante che gli è stato suggerito. Siti come http://www.london-eating.co.uk/ registrano più visite dei quotidiani. Per questo i siti internet italiani diventeranno quanto prima dei luoghi di incontro virtuale e dovranno essere dotati di un buon impatto online. Le parole d'ordine per crearlo sono tre: semplicità, cura del dettaglio e immediatezza. L'utente deve essere invogliato a visitare il ristorante dopo aver visitato il sito. Grande spazio va riservato per questo motivo anche al menu, alla filosofia e alla storia del ristorante. E una certa importanza, a mio avviso, riveste pure la traduzione in lingua inglese, poiché permette di raggiungere anche la clientela internazionale». Perciò è giunto il momento di lasciare perdere la ritrosia che molti imprenditori hanno sviluppato nei confronti della rete e, finalmente, darsi da fare per utilizzarla nel modo giusto. Quante volte si può aver pensato “ah, se un cliente conoscesse la realtà che sta dietro a una sola ricetta”. Col web è possibile finalmente spiegare il proprio lavoro al meglio, attraverso un mix di parole e immagini. Artù n°44

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le scelte di Artù

Estro e RAGIONEVOLEZZA ma anche “grandi numeri” HOSTARIA UVA RARA 24045 Monticelli Brusati (Bs) Tel 030 6852643 Via Foina 42 info@hostariauvarara.it

AGATA E ROMEO 00185 Roma Tel 06 4465842 Via Carlo Alberto 45 www.agataeromeo.it

CASCINA DIODONA 21046 Malnate (Va) Tel 0332 860969 Via Hermada 20 info@cascinadiodona.it

TAVERNA DEL CAPITANO 80061 Massa Lubrense (Na) Tel 081 8081028 Piazza delle Sirene 10/11 tavdelcap@inwind.it

A Edoardo Raspelli, trent’anni fa, non piacevano le osterie con la “acca” davanti. Ma forse avrebbe fatto una eccezione per questa bella trattoria di Franciacorta, in cui la linea di cucina, tendenzialmente stagionale, privilegia territorio e creatività. Il locale è elegante, ben arredato e amorevolmente condotto dalla titolare, il cui marito, Ennio Zanoletti, è lo chef. Provate i salumi tipici bresciani, il risotto alle spugnole, mantecato con la formaggella di Tremosine, pittoresco villaggio di collina sulla sponda occidentale del lago di Garda. Assaggiate anche le eccellenti selezioni di formaggi lombardi. Il prezzo è sotto i 50 euro, i ricarichi sui vini molto onesti: vero esempio di offerta ragionevole.

Una riconferma di stile, raffinatezza, eleganza (e sostanza): ritornare in questo bel ristorante della capitale, vicino a Santa Maria Maggiore, non tradisce le attese. Una cucina, quella di Agata Parisella, moglie del simpatico e cordiale Romeo Caraccio, aiutato in sala dalla figlia, sommelier gentile e professionale, che sa coniugare materie prime dell’entroterra laziale (con contaminazioni pugliesi e mediterranee) a sapiente rielaborazione in chiave creativa. Originale e caratterizzato, in linea con le aspettative di una clientela evoluta.

Bravi Giulio Ratti (patron) e Danilo Colombo (maitre e direttore) a tenere alto il livello dell’offerta di questo ampio ristorante da centinaia di coperti sulla strada statale che collega Varese a Como. Locale di grandi numeri, ubicato all’interno di uno splendido parco fiorito, riesce a conciliare la banchettistica con le esigenze della clientela individuale. Non è così comune imbattersi in una proposta di ristorazione che valorizzi il gusto delle materie prime e lo sappia adattare, quando occorre, anche a grandi tavolate. La cantina è una delle meglio fornite di Lombardia, con etichette di altissimo valore e ricarichi corretti.

La famiglia Caputo trasmette da generazioni, in questo luogo splendido, l’amore per la tradizione culinaria sorrentina. Un punto di riferimento indiscutibile, un must per chi è alla ricerca di una cucina di gusto, valorizzata da lavorazioni perfette, accompagnate ad un’arte dell’accoglienza proverbiale. Il luogo, felicemente incastonato sulla costiera, offre anche una ospitalità raffinata con camere panoramiche: l’ideale per quanti amano abbinare alla grandezza della cucina e dei sapori anche un meritato riposo.

LEGENDA

SALICE BLU 22021 Bellagio (Co) Tel 031 950535 Via per Lecco 33 - fraz. Visgnola www.ristorante-saliceblu-bellagio.it

Cervello incoronato = Memorabile, mitico, ineccepibile per qualità, coerenza, serietà complessiva dell’offerta Tre corone = Un vertice nella sua categoria Due corone = Ottimo per qualità dell’offerta Una corona = Affidabile, corretto, dignitoso Corona nera = C’è ancora molto da fare Tre cervelli = Il massimo della ragionevolezza Due cervelli = Molto ragionevole Un cervello = Abbastanza ragionevole Cervello nero = Scarsamente ragionevole

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Un cuoco giovanissimo, non ancora ventiseienne, che segue un percorso personalissimo. Superate le ingenuità dei primi tempi della sua conduzione, il Salice Blu propone una cucina di grande e coraggiosa creatività, frutto di una dedizione totale dello chef verso materie prime e tecniche di cottura. Gandola, cuoco determinato e audace, ha voluto rischiare in un territorio super tradizionalista come quello del triangolo lariano, strapieno di ristoranti acchiappaturisti. La sfida di Gandola merita di essere vinta, grazie a un impegno e una passione davvero fuori del comune (ha appena ultimato i lavori nell’azienda agricola di famiglia, sui monti sopra Bellagio, da cui provengono verdure e ortaggi). Da provare i ravioli di pasta di polenta e patate cucinate sotto il sale, ripieni di salmerino e gamberi di fiume.



libri

Roma, Noma, Boscaini e la Sicilia GOURMET

Titolo: I segreti della cucina italiana - Ricette e invenzioni di un cuoco rivoluzionario Autore: Antonello Colonna Editore: Newton Compton Editori Collana: Grandi manuali Newton Anno: 2010 Pagine: 262 Prezzo: 19,90 €

Titolo: Sicilia in cucina - Sicilian cookery Autore: William dello Russo, Nino Bartuccio, Alessandro Saffo Editore: SIME Edizioni Anno: 2011 Pagine: 288 Prezzo: 26,00 €

Titolo: Noma - Tempi e luoghi della cucina nordica Autore: René Redzepi Editore: Phaidon Press Limited Anno: 2011 Pagine: 370 Prezzo: 45 €

Titolo: Mister Amarone - Un uomo e un vino dal Veneto al mondo Autore: Kate Singleton Editore: Marsilio Editori Anno: 2011 Pagine: 185 Prezzo: 19,50 €

Una Colonna della cucina italiana Questo libro è una raccolta di ricette (fotografate e spiegate passo per passo) e, contemporaneamente, è il racconto di un avventuroso viaggio. L’autore, infatti è lo chef stellato Antonello Colonna, il quale prende l’avvio dai suoi piatti più celebri - che hanno il grande pregio di aver abbattuto i confini delle tradizioni nostrane per sbarcare trionfalmente nel panorama internazionale - per raccontare le tante storie della sua carriera: dai ristoranti oltreoceano alle campagne pubblicitarie, dalle operazioni di marketing alla sua sorprendente arguzia. Perché, oltre che uno chef, Colonna è un maestro nell’arte di accogliere e stupire l’ospite. Come dimostra il suo ristorante ospitato in un particolare spazio del Palazzo delle Esposizioni a Roma, polo museale tra i più rappresentativi in Italia; a conferma che il forte connubio cucina/arte non è solo letteratura, bensì ha un riscontro nella vita quotidiana (F.A.).

La Sicilia del gusto e dell’arte La cultura gastronomica della Sicilia, raccontata attraverso 80 ricette. Questo volume riccamente illustrato e scritto in italiano e inglese è molto più di un libro di cucina: oltre a offrire un’ampia panoramica culinaria di questa regione, racconta e illustra la storia dell’arte e della realtà siciliana, senza perdere di vista quella che è la Sicilia di oggi. Infatti, il libro illustra anche i prodotti tipici: dal vino alle piante aromatiche, dagli agrumi ai pistacchi, dal pescato ai latticini. Senza perdere di vista chi si occupa di questi beni preziosi della terra e del mare, curandoli e facendoli conoscere: come ad esempio l’azienda Gli Aromi, che da anni a Scicli coltiva piante aromatiche utilizzate poi nelle cucine degli chef più blasonati in Italia e all’estero; e Enoteca di Gusto, che a Catania dà spazio alle etichette meno note, ma non per questo meno eccellenti (F.A.).

Il più bravo al mondo Volume da non perdere per la qualità dei contenuti e delle immagini: ne è autore René Redzepi, il trentatreenne chef del Noma di Copenaghen, considerato il miglior ristorante al mondo, secondo il recente San Pellegrino Award 2011. Noma (Nordisk Mad, cibo nordico) è un viaggio alla scoperta del pensiero e della creatività dello chef e del suo innovativo format ristorativo. Con una panoramica completa del fenomeno Noma, corredata da oltre 90 ricette e da immagini esclusive, il volume ripercorre la parabola professionale di Redzepi, dall’inizio della carriera fino alla scoperta dei prodotti stagionali dell’Atlantico del nord, che ha segnato la sua ascesa ai vertici della gastronomia mondiale. Il volume dà molta importanza al rapporto con i fornitori, i garanti della qualità e della provenienza della materia prima che dà poi vita alla grande cucina del ristorante danese.

L’epopea di un grande rosso Giornalista de “Il Giornale” ai tempi della direzione di Montanelli, Kate Singleton vive in Toscana dal 1988 e da oltre un quarto di secolo descrive l’Italia per l’Inter national Herald Tribune. Questa sua recente fatica editoriale è dedicata a Sandro Boscaini, produttore veneto in Valpolicella, considerato una sorta di “ambasciatore dell’Amarone”. Secondo l’autrice, Boscaini (il cui nome è legato all’azienda agricola Masi) è un vero appassionato del suo lavoro, oltre che un grande comunicatore: il volume descrive e illustra l’ambiente in cui la sua impresa si è sviluppata fino a diventare una delle realtà più importanti nel panorama vitivinicolo italiano e internazionale. Mister Amarone racconta una storia che parte da lontano, e che ripercorre la millenaria tradizione della vitivinicoltura della Valpolicella, patria del grande rosso diventato un’icona a livello mondiale.

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Gli INDIRIZZI Editore: Edifis S.p.A. Viale Coni Zugna, 71 - 20144 Milano tel 02 3451230, fax 023451231 info@edifis.it - www.edifis.it

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di questo numero Agricola Poggio Rubino www.poggiorubino.com

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Al Fico d'India www.ristorantealficodindia.it

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Al Sale Grosso Restaurant & Bistrot www.alsalegrosso.it

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Direttore editoriale: Alberto P. Schieppati alberto.schieppati@edifis.it Direttore responsabile: Andrea Aiello Redazione: Elisa Facchetti, Monica Zani artu@edifis.it

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Hanno collaborato a questo numero: Sara Alberti, Fiorenza Auriemma, Davide Bernieri, Luisa Contri, Davide Deponti, Maurizio Forte, Luca Gardini, Elio Ghisalberti, Isa Grassano, Marta Lai, Rocco Lettieri, Gianni Mercatali, Claudio Francesco Merlo, Aldo Nenzi, Carlo Ravanello, Giulio Cesare Saviozzi, Matteo Scibilia, Theo Smith, Claudio Zeni

Alce Nero Caffè Bio www.alcenerocaffe.com Anikò www.morenocedroni.it

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Art director: Claudio Rossi Oldrati

Antonelli Silio www.antonellisillio.it

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Foto: Giovanni De Sandre, Marco Nava, Mario Reggiani, Stefano Saccani, Wowe, Nicola Zanettin

Birrificio del Ducato – Gruppo Italy www.birrificiodelducato.it

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Stampa: A.G.F. Italia s.r.l. - Peschiera Borromeo (MI)

Boscovivo www.boscovivo.it

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Cantina Tollo www.cantinatollo.it Cantina Viticoltori Ponte www.viticoltoriponte.it Carnia Welcome Travel Scarl www.carnia.it

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