Artù 2012 03/04

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In caso di mancato recapito inviare al CMP di Milano Roserio per la restituzione al mittente previo pagamento resi

Italiani in Germania: la grande cucina di Mario Gamba Gourmet festival, i successi di St.Moritz e Vila Joya Trentodoc, la modernità delle bollicine di montagna Per Campari il vino è strategico: parla Andrea Montorfano

Marzo Aprile 2012

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ph. Ferdinando Cioffi ©

Artù n°49 - Marzo - Aprile 2012

Gusto ⦁ Tendenze ⦁ Mercati



EDITORIALE n°49

edi tori al Basta CASTA

“Pane del Governo, pane eterno”: secondo Vittorio, barista di fiducia nel centro di Milano, chi comanda l’Italia pensa tendenzialmente solo al mantenimento, alla conservazione e alla riproduzione della propria specie. Insomma, la politica, in una condizione di evidente privilegio (la “casta” si autotutela con determinata noncuranza dei problemi altrui) riproduce se stessa senza preoccuparsi troppo della crisi del Paese, che annaspa sempre più e vede crescere a dismisura precarietà e incertezze. L’analisi del barista Vittorio, nella sua essenziale e laconica chiarezza, nasconde in realtà una verità sacrosanta. In Italia manca (non certo da ieri) una classe politico- governativa (ma l’opposizione non è messa meglio) in grado di assumersi delle responsabilità in merito all’andamento economico e sociale, capace di essere vera classe dirigente del Paese, di prendere decisioni che non siano soltanto punitive ma anche costruttive. Forse solo con il governo Monti questa tendenza pare (sottolineo, pare) essersi temporaneamente invertita, ma credo siano solo apparenze “di passaggio”, vista la complessità dei problemi. Prendiamo il vino: fra calo dei consumi, persecuzioni e colpevolizzazioni e, buon ultimo, imminente e spropositato aumento dell’ Iva, il settore (pur con una crescita generale di comparto del 13%, dovuta in primo luogo all’export) vive in uno stato di eterna preoccupazione e mancanza di prospettive certe. I trionfalismi sono fuori luogo, anche se deprimersi è sbagliato: peraltro, le ansie sono generali e riguardano tutta l’economia. La produzione industriale (dati Istat) è calata del 5% (mese di gennaio 2012 su gennaio 2011). E questo accade da noi, mentre in Ger-

mania (fonte: Il Sole 24 ore) il gruppo Volkswagen decide di liquidare un bonus di 7.500 a tutti i 90.000 dipendenti, in virtù “di un 2011 record, connotato da eccellenti performance”. E Audi, a sua volta, annuncia un premio di addirittura 8.250 euro per ciascun lavoratore, a fronte di utili in raddoppio. La notizia, sicuramente di buon auspicio per l’economia tedesca (la cui supremazia, a volte, rischia di essere percepita come arroganza) porta con sè una amara riflessione: il problema, allora, non sembra essere l’Europa, quanto l’Italia, caratterizzata da una fase di stagnazione (non solo economica ma anche culturale, politica, sociale) senza precedenti, frutto di anni e anni di pessimo e approssimativo modo di governare e di salvaguardia egoistica ed irresponsabile di privilegi malriposti, sia nel pubblico che nel privato. Insomma, un modello di sviluppo nato su basi storte, zoppicanti, ma anche disoneste e avvezze all’illegalità. E l’Italia migliore ha subito questo andazzo, lottando duramente per sopravvivere e, se possibile, guadagnare. Ma adesso ci presentano il conto, e anche chi ha sempre lavorato seriamente rischia di venire duramente penalizzato da anni di corruzione, prepotenze, cialtronerie. Ci salveremo? Ho già scritto su Artù (n.48) che ce la possiamo fare, ma solo ad alcune condizioni, che non sto qui a riassumere. In sintesi, credo sia fondamentale un salto di qualità, imprenditoriale e comportamentale innanzitutto: ognuno deve fare la propria parte, a cominciare da chi opera nel nostro settore e si vede “perseguitato” dalla crisi, dal calo dei consumi, dal cambiamento delle abitudini, dal mutamento “genetico” della clientela. Per superare questo momento ormai lunghissimo, è imperativo che si pren-

dano decisioni, anche difficili, che mettano comunque al primo posto la necessità di una effettiva ripresa dei consumi. Le aziende (del vino in particolare) devono comprendere – e molte già lo hanno fatto – che il mondo si è ribaltato e la base si è ristretta.Per restare sul mercato, bisogna avere coraggio e spirito innovativo, anteponendo il valore al blasone, diventando moderni e contemporanei. Perciò la riduzione dei margini su cui lavorare, seppure difficile e complicata, è l’unica strada percorribile: prezzi più accessibili, valori qualitativi costanti, logiche distributive più efficaci, comunicazione intelligente del proprio valore al trade, dialogo incessante e qualificato con gli operatori (non solo in termini di riscossione crediti!). Queste mi sembrano le strade più corrette su cui lavorare. C’è bisogno di uno sforzo collettivo, che abbandoni privilegi e personalismi, in nome di una vera rivoluzione dei comportamenti. Insieme a un messaggio molto forte ai ristoratori e a tutti i professionisti del settore: finiamola di giocare con i prezzi, perché non è dal loro rialzo (percepito come un balzello improponibile) che trarremo beneficio. Semmai, perderemo clienti. Che non necessariamente saranno rimpiazzati. Ma senza un governo che faccia seriamente la propria parte, faremo ancora più fatica. Alberto P. Schieppati

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SOMMARIO n°49 Pag. 04 Pag. 06 Pag. 08 Pag. 12 Pag. 20 Pag. 22

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Mario Gamba, chef patron del Ristorante Acquarello, a Monaco di Baviera, una stella Michelin. La sua “Cucina del Sole” punta su un’offerta che rappresenta concretamente la freschezza e i sapori della cucina mediterranea. Gamba, bergamasco, ha lavorato con Heinz Winkler, Alain Chapel, Gualtiero Marchesi prima di intraprendere la sua strada personale verso il successo. Foto Ferdinando Cioffi

Info people Artù e WineAmore al Vinitaly S. Pellegrino Sapori Ticino: spazio ai giovani talenti Info people&brand Mele gourmet, Champagne, premiati e life style Amarone e Brunello ma anche altri vintage Info brand Capua Winery, la filosofia della qualità Focus vino TrentoDoc, territorio vocato. La leadership nasce dall’identità di Roger Sesto Gruppo Italiano Vini. Conta il risultato di Luisa Contri Gruppo Campari, il vino è strategico di Luisa Contri Masone Mannu. Il gioiello di Amoretti di Luisa Contri Protagonisti food Mario Gamba, la Cucina del Sole abbatte lo spread di Alberto P. Schieppati Il grande lavoro di Lucio Pompili di Stefania Zolotti Venezia e La Fenice all’Osteria Da Fiore di Alberto P. Schieppati Tipico Art Baladin di Piozzo, birra di filiera di Davide Bernieri Dal mondo Vila Joya, Bottura ammaliante di Gualtiero Spotti Gourmet Festival conferma per St. Moritz di Rocco Lettieri Equipment Attenti al brand. Come comunicare valore di Davide Deponti Libri Gualtiero Marchesi, Ramsay e 10 donne chef Secondo Artù Villetta di Palazzolo al top, l’Officina veronese e altri

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Artù e WineAmore al VINITALY

Dal 25 al 28 marzo 2012 torna Vinitaly, il salone internazionale del vino e dei distillati. Presenti anche Artù e WineAmore con il convegno ‘L’impronta digitale del vino’.

digitali, social network, prenotazioni online e un importante approfondimento proprio su WineAmore, una società co-fondata, tra gli altri, da Sergio Cocco, il quale esporrà durante il convegno l'idea nata nel 2010: creare Vinitaly: un momento importante, per un'innovativa applicazione per iPad conoscere e fare conoscere le più im- e Tablet dedicata al mondo del vino, portanti novità di settore, una vetrina ovvero offrire a ristoratori e aziende che amplifica i valori e i progetti legati la possibilità, con un solo click, di al mondo del vino, che unifica di avere una lista sempre aggiornata fatto numerose realtà, grandi e piccole, sulle etichette in cantina, leggere per una proposta senza eguali. Ed è schede dettagliate sulle caratteristiche nell'atmosfera professionale di questa del vino e offrire così al cliente uno manifestazione che Artù, in collabora- strumento concreto e affidabile. Prezione con WineAmore, organizza il siederà il convegno il direttore di Artù convegno 'L'impronta digitale del vino'. Alberto P. Schieppati, a cui seguiranno Il 26 marzo, nella sala Puccini, alle importanti interventi. All'indirizzo ore 10.30, il convegno approfondirà http://wineamore.eventbrite.com è temi più che mai attuali: liste dei vini possibile registrarsi al convegno.

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S. Pellegrino Sapori Ticino Spazio ai giovani TALENTI

Tutto pronto per la VI edizione di S. Pellegrino Sapori Ticino. La rassegna enogastronomica dedicata all'alta gastronomia e al territorio ticinese, torna anche quest'anno: dal 15 aprile al 20 maggio saranno protagonisti i giovani chef europei con 'I Giovani Talenti d'Europa', tema dell'edizione 2012, ospitati dai grandi chef della Svizzera italiana nei più rinomati ristoranti di Lugano, Ascona e Vacallo. "Anche quest’anno il gusto incontra la passione per il Canton Ticino – commenta Dany Stauffacher, ideatore ed organizzatore di S.Pellegrino Sapori Ticino –. Cultura, arte e laghi rappresentano il contesto ideale per questa collaudata manifestazione gastronomica ricca di prodotti tipici garantiti e con una cucina di alto livello. Il fil rouge di questa edizione – prosegue Stauffacher – è dedicato ai giovani talenti d’Europa che si distinguono come chef già affermati rappresentando il futuro dell’alta cucina,

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vantando passione e riconoscimenti eccellenti. Punteremo molto sull’aspetto internazionale e su una gastronomia variegata accompagnata anche da vini di grandissima qualità. Venite a visitarci, troverete un Cantone capace di farvi innamorare del buon gusto e della vita”. E le novità non mancano. Il Casinò di Lugano ospiterà tre serate diverse tra degustazione e stile: La Perla, il ristorante del Casinò, sarà la location per due cene firmate S.Pellegrino Sapori Ticino, mentre il NYX Lounge – uno dei più esclusivi locali svizzeri – ospiterà una serata gastronomica 'fashion'. Altra novità la promozione di alcune serate luonge ideate per coinvolgere un target giovanile. L'inaugurazione e chiusura della kermesse sarà affidata agli chef ticinesi che proporranno nelle due serate le loro specialità: il 15 aprile per inaugurare la VI edizione al Ristorante La Perla di Lugano, e il 20 maggio, per chiudere i festeggiamenti, al Grand Hotel Eden di Lugano. Da non perdere!



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Mele gourmet, Champagne, premiati e life style Con Marta Grassi Kanzi® incontra l’alta cucina

produzioni di nicchia e d’eccellenza provenienti da quasi tutte le regioni d’Italia. Tanti i progetti speciali di questa edizione e i 'Taste Ring', ovvero gli incontri sulle nuove tendenze moderati da Davide Paolini. Negli stessi giorni Firenze si è animata con l'evento FuoriDiTaste, il programma off del salone con eventi enogastronomici che hanno coinvolto Firenze e che ha visto protagonisti i ristoranti, le gastronomie, le boutique, gallerie d’arte, teatri e musei della città. Main sponsor di questa edizione di Taste Ferrarelle.

Un nuovo Presidente per il Gruppo Mezzacorona Tortelli di anatra e mela Kanzi®; guancia di vitello, insalata invernale, mela Kanzi® fresca iodata e salsa marina; cromatismo di mele Kanzi®. È questo il tris di piatti proposto dalla chef stellata Marta Grassi del Ristorante Tantris di Novara, che ha interpretato il gusto della mela Kanzi® in occasione del corso di degustazione durante l'evento Identità Golose, a Milano. Le ricette hanno saputo risaltare tutte le caratteristiche sensoriali di questo frutto, a partire dal colore rosso brillante della mela Kanzi®, ottima in cucina per preparare pietanze calde e fredde, e buonissima se consumata cruda. La mela Kanzi® è prodotta in Italia dai Consorzi VOG e VI.P che raccolgono i frutti nelle valli dell'Alto Adige e Südtirol.

Taste, food lifestyle Dal 10 al 12 marzo 2012, alla Stazione Leopolda di Firenze, è tornato 'Taste. In viaggio con le diversità del gusto': tre giorni di degustazioni ed eventi dedicati al gusto. Nato dalla collaborazione di Pitti Immagine con il gastronauta Davide Paolini, l'evento ha voluto ancora una volta essere luogo d'incontro dei migliori operatori internazionali dell'alta gastronomia, ma anche ritrovo per tutti i culturi del buon cibo, con una proposta di ben 250 aziende selezionate tra le

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L’Assemblea generale degli oltre 1500 soci del Gruppo Mezzacorona, storica cantina trentina, ha segnato un importante traguardo e punto di svolta nel percorso intrapreso più di 40 anni fa. Una storia di successi, grazie anche alle strategie messe in atto da Guido Conci, Presidente del Gruppo dal 1972, e dalla trasformazione della vitienologie e della stessa agricoltura trentina che hanno visto il Gruppo Mezzacorona impegnato nella realizzazione di grandi progetti, uno fra tutti il progetto simbolo della ‘Cittadella del Vino’. Una presidenza durata quattro decenni quella di Guido Conci, che proprio durante l’Assemblea ha ceduto il testimone a Luca Rigotti, Vice Presidente, Consigliere della Mezzacorona, attuale Presidente della Nosio spa, e ora acclamato in veste di Presidente del Gruppo. Eredita una realtà competitiva e solida, capace di resistere alla crisi del settore vitivinicolo sviluppando un fatturato consolidato di 149 milioni di euro, con un export equivalente

al 79% del volume di affari complessivo del Gruppo, con una forte presenza negli Stati Uniti, nell’area tedesca, Scandinavia, Regno Unito, Canada e Giappone. Dopo una lunga stagione di importanti investimenti, ora tutti gli sforzi aziendali saranno concentrati nello sviluppo commerciale: i nuovi obiettivi sono infatti volti ai mercati orientali, Cina in primis, Russia e in prospettiva anche il Brasile.

è ben nota anche per la produzione di 'Opere Trevigiane', il Metodo Classico di Villa Sandi. L'onorificenza è stata assegnata negli anni scorsi anche a Michel Platini, Ornella Muti, lo chef pluristellato Massimiliano Alajmo, e il nostro direttore Alberto P. Schieppati.

Usa: grandi riconoscimenti per Mionetto

Giancarlo Polegato cavaliere dello Champagne L’antico 'Ordre des Coteaux' ha nominato i nuovi cavalieri dello Champagne. L'ordine, fondato durante il fastoso regno di Luigi XIV, rappresentava una confraternita esclusiva composta da giovani nobili appassionati di vini. Oggi l’onorificenza premia la passione e l’impegno a favore dell’immagine e della diffusione dello Champagne, e quest'anno, nel corso di una suggestiva cerimonia nella Reggia della Venaria Reale a Torino, Giancarlo Moretti Pole-

gato, presidente di Villa Sandi, è stato nominato Cavaliere dello Champagne, onorato con medaglia e pergamena, simboli dell’appartenenza all’Ordine. Giancarlo Moretti Polegato è di fatto il primo produttore di Prosecco a essere insignito dell’importante onorificenza, grazie alla sua passione per i vini di qualità e alla competenza nello spumante Metodo Classico, che lo hanno spinto nel 2008 a una collaborazione con la Maison Devaux, produttori di Champagne nella zona sud della regione Champagne, a Cote de Bar. Villa Sandi

Per il terzo anno consecutivo Mionetto ha conquistato l’Hot Brand Award, un premio che viene assegnato dalla rivista economica Impact-Market Watch a quei brand – e sono solo una trentina le aziende che hanno queste caratteristiche – che negli ultimi cinque anni hanno registrato nel mercato Usa una crescita importante e raggiunto un milione e duecentomila bottiglie (pari a 100.000 casse) vendute. Negli Stati Uniti la soglia delle 100.000 casse permette all’azienda di essere considerata un brand nazionale. E Mionetto, radicata nel territorio americano fin dal 1998 grazie alla presenza a New York di Mionetto Usa Inc., è infatti presente in 50 stati e nelle principali città con più di 400 clienti. Quest’anno si è aggiunto anche il premio come “Fast Track Brand” assegnato da Beverage Information Group per il secondo anno consecutivo. Altro traguardo per Mionetto è il conferimento del titolo di “Importer of the Year 2011” da parte della celebre rivista enologica Wine Enthusiast, a cui è seguito poi un altro riconoscimento conferito dalla rivista Wine Spectator, la quale ha riconosciuto alla storica Cantina di Valdobbiadene il titolo di “Best Value” per il suo “Il Prosecco”,



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BirraMI premiato per l’alto valore del suo rapporto qualità-prezzo. Il mercato statunitense rappresenta per Mionetto un’area di grande sviluppo commerciale: nel 2010 è stata registrata una crescita in volumi e valori del +48% e nel 2011 un ulteriore +31%. Nella foto la premiazione “Wine Enthusiast”: da destra Enore Ceola (ceo Mionetto USA), Pietro Stangherlin (Direttore Generale di Mionetto Italia e Vice Presidente di Mionetto USA ) e Simone Gentilini (Mionetto Usa).

La cucina di Bracali a Borgo San Felice

Borgo San Felice, il prestigioso albergo toscano di Castelnuovo Berardenga (Si), della catena Relais & Chateaux, ha sottoscritto una collaborazione con lo chef stellato Francesco Bracali, maremmano d’origine, che curerà la gastronomia dell’albergo con l’obiettivo di offrire emozioni legate alle qualità sincere del territorio del Chianti. “Siamo onorati di collaborare con Francesco Bracali ” ha dichiarato Achille Di Carlo, General Manager di Borgo San Felice “che, oltre ad essere uno dei maggiori esponenti della cucina italiana contemporanea, incarna perfettamente i nostri valori: l’eccellenza dei sapori, l’autenticità delle materie prime, lo charme dei piatti”. Francesco Bracali, cresciuto nel ristorante di famiglia, ha ottenuto due stelle dalla prestigiosa Guida Michelin. Ha una visione della cucina orientata alla valorizzazione dei migliori prodotti toscani, che declina in modo originale e sapiente, fondendo con arte la tradizione e l’innovazione, come ha avuto modo di sperimentare con grande successo in Giappone e a New York. Claudio Zeni

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Bellussi brinda con Belcanto Ha compiuto sedici anni il Premio Bellussi Valdobbiadene, ideato e creato da Enrico Martellozzo, appassionato di lirica e presidente di Bellussi. Quest’anno il premio – un cospicuo assegno – è stato assegnato al soprano giapponese Yasko Sato (nella foto con Enrico Martellozzo), tra tutti i giovani cantanti del Concorso Internazionale Toti dal Monte che quest’anno si sono esibiti al Teatro comunale di Treviso nell’opera pucciniana Madame Butterfly. La cena organizzata per festeggiare l’evento è stata onorata da Luca Gardini, campione del mondo sommelier, che ha commentato i vini di portata: brindisi con Belcanto Cuvèe Brut – la linea creata dall’azienda per sottolineare il legame con la lirica – e con il Superiore di Cartizze. Ad accompagnare le carni il Brunello di Montalcino Belpoggio, l’azienda di famiglia in Toscana.“Sono momenti importanti – ha detto Martellozzo – con i quali vogliamo confermare il nostro contributo alla promozione della lirica con e per i giovani.”

A Bruno Gambacorta il Premio Tarlati 2012 A ricevere il prestigioso ‘Premio Tarlati’ dell’Associazione Cuochi di Arezzo è stato quest'anno Bruno Gambacorta, celebre giornalista del Tg2 che con la

rubrica ‘Eat Parade’ ha portato l'enogastronomia in casa di tutti gli italiani dal 1998. La consegna del premio è avvenuta il 30 gennaio nel corso di una cena di gala presso il Centro Ippico di san Zeno di Arezzo, alla presenza delle massime autorità nazionali dell’Associazione Cuochi. Il ‘Premio Tarlati’, nato 1991 su idea dal consiglio direttivo e ispirato all’omonimo vescovo

aretino vissuto alla fine del 1300 che ha lasciato in eredità ai cuochi aretini numerose ricette, fra cui la famosa "Zuppa di pollo del Tarlati", ha lo scopo di rendere omaggio a un personaggio del mondo dell’enogastronomia, che abbia contribuito a promuovere la cucina tipica della nostra terra, in Italia e nel mondo. Bruno Gambacorta, con ‘Eat Parade’, è stato infatti il primo a puntare le telecamere sui prodotti della terra e sulla loro trasformazione in cucina. Con una ‘messa in onda’ di pochi minuti, vivaci e golosi strappati alle notizie più ‘serie’ del Tg, Eat Parade ha registrato un grande interesse su ciò che ruota intorno al gusto del cibo e al vino, dilatando poi lo spazio con repliche e inserendo nuovi spazi – rubriche nelle rubriche – come Wine Parade, dedicata al vino, una vetrina sui libri sull'enogastronomia e le segnalazioni di manifestazioni ed eventi sul tema. Napoletano, classe 1948, Bruno Gambacorta è da un quarto di secolo in Rai anche come esperto cultura, spettacolo ma anche di scienze e di sanità (ha una laurea in medicina nel cassetto). C.Z.

Dopo Spontini BirraMi! A Milano, Spontini da sessant’anni è sinonimo di pizza al trancio, tanto che

da qualche tempo allo storico locale dell’omonima via se ne sono affiancati altri tre, con la medesima formula: ambiente spartano, servizio più che celere, solo pizza ‘alta’ - normale o abbondate – e lasagne a mezzogiorno, con l’immancabile birra come contorno liquido. Ora però la storica insegna ha anche un ‘cugino’, ovvero BirraMI. “In città, i nostri locali sono tra i maggiori venditori di birra, e per questo da tempo stavamo progettando qualcosa che avesse a che fare con questa bevanda”, racconta Massimo Innocenti, vulcanico proprietario di tutti i punti Spontini. “Considerando che l’ampiezza dei locali per il quarto Spontini di piazza Diocleziano era eccessiva, ho pensato di dedicare parte dello spazio per lanciare un nuovo concept. Ed eccoci qua”. ‘Qua’ sta per BirraMi, appunto, in via San Galdino 8, a fianco dell’ultima insegna piazzaiola in ordine cronologico. “La caratteristica di questa birreria è che pur senza essere un vero e proprio ristorante permette di bere ovviamente birra, accompagnata però anche da diverse proposte culinarie”, aggiunge Innocenti. “In più, abbiamo pensato di proporre alcuni abbinamenti tra i piatti del menu e birre belghe, tedesche, inglesi e italiane”. Così, ad esempio, a chi ordina lo Stinco di maiale al forno marinato alla birra e con cipolla stufata e patate al forno, viene suggerito di innaffiare il tutto con una Affligem bionda o rossa; mentre per la Costata con patate al forno è consigliata una bionda Brugse Zot, e per l’originale dolce Bir-


internazionali - in bottiglia. Le quali (le bottiglie) una volta svuotate diventano componente dell’arredo del locale. “Perché così lo rendiamo un po’ più vissuto”, specifica Innocenti. Il quale non ha intenzione di fermarsi qui, e sta già pensando ad aprire almeno altri due BirraMi in città, oltre a una quinta insegna Spontini. Fiorenza Auriemma ramisù, la proposta della casa è una Murphy’s Stout. Il ‘pezzo forte’ di questo locale è però la birra alla spina filtrata, non pastorizzata ed erogata senza l’uso di anidride carbonica, bensì a pressione. “Da anni collaboriamo con il gruppo Heiniken”, spiega il patron, “e ora abbiamo ottenuto l’esclusiva per il loro innovativo sistema Cellar Beer System”. In pratica, la birra, prodotta ad hoc nel birrificio di Comun Nuovo, vicino a Bergamo, esce dalla cantina a 3 gradi, viene trasportata attraverso due cisterne da circa 30 fusti e all’interno di una cella frigorifera sempre a 3 gradi, e quindi consegnata direttamente a BirraMI, senza processi intermedi di stoccaggio né sbalzi termici. “Questo ci permette di servirla freschissima, e alla temperatura ideale”, sottolinea Innocenti. Il menu di BirraMi (80 coperti cui se ne aggiungeranno a breve altrettanti in un dehor, e aperto sette giorni su sette) a pranzo ha una proposta veloce che cambia ogni girono, con tre-quattro primi, due-tre secondi, oppure un piatto unico combinato. Alla sera invece chi prende posto ai tavoli stile ‘vecchia Milano’ può ordinare dal Roast beef all’inglese al Crudo di Parma riserva con frutta, dalla Mortadella con gnocco fritto e diverse selezioni di salumi e formaggi, dalla Fiorentina all’antica (ovvero con verdure) alla Orecchia di elefante alla milanese cotta in burro chiarificato e con patate al forno, dai Würstel e crauti con bacon croccante al Petto di pollo alla piastra con verdure grigliate, fino a sei diversi tipi di Hambuger. O, se preferisce, può limitarsi a sorseggiare una birra, scegliendo tra cinque alla spina e altre 14 referenze - italiane e

Addio a Lella Gattullo, pasticcera manager Si è spenta improvvisamente, lasciando tutti nello sgomento. Lella Gattullo, fondatrice con il marito Domenico, mago della pasticceria, di una della pasticcerie “storiche” di Milano, era la vera anima del locale. Da grande professionista, Lella seguiva in ogni dettaglio la vita del Bar Pasticceria di Piazzale Lodovica, aperto nel lontano 1961 dal nonno di Domenico, arrivato da Ruvo, in Puglia, in cerca di fortuna. Grazie all’impegno delle generazioni subentrate nella conduzione del locale, nel corso dei decenni “Gattullo” si è configurato come la meta di eccellenza della migliore clientela cittadina. Con una attenta segmentazione dell’offerta, Lella e Domenico (insieme al figlio Giuseppe, appasionato cultore di materie enogastronomiche) hanno letteralmente fatto da pionieri della moderna cultura dei consumi “fuoricasa”. Dalla prima colazione alla pausa pranzo, fino al rito dell’aperitivo, Lella Gattullo faceva scuola, in virtù di una notevole professionalità, accompagnata da una grande conoscenza delle materie prime e da passione ed entusiasmo unici. Cortese e ospitale, aveva trasformato negli anni la pasticceria Gattullo in un luogo privilegiato di incontri conviviali, all’insegna della qualità estrema dei prodotti (vini, pasticceria dolce e salata, panini gourmet e molto altro), ma anche della signorilità con cui accoglieva i clienti. Una perdita incolmabile, che ha lasciato Domenico (Mimmo), la famiglia e lo staff in una tristezza indicibile.


info brand

Amarone e Brunello ma anche altri vintage Top 100 Wines 2011: Gerardo Cesari c’è Prestigioso riconoscimento per l’Amarone della Valpolicella DOC Bosan 2004 della Gerardo Cesari. Con un punteggio di 94 è entrata nella Top 100 Wines 2011, ossia fra i 100 migliori vini italiani al mondo decretati da Wine Enthusiast e si è posizionato 42° in classifica. Frutto di una ricerca e di un lavoro agronomico decennale, l’Amarone Bosan nasce nella zona più vocata della Valpolicella, dai migliori grappoli di uve Corvina 80% e Rondinella 20% appassiti per 4 mesi nei fruttai affinché perdano dal 30 al 40% del peso e aumenti la concentrazione zuccherina, indispensabile a garantire un notevole grado alcolico al vino durante la successiva fermentazione (l’Amarone Bosan 2004 ha una gradazione alcolica del 15,8%). La macerazione viene effettuata a contatto con le bucce per 30 giorni e, dopo la svinatura il prodotto è avviato in vasche d’acciaio per la successiva fermentazione malolattica. La fase di maturazione dell’Amarone Bosan dura 3 anni con affinamento in botte grande di rovere di Slavonia e in barrique di rovere francese. Prima dell’immissione al consumo la maturazione si completa con 12-15 mesi di riposo in bottiglia. Nell’annata 2004, che ha una gradazione alcolica del 15,8% e la cui produzione è di circa 30 mila bottiglie, il caratteristico aroma di ciliegia si integra con sentori di spezie, cacao e vaniglia. Dal gusto pieno e vellutato, questo vino mostra tutta la sua potenza in un corpo prorompente, caldo ed elegante. Ideale l’abbinamento con cacciagione, carne grigliata e stufata, tuttavia se ne consiglia il consumo anche come vino da conversazione. "È davvero un bel risultato

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per noi", dichiara Deborah Cesari, responsabile del mercato statunitense. "Soprattuto se pensiamo che ci siamo classificati tra le grandi denominazioni italiane, inserendo così anche la Valpolicella tra i Top 100. Non dimentichiamo che, oltre all’indiscussa qualità dei vini selezionati, la Top 100 valuta anche aspetti per nulla secondari, come la disponibilità, la reperibilità e il costo del prodotto. Con questo risultato vediamo perciò premiati gli sforzi fatti dalla nostra azienda in questi anni, non solo in cantina o in vigneto, ma a tutti i livelli". Luisa Contri

Nerello Mascalese, il grande interprete di Cantine Graci Ci troviamo in Sicilia, nel versante Nord dell'Etna, a Passopisciaro. La terra è quella del Nerello Mascalese, un vitigno forte perchè soparvvissuto a un clima imprevedibile, grazie anche alla selezione naturale che in più di 200 anni ha rafforzato l'alberello, potato ancora oggi secondo tradizione. La sfida parte da qui, anzi dal centro della Sicilia, a Enna, dove un giovane imprenditore, Alberto Aiello Graci, laureato in economia e commercio, decide, da buon bevitore – come ama definirsi – di dare spazio ai proprio sogni: "Il mio obiettivo era quello di fare un certo tipo di vino, un vino vi-

Alberto e Elena Aiello Graci

Cantine Graci brante per mineralità. Sono sempre stato intrigato dai Barolo tradizionali e assaggiando il Nerello ho capito le potenzialità di questo vino". Base del progetto era dunque produrre un vino rosso di grande bevibilità, senza rinuciare alla profondità, alla ricchezza e alla generosità. Nel 2004 inizia la sfida. 18 ettari, una densità compresa tra i 6000 e 10000 ceppi per ettaro, coltivati tra i 600 e i 1000 metri, di cui una parte dei vigneti impiantati a piede franco, senza portainnesto: sopprattutto Nerello Mascalese, una piccola quantità di Nerello Cappuccio – utilizzato in minima parte per dare colore e allentare i tannini del Mascalese, l'interprete migliore di questa terra –, Carricante e Catarratto. Le difficoltà incontrate ce le racconta Alberto, in un piacevole colloquio a cena, in compagnia della sorella Elena, il tocco femminile dell'azienda:"Le difficoltà principali sono legate al clima. La prima annata è stata molto piovosa, soprattutto durante la vendemmia. Il Nerello ha bisogno di maturità e ha un ciclo di maturazione molto lungo che può arrivare anche ai primi di novembre. La grande variabilità del tempo decide l'annata. Qui non esistono impianti di irrigazione e l'uva non è mai trattata". Ora, con una produzione di circa 40.000 bottiglie l'anno, Cantine Graci sta tracciando, con il suo Nerello Mascalese, importanti

traguardi sul panorama del Rosso dell'Etna. Con 'Quota 600' e 'Quota 1000', i rossi di famiglia sempre diversi a ogni annata, si sono create importanti basi per un prodotto davvero unico. Distributore esclusivo Cantine Pellegrini.

Il Manachiara di Tenute Nardi Non poteva scegliere migliore location, Emilia Nardi, per ospitare la stampa enogastronomica milanese al fine di presentare le proprie eccellenze vinicole. Così, il Ristorante Armani di Milano, sontuoso, monumentale e imponente, è stato la sede ideale per una cena gourmet nella quale i protagonisti sono stati loro, i grandi Brunello delle Tenute di Montalcino (www.tenutenardi.com). La parte del leone, tra i vini in degustazione, l’ha fatta il Vigneto Manachiara 2006, un Brunello elegante, dai profumi puliti, intensi e complessi, che ha letteralmente stupito i presenti per la sua persistenza, destinata sicuramente a evolvere nel tempo e a consegnare nei prossimi anni un prodotto dallo stile unico. Se il Brunello delle Tenute Silvio Nardi è espressione della cultura e del terroir aziendale,


Emilia Nardi nel cru Manachiara si esprimono una potenza e una struttura decisamente fuori del comune. Viene prodotto solo nelle migliori annate in un numero che non supera le 10.000 unità.

Soave: l’alternativa di Cantine Riondo Spumante o fermo? La linea Excelsa di Cantine Riondo soddisfa entrambe

le richieste, proponendo per il 2012 due alternative nel panorama dei vini bianchi moderni: Soave Excelsa Doc e Soave Excelsa Spumante Brut, ottenuti da uva garganega coltivata nei vigneti con la migliore esposizione nelle zone collinari di Soave, Colognola ai Colli e Monteforte d'Alpone. La versione ferma, Excelsa Soave Castelforte, ben si sposa con ogni tipo di cucina, grazie alla sua piacevolezza e a un grado alcolico contenuto. Abbina alla tradizionale bottiglia 'renana' il tappo a vite, funzionale e studiato per preservare le caratteristiche organolettiche del

vino. La versione 'bollicine' si ritrova nel Soave Excelsa Castelforte Spumante Brut, ideale per aperitivi, feste e brindisi. "Siamo da sempre molto sensibili alle evoluzioni dei consumi - conferma Abele Casagrande, Direttore Generale di Cantine Riondo – e proprio per questo abbiamo creato un blend unico e moderno in linea con i trends più attuali. Il nostro obiettivo è di far riscoprire l’unicità del Soave, comunicare al meglio le potenzialità e le peculiarità di questo vino che appartiene all’eccellenza della nostra tradizione vinicola".

Dom Pérignon Vintage 2003 Caldo torrido, piogge, gelo e grandine. I duri cambiamenti climatici che colpirono la Francia nel 2003 non risparmiarono nemmeno la Champagne, facendo rigistarare in quel periodo un produzione limitata – distrutti quasi tre quarti del potenziale della raccolta, soprattutto lo Chardonnay della Côte des Blancs – e una vendemmia precoce, la più precoce della storia della Champagne dal 1822: le viti rimaste, scampate al rigore invernale, avevano subito un calore estivo senza precedenti. Ma è da qui che parte la sfida per la Maison Dom Pérignon, capace di trasformare un'annata difficile in


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una grande opportunità. Nasce Dom Pérignon Vintage 2003, presentato ufficialmente a Milano durante l'ottava edizione di Identità Golose 2012, un millesimo tanto importante da richidere la presenza di Richard Geoffrey, chef de cave Dom Pérignon, che ha esemplificato le caratteristiche di questo singolare Millesimo 2003 che ha trascorso otto anni in cantina: "Tutti predicevano un vino solare, molto possente e a rapida evoluzione. Una vera sfida alla creazione di Dom Pérignon. Dovevo interpretarlo in modo diverso. L’assunzione del rischio, e il superamento dei limiti, possono ora trovare la giusta ricompensa”.

Gianni Gagliardo firma l’accordo con Rinaldi Importatori Le etichette della cantina piemontese di La Morra, nota in tutto il mondo per i suoi Barolo, saranno distribuite in Italia dalla Fratelli Rinaldi Importatori. L'accordo, siglato tra Gianni Gagliardo, titolare dell'azienda piemontese, e Giuseppe Tamburi, Presidente della storica società bolognese di distribuzione di vini e distillati, ha lo scopo di rappresentare sul mercato nazionale le migliori etichette di Gianni Gagliardo, tra cui spicca il Barolo Riserva DOCG Preve, affermato anche

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nei mercati stranieri. Oltre ai Barolo e al Barolo Riserva Preve, la Fratelli Rinaldi Importatori distribuirà anche altri vini prodotti dalla Gianni Gagliardo, tra cui i Nebbiolo, Barbera, Dolcetto e il Fallegro, il bianco di casa che da ormai quarant’anni riscuote un grande successo fra i consumatori.

New trend: è nata La Piccolina Un formato ‘petit’ quello nato in casa La Montina, azienda di Monticelli Brusati (Bs), che ha visto nel proprio biglietto da visita, il Franciacorta, una grande potenzialità. Nasce La Piccolina, una demi-bouteille da 0, 375 litri, una tiratura limitata, 10.000 bottiglie, per una raffinata cuvée di uve selezionate di Chardonnay e Pinot Nero raccolte nel 2009 in vari vigneti dislocati in sette comuni della Franciacorta. Un formato da single, o da coppia, che va ad affiancare il formato classico da 0,75 litri, Magnum da 1, 5 litri e Jeroboam da 3 litri. Michela Bozza, responsabile marketing dell’azienda, ci spiega i motivi del lancio del nuovo formato: “Abbiamo voluto creare questa bottiglia perché riteniamo che sia un formato di cui si sente sempre più la necessità e che viene incontro ai nuovi trend del vino. Un formato adatto ai giovani, agli appassionati di bollicine che possono gustare un calice senza aver l’impegno di stappare una bottiglia più grande che rimarrebbe in parte imbevuta.

Ma anche un formato richiesto da importanti catene alberghiere, soprattutto straniere, con le quali abbiamo il piacere di lavorare e in particolare dal mercato londinese, dove siamo particolarmente presenti”.

Mercato italiano: Cecchi distribuisce Castiglion del Bosco

È nata da poco l’importante partnership che vede coinvolte due prestigiose realtà toscane, l’azienda Castiglione del Bosco e Cecchi. Il 2012 si è reso protagonista di un legame cercato in primis da Castiglion del Bosco, che da febbraio ha voluto che fosse proprio Cecchi a distribuire in Italia i propri vini, cogliendo nell’esperienza della nota cantina il giusto partner a cui affidare un’importante progetto, quello di distribuire, fra tutti, il Brunello di Montalcino, fiore all’occhiello dell’azienda. "Siamo entusiasti di questa partnership – dichiara Cesare Cecchi –. Da tempo volevamo intraprendere un nuovo progetto in un’altra area enologica importante della Toscana. Quando Simone Pallesi, am-

ministratore delegato Cartiglio del Bosco, ci ha contattato, abbiamo capito che era l'occasione giusta per iniziare un percorso con la denominazione di Montalcino". L’impegno sarà volto a implementare la presenza del prestigioso brand nel segmento ho.re.ca., forti della sinergia con Castiglion del Bosco al fine di rafforzarne la presenza sul mercato italiano.

Salon 1999, piacere assoluto Incontro a Milano, da Trussardi alla Scala, per degustare un grande millesimo, il Salon 1999, lo champagne distribuito in Italia dalla famiglia Ceretto. Un prodotto complesso e prezioso, connotato da una mineralità gessosa, derivante dalla vivacità propria del territorio di Mesnil-sur- Oger, ma anche da una rotondità voluttuosa che riflette il carattere del millesimo, senza che la sovramaturazione sia troppo invasiva. È dalla tensione di queste due forze, mineralità e rotondità, che Salon 1999 trae la sua personalità, connotata da un equilibrio davvero unico. Alla degustazione, Salon 1999, lascia in bocca sapori di brioche, di pan carrè, di fiori e frutti bianchi, di mandorla amara, e note agrumate persistenti. Dieci anni è tutto ciò che chiede Salon 1999 per raggiungere una maturità straordinaria. Ma altri decenni seguiranno. Degustatelo appena fresco, a una temperatura compresa fra i 13° e 15° C. Piacere assicurato…soprattutto se abbinato ai grandi piatti dello chef bistellato Andrea Berton.

Le Veglie di Neri Ci troviamo nel paesaggio rilassante delle colline toscane, a Vinci, a pochi chilometri da Firenze e Pisa. Circondata dai vigneti e dagli uliveti sorge la villa medicea del XVI sec. di Dianella Fucini, che ha presentato



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ronese, a Borgo Rocca Sveva, per l'annuale incontro con la rete commerciale nazionale. Molta determinazione e nuovi importanti obbiettivi da raggiungere, per una vera e propria squadra di lavoro coesa e compatta, pronta a lavorare per conquistare altri ambiziosi traguardi.

protagoniste anche l'11 febbraio al party d'apertura del Carnevale, 'The Best Of ... Il Ballo del Doge'. Credits Photo: Il Ballo del Doge 2012 di Antonia Sautter – fotografo Mirco Toffolo. Official Champagne Veuve Clicquot.

Rémy Martin VSOP ora è Mature Cask Finish

Veuve Clicquot al Ballo del Doge

di recente il vino della Fattoria, 'Le Veglie di Neri', un IGT ottenuto da uve Sangiovese e Cabernet Sauvignon, un rosso che ben accompagna i piatti della quotidianità: carni di manzo stufate o saltate in padella, ma anche formaggi saporiti. Il nome di questo vino, da bere giovane, ma che non disprezza qualche mese di riposo in bottiglia, è un omaggio a un’opera del poeta toscano Renato Fucini che ha vissuto per molti anni a Villa Dianella Fucini.

Borgo Rocca Sveva, la carica dei 150 La 'foto saluto' qui a fianco immortala i ben 150 agenti della storica cantina di Soave, riuniti per l'occasione nel centro d'eccellenza della maison ve-

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In occasione del Carnevale di Venezia si è inaugurata la stagione 2012 di Veuve Clicquot. La Maison de Champagne è stata protagonista in qualità di Official Champagne de 'Il Ballo del Doge', il più esclusivo ballo in maschera veneziano che quest'anno è giunto alla sua XIX edizione e che si è tenuto sabato 18 febbraio a Palazzo Pisani Moretta, sul Canal Grande. Antonia Sautter, stilista e costumista, fondatrice e direttore artistico de 'Il Ballo del Doge', ha deciso di intitolare questa edizione 'Queensessence', l'evento internazionale ispirato alle regine del passato e dedicato a tutte le donne di ogni tempo e ogni luogo. Il palazzo ha accolto ospiti provenienti da tutto il mondo, rigorosamente in maschera e con gli abiti d'epoca del rinomato Atelier di Antonia Sautter, e ad accompagnare la sfarzosa cena, preparata dai migliori chef veneziani, non potevano mancare le pregiate bollicine Veuve Clicquot,

Ceretto e Arbiora: eccellenza langarola Riflettori puntati su terra piemontese: Alba e Asti diventano protagoniste di un connubio che ha tutte le carte in regole per valorizzare sempre più le eccellenze del territorio piemontese e in particolare le colline di Langa. La nota cantina Ceretto ditribuirà con la linea 'Ceretto Gusti' i prodotti tipici dell'azienda casearia astigiana Arbiora, nota per la produzione della Robiola di Roccaverano dop, un formaggio rilanciato sul mercato e fortemente sostenuto da Gian Domenico Negro, fondatore dell'azienda. Grazie all'acquisizione della famiglia Ceretto di alcune baite nella zona del Borgo di Castelmagno, il connubio tra le due aziende avrà come principale obiettivo quello di riportare sul mercato la produzione del Castelmagno dop di Alpeggio, nell'ottica di una politica mirata a salvaguardare le eccellenze del territorio, una politica già intrapresa dall’azienda Ceretto con la linea 'Ceretto Gusti'.

Il 2 febbraio scorso l’ambasciatore internazionale del brand Rémy Martin, Gan Chian Mei, ha presentato in anteprima italiana, al caffè Trussardi di Milano, la nuova versione del cognac, icona della Maison francese. Si tratta del Rémy Martin VSOP Mature Cask Finish, un cognac rotondo, morbido, equilibrato e con un’intensità aromatica ancora superiore rispetto a quella della versione precedente, risultato di un’innovazione apportata nell’ultimo stadio del processo d’invecchiamento. Invece che in grandi tini di rovere, come avveniva in precedenza, i blend di cogac VSOP, sapientemente creati dalla cellar master Pierrette Tricet, prima di finire nella nuova bottiglia trasparente del Rémy Martin VSOP Mature Cask Finish, trascorrono un intero anno di finitura all’interno di piccole botti di rovere della Limousin. Botti che hanno più di 20 anni d’età. Quest’innovazione – nel solco della tradizione – conferisce al cognac Rémy Martin VSOP Mature Cask Finish, ottenuto sempre da un blend d’uve bianche provenienti dal cuore dell’area dello Champagne (55% Grande Champagne e 45% Petite Champagne, le più adatte per una lunga maturazione) e invecchiate da quattro a 40 anni, un colore oro brillante con sfumature ramate, ma soprattutto sublima le sue note fruttate d’albicocche, pesche e alchechengi, quelle floreali di violette e rose e quelle speziate di vaniglia (prevalenti) e di liquirizia. Di consistenza setosa il fine Champagne cognac Rémy Martin VSOP Mature Cask Finish è sufficientemente versatile da poter essere apprezzato sia liscio, sia con ghiaccio, o mixato, com’è abitudine dei consumatori americani e asiatici.



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Tre sono i cocktail che più lo esaltano: il classico Side Car (4 cl Rémy Martin VSOP Mature Cask Finish, 2 cl Cointrau, 1 cl succo di limone), il French Mojito (5 cl Rémy Martin VSOP Mature Cask Finish, 2 cl succo di lime, 4 cl di soda, 1 cucchiaio di zucchero e 5 foglie di menta) e il Rémy & Ginger ( 4 cl Rémy Martin VSOP Mature Cask Finish, zenzero sbucciato, 2-3 gocce di Angostura Bitters, 10 ml zucchero liquido e ghiaccio). L.C.

Bag in box versione luxury

Dobbiamo ammetterlo. Noi italiani adulti (meglio specificarlo) siamo sostanzialmente refrattari alle innovazioni di packaging nel mondo del vino. La vista di una chiusura sintetica o di un bag in box istintivamente ci rende sospettosi nei confronti del vino che ha tappato o contenuto. Soluzioni tecnicamente valide per vini di pronta beva, smorzano in noi quelle sensazioni piacevoli, quell’atmosfera di complicità che assaporarlo in compagnia suscita in noi, indipendentemente dal tipo di vino che abbiamo scelto di bere. Se i produttori di chiusure sintetiche, che non lesinano gli sforzi per far apparire i loro tappi del tutto simili a quelli in sughero naturale, non ci hanno messo del loro per ali-

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mentare il nostro preconcetto, quelli di bag in box qualche pecca, soprattutto in fatto d’attenzione all’estetica, devono ammetterla. I bag in box cui ci hanno abituati non contribuiscono certo a 'creare un’atmosfera'. In questo scenario, il tentativo di Boxmarche (www.boxmarche.it) di valorizzare esteticamente il bag in box merita d’essere preso in considerazione, non foss’altro che per proporsi a consumatori stranieri le cui case, diversamente dalle nostre, non hanno il cavatappi incorporato. La distintività e alta visibilità a scaffale dei bag in box di Boxmarche non è sfuggita all’European Carton Makers Association, che per ben due anni di seguito ha premiato l’azienda di Corinaldo (An) per quelli realizzati per l’importatore e distributore di vino svedese Oenoforos AB. Nel 2010 Boxmarche ha vinto il premio Ecma/Procarton Award nella categoria 'most innovative packaging' per Vernissage Purse, un bag in box a forma di borsetta, dall’aspetto così accattivante da aver contribuito a incrementare di un 25% le vendite del vino per il quale Oenoforos lo aveva scelto. Nel 2011 Boxmarche ha bissato il successo vincendo l’Ecma/Procarton Award, questa volta nella sezione bevande, con un nuovo bag in box da tre litri dalla forma più classica, ma ugualmente raffinata, smilza o panciuta a seconda del lato da cui lo si guarda, sempre commissionato da Oenoforos. L.C.

Gioielli e champagne Si è festaggiato così al numero 10 di via Montenapoleone a Milano, in occasione dell'inaugurazione della nuova boutique Damiani, nella via dell'alta moda milanese. Una festa all'insegna della mondanità che ha visto come testimonial d’eccezione del cocktail inaugurale Sharon Stone. Tra gli altri: Carlo Cracco e Rosa Fanti, Gabriella Dompè, Dalila di Lazzaro, Sibilla Camurati e Marco Maccapani, Antonella Camerana, Qin Hailu, tutti a festeggiare

Ferrarelle acquisisce Danone

Sharon Stone con l'esclusiva bottiglia della Cuvée Belle Epoque della Maison PerrierJouët, che ha accompagnato l'inaugurazione del nuovo spazio Damiani per tutta la serata. La storia della Maison Perrier-Jouët, da sempre legata all’arte, sigilla ancora una volta il binomio champagne e creatività, tra gioiello e opera d'arte.

Pasqua: le ricette con Kv Nordic Il salmone Kv Nordic, distribuito da Eurofood, è tra i primi ad aver ottenuto la Certificazione di Tracciabilità della Filiera Agroalimentare. Una linea completa che ben si presta alla creatività dei più rinomati chef. Come le ricette propose per le festività pasquali da Chicco Cerea, chef del ristorante Da Vittorio a Brusaporto (Bg): mini mac al salmone norvegese Kv Nordic, piccoli panini al latte farciti con una crema al mascorpone profumata con erba cipollina, insaporita con un frullato di cetrioli e cipolla con un filo di extra vergine, e ovvaimente con salmone norvegese Kv Nordic; e millefoglie di salmone norvegese Kv Nordic con salsa al cetriolo e Tabasco®. Kv Nordic

Ferrarelle SpA, azienda imbottigliatrice titolare dei marchi Ferrarelle, Natia, Boario e Santagata, comunica l'acquisizione dalla multinazionale Danone del marchio Vitasnella, per la categoria acqua e bevande, di cui era già licenziataria dal 2005. Ferrarelle SpA e Danone continueranno la loro collaborazione distributiva sul mercato italiano e la rafforzeranno gestendo insieme il brand Vitasnella, Ferrarelle per l'acqua minerale e Danone per il per il comparto lattiero-caseario.

Spirito Contadino Qual è il principio dell’ ‘alta ristorazione’? Ottime materie prime. Ed è l’obiettivo di Agricola Spirito Contadino, l’azienda agricola pugliese che a Borgo Tressanti, in provincia di Foggia, coltiva la terra con metodi naturali, riscoprendo verdure scomparse, coltivando ortaggi secondo le antiche tradizioni contadine, per preservarne qualità e profumi: Agricola Spirito Contadino si impegna a seguire i campi, dalla semina alla raccolta, dalla pulitura fino alla preparazione di verdure surgelate e impanate nella farina di grano, pronte per essere utilizzate nell’alta ristorazione. Cime di rapa, fiori di zucca, friggitelli, borragine, cicoriella, sono solo alcune delle varietà coltivate utilizzando semi selezionati e prodotti dalla stessa azienda, nel pieno rispetto delle stagionalità e arricchendo la terra esclusivamente con concime organico. Una coltivazione 100% naturale per soddisfare i professionisti dell’alta ristorazione.



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CAPUA Winery, la filosofia della qualità A Saturnia, in provincia di Grosseto, Riccardo Capua ha creato un polo vitivinicolo di eccellenza che può contare su un territorio unico, dotato del microclima ideale per coltivare una gamma multivarietale di vitigni e vinificare grandi vini. La sperimentazione costante è il tratto che caratterizza Capua Winery, il cui obiettivo è di creare – attraverso una attività continua di ricerca – vini di assoluto equilibrio e armonia, destinati alla ristorazione di successo e al consumo attento ed evoluto, lontano da mode e conformismi. Un lavoro che sta confermando la filosofia che permea da sempre la realtà di Capua Winery, un'azienda che possiamo definire 'di nicchia', con una produzione di circa 20.000 bottiglie all'anno tra tutte le referenze proposte, capace di incantare il consumatore perspicace e colpire il ristoratore professionista: Fiammante, Miosogno, Dolceamore, Monamour, Tuttocuore sono le etichette proposte sul mercato, un mercato che non punta sulla quantità, ma sulla qualità del prodotto, dove i grandi nomi non contano e quello che risale in superficie è il frutto di un lavoro meticoloso che vuole colpire una ristorazione attenta. Punto di riferimento in azienda per tutti i ristoratori è Anna Soleti, esperta e professionista nel settore vitivinicolo che affianca Riccardo nel difficile momento della proposta e della vendita dei vini, esperta anche di marketing e commercializzazione. Accanto all'offerta dei vini si affianca una piccola produzione di cultivar: Leccino, Frantoiano e Nocellara, le proposte di olii per le tavole più esigenti.

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TrentoDoc, territorio vocato La leadership nasce dall’identità

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I numeri della Doc Trento e del marchio TrentoDoc di Roger Sesto TrentoDoc, il prodotto che nasce nel nostro “distretto di montagna”, naturalmente vocato alle bollicine di qualità, esprime in modo chiaro, diretto e trasparente il territorio da cui proviene. I vigneti, principalmente di Chardonnay e Pinot nero, sono posti in altitudine, in una terra che presenta salubrità e varietà climatiche ideali per la produzione di prodotti di qualità rifermentati in bottiglia. In questa prima parte prendiamo in esame alcune cantine che hanno fatto la storia delle bollicine trentine, accanto ad alcune più piccole ma fortemente innovative. Nel prossimo numero di Artù, la carrellata sul TrentoDoc continuerà e darà spazio ad altri interpreti di qualità ed eccellenza firmata TrentoDoc. Le particolare condizioni ambientali di cui la provincia gode: clima, altitudine, forti escursioni termiche, natura del terreno, sono quelle ideali – in potenza – per creare i migliori vini base possibili, capaci dopo la rifermentazione di generare spumanti sapidi, profumati, giustamente acidi, armonici e non eccessivamente ricchi di alcol; tutti tratti distintivi per fare la differenza rispetto alle altre bollicine della Penisola. E d'altra parte la storia della spumantistica trentina ha radici profonde: è trascorso oltre un secolo da quando Giulio Ferrari ebbe l’intuizione di coltivare l’uva Chardonnay in Trentino. La Doc Trento è stata la prima al mondo – dopo lo Champagne – a essere assegnata univocamente a un metodo classico. L’Istituto Trento Doc garantisce la provenienza delle uve e la conformità di ogni aspetto della raccolta e della vinificazione al Disciplinare di produzione. Dalla vite all’imbottigliamento, la filiera per l'ottenimento degli spumanti a Doc è guidata dai principi della produzione viticola integrata: ottenere cioè la migliore qualità possibile nel rispetto dell’operatore agricolo, dell’ambiente e del consumatore. Si tratta di un fattore fondamentale e determinante per il quale fin dagli anni Ottanta si è pervenuti ad un Protocollo d’Intesa promosso dalla Provincia autonoma di Trento che

Le aziende trentine che producono spumante metodo classico a denominazione di origine e che aderiscono al marchio TrentoDoc sono 37; pochissime sono le realtà spumantistiche che producono bollicine metodo classico Vsq o Vs, ossia non a Doc. Per gran parte di queste 37 cantine, l’attività è a carattere artigianale. Il 95% circa della produzione è infatti concentrato nelle mani di quattro realtà di grandi dimensioni: Ferrari, Rotari, Cavit, Cesarini Sforza Spumanti. Fra l'altro la superficie vitata media aziendale in Trentino è pari a 1,20 ettari e circa il 69% delle aziende locali dispone ancora di una superficie vitata inferiore all’ettaro. I volumi che rientrano nella Doc Trento rappresentano il 40% della produzione nazionale di spumante classico, che ammonta a circa 24 milioni di bottiglie. Nel 2010 si sono prodotti 69.554 ettolitri di Trento Doc (contro i 59.521 del 2009), pari a 9,3 milioni di bottiglie (7,9 nel 2009); nello stesso anno sono state commercializzate circa 8,5 milioni di bottiglie (7,8 nel 2009). Seppure con una certa alternanza nei volumi di bottiglie prodotte, il settore (non solo locale) manifesta una certa difficoltà nell’incrementare significativamente la produzione, ciò principalmente a causa della staticità dei consumi di spumante, pari in ambito nazionale, ad appena 2,8 bottiglie pro capite l'anno. In tale quadro la produzione locale consolida le proprie quote di mercato mantenendo elevata la qualità del prodotto e destinando notevoli risorse all’innovazione delle strutture e alla promozione del prodotto. I mercati di sbocco della Doc Trento, a volume, sono i seguenti: Provincia di Trento: 5,39%, Resto d'Italia: 84,43%, Ue: 3,81%, Extra Ue: 6,36%. A livello nazionale, le regioni di sbocco più interessanti sono: Lombardia, Veneto, Lazio ed Emilia Romagna. A livello Ue: Germania, Francia, Belgio ed Olanda. Al di fuori dell'Unione Europea: Stati Uniti, Giappone, Russia e Svizzera. Oggi la Grande Distribuzione Organizzata è il canale di vendita più importante, in termini di volume, per il commercio del vino a uso domestico, e così per la Doc Trento. Per quest'ultima, i canali di vendita, sempre a volume, sono così ripartiti: GDO: 44,91%, Enoteche: 10,91%, Ristoranti: 22,73%, Grossisti: 20,23%, vendita diretta in cantina: 1,22%.

viene seguito da tutti gli spumantisti. Oggi giorno inoltre tutti utilizzano nell’allevamento della vite la “confusione sessuale” che ha praticamente eliminato l’utilizzo di insetticidi in campagna. Cosa manca al TrentoDoc per il definitivo salto di qualità? “Vedi, le cantine trentine hanno in media 20 referenze a listino, quasi tutti vogliono fare tutto, non riuscendo così a focalizzarsi sulla forte identità territoriale trentina, che pure esiste, non riuscendo a esprimerla appieno”. Così risponde Fabio Piccoli, responsabile della comunicazione del TrentoDoc, e prosegue: “Con questo marchio stiamo cercando di invogliare le cantine più vocate a concentrarsi sulla produzione di bollicine; solo le grandi possono permettersi di avere decine di etichette a listino, le altre dovrebbero fare scelte più coraggiose. I piccoli privati, non dovrebbero cercare di emulare le grandi realtà cooperative, ma Artù n°49

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diversificare meno e concentrarsi di più nelle loro produzioni di eccellenza, che spesso coincidono proprio con gli spumanti. Il Trentino è in assoluto il distretto vinicolo della Penisola più naturalmente vocato alla produzione di metodo classico, con uve che farebbero gola anche ad altri territori spumantistici, e allora perché non sfruttare questo incredibile potenziale? Non resta che puntare tutto sul nome del territorio “Trento”, come a suo tempo fece la Franciacorta, e con in più il vantaggio di un contesto geografico più riconoscibile e identificativo di quello franciacortino, in modo da sgomberare il campo da ogni ambiguità”. “Peraltro va detto – e qui Piccoli si fa più ottimista – che ormai la strada è segnata ed è assai più chiara che in passato, e molte aziende stanno optando per una più decisa specializzazione produttiva: la strategia vincente non può che essere questa. D'altro canto il numero delle bottiglie targate TrentoDoc è in aumento, e a fronte di una grossa concentrazione produttiva: Ferrari produce 5 milioni di spumanti e le cooperative altri 3, comunque anche i piccoli cominciano a muoversi, sia pure con numeri infinitamente più esigui: devono solo crederci di più e seguitare a crescere, per fare sistema. I grandi devono evitare di fare una guerra dei prezzi che alla lunga danneggerebbe anche loro stessi, ma le piccole aziende agricole devono pur far la loro parte, con volontà e capacità; e d'altra parte resto dell'idea che la coesistenza di cooperative e di realtà private non sia incompatibile! E anche Ferrari, pur legittimamente spingendo il suo marchio aziendale, ha scelto di promuovere e di evidenziare il marchio TrentoDoc, chiaramente presente sulle loro etichette, che poi fra parentesi fanno il giro del mondo e rendono visibile il logo. Se tutti decideranno di rafforzare l'immagine del TrentoDoc, anche i Lunelli saranno ancor più interessati a farlo, innescando un provvidenziale circolo virtuoso: Ferrari va visto come un prezioso alleato”. Conclude Piccoli: “Ci stiamo anche dando da fare per promuovere le bolle trentine nella ristorazione locale, ancora poco visibili e un po' trascurate. Ma anche fuori regione ci siamo attivati, istituendo

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il 'Premio Carta dei Vini TrentoDoc'. E altro ancora. Oltre a una serie di iniziative per la promozione del marchio, legandolo al concetto di 'montagna', 'Dolomiti', 'Alpi'. All'estero la strada da percorrere è più complessa, lunga e dispendiosa, ma qualcosa cominciamo a fare anche lì, senza paura di usare la parola 'spumante', una fobia che esiste altrove ma non qui; lemma che ha una sua piena dignità di esistere”. CAVIT: meno zuccheri, meno legno, e lunghi affinamenti Inutile girarci intorno, Cavit è un'istituzione. Cooperativa di secondo grado, è da oltre sessant'anni protagonista dell'enologia trentina, coinvolgendo una decina di cantine associate e più di 4.500 viticoltori, svolgendo un ruolo sociale di enormi proporzioni. L'ampia disponibilità di vigneti di proprietà dei soci, permette a Cavit di operare in tutte le zone e in tutte le denominazioni del Trentino, con un'articolata selezione di uve e vini, espressione di diverse linee commerciali. Tra queste ultime, non tanto per i numeri ma per la qualità, spicca l'Altemasi. Si tratta di spumanti Trento Doc, ovviamente metodo classico, declinati nelle seguenti tipologie: Altemasi Riserva Graal, Altemasi Brut Millesimato, Altemasi Brut e, di recente introduzione, Altemasi Rosé. Il Graal può dirsi l’espressione più alta della spumantistica targata Cavit: una riserva realizzata solo con uve di vendemmie top, provenienti dalle aree collinari più elevate e più vocate alla spumantistica della provincia: colline di Trento, altopiano di Brentonico e Valle dei Laghi. L'assemblaggio è frutto di 70% Chardonnay e 30% Pinot Nero; le uve vengono raccolte in apposite cassette, vinificate in bianco e affinate in cisterne inox e barrique. La presa di spuma in bottiglia ̀e seguita da una permanenza sui lieviti particolarmente lunga: per esempi per l'annata 2004, quella attualmente in commercio, la sboccatura ̀e avvenuta a 72 mesi dal tiraggio. Il risultato è una bollicina concentrata ma elegante, in ogni caso fresca e di eccellente beva, dai profumi molto complessi a cavallo tra frutto, spezie e sottili note tostate; assai sapido e minerale al gusto. Di notevole spessore anche l'Altemasi



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Millesimato; prodotto esclusivamente da una selezione di uve Chardonnay; la sboccatura avviene ben oltre i 24 mesi indicati dal disciplinare: una bollicina che gioca le sue carte migliori sul versante dell'armonia e dell'eleganza. Un poco più immediato l'Altemasi Brut, sempre uno Chardonnay in purezza. Di grande piacevolezza, si caratterizza per un colore giallo paglierino, con sfumature verdoline, un profumo fruttato con sentore di lievito e un sapore equilibrato, pieno, fresco e di valida persistenza. Infine il Rosé, che si caratterizza per derivare da uve di alta collina, sui 500-600 m slm, da una composizione di Chardonnay e, ovviamente, Pinot Nero. Parliamo del Graal, che cosa è cambiato a livello di protocolli di produzione nel corso degli anni? “I vigneti sono sempre gli stessi – ci dicono in Cavit -, ma l'aumento dell'età delle vigne ha condotto a una graduale crescita della struttura delle basi, soprattutto a livello di Chardonnay. Inoltre, nel corso degli ultimi 5-8 anni abbiamo provato diverse legni per le fermentazioni, arrivando a un mix ideale di essenze. La stessa frazione di vino base elevato in legno l'abbiamo diminuita: oggi non è superiore al 20-30%; ugualmente, abbiamo ridotto il dosaggio zuccherino: nel millesimo 1994 vi erano 14 g/l di zuccheri, oggi siamo intorno a 7. Parlando dell'Altemasi Millesimato, i vigneti possono mutare in base alla maturità e alla sanità delle uve; anche qui lo zucchero è stato portato a 7 g/l. Peraltro, Graal e Altemasi hanno due impostazioni molto diverse; ciò che li accomuna sono la freschezza sapido/minerale data dai terreni e la facilità di beva. Dopo la sboccatura il Graal rimane in cantina 4-6 mesi prima di essere commercializzato. Oggi il '94 e soprattutto il

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'95 presentano ancora una freschezza inaspettata. In ogni caso va sottolineato un aspetto: la grande carta da giocare per il Trento Doc è rappresentata dai profumi, dalla freschezza acida e dalla persistenza gustativa”. CESARINI SFORZA: terroir eterogenei per basi complesse Ci troviamo di fronte a un'azienda tutta declinata alla produzione spumantistica, e questo non da pochi anni – come nel caso di altre e peraltro rare realtà trentine –, ma quanto meno dagli anni Ottanta: tra le prime cantine dunque a compiere questa scelta in provincia. Va detto che l'attuale assetto della Casa di Trento risale al 2001, quando la Cesarini entra, in chiave sinergica, nell'orbita Lavis. Da quell'anno, ci conferma l'amministratore delegato Fausto Peratoner, si decide di concentrarsi quasi solo sulla produzione di Trento Doc e comunque dando sempre più importanza al metodo classico. L'attuale produzione ammonta a circa 1,2 milioni di bottiglie, di cui 800.000 ottenute con il metodo classico e ormai tutte rientranti nell'alveo del Trento Doc. Le restanti sono bollicine Charmat. Peratoner, cosa manca alla vostra denominazione per poter competere ad armi pari con la Franciacorta? “In teoria proprio nulla! In pratica ci sono parecchi piccoli tasselli che devono andare ancora al loro posto. In Franciacorta esiste un Consorzio fondato sull'azione di un solido gruppo di imprenditori, ci si è fin dagli inizi concentrati su una produzione spumantistica progettata a tavolino, non vi sono le cooperative. Oggi in Trentino, a livello qualitativo, non temiamo confronti, dobbiamo solo precedere lungo un processo di riconversione che sta conducendo molte cantine pro-


su di un terrazzo inclinato a un’altitudine compresa fra i 350 e i 420 m slm. Sin dagli anni Ottanta, con particolare lungimiranza, le vigne del Pian di Castello sono coltivate a Guyot con spalliera verticale, impiegando cloni di Chardonnay e Pinot Nero provenienti dalla Champagne. Le attente operazioni agronomiche e colturali, quali la potatura a testa di salice, la scacchiatura precoce dei tralci meno adatti a garantire un’uva di qualità, l’ingabbiatura senza affastellamento dei tralci, la sfogliatura bilanciata precoce e la cimatura, permettono di ottenere una produzione pari a circa 60 hl/ha di vino base, dalle adeguate caratteristiche qualitative. La raccolta manuale in cassette, infine, dopo attenta selezione delle uve, garantisce la consegna all’impianto di trasformazione di bacche sane, integre e fresche. Va aggiunto che tutti i vigneti della tenuta, non solo quelli dedicati alle bollicine, sono coltivati da oltre quindici anni con sistemi ecocompatibili, con l'utilizzo di ferormoni per la “confusione sessuale” tra gli insetti nemici della vite, nidi d'uccelli predatori e inerbimento del filare senza concimi chimici. La difesa dai funghi parassiti la si realizza semplicemente con ENDRIZZI: un clos alla francese, rame e zolfo. I TrentoDoc di Endrizzi matunel cuore del Trentino rano sui lieviti a lungo: dai 48 ai 60 Fondata nel 1885 e oggi condotta da mesi. Alla sboccatura si dosano pochissiPaolo Endrici e dalla moglie Christine, mo, per non alterare le caratteristiche l'azienda Endrizzi di San Michele all'Adige conferite naturalmente dalle uve d’origine, la si può considerare uno dei marchi che beneficiano del fresco clima trentino storici del Trentino. Già notevole interprete e dei relativi sbalzi termici. Va infine agdel Teroldego, la cantina dedica da oltre giunto che in occasione del Vinitaly di 30 anni una particolare attenzione alla quest'anno la cantina presenta una nuova produzione di Trento Doc, ottenuto con bollicina, il Trento Doc Riserva Rosé Pianuve provenienti da uno dei rari vigneti castello 2006, ottenuto da una base di della provincia progettato e realizzato Chardonnay – considerato il vitigno a come un autentico clos, circondato da bacca bianca d'eccellenza dell'azienda boschi: Pian di Castello, nel Comune di – e Pinot Nero di alta quota: si tratta, Faedo, nelle immediate vicinanze del Ca- dopo anni di ricerca, del primo spumante stello di Monreale – Königsberg, posto “in rosa” targato Endrizzi. vinciali a portare la loro produzione di bollicine ad almeno il 50% del loro volume produttivo. Una valida attività di comunicazione, che in passato mancava, è stata posta in essere, e occorre proseguire e rafforzarla, adattandola sempre di più alle specificità del nostro territorio, sottolineando il suo essere legato alla montagna, fatto questo di cui in passato quasi ci si vergognava, facendo leva anche sul turismo invernale. Dobbiamo anche rafforzare la presenza delle bollicine trentine nei ristoranti della regione, come hanno fatto gli amici franciacortini”. Giorgia Brugnara, l'enologa di Cesarini Sforza, ci svela qualche segreto relativo alle bolle trentine e in particolare a quelle dalla sua Maison: “Punto di forza degli spumanti della nostra regione è l'eterogeneità dei suoli, che nessun altro distretto spumantistico della Penisola può vantare. Una varietà data sia dalla difformità dei suoli, sia dalle esposizioni, sia dall'altimetria. Val di Cembra, Valle dei Laghi, Volano, Faedo... ogni terroir diverso dall'altro. Sicuramente varietà principe è lo Chardonnay, qui massimamente espressivo, ma per Cesarini Sforza molto importante è anche il Pinot Nero, che però è più esigente: si esprime al meglio sopra i 500 m slm, con basse rese, allevato a Guyot; lo Chardonnay è sicuramente più elastico e gestibile, anche se con i caldi di queste ultime annate anche per quest'ultimo le quote ottimali di impianto si sono alzate, ormai arrivate come soglia minima ai 400 m slm.

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FERRARI: battistrada di un territorio ancora sconosciuto al mondo Di questo monumento all'enologia, con 110 anni di vita alle spalle, foriero del più prestigioso spumante italiano (si parla – ça va sans dire – del Giulio Ferrari Riserva del Fondatore) si è già scritto di tutto; veniamo perciò subito al nocciolo della questione. Marcello Lunelli, è proprio vero che uno degli atout delle bollicine trentine risiede nella qualità dello Chardonnay della regione? “Certo; è la varietà più identitaria, la più stabile qualitativamente, la più elastica nell'adattarsi a terroir diversi. Anche il Pinot Nero può dire la sua, per carità, ma è più problematico, discontinuo, non strategico per noi. Oltretutto questo costante innalzamento delle temperature crea più problemi al Pinot che allo Chardonnay. Dal canto nostro, non acquistiamo più uve per basi spumante provenienti da quote sotto i 300 m slm; anche se va detto che vi sono aree altimetricamente basse ma

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che godono di particolare microclimi che le rendono fresche, come la Valle dei Laghi. Il nostro Maso Pianizza, cru del Giulio Ferrari, si trova a 700 m slm, ma con Villa Margon puntiamo a elevare le nostre vigne sino ai 1.000 metri: la forza del Trentino sta anche qui. La valle ci offre la possibilità di elevarci!”. Una curiosità. Abbiamo notato, durante i nostri assaggi, che i rosati trentini sono talvolta discontinui ed eterogenei, non ci pare insomma offrano il volto migliore della spumantistica della regione: è un'impressione corretta, la nostra? “Per quanto ci riguarda il Rosé è una declinazione importante, se fatto bene può essere molto eclettico, adattarsi a tutto pasto e avere doti di particolare longevità. Il problema è semmai produttivo: semplicemente, da un punto di vista tecnico, è difficile farlo buono; sia per la gestione della cessione del colore (e dei tannini), sia, e torniamo al discorso di prima, a causa della scarsa costanza del Pinot Nero. Ma a ben vedere, in nessun territorio il Rosé è davvero identitario, si tratta quasi sempre più di un'espressione aziendale che territoriale”. E che ci dici del dosaggio? A noi sembra che dopo anni di dolcezze esagerate, ora vi sia una rincorsa a chi mette meno zucchero: “In effetti negli anni scorsi il mercato richiedeva spumanti molto rotondi, ora si va verso soluzioni di maggior equilibrio. Per quanto ci riguarda, anche noi abbiamo decisamente ridotto i dosaggi medi, ma soprattutto per il miglioramento della qualità delle uve di partenza. Se parti da bacche sane, ricche in struttura e acidità, equilibrate, non è necessario a fine processo correggere il tutto con dosi eccessive di zucchero, a tutto vantaggio dell'essenzialità del prodotto, della bevibilità e delle sue capacità espressive. Il fatto


di partire da una grande materia prima, ci consente anche di effettuare la malolattica sulle basi, così da averle più stabili, armoniche, ma senza perdere in vitalità acida. Infine, buone basi di partenza ci permettono di allungare i tempi di affinamento sui lieviti, per noi fondamentali. Per esempio la nostra nuova Riserva Lunelli sta ben 7 anni sur lie”. Che ci dici, Marcello, del vostro rapporto con il TrentoDoc e con i piccoli produttori? “Noi crediamo sia nel nostro territorio, sia nell'istituzione della Doc Trento del 1993, sia nel marchio TrentoDoc, che spingerà a concentrarsi di più sulle bollicine. Il nostro successo imprenditoriale lo vediamo in stretta relazione con un successo di territorio, aerale che par fatto apposta per produrre spumanti. Per noi i piccoli produttori sono delle risorse culturali e sociali, che perpetuano una tradizione nell'ambito delle loro diversità, e sono perciò una ricchezza. Certamente un'eccessiva frammentazione può ostacolare una visione strategica unitaria e rendere difficoltose azioni comuni; così come le cooperative, pur svolgendo una funzione sociale insostituibile, a causa delle loro dinamiche spesso legate a fattori politici, si muovono lentamente e sono meno reattive del dovuto. Noi, come grande azienda di famiglia, riusciamo a godere della dinamicità tipica delle realtà private, ma anche di risorse che ci consentono scelte di marketing e di comunicazione che i piccoli non si possono permettere. Per questa ragione, riteniamo di essere a nostra volta una ricchezza per il territorio, fungendo da battistrada ai piccoli, che però devono 'seguirci'.”. Salutando Marcello Lunelli, intravediamo Camilla. Non è tempo di pensare a un Pas Dosé? “Perché no? Chi lo sa...”. Sai che siamo fan del Giulio Ferrari in Jéroboam...? “Potrebbe anche arrivare, mai dire mai... In ogni caso occorrerà attendere almeno una decina di anni, tanto quanto dura l'affinamento della Riserva del Fondatore! Intanto abbiamo varato un'operazione particolare: delle cassette contenenti diverse annate di Giulio R.D. 1992-'93-'94 e poi dal '93 al '95, destinate alla ristorazione top, ma anche acquistabili dai privati nel nostro punto vendita in cantina”.

ISTITUTO AGR. DI SAN MICHELE ALL'ADIGE: qui si punta sui cru L'Istituto nasce nel 1874 per volontà della Dieta Regionale Tirolese, allo scopo di creare una struttura sperimentale e didattica in grado di qualificare l'agricoltura trentina; da allora ha sempre mantenuto fede al proprio mandato, cercando di coniugare al meglio ricerca, formazione e produzione, contando sull'attività di cantina e sui terreni dell'azienda agricola dislocati nelle zone più rappresentative della viticoltura locale. L'azienda agricola si estende su un'area di 182 ettari, dei quali circa 50 vitati. La superficie dedicata alla viticoltura si caratterizza per essere formata da piccoli appezzamenti dove le piante vengono allevate con la tradizionale pergola trentina, oppure a spalliera, ad altitudini molto varie fra i 200 e i 700 m slm, con esposizioni prevalentemente a Sud-Ovest. Ci racconta Enrico Paternoster, enologo dell'azienda agricola dell'Istituto, e “mostro sacro” della vitivinicoltura trentina: “Il Trento Doc Riserva del Fondatore Mach - Edmund Mach fu il creatore di questa istituzione e primo direttore della stessa - lo otteniamo da

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uve provenienti dal cru Maso Togn, a 700 m slm sulla parte apicale del conoide di Faedo, esposto a Ovest, 75% del quale vitato a Chardonnay e il saldo a Pinot Nero. Il concetto di cru (raro per la produzione spumantistica, ndr), è peraltro parte integrante del modus operandi della nostra realtà: ogni vino che produciamo proviene infatti da una vigna d'elezione; il che ha fra l'altro un particolare valore didattico. Molto complessa la composizione dei suoli del Maso: depositi morenici, marnoso-calcarei, sub-alcalini, a tessitura franco-limosa, ricchi di scheletro e con calibrata dotazione di sostanza organica: una natura di questo tipo contribuisce all'equilibrio delle basi e alla longevità delle bollicine che ne derivano. L'impianto risale al 1987, allevato a spalliera potata a doppio Guyot e con una densità di 6.400 ceppi/ha, particolarmente elevata per una vigna di montagna, con una resa per pianta di poco più di un kg di uva, molto contenuta soprattutto in virtù dell'altitudine della vigna. Pinot Nero e Chardonnay si vinificano separatamente: il primo in acciaio, il secondo per una metà in barrique, quasi del tutto usate. Il tiraggio ha luogo nel maggio successivo la vendemmia, con una conseguente permanenza sur lie di circa 40 mesi; la sboccatura è unica, a settembre”. Non hai parlato di malolattica...: “Dipende dall'acidità di partenza delle uve; nelle

annate calde, come la 2003, la evitiamo; in annate particolarmente equilibrate e fresche nel periodo di maturazione, come la 2011, che ci ha regalato un'acidità totale pari a 11,5 g/l e pH attorno al 3, la malolattica è d'obbligo, e questo è un bene perché ci regala grassezza, armonia, aromi più complessi; inoltre con lo svolgimento della stessa, ci si può permettere un dosaggio sui 4 g/l di zuccheri, invece di 7, il che rende la bollicina ancora più tersa e rappresentativa”. Né di liqueur: “Ci serve solo per dare un tocco di equilibrio in più al prodotto: al poco zucchero di dosaggio, aggiungiamo dell'ottimo Chardonnay, grasso, maturo e fermentato in legno. Vedi – continua Paternoster – la spumantistica italiana e trentina in particolare, ha seguito due direzioni: la vecchia scuola anni Settanta puntava su affinamenti contenuti, a beneficio di frutto e acidità, anche malica, riequilibrando il tutto, se necessario, con generosi dosaggi zuccherini; dal 1986, con la nascita del Methius, ho cercato di dare un'altra impostazione alle bollicine: calibrato uso dei legni, affinamenti lunghi, malolattica, struttura; la retrogradazione dell'acido malico – un tabù per gli spumanti italiani sino a 30 anni fa - consente – anzi, impone - soste sur lie più lunghe, basi più complesse, più ricchezza e minore necessità di dosare il prodotto finito. Bollicine di questo stile sono anche più lengeve; a partire dal 1999, ma solo per le annate migliori, quelle più fresche, altrimenti soste troppo lunghe risultano negative, teniamo in punta una parte dei nostri Mach, che dopo la sboccatura hanno un potenziale di vita di una decina di anni!”. LETRARI: Lionello, dall’Equipe 5 a un sogno chiamato “Talento” Parlare con Leonello Letrari è un'esperienza che arricchisce; da personaggio raffinato, colto e carismatico qual è, risulta sufficiente poter fare una chiacchierata con lui, per poter cogliere tanti, intensi messaggi: sia riflessioni profonde sul passato della cultura vitivinicola trentina e non solo, sia preziosi stimoli su quanto si può e si deve ancora fare per migliorare il comparto,

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a livello tecnico, commerciale, di comunicazione e di mentalità. Ormai affiancato dalla fondamentale presenza dei figli Lucia e Paolo, resta però ancora un importante punto di riferimento umano insostituibile. Basti dire che nel 1961 fu il principale promotore del progetto spumantistico dell'Equipe 5, quando ancora la Franciacorta delle bollicine non esisteva, e nel 1967 anima costitutiva, come Letrari, assieme a Gancia, Berlucchi, Ferrari, Carpenè Malvolti, La Versa, Contratto, dell'Istituto Italiano dello Spumante Classico, ente che poi nacque ufficialmente nel 1975. Non solo, fu anche tra i maggiori promotori della registrazione e dello sviluppo del marchio “Talento”, nato nel 1996 e ideato per rappresentare in Italia lo spumante “metodo Classico”, in quanto la menzione “Champenois” a partire da quell'anno poteva essere solo impiegata per lo Champagne; questo per creare un nome unificante, espressivo di tutti i metodo classico italiani di qualità, rispettosi di un determinato disciplinare di produzione, alla stregua dello spagnolo Cava. Di fatto poi la gran parte delle aziende spumantistiche scelsero un'altra strada, volta a valorizzare il proprio marchio aziendale e l'area del distretto spumantistico di appartenenza, strategia che partì dalla Franciacorta e che in qualche modo inibì la piena affermazione del marchio del Talento. Leonello, come giudica attualmente il fatto che il Talento non sia riuscito ad imporsi: “Un peccato! Con quel marchio avremmo avuto un cappello di riconoscimento nazionale, di fatto rinunciando a esso ogni area si trova a dover promuovere se stessa con molte difficoltà: all'estero il Trento Doc non è conosciuto. Si sarebbe potuto sfruttare un marchio forte e mettere a punto una strategia nazionale comune; così non è stato. Ma mentre la Franciacorta ha avuto come elemento propulsivo una forte base imprenditoriale, finanziaria e manageriale, il Trentino – assai più frammentato a livello produttivo - ha faticato molto di più a trovare una sua identità, che avrebbe potuto più facilmente essere veicolata da un Istituto Nazionale. Ora il Trento Doc, fra l'altro nato prima della Franciacorta Docg come denominazione esclusivamente spumantistica a metodo

classico, si è creato un suo marchio, “TrentoDoc”, al quale ormai aderiscono quasi una quarantina di realtà, molto diverse fra loro, ma fino a pochi anni fa in pratica solo le pochissime grandi aziende cooperative e private erano davvero conosciute fuori regione, perciò con scarso interesse a porre in essere una strategia comune, e in ogni caso ancora oggi il mercato resta in mano a queste poche cantine. Inoltre va aggiunto che la tradizione viticola trentina è molto antica e legata anche e soprattutto alla produzione di vini fermi; non è facile in breve tempo riconvertire tutto per produrre bollicine. Anzi, se anche ormai il puntare sulla comunicazione del TrentoDoc è diventata una stategia imprescindibile, data anche l'elevata vocazionalità del nostro territorio a produrre bollicine, sarebbe un errore dimenticare i nostri grandi vini fermi. La sfida è oggi quella di creare un strategia di marketing unitaria, volta davvero alla promozione del logo TrentoDoc”. Attualmente le vigne aziendali si estendono su 22 ettari, di cui 8 in affitto; circa 12 sono dedicati alla produzione di Trento Doc, ubicati in diverse zone, a vocazione spumantistica. A parte la Riseva del Fondatore, ove vi è una presenza di Pinot Nero pari al 50%, in tutte le altre etichette domina lo Chardonnay, molto apprezzato da Leonello Letrari. Oltre alla già citata riserva, si producono un Dosaggio Zero, un Brut Riserva, un Brut “base”, un Rosé e un Rosé Riserva. Tutte bollicine di spessore, eleganti ma concentrate al contempo, con lunghe soste sui lieviti. Artù n°49

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ROTARI: spumanti “frutto” esaltati da uno Chardonnay identitario La Cantina Rotari ha cominciato la sua avventura negli anni Settanta e, in pochi decenni, è divenuta una delle prime firme della spumantistica italiana. La nuova struttura, collocata all'interno dell'avveniristica “Cittadella del Vino” di Mezzocorona, è stata inaugurata nel 1997, rappresentando da subito il biglietto da visita dell'azienda. Oggi Rotari commercializza oltre 2,5 milioni di bottiglie, costituendo una fra le più importanti realtà produttive regionali. Da un colloquio con l'enologo Lucio Matricardi, abbiamo tratto importanti informazioni sullo stile della Maison. “Negli anni Ottanta la Casa ha avviato le prime sperimentazioni: 15 anni di proveerrori ci hanno consentito di raggiungere un livello e una costanza qualitativa invidiabili. Abbiamo lavorato molto in vigna, in modo da avere delle acidità naturali, in primis figlie dell'altimetria, variabile che la nostra regione ci consente di sfruttare, a differenza di altri distretti spumantistici. Come molte altre realtà del nostro territorio, anche noi abbiamo deciso di puntare molto sullo Chardonnay, qui assai vocato, coltivato a 400-500 m slm, così da avere delle basi dall'ottima acidità di partenza. Viviamo in un territorio ideale, che dalla bassa collina si eleva in breve all'alta montagna sino ai ghiacciai, con escursioni termiche in agosto 'da paura': terroir ideale per le bollicine: un peccato non sfruttarlo al meglio! Perché puntare sullo Chardonnay? È la vera varietà identitaria delle nostre montagne, il Pinot Nero da noi è meno distinguibile da quello proveniente da altri distretti, lo Chardonnay invece è unico. Le vigne dalle quali traiamo le uve per le nostre basi, assai parcellizzate e poste sui versanti della Valle dell'Adige, godono di una perfetta e variegata esposizione montana, tutte comprese fra i 300 e i 550 m slm. Tutti presupposti per la messa a punto di cuvée di grande equilibrio e complessità, grazie anche al fatto che non utilizziamo mai vigne troppo giovani, ma tutte con più di 5 anni di vita”. Ci può raccontare nello specifico lo stile dalla vostra produzione? “Ritengo che vi siano tre stili fon-

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damentali, legati alla elaborazione delle bollicine. Si può puntare su frutto e freschezza; sui profumi secondari dati dai lieviti; sulle componenti più terziarie legate a fermentazioni in legno e a liqueur un po' sopra le righe. In Rotari si è deciso di intraprendere la prima di queste tre soluzioni stilistiche, ossia quella più adatta a esaltare un terroir di grande valore, riducendo perciò al minimo l'impiego dei legni e solo per le basi più strutturate adatte a sostenerne l'impatto, e contenendo molto il dosaggio zuccherino senza l'impiego di liqueuer pesanti: l'equilibrio, la complessità, la morbidezza riteniamo debbano esser proprie del vino base e delle bollicine che ne derivano, non aggiustate con elementi aggiunti”. Le etichette di punta targate Rotari, destinate al canale dell'horeca, tutte Trento Doc, sono il Talento Cuvée 28, che sosta 28 mesi sui lieviti, Chardonnay al 90%; il Talento Riserva, sempre a base di Chardonnay, con una piccola parte fermentata in barrique, almeno 48 mesi sui lieviti; il Talento Flavio, Chardonnay in purezza, il 40% del quale fermentato in piccoli fusti, che sosta non meno di 5 anni sur lie. E poi il Rosé, Pinot Nero al 75%. (1 - continua)





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Gruppo Campari il vino è strategico

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di Luisa Contri

la&Mosca Monteoro Vermentino di Gallura DOCG Superiore 2010. Oltre ai Affermarsi in Italia e nel mondo come due 5 Grappoli della guida DuemilaVini polo di riferimento nei vini di qualità. 2012 di AIS-Bibenda, di nuovo per SelÈ la mission della Business Unit Wines la&Mosca Marchese di Villamarina Aldel Gruppo Campari. Divisione giunta ghero DOC 2006 e per Sella&Mosca a contribuire per il 15%, comprendendo Terre Bianche Cuvée 161 Alghero DOC anche gli spumanti, alla formazione Torbato 2010. E ancora premi internadel fatturato del gruppo: oltre 1 miliardo zionali: la medaglia d’argento a Enrico di euro. E che, appena giunta alla boa Serafino Bacajè Barbera d’Alba DOC dei dieci anni d’attività, con importanti 2010 e a Enrico Serafino Pasiunà conferme e novità, veleggia decisa Roero DOCG 2008, e la medaglia di sulla rotta della crescita per linee bronzo a Sella&Mosca Tanca Farrà Alesterne, intrapresa nel 2010, con l’obiet- ghero DOC 2006 al Decanter World tivo di scalare la classifica dei principali Wine Awards 2011; la medaglia d’arplayer italiani del vino. gento–best in class a Teruzzi&Puthod Rondolino Vernaccia di San Gimignano Fra le conferme della Business Unit di DOCG 2010, la medaglia d’argento a Gruppo Campari diversi riconoscimenti Sella&Mosca Tanca Farrà Alghero DOC della qualità delle sue proposte. Una 2006 e a Sella&Mosca Cannonau di tripletta di Tre Bicchieri della guida Vini Sardegna DOC Riserva 2007, e la med’Italia 2012 del Gambero Rosso: per daglia di bronzo a Sella&Mosca La Sella&Mosca Marchese di Villamarina Cala Vermentino di Sardegna DOC Alghero DOC 2006 (per il dodicesimo 2010 e a Teruzzi&Puthod Terre di tufi anno di fila), per Enrico Serafino Cantina Toscana IGT 2009 all’International WiMaestra Alta Langa DOC Zero 2005 ne&Spirit Competition 2011; la meda(per il secondo anno di fila) e per Sel- glia di bronzo a Sella&Mosca La Cala

Vermentino di Sardegna DOC 2010, Teruzzi&Puthod Peperino Toscana IGT 2008, Teruzzi& Puthod Terre di tufi Toscana IGT 2009, Enrico Serafino Bacajé Barbera d’Alba DOC 2010, Enrico Serafino Pasiunà Roero DOCG 2008 e a Château Lamargue La Réserve du Marquis Costières de Nîmes AOC 2008 all’International Wine Challenge 2011; o la medaglia d’argento a Château Lamargue Les Marquises Syrah Costières de Nîmes 2009 al Concours Mondial de Bruxelles 2011. Fra le novità spicca invece l’ufficializzazione di tre nuovi accordi quinquennali di distribuzione in esclusiva. Due a livello globale. Il primo con Fazi Battaglia, azienda vitivinicola leader nelle Marche, che ha valorizzato il più famoso vitigno del suo territorio, il Verdicchio, facendolo conoscere in Italia e nel mondo attraverso la sua caratteristica e originale bottiglia ad anfora. Ma che si distingue anche per altri vini, per esempio per il Rosso Conero, ottenendo numerosi riconoscimenti: dalla Corona della guida Vini Buoni d’Italia 2012 del Touring Club per Massaccio Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore 2008, al Vino dell’anno di Civiltà del Bere per Rie Verdi 2009 Igt Marche Bianco, ai 5 Grappoli per Arkezia Muffo di San Sisto IGT Marche Bianco 2007, nel 2011. L’accordo con Fazi Battaglia prevede, fra l’altro, che Campari distribuisca anche i vini della sua controllata toscana: Greto delle Fate, una delle realtà vitivinicole più nuove nell’ambito del Morellino di Scansano. Il secondo nuovo accordo di distribuzione globale è con Fratelli Urciuolo, una delle Artù n°49

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cantine più rappresentative e promettenti in terra d’Irpinia, che produce vini dalla forte personalità come il Taurasi DOCG, il Fiano di Avellino DOCG e il Greco di Tufo DOCG. Proprio per il Taurasi 2007 l’azienda ha appena ottenuto il riconoscimento dei Tre Bicchieri. La terza partnership commerciale, relativa al solo mercato italiano, è con Mouton Cadet, una cantina del gruppo Baron Philippe de Rothschild, che produce Bordeaux AOC e Réserve fra i più venduti al mondo. Salgono così a 11 le cantine di cui la Business Unit Wines di Gruppo Campari cura la distribuzione. Quattro di queste sono state acquisite fra il 2002 e il 2005. Si tratta della sarda Sella & Mosca, rilevata in quanto controllata di Zedda Piras e oggi azienda leader sull’isola con 700 ettari vitati nella zona di Alghero; della francese Château Lamargue, produttrice di AOC Costieres de Nîmes: da Les Grandes Cabanes Blanc a Les Marquises a La Reserve du Marquis; della pie-

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montese Enrico Serafino, cantina ultracentenaria attiva nel cuore del Roero, rilevata insieme a Mondoro (spumanti Asti DOCG e demi sec) in quanto parte integrante del gruppo Barbero 1891, e dalla cui Cantina Maestra escono oggi vini d’eccellenza ottenuti da vitigni Arneis, Nebbiolo e Barbera, oltre a spumanti metodo classico Alta Langa DOC; e di Teruzzi&Puthod, espressione di una delle più celebri zone vitivinicole della Toscana: San Giminiano, che ha fra i suoi vini di punta Vernaccia di San Giminiano e Terre di Tufi, il primo supertuscan bianco da un uvaggio di Vernaccia, Chardonnay e Sauvignon.Altre quattro cantine, come le tre new entry, hanno già siglato accordi di distribuzione esclusiva con la Business unit Wines di Gruppo Campari. A gennaio 2010 era stata la volta di Icario, cantina che dal nucleo di quattro ettari di vigneto in una delle più belle colline di Montepulciano s’è espansa fino a 22 ettari e che è vocata alla produzione di grandi vini rossi, come il Vino Nobile di Montepulciano DOCG e il Rosso di Montepulciano DOC. A gennaio 2011 erano infine salite a bordo anche Tenuta di Capraia, altra cantina toscana, con 45 ettari vitati, tutti a Chianti Classico, nel cuore della DOC, che si è meritata i Tre Bicchieri nel 2011 per il suo Chianti Classico DOCG Riserva 2007; Le Fracce, azienda storica dell’Oltrepò Pavese, che porta in dote vini rossi d’eccellenza, quali Bohemi, Cirgà e Pinot Nero; e Kupelwieser, fra i più rappresentativi produttori vinicoli dell’Alto Adige, che offre un ampio ventaglio di pregiati vini da vitigni autoctoni, in particolare Gewürztraminer e Lagrein, ma anche da vitigni internazionali come Pinot Nero e Sauvignon. Un portafoglio marchi, quello della Business Unit Wines di Gruppo Campari, costruito seguendo tre criteri guida: la complementarietà geografica, la coerenza in termini di qualità, posizionamento e immagine, e l’ambizione di crescita sia sul fronte quantitativo che qualitativo.


«L’ampliamento della nostra offerta a vini di territori come le Marche, la Campania e il Bordeaux», spiega ad Artù Andrea Montorfano, amministratore delegato della Business Unit di Campari, «rappresenta un’importante tappa di un percorso, destinato a proseguire, di costruzione di un portafoglio marchi articolato, in grado di soddisfare operatori ho.re.ca sia italiani che stranieri. Siamo infatti in fase di scouting, e in alcuni casi abbiamo già avviato trattative, per arrivare nel 2013 a siglare nuovi accordi di distribuzione in esclusiva con realtà geograficamente complementari rispetto alle cantine già in portafoglio, ma sempre coerenti in termini di posizionamento qualitativo e d’immagine». Nel mirino del Gruppo Campari, lascia intendere Montorfano, ci sono in primis realtà siciliane, pugliesi, venete e friulane con le quali il manager non esclude di poter ufficializzare la partnership anche con qualche mese d’anticipo rispetto al 2013, non prima comunque del secondo semestre di quest’anno, in quanto la sua organizzazione deve avere il tempo d’integrarsi con le new entry di gennaio scorso. L’approccio al mercato da multinazionale globale del beverage di marca che caratterizza il Gruppo Campari – è d’altronde oggi il sesto player al mondo dietro a Diageo, Pernod-Ricard, Bacardi, Brown-Forman e Beam – si riflette anche sulla scelta della Business Unit Wines di stringere partnership commerciali. Avendo l’obiettivo di sviluppare prioritariamente le vendite all’estero, che oggi rappresentano il 30% di quelle totali (negli spirits le proporzioni s’invertono e l’export vale quasi il 70%), anche in considerazione del fatto che i consumi in Italia sono sostanzialmente fermi, mentre sui mercati internazionali i vini italiani stanno andando alla grande (a settembre 2011 il tasso di crescita era del 13,6%), la Wine Business Unit punta in primis ad

aggregare realtà di prestigio, ma con una produzione consistente, compatibile con i volumi che lo sviluppo dell’export richiede (com’è il caso di Fazi Battaglia). In alternativa s’orienta su realtà ancora piccole, ma ad alto potenziale di sviluppo (Fratelli Urciuolo risponde a questi parametri). «Le cantine da noi rappresentate», sottolinea Montorfano, «devono essere il più possibile omogenee quanto ad attenzione alla qualità e a posizionamento d’immagine e di pricing. Ciò per dare credibilità all’offerta che la nostra rete di vendita andrà a proporre alla clientela». Altro requisito che il polo vini del Gruppo Campari ricerca nei suoi potenziali partner commerciali è l’orientamento al miglioramento continuo, in vigna come in cantina, e all’innovazione. «Ogni prodotto, anche il più qualitativo, ha un suo ciclo di vita», sostiene Montorfano. «Per questo, oltre alla qualità, ‘conditio sine qua non’ perché un vino possa crescere e affermarsi, è fondamentale che le cantine si aprano verso l’esterno, che prestino attenzione alle tendenze in atto, all’evoluzione dei gusti del consumatore, e propongano nuovi vini. Proprio per favorire una contaminazione positiva, che sia di stimolo all’innovazione, da tempo per le nostre cantine italiane abbiamo scelto d’avvalerci anche d’enologi esterni. Oggi di Giuseppe Caviola, ma nel recente passato anche di Carlo Ferrini, perché potessero portare la loro competenza a sommarsi con quella dei nostri enologi interni. Un mix che genera una contaminazione positiva dalla quale è nato, per esempio, lo spumante metodo classico Cantina Maestra Alta Langa DOC Zero, prodotto da uve Pinot Nero (85%) e Chardonnay (15%), con dosaggio zero ossia senza liqueur d’expedition e con circa 60 mesi d’affinamento sui lieviti. E il Sella&Mosca Dimonios Cannonau di Sardegna DOC Riserva, un vino capace di raccontare una terra dalla personalità e dal carattere unici, che per questo abArtù n°49

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biamo voluto battezzare Dimonios, titolo dell’inno ufficiale della Brigata Sassari, la cui prima strofa è riprodotta in lingua sarda e in italiano sull’etichetta sobria e rigorosa di questo vino, insieme allo stemma araldico della brigata». Una buona integrazione nel portafoglio marchi della Business Unit di Gruppo Campari si traduce normalmente in una maggiore visibilità per i vini delle aziende partner in uno scenario competitivo che vede oltre 150 mila etichette di vino italiano confrontarsi sul mercato, dentro e fuori i confini dell’Italia. «Campari», sottolinea Montorfano, «mette poi a disposizione delle cantine partner il suo knowhow gestionale e di marketing. È in grado di generare sinergie sul fronte acquisti e logistico. E soprattutto mette sul piatto un’organizzazione di vendita efficiente e strutturata. Abbiamo, infatti, una rete di venditori specifica per la Sardegna, mercato per noi importante e che ha caratteristiche peculiari. Una per l’Italia continentale costituita da oltre 100 agenti. E una per i mercati esteri ad hoc per i vini, separata quindi da

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quella per gli spirits ovunque, meno che sui due mercati emergenti: Russia e Cina, ove avere la medesima organizzazione di vendita genera sinergie». Va da sé che per una business unit che ambisce a crescere a un tasso superiore rispetto a quello medio del mercato, l’alta ristorazione sia, e continui a essere, un canale di sbocco prioritario. «Attraverso vini pluripremiati di qualità», afferma Montorfano, «siamo fiduciosi di poter soddisfare le richieste anche dei ristoratori più esigenti. Al di là della sua valenza di fatturato sicuramente importante, l’alta ristorazione italiana rappresenta per noi una vetrina d’indubbio prestigio, attraverso il quale consolidare la credibilità dell’offerta qualitativa delle nostre cantine. La garanzia qualitativa del prodotto e un posizionamento di prezzo coerente sono, a mio avviso, i requisiti fondamentali per poter vendere nell’alta ristorazione. Tutto il resto, e con questo intendo materiali di servizio di livello elevato pur sempre molto graditi, incentivi nelle wineries, food pairing e altre attività speciali, è di mero contorno».



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MASONE MANNU Il gioiello di Amoretti bene. Certo, con la crisi in atto, oggi dobbiamo venire incontro anche alla Solo il meglio del meglio entra a far domanda di convenienza che ci proparte dell’offerta di Amoretti, storico viene da una fetta dei nostri circa 2 food broker emiliano – oggi anche pro- mila clienti. Sui prodotti dal posizionaduttore di vini sardi dalla spiccata ele- mento di prezzo inferiore, però, c’imganza e personalità, a marchio Masone pegniamo a garantire loro una qualità Mannu –, che annovera fra la sua superiore alla media». vasta clientela i più prestigiosi hotel L’attività di verifica e validazione delle 5 stelle italiani e gli chef più quotati. specialità che via via vanno a rinnovare l’offerta dell’azienda – oggi costituita Per mantenere la promessa al cliente da quasi 10 mila articoli – spesso si di una qualità realmente superiore, il consuma nella cornice del ristorante patron dell’azienda, Icilio Amoretti, ha Romanini, locale storico (fu aperto adottato un metodo tanto semplice negli anni Settanta) di Noceto, lungo quanto efficace. «Io stesso», spiega la via Emilia, che Amoretti ha rilevato Amoretti ad Artù, «assaggio, una ad anni fa. «A forza d’assaggiare», racconta una, tutte le specialità che mi vengono scherzoso Amoretti, «ho messo su qualpresentate. E verifico che rispondano che chilo di troppo. E non potendo ai requisiti di bontà e agli standard smettere, dimagrire mi risulta complicato, qualitativi che mi sono dato. Proprio come ripeto sempre al mio dietologo, quello della qualità è, d’altronde, il che omaggio di scatole di cioccolatini. principio su cui ho costruito il successo Non per corromperlo, sia ben chiaro! della mia azienda. Il prezzo di un buon Bensì per indirizzarlo sulla retta via». prodotto m’interessa relativamente nel Che Amoretti sia un gourmand, oltre momento in cui devo soddisfare un che un intenditore, è assodato. Altretcliente esigente e che vuol mangiare tanto certo è il fatto che, da buon di Luisa Contri

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emiliano, provi tutt’ora una particolare passione per i salumi tipici locali, dal culatello al prosciutto crudo, alla coppa, al salame, e per i formaggi, primo fra tutti il parmigiano-reggiano. «Sono prodotti che ho nel cuore», dice Amoretti, «anche perché la nostra azienda nacque negli anni Cinquanta proprio come ingrosso di salumi e formaggi. Ancora oggi me li faccio produrre appositamente o li scelgo uno a uno dai migliori produttori. I prosciutti crudi di Parma, per esempio, li acquisto dal Salumificio Sant’Ilario e hanno una stagionatura di 40 mesi. Per i culatelli mi rifornisco da piccoli artigiani di Soragna, Zibello e Polesine Parmense. I salami invece li compero o dalla F.lli Boschi, o da Cav. Umberto». Con il passare degli anni, su sollecitazione della stessa clientela, Amoretti ha ampliato il ventaglio d’offerta, che oggi copre tutti i momenti di consumo: dalla prima colazione all’aperitivo, dal pranzo al tè del pomeriggio, dalla cena al dopocena. «Con una scelta particolarmente ampia e profonda di prodotti per la prima colazione», sottolinea Amoretti, «siamo in grado di proporci ai migliori hotel. Abbiamo, infatti, tantissime ottime marmellate e confetture, burri di ogni genere e una vasta scelta di tè, compresi gli apprezzatissimi tè tedeschi della Teehaus Ronnefeldt. E poi una vasta scelta d’oli extravergini d’oliva di quasi tutte le zone vocate d’Italia oggi molto importanti nel panorama culinario italiano. E ancora prodotti per aperitivi, specialità sott’olio e sott’aceto, funghi e tartufi, le migliori varietà di caviale e salmone affumicato, paste alimentari, condimenti, ortaggi al naturale, specialità di carne fresca, frutta, champagne e spumanti, vini italiani di qualità, liquori. Insomma, il meglio del meglio che gli chef possano desiderare per la loro cucina». Più nuova, ma non meno intensa, la passione di Amoretti per i vini sardi, che l’hanno conquistato da quando, agli inizi del nuovo millennio, si fece convincere da un’amico d’origine sarda

ad acquisire una tenuta di 60 ettari, dei quali oggi 18 vitati, a Monti, a pochi chilometri da Olbia: Masone Mannu. E a trasformarsi in produttore di vini. «Purtroppo nel 2007 il mio socio è venuto a mancare», ricorda Amoretti. «Rilevare le sue quote nell’azienda agricola è stato un impegno finanziariamente importante, soprattutto in un mercato segnato da consumi in calo, in primis nel segmento in cui mi muovo, il fuori casa, per effetto delle nuove norme del codice della strada. Per fortuna all’estero le cose vanno meglio e i vini italiani sono molto quotati. Ci siamo quindi mossi e da alcuni anni siamo presenti in Svizzera, il nostro mercato estero più importante. Più di recente siamo sbarcati anche in Gran Bretagna, Germania, America e Giappone. E abbiamo messo piede in Russia. Dobbiamo lavorare ancora per incrementare l’export, che oggi riguarda il 25% della nostra produzione di circa 100 mila bottiglie. Quando bevo un bicchiere di un mio vino, dimentico ogni preoccupazione. Il lavoro sulla qualità che abbiamo impostato a Masone Mannu sta dando ottimi risultati. E ci è già valso riconoscimenti più che onorevoli, soprattutto se rapportati alla giovane età della cantina. Non abbiamo ancora raggiunto l’eccellenza dei 3 bicchieri, ma i 2 bicchieri sì e tante altre menzioni». In assoluto il più premiato dei vini di Masone Mannu è, in effetti, il Vermentino di Gallura DOCG Superiore Costarenas. L’annata 2007 è stata indicata come Vermentino dell’anno dalla guida vini 2009 de L’Espresso. Le annate 2008 e 2009 hanno ottenuto i 2 bicchieri della guida Vini d’Italia 2012 del Gambero Rosso e la Gran Menzione al Vinitaly del 2010 e del 2011. Artù n°49

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«Proprio quella di Vermentino è la nostra produzione più importante», sottolinea Roberto Gariup, direttore di Masone Mannu. «Totalizza il 70% delle bottiglie prodotte. Nello specifico Costarenas è un Vermentino Superiore in purezza. È ottenuto dalle uve della vigna vecchia, quella del 1980, impegnativa da lavorare perché sente un po’ gli anni, ma che dà una grande uva. È l’ultima vigna che vendemmiamo, in surmaturazione, e ne ricaviamo un vino più alcolico e più ricco rispetto al nostro Vermentino base, il Petrizza, che esce nella primavera dopo la vendemmia ed è quindi un vino fresco, profumato, elegante e di grande bevibilità. Il Costarenas sta per un anno sulle sue fecce fini ed esce sul mercato l’anno successivo, tanto che potremmo assimilarlo a una riserva, anche se nel Vermentino di Gallura non esiste. Lo definirei un vino molto ricco, strutturato, longevo, con grande mineralità, data dai terreni granitici della tenuta, che si può annoverare fra i grandi bianchi italiani». Va detto che anche il Vermentino di Gallura DOCG Petrizza può vantare un suo premio. Ha ottenuto la Gran Menzione al Vinitaly 2010 con l’annata 2009, grazie alla sua aromaticità spiccata e agli accentuati profumi, risultato del particolare metodo di coltivazione delle vigne a tendone. Il fatto che i grappoli siano riparati dall’irraggiamento diretto del potente sole sardo e anche dal calore del terreno, protetti come sono dalla pergola creata dalle foglie della vite, ne preserva l’aromati-

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cità, che è notoriamente termolabile. Masone Mannu produce però anche pregiati vini rossi. Alcune vigne che si sviluppano a scacchiera nella sughereta di 3 mila piante o fra la macchia mediterranea, ospitano infatti viti di varietà autoctone sarde a bacca rossa: Carignano, Cannonau e Bovale Sardo. «La prerogativa dell’azienda», prosegue Gariup, «è fare vini eleganti, fini, bevibili. Preferiamo l’eleganza all’austerità. Non puntiamo a fare vini che vincano premi: belli, strutturati, ricchi, impegnativi, densi, che però poi sono difficili da bere, tanto che finisci per lasciare la bottiglia a metà. A Masone Mannu abbiamo scelto di fare vini con una loro personalità, ma anche con una buona bevibilità, che invoglino a bere, che non siano troppo impegnativi e concentrati anche come gradazione alcolica. Ci manteniamo insomma normalmente sui 13-13,5 volumi». Tre i rossi di Masone Mannu dalla storia ormai consolidata: il Cannonau Doc, vinificato in acciaio, molto profumato, fresco e fruttato. Particolarmente gradito all’estero, s’abbina alla perfezione col maialetto arrosto, un classico della cucina gallurese, e con tutte le carni. Più impegnativo e strutturato è invece Entu, da un uvaggio CannonauCarignano, affinato in barrique di secondo passaggio per 12 mesi, che esce sul mercato due anni dopo la vendemmia. «È il primo vino rosso prodotto dall’acquisizione della tenuta da parte di Amoretti», sottolinea Gariup. «Per l’azienda oggi è molto importante. Ha un mercato acquisito e si vende bene anche all’estero, in particolare in Germania e Svizzera». La produzione più esclusiva della cantina gallurese resta Mannu (grande in sardo), un vino ottenuto da uve 30% Carignano, 30% Cannonau e 40% Bovale Sardo, maturato per 12 mesi in botti di rovere francese di primo e secondo passaggio. «È il vino top e più esclusivo della nostra cantina», spiega Gariup. «Preziosità che evidenziamo tramite la bottiglia magnum da 1,5 litri. Ha una ‘tiratura’ di 1500 bottigle l’anno. È un vino dal colore rosso rubino scuro, tendente al


viola-nero. Al naso è subito etereo. Si avvertono sentori di viola uniti a note di ciliegia e mora. In bocca è equilibrato, caldo, leggermente tannico. Ha un buon ritorno di frutta e finale di menta selvatica. Servito a una temperatura di 20°C, si abbina alla perfezione a primi piatti importanti, magari con sugo d’agnello, alle carni e ai formaggi a pasta semidura. Ha ottenuto diversi importanti riconoscimenti. L’annata 2003 è entrata nella Top Hundred 2005 dell’Expo dei Sapori. Quelle 2004, 2006 e 2008 hanno invece ottenuto i Super trestelle della Guida oro i vini di Veronelli 2007, 2009 e 2012». Rosso è anche l’ultimo nato di Podere Mannu: Zurria, un Carignano in purezza. «Ha le stesse caratteristiche del Cannonau, quanto a freschezza e gioventù», spiega Gariup. «Ma è ancora più semplice, più elegante, più fine. Esce giovane, nella primavera dopo la vendemmia e, servito un po’ più fresco, è adatto per il pesce, che la fa da padrone nella cucina gallurese. Personalmente lo abbinerei anche con formaggi vaccini a pasta molle, insaccati, prosciutto crudo stagionato e primi piatti impegnativi, non solo di pesce».

Completano l’offerta di Masone Mannu, il rosato Rena Rosa da uve 100% Carignano. Abbastanza impegnativo e di carattere, si abbina sia al pesce (in primis alla frittura di pesce), sia alle carni magre e ai formaggi. E Ammentu, che in sardo significa ricordo. «È un passito moderno», spiega Gariup, «non troppo dolce né troppo pesante, da uve 50% Vermentino e 50% Malvasia surmaturate e lasciate appassire in pianta, ideale con la pasticceria secca e con le crostate». Nell’annata 2005 Ammentu si è meritato la menzione ad honorem della guida Vinibuoni d’Italia 2008 del Touring Club Italiano e in quella 2006 il diploma di gran menzione al Gran Palio Signoria Bentivoglio 2008. «Partendo dalla convinzione che i Artù n°49

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buoni vini si producano in vigna», conclude Gariup, «abbiamo scelto di fare manualmente tutte le lavorazioni, con l’unica eccezione della preparazione del terreno, di avvalerci di una squadra d’operai specializzati fissi e di accontentarci di rese ben al di sotto di quelle previste dai disciplinari. Il clima di cui godiamo, molto secco e ventoso d’estate, ci consente poi di limitare l’impiego della chimica in vigna, tanto che potremmo facilmente ottenere la certificazione per la produzione biologica. Certificazione che comunque abbiamo preferito non chiedere per non incorrere nelle spese e nelle pratiche burocratiche che comporta e per avere le mani liberi casomai annate particolarmente piovose dovessero costringerci a fare qualche trattamento in più. La vinificazione in cantina è molto semplice, tradizionale e rispettosa della materia prima. Cerchiamo insomma di essere il meno invasivi possibile e, anche in cantina, eseguiamo molte lavorazioni a mano». Non meraviglia che il frutto di queste scelte siano vini eleganti e dalla buona bevibilità, capaci di fugare qualche passeggera preoccupazione di Amoretti.

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Mario Gamba la Cucina del Sole abbatte lo spread 56

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di Alberto P. Schieppati Verrebbe da dire: Italia vs. Germania. Almeno in materia di alta cucina il differenziale (lo “spread”) dovrebbe essere a favore dei gusti e della semplicità italiana… Ma, in realtà, è proprio il mercato tedesco a saper valorizzare il talento di questo grande chef, forse più conosciuto in Europa che fra i nostri confini. Mario Gamba, chef patron del ristorante Acquarello, a Monaco di Baviera, rappresenta al meglio la cultura gourmet della migliore italianità, quella che sa farsi apprezzare nel mondo per la freschezza delle materie prime e la genialità delle esecuzioni. Per usare un’espressione inconsueta, è nella “cucina di rigore” che Gamba esprime se stesso e la sua anima italiana, al cento per cento. “Sono un autodidatta!” ama ripetere Mario Gamba ai giornalisti che, con i loro legittimi pruriti di conoscenza, vorrebbero attribuirgli celebri maestri. “I’m an autodidact”: è quasi un ritornello quello di Mario. Laureato in lingue, dopo aver lavorato, giovanissimo, in uno studio di architettura di Bergamo (Mario è nato ad Almenno San Salvatore, nella provincia orobica, l’8 ottobre del 1954) come traduttore, capì quasi subito che il suo futuro non era quello di starsene chiuso in un ufficio per molte ore al giorno. Così decise, contro la volontà dei genitori, di dirottare le sue energie verso quella che un po’ pomposamente viene definita da molti “arte culinaria”. Cominciano così, dopo i vent’anni, le prime esperienze all’estero: Svizzera

Acquarello

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(al Palace di St. Moritz), poi Francia, con Alain Chapel, un’icona indiscussa della grande cucina, Amburgo, Monaco… Nei primi anni Ottanta, Mario lavora per Heinz Winkler, il “brixner superchef” come lo avevamo soprannominato a quei tempi, l’executive chef del mitico Tantris, il tempio gourmet di Monaco, che lo nomina virtualmente il proprio “ministro degli Esteri”, ovvero l’ambasciatore della sua cucina in tutto il mondo. Non a caso è di quel periodo l’apertura del ristorante Tristan, a Puerto Portals (Mallorca), che grazie alla conduzione di Gamba ottiene due stelle Michelin nell’arco di soli tre anni. Dopo avere lavorato al Tantris per quasi un decennio, Mario approda poi da Gualtiero Marchesi, in via Bonvesin de la Riva: “una grande scuola, racconta, fondamentale per scoprire nuovi mondi gustativi e per approfondire le esigenze della clientela”. Seguono anni di consulenze professionali che culminano, nel 1994, con l’apertura del suo primo

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ristorante di proprietà, l’Acquarello, a Monaco di Baviera. Ed è qui che Gamba, forte di una critica che lo ha valutato un vertice assoluto, ha assunto la sua duplice veste di chef e di patron: “Ho sempre creduto nella doppia esperienza di cuoco e di manager, perché ritengo che entrambi i ruoli abbiano una fondamentale importanza per il successo di un’attività di ristorazione - dice Gamba -. È l’impostazione migliore, che ti permette di conoscere funzioni diverse, ma assolutamente complementari”. Nominato “terzo miglior ristorante italiano in Germania” dalla rivista Bunte, ricevuti i 19 punti della guida Gault & Millau nel 1999, ottenuta la prima stella Michelin nel 2000, il ristorante Acquarello è stato definito, sempre da Gault & Millau, uno dei “100 migliori ristoranti al mondo”. I riconoscimenti, ovviamente, sono fondamentali: è dal gradimento della migliore critica gastronomica che derivano soddisfazioni e entusiasmo. Allo stesso tempo è dalla impostazione culturale di Acquarello che nasce e si consolida una passione che, ogni giorno, viene messa alla prova dal mercato: “Tutti cercano i valori al di fuori di sé, ma io ritengo fondamentale guardare spesso dentro se stessi, per capire dove è possibile migliorare, per esprimere performance sempre più rispondenti alle necessità, ai gusti, alle preferenze della mia clientela”. Una ricerca, quella di Mario Gamba, che punta su un triplice credo: rispetto del prodotto, rispetto delle persone, rispetto dell’ambiente”. Temi molto cari all’Europa, che forse – in modo un po’ affrettato - liquida l’Italianità come una espressione di pura genialità, spesso priva di regole. In realtà, Mario Gamba dimostra come possa esistere una “italianità positiva”, capace di uscire da cliché consolidati e spesso troppo generalizzanti. La cucina dell’Acquarello, definita dallo stesso chef la “Cucina del Sole”, predilige materie prime stagionali, che sappiano esprimere la propria grandezza (di gusto e di qualità organolettiche) in virtù della freschezza e della


semplicità. “Il successo di una linea di cucina nasce da qui, da una proposta di piatti semplici, che esprimano qualità per le proprie virtù intrinseche. La qualità non è un fatto elitario, non ha nulla a che fare con le mode: è semplicemente un fatto di cultura”. E di fiducia, ci permettiamo di aggiungere: i 25mila coperti all’anno di Acquarello dimostrano che la clientela del ristorante condivide ed accetta pienamente la grande cucina di Mario, la “Cucina del Sole” capace di esprimere al meglio quella “italianità autentica, non ancora perturbata”, per usare una felice espressione dello

chef, che ha recentemente annunciato l’apertura di un Acquarello 2 a Città del Messico. E non è un caso se i fratelli produttori vitivinicoli Andrea e Cesare Cecchi, che alla italianità di eccellenza hanno dedicato un pregiato volume fotografico (v. Artù n.47), hanno inserito Mario Gamba nei “portraits” del grande fotografo Ferdinando Cioffi, che ha peraltro curato il servizio fotografico di queste pagine. Anche in questo modo, ritraendo lo chef bergamasco con un calice di Coevo, il grande rosso dei fratelli Cecchi, si dà un contributo importante al concetto di italianità nel mondo.

ph. Ferdinando Cioffi ©

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Il grande lavoro

di Lucio Pompili

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di Stefania Zolotti Una cucina di ferro e di fuoco, verrebbe da dire pensando al lavoro di Lucio Pompili. Forgiare vuol dire trasformare pezzi metallici portandoli a temperature elevate, per poi lavorarli e cambiarne definitivamente la forma senza indurli a rottura. Cercando un parallelo ai fornelli, l’immagine somiglia al lavoro di Pompili e alla sua manualità, fatta di gesti antichi e sapori primordiali (ri)creati con quelli che lui chiama i ferri del mestiere. Come descrivere Lucio Pompili, se non come l’uomo che fa il contadino, prima ancora che lo chef del Symposium Quattro Stagioni, aperto nel 1985 a Cartoceto in provincia di Pesaro e Urbino? È la campagna che nutre la cucina, come ama dire, e la sua cucina è perfetta perché autosufficiente. 5000 metri di orto ed un grande repertorio agricolo che trasferisce in un’arte culinaria fatta di più baricentri senza che nulla si sbilanci, tutt’altro. I grani, l’olio, la caccia, le erbe: la spesa è tutto e va fatta nella terra, Sante Marche con la loro biodiversità. La cuArtù n°49

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cina del Symposium somiglia ad una matrioska di sfide, una dentro l’altra, nel nome di un ritorno generoso ed accorato alla natura puntando alla riconoscibilità dei sapori. Un grande lavoro di maieutica in tavola e di alfabetizzazione del palato, insomma. Pompili ricerca le varietà, le cultivar e i grani e per farlo si sporca le mani, ma soprattutto si fida del naso, la parte del corpo più sincera che abbiamo proprio perché atavica, proprio perché è la porta del cervello, proprio perché è il primo senso del bambino appena nato. Ma quali sono questi ferri del mestiere che gli servono da ponte tra passato e modernità ai fornelli? Su tutti, Artù è il nome del portaspiedo che ha da poco creato, complice un fabbro che lavora vicino al Symposium e che ha prestato una manualità esperta alla funzionalità dell’idea. L’intuizione? Spostare l’asse della cottura, mettendo il cibo in verticale su questa sorta di spada e facendo girare l’aria

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tutta intorno. Oppure la giamoniera, anch’essa con copyright e col nome un po’ esperanto, per poggiare il prosciutto senza comprimerlo. Ma la filosofia di Pompili sembra quasi brevettare anche i gesti: ecco allora la scatola per la pasta shakerata (ideata con una delle tre figlie, designer, per rendere il cliente partecipe del piatto) o il biberon a forma di uovo (simbolo fortemente intriso di vita e fertilità) da usare non soltanto nei primi mesi di vita ma fino ai primi anni. Una tecnologia in cucina, quindi, vissuta come tecnica che recupera i sapori per rispondere alla più semplice constatazione: “Noi siamo ciò che mangiamo. Ma sappiamo cosa mangiamo?”. Il menù del Symposium-Quattro Stagioni non può che essere fedele al nome che porta, ispirato alla temporalità degli ingredienti (il nome Symposium, invece, incarna la convivialità desiderata). Con questi presupposti il menu si sviluppa tra carne e pesce, toccando


punte di delizia con la sua proposta di cacciagione dove è davvero capace di trasferire quella ricerca di arcaico (torna l’olfatto) che nell’uomo non si è mai persa. La maestria di Lucio Pompili passa di qui, nobilitando al palato ciò che impunemente si pensa sia soltanto rustico o selvatico e che invece, tra i suoi fornelli, tocca la raffinatezza. Del resto, citando lo chef, “la cacciagione è il più aristocratico dei cibi perché è colto dal cielo”. Tra i primi piatti, il risotto Gran Riserva con sugo in bianco di volatili, i fagottini di anatra col suo fegato, la zuppa di ceci al rosmarino con riso Venere e beccaccino e le pappardelle di patate (uno dei piatti simbolo del Symposium) con sugo di caccia e pecorino di fossa. Forse per architettura del piatto o per colori, i secondi brillano di una valenza ancor più nobile: coturnice farcita alla marchigiana con salsa di corniole e brodino a parte, dorso di lepre al finocchio selvatico con sformato di erbe di campo, lombo di cinghiale con salsa di polenta e frutti rossi, beccaccia

alla Santa Alleanza, petto di fagiano con seme di girasole e carote al miele di tabacco, alzavola-marzaiola alla griglia con il lardo e le erbe aromatiche al forno sotto la creta (le erbe aromatiche, dice Pompili, più soffrono più sono buone), petto d’oca con salsa di fichi d’India e miele di corbezzolo, Artù il portaspiedo in piedi. Ma prima di scegliere dalla carta di uno chef bisogna informarsi o no sullo stile e sui suoi must? È un po’ lo stesso dubbio che ci si pone viaggiando: prima di partire è meglio sapere già cosa visitare o ispirarsi all’intuito e al momento? Primo consiglio: fidarsi di se stessi, sempre. Seconda premura, però: decidere la posta in gioco prima che la ruota inizi a girare. Traduzione: in alcuni ristoranti non si può prescindere dal linguaggio (in questo caso la cacciagione) per comprendere il senso della dialettica in cucina (cioè la caccia di sapori primitivi, quindi puri). Forse mai come al Symposium la mano dello chef merita tanto. Una mano che prima caccia e poi cuoce,

Cartoceto

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cercando sempre la misura tra i due codici. Una mano fredda e ferma che punta alla preda ma che poi accarezza in segno di rispetto. Una mano che accoglie, che spiega, che ride. “La cucina della selvaggina deve essere spontanea e naturale come lei. Una volta si procedeva con frollature prolungate, marinature invasive, salse coprenti e aggressive. Niente di tutto ciò si confà più al gusto moderno. Al Symposium preferisco evitare qualsiasi frollatura perché gli animali appena cacciati sono teneri a puntino e conservano una fragranza inimitabile. Per lo stesso motivo ritengo superflue le marinature, che rischiano di inquinare il bouquet già ricco e dotato di forte personalità. Non rinuncio invece ai fondi, ma li uso con parsimonia, per sfruttare anche le ossa, dando profondità e nerbo a cotture brevi di impronta moderna. Il tocco di fumè sulla selvaggina, poi, è alta raffinatezza”. Chi viene al Symposium non può perdersi la cantina (oltre alla saletta dedicata alla collezione sublime di distillati, Brandy, Armagnac, Calvados, Whisky e grappe) perché in questi casi degustare non basta, in questi casi occorre anche vedere per godere. Chiedere di visitarla è quasi un diritto, oltre che un piacere per il padrone di casa. Migliaia di bottiglie adagiate, a luce soffusa, in una doppia sala dai corridoi ristretti che con un colpo d’occhio ricordano fucili in parata con elegante riserbo. Marche, tante Marche in etichetta, ma anche resto del mondo con una robusta

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presenza di Francia. I suoi piatti sono il lavoro di ossa e di spine, dove la preparazione di piatti con penne e con piume suona quasi anacronistica per le donne di oggi. Ha regole e consigli su tutto ciò che riguardi la sua cacciamania, dall’apparecchiatura (“tovaglia di lino grezzo, posate con manico di corno, candele e centrotavola di muschio e ciclamini di bosco”) alla frollatura, dai brodi (“i volatili sono tutti adatti ma le carcasse e le cosce di gallo o di fagiano danno estratti straordinari”) allo spiedo (“che si tratti di tordi, allodole, marzaiole, alzavole o beccacce, è importante scegliere sempre uccelli giovani dalle carni tenere”). I tavoli del ristorante sono rotondi e distanti tra loro, gli spazi ampi, la discrezione è padrona. Il Quattro stagioni del 1985, oggi si tradurrebbe in “km zero”. La parola Symposium, invece, resta universale nella sua classicità. Ma dimmi un’altra cosa. Ciò che è buono, non pare a te anche bello? (Socrate, dal Simposio di Platone).



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Venezia e La Fenice all’Osteria Da Fiore

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di Alberto P. Schieppati Mara Martin, chef della stellata Osteria Da Fiore, simbolo della autentica, raffinata cucina veneziana, ha realizzato un menù in abbinamento ai vini dedicati da Viticoltori Ponte allo storico teatro, simbolo dell’arte e della cultura veneziana in tutto il mondo. Un progetto che vede l’azienda di Ponte di Piave a fianco della Fondazione Teatro La Fenice per valorizzare concretamente il concetto di venezianità, un valore conosciuto e apprezzato internazionalmente. Dietro all’indimenticabile esperienza gourmet proposta ogni giorno ai suoi clienti da Mara Martin, chef patron, con il marito Maurizio, dell’Osteria Da Fiore, a Venezia, c’è l’anima della città più bella del mondo, con il suo bagaglio di storia, tradizioni, immagine. Non è un caso se Massimo Benetello, direttore generale di Viticoltori Ponte, ha scelto proprio questa location per sottolineare il valore della propria linea di vini a marchio “Teatro La Fenice”. Un Prosecco Millesimato doc e un Rosé Brut Spumante a cui si affiancherà a brevissimo il Pinot Grigio prodotto con la nuovissima Doc Venezia. Bollicine che si sono rese protagoniste di un evento gourmet Artù n°49

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Qui sopra: Mara Martin con Rossella Zamberlan, l’enologo Damiano Canali, Alessandro Ragazzi e Alberto P. Schieppati.

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destinato a rafforzare e riaffermare l’identità territoriale veneziana attraverso il marchio di un’istituzione di caratura internazionale quale è il Gran Teatro La Fenice, sinonimo di prestigio ed eccellenza in tutto il mondo. Per sottolineare questa partnership la grande casa vinicola (con i suoi prodotti di punta destinati all’alta ristorazione) ha scelto un vertice indiscusso dell’offerta di ristorazione veneziana, l’Osteria Da Fiore: così, lo scorso febbraio, Mara Martin, insieme al suo sommelier Stefano Capolla, ha allestito un menù semplice

ma grandioso (nella sua essenzialità di gusti, sapori, colori, presentazioni) che ha confermato il valore della grande cucina di Mara, una stella Michelin, ma anche dell’intero progetto di valorizzazione della migliore venezianità enogastronomica ma anche, soprattutto, culturale ed artistica. “Siamo nel salotto più importante di Venezia - dice Massimo Benetello, amministratore delegato di Viticoltori Ponte - ed essere qui con i nostri vini è per noi motivo di grande orgoglio”. “Con la linea La Fenice produciamo eccellenza per la ristorazione italiana al top di gamma”, gli fa eco Damiano Canali, enologo della cantina, che sottolinea l’attenzione profusa nella selezione delle uve alla base di questa linea di prodotti, “destinati a valorizzare una base spumante che dà vita a vini dal grande bouquet aromatico”. “Prodotti che hanno un legame fortissimo con il territorio veneto, e che sono distribuiti con successo sui mercati internazionali”, aggiunge Rossella Zamberlan, del marketing dell’azienda. Viticoltori Ponte non poteva scegliere un partner più adatto del Teatro La Fenice per evidenziare questo legame attraverso un progetto ambizioso, in grado di valorizzare la gamma alta dei vini prodotti a Ponte di Piave (Tv). È Alessandro Ragazzi, di Licensing Vision srl, che ha seguito l’ideazione e lo sviluppo della strategia di brand extension del marchio Teatro La Fenice: un progetto che vedrà impegnate nel prossimo biennio la Fondazione Teatro La Fenice e la Viticoltori Ponte nel promuovere l’Italian Style nel mondo attra-


Osteria Da Fiore

verso il vino di qualità. Mara Martin, a capo di una brigata di cucina di sei persone, ha saputo esaltare al meglio la tradizione veneziana, realizzando per l’occasione voluta da Ponte, grandi piatti di pesce, come è nella linea di cucina di questo splendido ristorante, un autentico nido di cultura gastronomica veneziana. La granceola con salsa di corallo, abbinata al Prosecco Millesimato La Fenice 2011, si è dimostrato un eccellente “apripista”, seguita dal primo piatto, un grande Risotto Acquarello con scampi di laguna e cardi dell’Isola di Sant’Erasmo, un sapiente e armonico risotto, cotto in diciotto “miracolosi” minuti che hanno contribuito ad un perfetto insieme di gusti e sapori. Per Mara la preparazione del risotto è un’arte, come si legge anche nel bel volume di ricette (“Osteria Da Fiore, ricette del prestigioso ristorante”), curato dal figlio Damiano, che ha ereditato da Mara e Maurizio la grande passione per la cucina e le materie prime veneziane. Diversamente da molti chef, Mara non fa tostare il riso nel soffritto, ma lo aggiunge insieme al primo mestolo di brodo per evitare che si bruci: in questo modo ogni granello riesce ad assorbire il massimo sapore. Perfetto l’abbinamento, in questo caso, con il Rosè di Viticoltori Ponte, la cui freschezza ben si è sposata con l’elegante sapidità degli scampi e con la nettezza dei cardi. Il piatto successivo, una vera chicca, ha confermato la grande inventiva di Mara Martin, innamorata delle tradizioni, ma geniale nel saperle proporre in chiave moderna. Che

dire del Bisato di laguna sull’ara? Grande piatto della tradizione, in cui l’anguilla (bisato) viene cotta sull’ara, ovvero su quel piano di pietra sul quale vengono raffreddate le opere in vetro che escono dalla fornace (a Murano l’arte del vetro è, come ben si sa, attività di grande spessore storico). Un piatto, questo, proposto con la sapiente consapevolezza del valore della semplicità: il sapore dell’anguilla è l’attore principale e grazie al proprio gusto caratterizzato diventa il momento culminante del pasto. L’abbinamento con il Millesimato la Fenice è in questo caso perfetto, anche se il Rosè Spumante ben si sintonizza, con le sue note fruttate, al gusto dell’anguilla, creando un contrasto non prevedibile ma decisamente gradevole. L’esperienza enogourmet di Viticoltori Ponte, come ci conferma Alessandro Ragazzi, è destinata a continuare nel tempo, toccando altre prestigiose location capaci di esprimere al meglio il concetto di “alta venezianità” presente nell’articolato progetto Ponte-La Fenice. Certamente, l’esperienza fatta Da Fiore, con la straordinaria cucina “della semplicità”, espressa in questo tempio di venezianità che è il ristorante di Mara, Maurizio e Damiano Martin, si è rivelata un eccellente esempio di unicità irripetibile. Artù n°49

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Art Baladin di Piozzo, BIRRA di filiera

di Davide Bernieri Creare una filiera sostenibile e 100% italiana per la produzione di birra di qualità e riportare il prodotto in una sua dimensione più agricola, vicina ai campi di orzo e luppolo, frutto di una lavorazione meno impattante sotto il profilo ambientale grazie all'utilizzo di energia rinnovabile e a una maggiore attenzione alla riduzione degli sprechi. Teo Musso con il suo Birrificio Baladin, dopo una lunga sperimentazione ha dato vita a NazionAle, la prima birra 100% italiana, fortemente voluta da Musso per dare un segnale forte al mercato mondiale su come al nostro paese spetti un posto centrale nell'ondata di rinnovamento che sta attraversando la scena brassicola internazionale. Ritornando alle origini. “Finalmente – dichiara Musso – la birra è tornata ad

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essere un prodotto con una stretta connessione con il lavoro agricolo. Io da sei anni stavo portando avanti un percorso di ritorno alla terra: produrre e lavorare materie prime italiane, per me è il massimo e mi rende orgoglioso. Io figlio di contadini, sono riuscito a ricondurre la mia attività nell'alveo di quanto facevano i miei genitori. E non si tratta di un cambiamento da poco visto che interessa radicalmente la propria prospettiva di vita e di lavoro: si sta attenti al clima, ci si trova a pensare come starà l’orzo durante la giornata, magari nelle giornate di gelo si è quasi apprensivi. Per me che da bambino andavo per i campi con i miei famigliari è stato un ritorno alle origini”. Orzo da malto e luppolo 100% italiani Dopo le prime sperimentazioni sulla coltivazione di orzo distico destinato alla produzione di malto nei campi di famiglia a Piozzo nel cuneese, il progetto


di filiera 100% nazionale di Baladin è decollato con la creazione di una filiera in Basilicata, regione scelta per le sue caratteristiche climatiche e per la presenza di una delle due uniche malterie attive in Italia. Dai 10 ettari nel 2007 i campi sono arrivati a 68 nel 2011, ma l'obiettivo è di arrivare a quota 100 ettari, coltivati da agricoltori che fanno parte del personale del birrificio, che oggi ha assunto lo status di società agricola. “Naturalmente – prosegue Musso – all'inizio abbiamo trovato difficoltà a livello di resa e qualità dell'orzo, ma oggi il nostro prodotto della Basilicata ha un profilo qualitativo elevato, in linea con le nostre aspettative. Ulteriore step evolutivo futuro sarà creare una micro malteria interna al birrificio per seguire in prima persona questo processo di lavorazione importantissimo per il risultato finale della birra”. Altro tassello fondamentale nella produzione birraria è il luppolo, che dà l’amaro e gli aromi alla bevanda con la schiuma. Proprio

come nel settore vinicolo, varietà e provenienza dei luppoli sono responsabili di tutte le sfumature al naso e in bocca delle birre artigianali tanto in voga. Una sorta di terroir oggi monopolizzato da luppoli d’importazione provenienti dalle nazioni che hanno una tradizione centenaria di produzione di birra, Germania in testa. La scommessa di Baladin è, invece, la creazione di una coltivazione di luppolo in Italia. “Per quanto riguarda il luppolo – aggiunge Musso – quattro anni fa sono partito con questo progetto in collaborazione con Tecnogranda, un’azienda che si occupa di ricerche agronomiche. Abbiamo messo a punto un campo sperimentale di un ettaro nel quale abbiamo piantato filari di luppolo che ci permettessero di fare analisi sull’adattabilità alla nostra latitudine di tre varietà europee. A distanza di tre anni abbiamo fatto ad agosto il primo raccolto che ci ha permesso di capire come potere avviare una produzione effettiva, non solo le 10 piante per fare homebrewing, ma una filiera che sia sostenibile sotto il profilo delle quantità e di qualità”.

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Rivoluzione birreria con l’Italia protagonista Visti i risultati positivi di questo campo sperimentale con 600 piante a dimora, Baladin punta a realizzare una piantagione a coltura diretta tra i 5 e i 10 ettari, per essere autosufficiente anche sotto questo punto di vista. Ma è tutto l’approccio produttivo ad aver beneficiato di questa “visione” un po’ autarchica di Musso: un grande impianto fotovoltaico rende indipendente il birrificio sotto il profilo energetico, mentre scambiatori di calore permettono di recuperare l’energia termica dei frigoriferi per i fermentatori. Anche le trebbie, sottoprodotto della lavorazione, saranno utilizzate come carburante per alimentare una centrale a biomasse. “Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione culturale – conclude Musso – della quale io mi sento il precursore, ma che ho portato avanti con la nascita di tutto un movimento. La birra è cambiata rispetto al passato, ha un nuovo modo

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di porsi, profumi e gusti che sono molto differenti da come la intendevamo in Italia solo un decennio fa. Sono convinto che i birrai italiani stiano diventando leader a livello mondiale di questo nuovo modo di intendere la birra e che lasceremo un segno anche all’estero, sui mercati più importanti per la birra. Per questo usare materie prime italiane per una birra di qualità, sarà un vantaggio anche a livello di immagine e, di conseguenza, commerciale, per noi che vendiamo in 18 paesi e siamo sempre più spesso sinonimo di qualità. Ora con l’uso delle materie prime italiane abbiamo ancor più l’orgoglio di essere il punto di riferimento di un gusto e di un pensiero nuovi che vogliamo esportare nel mondo”.



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Vila Joya Bottura ammaliante 76

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ogni angolo del mondo con una formula completamente diversa da quella che siamo abituati a conoscere frequentando i diversi congressi e le manifestazioni dedicate al fine dining. Ormai l’appuntamento di Vila Joya, oltre ad essere cronologicamente il primo grande evento dell’anno, nel corso di pochissime stagioni è diventato il festival più sfarzoso e imponente in termini di sforzo organizzativo, di presenze “stellate”, di savoir vivre, al punto da arrivare a invitare, quest’anno, anche alcune star d’oltreoceano, come nel caso della cantante Sheryl Crow che ha presenziato ad alcune cene. Una scommessa vinta in una regione del Portogallo che, nel mese di gennaio, vive in pieno la sua bassa stagione e, grazie anche a questo di Gualtiero Spotti evento, richiama su di sé l’attenzione dei Lo scorso gennaio si è tenuta a Vila media e del mondo dell’alta gastronomia. Joya, in Algarve, l’edizione 2012 del Quella di Vila Joya è una gustosa dieci festival gourmet dedicato alla memoria giorni dai contenuti ricchissimi dove gli di Claudia Jung, l’anima dell’hotel af- ospiti sono coccolati al cento per cento facciato sull’Atlantico prematuramente dalla mattina alla sera, tra pranzi nei riscomparsa alcuni anni fa. storanti della regione, trasferte per una partita a golf, degustazioni pomeridiane Il Tribute to Claudia però ha saputo tra- (e che degustazioni, tra jamon iberico, sformarsi in un vero e proprio International vini bianchi di Borgogna, champagne Gourmet Festival, dai contenuti sempre Mumm e via dicendo) e originali gare di più prestigiosi, ricco di avvenimenti, di kart tra cuochi all’autodromo di Portimao. presenze illustri, di cuochi provenienti da Quest’anno, poi, lo staff ha approntato Artù n°49

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arriva dagli States e dal Canada, oltre alla rappresentanza delle cucine più importanti, in primis quelle italiana e francese. Con la grande novità della Chef’s Table direttamente in cucina, ad esclusivo uso di quattro ospiti privilegiati che hanno potuto osservare da vicino i movimenti dei cuochi e delle brigate prima, durante e dopo il servizio in sala. Ma andiamo per ordine. Dopo una specie di soft opening con l’incontro tra Dieter Koschina, il cuoco di Vila Joya, e Marco Westmaas per la prima giornata del festival, domenica 15 gennaio, si è entrati nel vivo grazie alla tradizionale serata dedicata agli stellati portoghesi. Anche in questo caso una rappresentanza perfino una serie di after parties che, dal- variegata con, tra gli altri, José Avillez l’una di notte, hanno animato il dopo (fresco dell’apertura del nuovo Bel Canto cena in una delle discoteche più in dei a Lisbona), Benoit Sinthon, Hans Neuner, dintorni, in compagnia di artisti affermati Henrique Leis e Vitor Matos. Tutti impegnati quali Rose Royce, il deejay Mousse T, i nel rappresentare la vivacità gastronomica Gibson Brothers. Insomma una festa con- lusitana, che per molti è stata una tinua che, giustamente, lasciava spazio scoperta assoluta. Il giorno dopo è stata al totale relax nella mattinata arrivando la volta del finlandese Hans Valimaki del progressivamente al momento clou della ristorante Chez Dominique di Helsinki. Il cena, con i piatti del cuoco ospite. E mai cuoco, unico bistellato del suo Paese, ha come quest’anno si è avuta una rassegna messo in campo un divertente mix di così completa e originale, capace di me- suggestioni nordiche con sprazzi di cucina scolare la tradizione con l’avanguardia, francofona, puntando molto sull’eccellenza lo stile dei cuochi affermati da qualche dei prodotti e sul lato estetico del piatto. decennio con le novità proposte dagli Perfezione e precisione che hanno colpito emergenti, la cucina “fredda” del Nord nel segno, lasciando un ottimo ricordo Europa con quella cosmopolitana che nei presenti. Ancora un giorno e si è arrivati alla mitica serata di Dieter Koschina. In questa cena il cuoco di casa raccoglie molti dei suoi amici, perlopiù teutonici, che, per l’occasione, arrivano in Portogallo anche solo per cucinare uno dei tredici (!) piatti di un menù maratona adatto a stomaci allenati. Tra gli amici ospiti anche Jonnie Boer, Peter Knogl, Nigel Haworth, Thomas Buhner e il nostro Norbert Niederkofler del Rosa Alpina di San Cassiano. La cena successiva, in compagnia di Joachim Wissler, cuoco tristellato del ristorante tedesco Vendome, è stata una delle meglio riuscite di questa edizione del festival. La sequenza di piatti ha stupito i presenti soprattutto per la soave

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leggerezza e la bontà dei pesci cucinati, dalla triglia ai gamberetti, fino ai carciofi Jerusalem addolciti da una schiuma di latte. Dall’eleganza e dalla raffinatezza di Wissler si è poi passati alla cucina naturale, per non dire cruda, dello svedese Magnus Nillson arrivato a Vila Joya dopo un viaggio epocale, e passando da diversi aeroporti, direttamente da Faviken, nel nord della Scandinavia. Inutile dire che si è trattato della serata più stupefacente dell’intero festival, spiazzante per i contenuti e la cucina fatta di sangue, licheni, cuore, midollo, bacche artiche (lingonberries) e corteccia di pino. Tra la sbalordita curiosità dei presenti, che hanno anche avuto modo di assaggiare e celebrare l’ottimo incontro tra Ostriche e Percebes, due prestigiosi prodotti del mare curiosamente riscaldati dalla brace posizionata nel fondo del piatto ed esaltati dalla costruzione estetica vagamente esotica, grazie al contorno di foglie prese in prestito dal giardino di Vila Joya, che davano un grandioso tocco esotico al piatto. Mercoledì 18 gennaio è stato il turno di Shaun Hergatt, il cuoco bistellato dello Sho di New York, che ha dato in realtà solo un assaggio delle sue grandi potenzialità. Nel menù, molto equilibrato tra carne e pesce (ma i piatti di carne sono risultati vincenti su quelli di pesce) ha voluto ammaliare gli ospiti presenti con qualche piacevole escursione d’avanguardia e presentando piatti dall’impronta fusion che hanno saputo guardare in molte direzioni. L’antipasto di barbabietola ha aperto le danze e ci ha accompagnato verso un uovo a 64 gradi con tartufo, al delizioso incrocio di sapori di lime, basilico e mela del pre-dolce, e all’evocativo (e quasi Dacostiano) rocce e funghi che ha chiuso la cena. La serata successiva è invece

stata la più controversa dell’intero festival, con l’ospite, il francese Alain Passard, che ha proposto un viaggio nella sua cucina naturale, fatta di verdure, di prodotti dell’orto. Che però non è riuscito ad esaltare pienamente, decidendo, forse anche, di muoversi su una serie di preparazioni troppo semplici ed essenziali. Perfino poco equilibrate al palato se si pensa alle pere cotte nell’ibisco e servite con un gelato alla vaniglia, o alla rana pescatrice condizionata dalla presenza ingombrante dell’olio di geranio. La serata, in compenso, ha visto ergersi a protagonista assoluto il vino, con l’ottima selezione di champagne proposta da Mumm, che ha messo in primo piano la cuvee R.Lalou 1998 (in magnum) e il Mumm de Cremant (blanc de blanc). Venerdì 20 gennaio si è presentato il flemmatico Laurent Gras,

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con l’ottima versione fredda (e decisamente metropolitana) della bouillabaisse, arricchita dal wasabi, e il delizioso e colorato piatto di cappesante con miso, crescione e il riuscito contrasto con il tartufo nero. Due piatti in un menù che, ancora una volta, ha saputo definire perfettamente le grandi differenze che ci sono tra la cucina del Vecchio Continente e quella mentalmente più aperta e a 360 gradi, del continente americano. Anche quando a metterla in pratica sono cuochi, come Laurent Gras, dal background chiaramente francese. I fuochi di artificio e alcune delle esperienze più belle dell’intero festival sono arrivate nei giorni conclusivi. Prima con la trasferta in Alentejo nella tenuta Malhadinha (produttori di olio e vino di ottima qualità) per un pranzo rustico preparato da April Bloomfield, la cuoca stellata dello Spotted Pig di New York. Dopo giorni di caviale, scallops, tartufo e piatti da gourmet non è parso vero ai presenti di poter gustare una cucina di pancia, dai sapori incisivi, con uno spettacolare piedino di maiale accompagnato da lenticchie e erbe, il polpo con finocchio e bottarga e, a chiudere il cerchio, la deliziosa torta di mandarini con pistacchi e crema all’acqua di rose. Un pranzo talmente brillante che ha rischiato di oscurare in qualche modo la cena preparata dal canadese Normand Laprise a Vila Joya, di ritorno da Malhadinha. Certo, di fronte ai ricci di mare con caviale e ostrica e alle pennellate del piatto roquefort e meringa (realizzato in cucina dalla brigata in preda a un isterismo pollockiano, tra sgocciolamenti e lanci di crema in ogni direzione…), la cena è risultata più che riuscita e ha

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evidenziato perfettamente il lato ironico e trasgressivo della cucina di Laprise. Infine la vetta dell’intero festival. L’ultimo giorno, last but not least, in compagnia di Massimo Bottura, che ha ammaliato i presenti con un viaggio attraverso la storia più recente dell’Osteria Francescana di Modena. Con l’immancabile compressione di pasta e fagioli, l’omaggio del baccalà a metà strada tra Portogallo e Mare Mediterraneo, la grandiosa granita siciliana (e i sapori dell’isola magnificamente riuniti), il ricco magnum di foie gras e il piatto Italia, realizzato lo scorso anno per le celebrazioni del 150 anni dell’Unità: un’altra geniale e riuscita unificazione di prodotti dal nord al sud in perfetto equilibrio. Geniale e unico, anche nell’idea di raccontare e raccontarsi agli ospiti di Vila Joya, Massimo Bottura ha rappresentato se stesso, l’Italia e la sua terra, l’Emilia Romagna, in un colpo solo, accompagnato come sempre dal suo aceto balsamico tradizionale che ha lasciato in dono al cuoco di casa Dieter Koschina. Il quale, dal canto suo, ha dispensato, alla fine di dieci giorni intensissimi, l’invito a tornare presto nel paradiso in terra di Vila Joya. Conoscendo bene lo stile dell’ambizioso staff del resort, e in primis quello del dinamico direttore Gebhard Schachermayer che ogni anno cerca il meglio sulla piazza per approntare una manifestazione indimenticabile, siamo sicuri che anche nel 2013 l’International Gourmet Festival saprà brillare di luce propria nel panorama degli eventi gourmet di maggior prestigio.



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Gourmet Festival conferma per

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di Rocco Lettieri Lo scorso febbraio, com’è ormai nella tradizione da ben 19 anni, si è svolta nell’ineguagliabile atmosfera invernale dell’Engadina, la settimana della grande kermesse gourmettara. Gli italiani presenti, Gerhard Wieser di Tirol e i fratelli Cerea di Brusaporto (in tutto 5 stelle Michelin), hanno tenuto alta la nostra immagine. I cuochi ospiti di questa edizione, provenienti da tutta Europa, da soli, totalizzano un punteggio complessivo di 18 stelle Michelin e ben 108 punti Gault&Millau. Insieme agli chef degli alberghi e dei ristoranti più belli di St. Moritz, hanno trasformato l’Alta Engadina in una vera “mecca” per gli amanti dei piaceri del palato. Oltre ai soliti grandi e famosi e storici hotel partecipanti della cittadina di St. Moritz: Kempinski Grand Hotel Des Bains, Badrutt’s Palace Hotel, Carlton Hotel, Hotel Schweizerhof e il Suvretta House c’erano, a Pontresina, il Grand Hotel Kronenhof, e, a Sils-Maria, l’Hotel Waldhaus. Ma quest’anno si è avuto un nuovo entrato, l’Hotel Giardino Mountain a St. Moritz-Champfér, che si è aggiunto come partner a coronamento della cerchia dei già famosi partecipanti al Festival. Oltre a questi prestigiosi locali, la manifestazione ha coinvolto altre quattro entusiasmante location: il Romantik Hotel Muottas Muragl, la “Cava” dell’Hotel Steffani, la baita di caccia dell’Hotel Bellavista, a Silvaplana-Surlej, e il Mathis Food Affairs sul Corviglia. Molte le offerte della “Scelta di piaceri” che proviamo ad elencare per un quadro generale della prestigiosa manifestazione. Inizio con il “Welcome Cocktail Party” di lunedì 30 gennaio, una prima occasione per conoscere di persona i cuochi affermati di livello internazionale e chiacchierare con loro

degustando i primi assaggi della loro cucina in diverse “isole” di prelibatezze. A questo si sono aggiunte le tre serate con i “Gourmet Dînner”, cene di 5 portate, un’occasione per tutti quelli che desideravano imparare l’arte culinaria del mondo in tutta comodità. Altro appuntamento fisso è stato il “Funky Kitchen Party” del 1° febbraio nella cucina del Badrutt’s Palace Hotel, dove gli ospiti hanno potuto vedere e dialogare con tutti i cuochi d’eccellenza del Festival, mentre con grembiule e posate, si assaggiavano, tra padelle sfrigolanti e pentole fumanti, il meglio dell’offerta, con musica dal vivo e con Champagne, vini o nobili distillati. Questa esperienza culinaria fuori dal comune, ha portato in giro con il “Safari del gourmet”, diversi gruppetti di intenditori in tour alla scoperta dei “Big Five”: un viaggio, portata dopo portata, attraverso la cucina e la tavola degli chef degli Hotel del Festival di St. Moritz. Entusiasmante anche l’incontro “Illustre conversazione culinaria” che si è tenuto presso l’Hotel Schweizerhof, con il cuoco tedesco Otto Koch, in quale ha raccontato le sue storielle tra gustosi stuzzichini preparati per gli ospiti. Altro momento di incontro è stato il “Diner table d’hotel Grand Siecle par Laurent-Perrier, Toursur-Marne” durante la cena “Fascination Champagne” presso il Suvretta House, tutto improntato intorno ai migliori Champagne della casa Laurent-Perrier e con uno chef tedesco premiato con 3 stelle Michelin: Christian Bau. Gli ospiti dell’Hotel Waldhaus di Sils-Maria si sono sentiti vicino al paradiso in occasione della degustazione “Vino: semplicemente paradisiaco”, con l’esperto Jan Martel (Weinhandlung Martel, St. Gallen) che ha presentato e fatto degustare vini di calibro internazionale a lume di candela. A conclusione della degustazione è stato servito un menu Artù n°49

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I cuochi ospiti del St. Moritz Gourmet Festival 2012 La selezione e l’invito dei cuochi ospiti è toccata anche questa volta allo chef d’eccellenza Reto Mathis, co-fondatore del Festival e Presidente della Commissione eventi. Sono stati convocati dieci cuochi stellati che con la loro arte culinaria sanno suscitare un grande entusiasmo a livello internazionale. Dalla Danimarca: Ronny Emborg, 1 stella Michelin; “Restaurant Aoc&co”, Copenhagen, www.restaurantaoc.dk e 2 Stelle Michelin con il Ristorante Ecco al Giardino di Ascona. Ospite di Markus Rose, Hotel Giardino Mountain*****, Champfér-St.Moritz, www.giardino-mountain.ch Ronny Emborg Il danese Ronny Emborg può essere descritto come stella nascente su Sky gourmet d’Europa nel vero senso della parola. Il suo modo non convenzionale di mettere in scena la cucina molecolare e la cucina tradizionale danese, gli è valso sulla Guida Michelin il riconoscimento di una stella in un solo anno. Il suo locale si trova in una cantina del 17° secolo, con soffitto a volta, nel cuore di Copenhagen e si colloca tra gli indirizzi più trendy della città. Il suo dichiarato scopo è quello di sperimentare il piacere di mangiare con tutti i sensi e con un amore spassionato per la sperimentazione. Dalla Germania: Christian Bau, 3 stelle Michelin, 19 punti Gault&Millau, Chef of the Year 2005 e 2011; “Victor’s Gourmet Restaurant Schloss Berg”, Perl-Nennig/Mosel, www.victors-gourmet.de - Ospite di Bernd Ackermann, Suvretta House***** Superior, St. Moritz, www.suvrettahouse.ch Christian Bau Con il suo carisma Christian Bau sta fissando nuovi standard del Victor Gourmet Restaurant Schloss Berg, in una posizione romantica in Perl-Nennig sulla Mosella. Il menu ha ingredienti e componenti di stagione - carne, pesce, verdure e erbe - che Christian Bau uti-

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lizza per creare la sua personalissima offerta di piatti. L’idea culinaria gli viene dal Giappone e si basa sul principio della sua abilità. Tuttavia per il tedesco Cristian Bau “…con la perfezione apparentemente senza sforzo, si creano piatti che hanno un gioco meravigliosamente equilibrato di aromi e le texture e gli accenti sono sorprendenti quando danno quel qualcosa di speciale…”. Un buon motivo sufficiente per Christian Bau per essere stato scelto come “Chef più creativo della Germania” nel 2000. A seguito di ulteriori molti premi, è stato nominato “Chef of the Year” nel 2005 e 2011. Sempre dalla Germania: Otto Koch, 1 stella Michelin, 17 punti Gault&Millau; “Restaurant 181”, Monaco, www.otto-koch-essklasse.de - Ospite di Michel Dome, Hotel Schweizerhof**** Superior, St. Moritz, www.schweizerhofstmoritz.ch Otto Koch Otto Koch non è semplicemente uno chef. Egli è piuttosto un creativo a tutto tondo, un talento culinario straordinario che gli valse il riconoscimento a firma dall’ex presidente tedesco Walter Scheel. Dopo aver avuto esperienze professionali in diversi ristoranti, 1 stella Michelin ha coronato, da sempre, la sua cucina da quando ha aperto il suo ristorante a Monaco di Baviera nel 1974. Negli ultimi 12 anni Otto Koch è stato in televisione ogni Venerdì alle 12.15 con una presentazione dal vivo di una ricetta sul programma popolare ‘ARD-Buffet’. Oltre a questo, ha creato l’“Ecole Culinaire” e come cuoco è sempre rimasto fedele a Monaco di Baviera. Gli ospiti possono godere dei risultati delle sue abilità culinarie presso il “Restaurant 181” nella città all’Olympic Tower. Dalla Francia: Régis Marcon, 3 stelle Michelin, 19 punti Gault&Millau, 3 toque blanche; “Restaurant Regis et Jacques Marcon”, Saint-Bonnet-leFroid, www.regismarcon.fr - Ospite di

di 3 portate della cucina del Waldhaus insieme ad altre squisite specialità come dessert finale. Nelle splendide sale del Kempinski Grand Hotel des Bains, diretto da Rupert Simoner e mirabilmente “comunicato” da Betina Welter, la pr manager del Grand Hotel, ad attendere gli ospiti del Festival e i professionisti della scena culinaria c’era “The Tasting”, con vini da tutto il mondo abbinati a specialità gourmet (in primis il salmone Laachs) in collaborazione con Caratello Weine. Da ricordare che l’executive chef del Kempinski, Mattias Roock, è a capo di una brigata di professionisti del calibro di Mattias Schmidberger, lo chef del ristorante Ca’ d’Oro che ha meritato la prestigiosa Stella Michelin (dal 2011): e proprio il ristorante Ca’ d’Oro è stato il teatro della grande performance di Gerhard Wieser, lo chef altoatesino che ha tenuto banco con due menu di notevole e raffinata


impronta gourmet durante il Festival (vedi più avanti nell’articolo). Per ultima manifestazione, ma non meno importante, la Confiserie Sprüngli ha rinnovato la tradizione di lasciarsi dolcemente sedurre con il “Chocolate Cult” presso il Badrutt’s Palace Hotel. Con il motto “Cantina & Cucina” al Romantik Hotel Muottas Muragl è stata presentata “La dolce vita” con l’esperto di vini Ueli Schiess (Caratello Weine di St. Gallen). Per la serie “Deliziosi incontri di selvaggina” alla baita di caccia dell’Hotel Bellavista a Silvaplana-Surlej sono state servite specialità di selvaggina della propria riserva di caccia e deliziose specialità tipiche locali. E sulla soleggiata montagna di Corviglia, il cuoco d’eccellenza nonché presidente del Festival, Reto Mathis, ogni mezzogiorno ha deliziato i palati di quelli incuranti del freddo, con i “Saveurs de La Montagne”. Ancora le “Degustazioni a la carte” di Gebhard Hammerle Fine Spirits e del Maestro del formaggio Maitre Antony presso la tradizionale “Cava” dell’Hotel Steffani. Antony ormai è diventato una leggenda vivente e durante il Festival ha presentato, come sempre, di persona agli ospiti, con il suo affascinante savoir fair alsaziano, le sue delizie di formaggio con vini d’eccellenza in occasione del “Wine & Cheese”.

Mauro Taufer, Badrutt’s Palace Hotel***** Superior, St. Moritz, www.badruttspalace.com Régis Marcon L’arte della cucina è tutta maestrìa e Régis Marcon è un maestro. Da sua madre ha scoperto questa chiave per la felicità nei suoi anni d’infanzia. Dopo aver ricevuto le 3 stelle Michelin e l’ambito Bocuse d’Or, Régis Marcon ha sicuramente un posto nel pantheon internazionale degli chef stellati. Il suo ristorante si trova su una collina pittoresca nella sua città natale di SaintBonnet-le-Froid (Haute-Loire). La base della sua cucina sono i prodotti locali e le carni provenienti da animali allevati nella regione. Per Marcon il cibo è un’innovazione culinaria meravigliosamente indulgente che proviene dai boschi e dai pascoli dell’Auvergne: erbe, agnelli della fattoria del vicino altopiano, lenticchie verdi di Le Puy, i formaggi della regione dell’Ardèche e soprattutto funghi porcini che sono serviti come spugnole con castagne caramellate. Il suo brodo di funghi matsutake si dice che sia una delle più sorprendenti esperienze gastronomiche che per intensità e aroma è letteralmente indimenticabile. Ancora dalla Francia, Philippe Mille, 1 stella Michelin, Meilleur Ouvrier de France; Restaurant “Les Crayeres”; Reims/Marne, www.lescrayeres.com Ospite di Hans Nussbaumer, Kulm Hotel***** Superior, www.kulmhotel-stmoritz.ch Philippe Mille Nel 2011, Philippe Mille è stato nominato “Meilleur Ouvrier de France” (miglior artigiano di Francia), la più alta onorificenza del governo francese. Inoltre, nello stesso anno ha ricevuto i due premi del “Grand Chef Relais & Château” e 1 stella Michelin per la sua eccezionale bravura in cucina. Durante il suo apprendistato, Philippe Mille è stato con diversi maestri cucinieri

tra cui Louis Grondard, Frédéric Anton, Michel Roth e Yannick Alleno, insieme al quale ha vinto la medaglia di bronzo al Bocuse d’Or. La sua descrizione personale del suo stile di allegra cucina corrisponde alla sua filosofia di vita: “... gioia, generosità, delizie, ricordi d’infanzia, il rispetto per i prodotti e le stagioni, in altre parole…una ingegnosa cucina orientata sull’essenziale!” Dalla Svizzera: Marcus G. Lindner, 2 stelle Michelin, 18 punti Gault&Millau, 3 toque blanche; “Restaurant Mesa”, Zurigo, www.mesa-restaurant.ch - Ospite di Bernd Schutzelhofer, Grand Hotel Kronenhof***** Superior, www.kronenhof.com Marcus G. Lindner Le sue composizioni sono sinfonie vere per tutti i sensi e si staccano semplicemente a causa della loro ingegnosità. “Solo chi capisce veramente il suo mestiere, come si fa e lavora con una precisione che non conosce paragoni, può pretendere di cucinare in questo modo” è il plauso che gli viene riconosciuto dai critici gastronomici. Con 2 stelle Michelin, 18 Punti Gault&Millau e 3 toques, Marcus G. Lindner, è lo chef de cuisine che a Zurigo, con il suo ristorante Mesa, è considerato il miglior cuoco in una città riconosciuta in ogni caso per avere la più grande diversità culinaria in tutta la Svizzera. Nato in Austria, Marcus G. Lindner ha una passione sfrenata per la combinazione di aromi e ingredienti tra loro molto diversi. Marcus G. Lindner e il suo team sono precisi, non solo al minuto, ma fino al secondo durante la preparazione dei loro piatti altamente creativi e fatti alla perfezione. Quindi non sorprende che nella sua vita voleva fare l’orologiaio. Ancora dalla Svizzera: Tanja Grandits, 1 stella Michelin, 17 punti Gault&Millau, Chef of the Year 2006; “Restaurant Stucki”, Basilea, www.stuckibasel.ch - Ospite di Kurt Roosli, Hotel

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dal mondo

Waldhaus*****, www.waldhaus-sils.ch Tania Grandits Tanja Grandits ha una grande ispirazione per comporre un’armonia di contrasti, frutto della sua passione, dove possono convivere cumino con loup de mer su crema di mais che viene servito con salsa di pompelmo e filetto di luccioperca su letto di vaniglia con curcuma. Mangiare con tutti i sensi è la sua ispirazione. I suoi piatti forniscono un senso di benessere per la mente, per il corpo e per l’anima. Nata nel sud della Germania, questa grande e piccola chef, ha talento da vendere. Ha iniziato la sua carriera studiando chimica universitaria prima di passare alla formazione di chef al “Traube Tonbach” a Baiersbronn. Ha poi continuato con altri locali quali “Claridge” di Londra e lo “Château de Montcaud” nel sud della Francia. Qui ha incontrato il suo futuro marito, René Graf. Nel 2006 Tanja è stata nominata “Chef of the Year” da Gault&Millau. Dal 2008 lei e suo marito sono a capo del leggendario ‘Stucki’ a Basilea. Dall’Italia, Gerhard Wieser, 2 stelle Michelin, 18 punti Gault&Millau, 3 toque blanche; “Hotel Castel” a Tirolo di Merano (BZ), www.hotel-castel.com - Ospite di Mattias Roock, Kempinski Grand Hotel des Bains***** Superior, St. Moritz, www.kempinski-stmoritz.ch Gerhard Wieser “Less is more”. Semplice è meglio è la formula che Gerhard Wieser usa per descrivere lo stile “alpino-mediterraneo” della sua cucina. Gerhard Wieser ti porta in un indimenticabile viaggio culinario attraverso le regioni del sud e delle Alpi del Tirolo e in Italia, in un tutto senza confini, aprendosi anche alla Spagna e alla Francia. Dice di aver scoperto l’amore per la semplicità del gusto e per la sperimentazione culinaria guardando la madre al lavoro in cucina sin da bambino. Dopo aver acquisito esperienza

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professionale lavorando con maestri quali Harald Wohlfahrt e Dieter Müller, ha voluto tornare nel suo nativo Sud Tirolo. La sua sosta preferita l’ha trovata presso il Trenkerstube, ristorante gourmet, nel lussuoso hotel Castel di Tirolo, nei pressi di Merano. La splendida location del Kempinski, con la sontuosa e raffinata sala del Ca’ d’Oro, ha aggiunto valore alla splendida esibizione culinaria del bistellato Gerhard Wieser. Sempre dall’Italia: Enrico & Roberto Cerea, 3 stelle Michelin; “Ristorante da Vittorio”, Brusaporto (BG), www.davittorio.com - Ospiti di Salvatore Frequente, Carlton Hotel***** Superior, St. Moritz, www.carlton-stmoritz.ch Enrico e Roberto Cerea La loro arte di cucinare è indiscussa. Premiati con tre stelle Michelin, Enrico e Roberto Cerea del “Da Vittorio” di Brusaporto, nelle vicinanze di Bergamo, è uno dei migliori indirizzi attuali di alta cucina italiana. Il ristorante (prima in Bergamo), ora è situato in una tenuta di campagna da sogno. Ha alle spalle una lunga tradizione stellare a conduzione familiare. A loro due (e non solo, in sala c’è anche Francesco) la passione per la cucina è stata trasmessa dal padre, Vittorio. Dopo aver perfezionato la loro arte con i migliori chef del mondo, tra cui Heinz Winkler in Aschau, Sirio Maccioni a New York, Georges Blanc in Vonnas, Ferran Adrià al leggendario ‘El Bulli’ e dai famosi fratelli Troisgros di Roanne, ora lavorano con il team della famiglia e hanno sviluppato il loro stesso stile distintivo di cucina. Il loro filo conduttore: “La nostra cucina si basa sul fresco, prodotti di alta qualità, preparati in un modo tradizionale e comunque utilizziamo anche tecniche della nuova generazione”. Quello che entrambi hanno in comune è la loro incontenibile passione per esplorare il mondo della gastronomia. Tra le specialità i loro “appetizer”, il pesce più fresco d’Italia e la loro esclusiva pasticceria.

La brillante conclusione del Festival è stata celebrata con il “Great Valser Gourmet Finale” presso il Mathis Food Affairs a 2.486 m s.l.m. Qui, nel corso della serata, tutti i cuochi d’eccellenza hanno creato insieme uno straordinario menu di più portate. Una portata per ciascun chef stellato, personalizzata e allo stesso tempo in perfetta sintonia con le altre. Questa la sequenza del menu: Langustinen Zimtblüten Curry, Karottenpickles, Passionsfrucht (Tanja Grandits & Kurt Röösli); Corn-cooked and puffed with cheese emulsion (Ronny Emborg & Markus Rose); SchneeEier gefüllt mit Kaviar auf kalter Hummersauce (Otto Koch & Michel Dome); Pulpo, Jakobsmuschel, Limette, Chorizo & Basilikum (Marcus G. Lindner & Bernd Schützelhofer); Langoustinos Tatar in Milchhaut, Ossetra Kaviar, Avocado, Südtiroler Apfel (Gerhard Wieser & Mattias Roock); Céleri et truffes comme un risotto (Philippe Mille & Hans Nussbaumer); White cod con spuma di barbabietola e dattero al limone (Enrico e Roberto Cerea & Salvatore Frequente); Couçi-couça d’agneau au praliné de cèpes (Régis Marcon & Mauro Taufer); Interpretation vom Tiramisù (Christian Bau & Bernd Ackermann). Questo piacere unico ed esclusivo, servito a ben 220 persone, è stato accompagnato da flûtes di Cham-

pagne, a fiumi, Laurent-Perrier Brut e vini bianchi e rossi: Jésera di Venica & Venica 2010; Châteauneuf-du-Pape Blanc Domaine du Vieux Télégraphe 2010, Gevrey-Chambertin, in magnum, Domaine Trapet 2009 e Barolo Ciabot Berton, in magnum, 2007 di Oberto, nonché musica dal vivo con il duo “Jessy Howe & G-Sax”. A chiudere il tutto e sino alle 02,00 di notte (con una temperatura esterna di – 31°C) i cioccolatini della Sprüngli di Zurigo, i digestivi della casa Hämmerle, la Wodka Beluga offerta dalla Silverbogen e i sigari della Davidoff Group. Un 19° St. Moritz Gourmet Festival, che come è stato più volte ricordato, è stato reso possibile grazie al grande impegno dei numerosi partner del Festival. E chissà con che cosa ci allieteranno con la 20esima edizione.



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Attenti al BRAND Come comunicare valore di Davide Deponti Per valorizzare al meglio la propria attività di ristorazione, è necessario anche creare un’insegna che sia un marchio rappresentativo della propria identità. L’opinione di Lino Stoppani, presidente Fipe, sulla delicata questione. Per sapere che viviamo in un’epoca fatta di comunicazione basta pensare alla pubblicità che riempie le nostre vite quotidiane in ogni ambito, anche quelli più privati o ludici. Insomma, il vecchio adagio secondo il quale “la pubblicità è l’anima del commercio” è sempre più valido in una società nella quale se non sei visibile non ci sei. Senza allora volere scomodare grandi filosofi o teorie complicate che spiegano i motivi di questa potente invasione del marketing su ogni nostra attività giornaliera, prendiamo solo una significativa frase del sociologo e studioso Erich Fromm, secondo il quale “la maggior parte della pubblicità non fa tanto appello alla ragione quanto all’emozione”. E, poiché la ristorazione è un’attività che per colpire il proprio pubblico di riferimento deve sempre far capire ai po-

tenziali clienti che potranno vivere un’esperienza (culinaria) da ricordare, ecco che non si può certo prendere sotto gamba il lato comunicativo della propria impresa. Soprattutto oggi, in un momento di crisi finanziaria, ma nel quale almeno i dati relativi alla frequentazione dei locali fuori casa in Italia non vede una contrazione, anzi. Il fatturato del settore, secondo i dati di una recente ricerca dell’osservatorio Crest di Npd Group, nell’ultimo anno è cresciuto dello 0,7%. E non è tutto: se andiamo a osservare la percentuale di ripartizione delle visite tra locali indipendenti e catene, vedremo che il dato è sbilanciato a favore dei ristoranti autonomi nell’ordine del 75% al 25% circa. Tutto questo per dire che nonostante tutto il mercato tira e la competizione non manca: puntare sulla pubblicità e sulla comunicazione in questo contesto è sempre un buon affare. L’importanza della qualità “Il consumatore italiano è diverso da tutti gli altri e molto, molto attento quando si parla di ristorazione. Comunicare nel modo giusto è difficile e non basta avere un brand di catena per convincerlo a spendere”. In queste parole di un grande esperto del settore come Lino Enrico Stoppani, presidente di Fipe – Federazione Italiana Pubblici Esercizi, troviamo la conferma a questa tesi e un importante passo avanti. La comunicazione del proprio lavoro inizia dal brand e la prima visuale che un

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cliente può avere di questo marchio non è altro che l’insegna del ristorante. Elemento spesso sottovalutato a favore di altri aspetti di marketing ritenuti più importanti, l’insegna è invece fondamentale immagine che attira il pubblico sia per la sua parte di artisticità che colpisce l’occhio del passante, sia come parte integrante di un insieme di comunicazione che deve essere in toto all’insegna della qualità. Non per nulla, secondo una ricerca condotta proprio da Fipe nel recente passato, ben un cliente su quattro spiega di essere colpito dall’insegna nel momento della scelta di un locale (ovviamente nel caso si tratti di un luogo non abitualmente frequentato). “La qualità del brand equivale in assoluto alla qualità

del locale? Certo – spiega ancora il presidente Stoppani – i valori prevalenti in un progetto ristorativo devono essere altri, come la cucina e il servizio, ma la qualità deve essere sempre al centro di ogni sfumatura di quel progetto. E a maggior ragione di quelle che rientrano nella sfera della comunicazione e della pubblicità. Abbiamo scoperto infatti negli ultimi anni come siano molto cresciute la cultura e l’educazione per il cibo nel nostro paese e che quindi bisogna sempre ricordare di avere davanti a sé un pubblico competente e capace di capire il livello di quello che consuma. Ciò non toglie però che creare un marchio che esprime al meglio marketing e qualità del servizio insieme, resta un dovere per ogni ristoratore”.


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Idee e spese Non è sbagliato perciò, né presuntuoso, parlare anche per le imprese ristorative di brand reputation e di importanza del marchio e di conseguenza dell’insegna. Chi sta “fuori” infatti, per capire cosa troverà “dentro”, si fa una prima idea anche attraverso l’osservazione dell’insegna, della vetrina, del menu con i prezzi e di tutto quanto fa comunicazione in tempo reale. Fondamentale è allora sviluppare un progetto di comunicazione comprendente anche l’insegna che possa arrivare a colpire nel modo giusto il giudizio dei clienti, spiegando loro quale servizio hanno la possibilità di utilizzare. Per questo motivo è importante sottolineare i propri punti di forza e sottolineare quali sono quegli elementi che contraddistinguono, ad esempio quel determinato ristorante, da tutti gli altri ristoratori presenti nelle vicinanze. Tutto ciò, senza scordare di dare un’occhiata al portafogli naturalmente. Si, perché in quel paese delle tasse che è l’Italia, anche mettere un’insegna può costare. Se infatti, secondo la legge una “insegna di esercizio” viene definita come “la scritta in caratteri alfanumerici completata eventualmente da simboli o da marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura

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installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa” (Nota n. 11159/2007 del Ministero delle Finanze), essa, per essere installata, deve sottostare al pagamento di un canone. Anche se non in tutti i casi. Sono per fortuna esenti dal pagamento dell’imposta comunale sulla pubblicità quelle insegne di esercizio che si estendono su una superficie inferiore a 5 metri quadrati. Bisogna sottolineare però che la superficie di un’insegna è calcolata in base alla minima figura piana geometrica (ad esempio: un rettangolo) nella quale è circoscritto l’intero mezzo pubblicitario, indipendentemente dal numero di messaggi in esso contenuti. La superficie complessiva è quindi riferita a tutta l’installazione, comprensiva delle cornici. Ad esempio, un cartello di 6 metri quadrati contenente un’insegna estesa su 2 metri quadrati è comunque soggetto ad imposta per 6 metri. Bisogna allora fare un buon progetto anche in questo senso per poter dare al proprio ristorante la giusta impronta comunicativa, ma senza esagerare, per evitare di arrivare ad esclamare – con le parole del celebre umorista Marcello Marchesi – che “la pubblicità è il commercio dell’anima”.



libri

Gualtiero Marchesi, Ramsay e 10 DONNE chef

Titolo: Il pranzo della domenica Autore: Gordon Ramsay Editore: Guido Tommasi Editore Anno: 2012 Pagine: 256 Prezzo: 29,90 €

Titolo: Gualtiero Marchesi e la grande cucina italiana Autore: Giovanni Leone Editore: Comune di Milano Anno: 2010 Prezzo: 39,00 €

Titolo: Monocultivar Olive Oil Autore: Gino Celletti Editore: The Pool Anno: 2011 Pagine: 440 Prezzo: non indicato

Titolo: Le Torri della cucina Autore: Martino Ragusa Editore: Trentaeditore Anno: 2012 Pagine: 78 Prezzo: 24,00 €

I suggerimenti di Ramsay Gordon Ramsay, il tristellato chef inglese famoso nel mondo per le sue straordinarie capacità (anche istrioniche oltre che culinarie) è uno chef che sa decisamente il fatto suo, come ben sa chi ha sperimentato le sue cucine (a Chelsea, al Claridge’s, al Petrùs del Berkeley Hotel o al Savoy Grill…) o segue le sue popolari trasmissioni in tv. Questo volume ha l’obiettivo dichiarato di “rilanciare” il pranzo della domenica, che negli ultimi tempi sembra essere caduto nell’oblio grazie al cambiamento di molte abitudini sociali e familiari. Nel libro (250 pagine molto ben illustrate) si trovano 25 menu, ognuno di 3 portate: antipasto o primo, piatto principale e dessert. Gordon offre suggerimenti per ogni passaggio, dalla scelta degli ingredienti fino al coordinamento della cottura dei vari piatti, in modo che arrivino in tavola al momento giustop. Completano il tutto una preziosa tabella di marcia per regolarsi con i tempi di preparazione e cottura, ricette alternative, consigli pratici e una serie di trucchi “da chef navigato”, da tenere bene a mente.

Il guru della nuova cucina Gualtiero Marchesi è nato a Milano il 19 marzo 1930. Insieme a lui e a tanti chef affermati e celebri, spesso suoi ex discepoli, festeggiammo il suo ottantesimo compleanno alla Scala, due anni fa: sembrava un ragazzino, con lo sguardo attento e vivace ed il pensiero sempre pronto a volare verso la battuta migliore. Figlio di albergatori, aprì il suo ristorante, in via Bonvesin de la Riva, quando aveva quarantasette anni, dopo quindici anni di esperienze e frequentazioni con i più grandi cuochi di Francia. Si deve a Gualtiero, uomo di alta cultura musicale ed artistica, sposato con la sua insegnante di musica, Antonietta, il grande merito di avere saputo innovare la cucina italiana, restituendo valore ed immagine a quella che, fino a quarant’anni fa, era ritenuta solo una semplicissima cucina delle mamme (o delle nonne). Questo volume, sul quale arriviamo tardivamente (essendo uscito più di un anno fa) è estremamente attuale, perché ripercorre – grazie all’impegno di un archittetto che ha messo in “mostra” l’opera di Gualtiero – il percorso di un grande, a cui tutti dobbiamo moltissimo.

La guida ai migliori olii L’olio perfetto secondo Gino Celletti, cultore di olio extravergine di oliva e professionista della ristorazione. Il volume raccoglie, con approccio monografico ma anche criotico e, in alcuni casi, polemico verso la “cultura oleicola ufficiale”, informazioni accurate su 1.628 varietà di cultivar di tutto il mondo. L’intento di Celletti (attualmente gestisce i Frantoi Celletti e il Ristorante Blu, a Milano, sul Naviglio Pavese) è quello di mettere il consumatore nelle condizioni migliori per distinguere gli oli di qualità e di eccellenza da quelli “non consigliabili”. Gli studi scientifici di Celletti lo hanno portato ad essere uno dei maggiori esperti internazionali, capace di indagare con competenza ogni aspetto dell’ “olio delle olive”, come ama chiamare il prodotto, tanto da dirigere le più importanti competizioni internazionali di analisi sensoriale o da rifiutarne altre, quando non ritenute da lui affidabili. Indispensabile averlo nella propria biblioteca, per evitare di fare “magre” figure, nel momento della ascelta dell’olio, al ristorante e a casa.

Le donne chef secondo Pellegrino Rieccolo, Martino Ragusa: giornalista e storico della cucina (e della ristorazione), ha egregiamente curato questo volume, dedicato al grande evento gastronomico che si svolge ogni anno a Marsala, presso le Cantine Pellegrino. Protagoniste del volume, alla sua ottava edizione, le dieci grandi chef che hanno allietato, con passione, impegno e professionalità, le serate gourmet della scorsa edizione del Cooking Festival. Vera Caffini, Patrizia Di Benedetto, Rosanna Marziale, Fabrizia Meroi, Agata Parisella, Valeria Piccini, Mariuccia Roggero Ferrero, Viviana Varese, Reiko Yanagi hanno dato vita a speciali menù in equilibrio perfetto fra tradizioni regionali, esperienze differenti, approcci culinari originali con un minimo comune denominatore: essere declinati completamente “al femminile”. Il volume è un omaggio alle donne in cucina, ma è anche un segno di riconoscimento del lavoro svolto da Cantine Pellegrino per valorizzare la grande cucina italiana. Un progetto fortemente voluto dalla famiglia Alagna, proprietaria dell’azienda, e concretizzato grazie anche all’infaticabile impegno del management delle Cantine Pellegrino (Emilio Ridolfi in testa).

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Villetta di Palazzolo al top, l’Officina veronese e altri OSTERIA DELLA VILLETTA Via Marconi 104 25036 Palazzolo sull’Oglio (Bs) 030 7401899 www.osteriadellavilletta.it

“Nell’era globale conta sempre più il particolare”, dice Maurizio Rossi, patron della Villetta (a Palazzolo sull’Oglio, fra Brescia e Bergamo), rivolgendosi a un cliente seduto ad un tavolo della sua rustica, autentica “Osteria”. Un luogo storico, questo, che aprì i battenti centododici anni fa, nel 1900 (ma i nonni di Maurizio erano già osti consolidati dal 1878): per certi versi, nonostante il secolo e più, l’Osteria della Villetta è rimasta uguale, identica, fedele a se stessa. In realtà, c’è stata una evoluzione lenta, continua e progressiva che ha portato questa trattoria “vera” ad essere una delle mete più ambite del mangiare e bere bene. La rivista internazionale Monocle, diretta da Tyler Brule, ha inserito nel numero di febbraio scorso l’Osteria della famiglia Rossi all’interno dello “Charming Index”, una sezione che segnala luoghi, persone e situazioni che esprimono charme a 360 gradi: un grande onore per Maurizio e Grazia, ma anche per il piccolo Jacopo, dodicenne, che comincia ad apprezzare gusti, profumi e sapori di una delle migliori cucine italiane. “Gli ingredienti della Villetta sono tutti veramente ingredienti locali”, sussurra orgoglioso Maurizio a un tavolo di gourmet stranieri che, Michelin alla mano, hanno raggiunto comodamente (l’uscita dell’autostrada Milano-Venezia è a 3 chilometri) “l’antica osteria vicina alla stazione”, come recita la guida rossa che premia il locale con una (sola!) forchettina. Siamo alla quarta generazione di comando della cucina: un repertorio semplice, ma di gusto superlativo, fa di questi piatti apparentemente normali dei piatti molto ricercati, innanzitutto perché quasi nessuno è più in grado di interpretarli correttamente e di utilizzare le materie prime giuste. Assaggio, per cominciare, un persico

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del lago d’Iseo, che esprime equilibrio di gusto e sapidità intrigante. Poi mi lascio sedurre dalla lasagna (vista su un tavolo vicino, occupato da un manager che si occupa di posizionare una marca di pomodori pelati sui mercati esteri e che, di passaggio dalla Franciacorta, non ha rinunciato ai piaceri del palato). “La” lasagna, avrebbe detto Gino Veronelli assaggiando questo piatto perfetto, in cui la pasta sottile si accompagna ad un ragù di pancia di manzo, mantecato con fonduta di grana padano 30 mesi (prodotto a Chiari, nella bassa bresciana, dal Caseificio San Giovanni): una meraviglia. Poi, insaziabile, ordino quel mirabolante “tris” (mi si passi il termine anni Settanta), composto da guancialepolpetta-involtino di verza. Un piatto ottimo, storico per la Villetta, in cui la verza scottata, il ripieno di coppa di maiale fresca, la lonza, il porro, il formaggio e le spezie si uniscono per soddisfare e placare le ansie gustative dei viandanti gourmet. In carta (anzi, in lavagna) si legge anche: stoccafisso in umido, lingua di vitello con giardiniera, orzo con verdure, frattaglie di vitello, pesce di lago, manzo all’olio, bolliti misti (cotechino-testina-lingua-guanciale). La torta di mele, in chiusura, ha i sapori dimenticati della qualità degli ingredienti. All’uscita, vi verrà presentato un conto commovente, sotto i 35 euro per un’esperienza memorabile, resa ancor più interessante dalla portentosa presenza del meglio di Franciacorta e resto d’Italia. Veniteci e fermatevi, nessuno vi caccerà neppure a locale ormai vuoto. “Ce la prendiamo comoda, dice Maurizio, perché vogliamo durare a lungo”! (APS)

INARCA Via Inarca 16 22030 Proserpio (Co) 031 620424 www.inarcaweb.com

Possiamo ben dire che il concetto di onestà (sempre meno di moda nel nostro paese) sia degnamente rappresentato in questo locale di collina, sopra Erba, tra Como e Lecco. Qui vige la cultura della “filiera corta”, almeno per quanto riguarda ortaggi, verdure, salumi e carni di maiale: anche il granturco, macinato a mano, per la polenta arriva dai campi circostanti. È una rarità che nella Brianza industrializzata, tutta capannoni e fabbrichette, si possa trovare un luogo simile, che fa della qualità della materia prima il proprio credo. Il merito è di Pier Colombo, cinquantaquattrenne, che da oltre trent’anni “insegna” ai clienti la cultura del chilometro zero, tardivamente scoperta e decantata da critici improvvisati quanto modaioli.

Qui la filiera corta e tracciabile è un dato di fatto consolidato ed il successo che il luogo riscuote ne è la conferma. Ai fornelli c’è Manuel, un genio della cucina, esperienze e stage presso grandi stellati (dagli Alajmo ai Cerea) che gli hanno dato l’impronta. I “fondamentali”, in effetti, ci sono tutti: lo si nota dai piatti proposti, come la testina di vitello con cipolla rossa (8 euro), il fagottino di sfoglia ripieno di ostriche con salsa di formaggio di malga (non storcano il naso i puristi: l’accostamento è validissimo), le pappardelle fresche con ragù di cinghiale, i ravioli ripieni di ragù con salsa al pecorino, la spalla di agnello brianzolo ripiena di cime di rapa, il guanciale di vitello su letto di patate di Albese, la pancetta fresca di maiale fritta con puntarelle e acciughe, i formaggi di propria produzione, il bigné di parmigiano, il crottino stagionato del lago di Como. Notevole la ricerca sui vini (oltre 450 etichette), ricaricate a prezzi più che equi. Il conto finale non supera i 40 euro a testa per un pasto completo alla carta, ma c’è un menù degustazione di 6 portate (com-

LEGENDA Cervello incoronato = Memorabile, mitico, ineccepibile per qualità, coerenza, serietà dell’offerta Tre corone = Linea di cucina eccellente e geniale, ambiente e atmosfera all’altezza delle aspettative Due corone = Ottimo per qualità dell’offerta e per caratterizzazione dei menù Una corona = Cucina corretta e affidabile Corona nera = C’è ancora molto da fare Tre cervelli = Il massimo della ragionevolezza Due cervelli = Molto ragionevole Un cervello = Abbastanza ragionevole Cervello nero = Scarsamente ragionevole



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Editore: Edifis S.p.A. Viale Coni Zugna, 71 - 20144 Milano tel 02 3451230, fax 023451231 info@edifis.it - www.edifis.it

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Direttore editoriale: Alberto P. Schieppati alberto.schieppati@edifis.it Direttore responsabile: Andrea Aiello Redazione: Elisa Facchetti artu@edifis.it

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Collaboratori: Sara Alberti, Fiorenza Auriemma, Davide Bernieri, Luisa Contri, Davide Deponti, Beppe Francese, Angelo Gaja, Elio Ghisalberti, Isa Grassano, Marta Lai, Rocco Lettieri, Giuseppe Martelli, Gianni Mercatali, Claudio Francesco Merlo, Aldo Nenzi, Anna Pesenti, Alessandra Piubello, Carlo Ravanello, Celeste Riccoboni, Roger Sesto, Gualtiero Spotti, Theo Smith, Piero Valdiserra, Gianni Ventura, Claudio Zeni, Stefania Zolotti _______________________________________________________________________________________________________

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Foto: Agenzia G. Zotta, Agf Bernardinatti, Marco Bargnesi, Carlo Baroni, Ferdinando Cioffi, M. Comuzzi, Christian Cristoforetti, Michele Crosera, Foto Savorelli, Ronny Kiaulehn, KLR foto, Romano Magrone, Carlo Roberti _______________________________________________________________________________________________________

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Artù n°49

presi i salumi eccellenti dell’azienda agri- anatra su glassa di aceto balsamico, incola Inarca e il dolce a sorpresa) per 35 salata di carciofi su scaglie di grana paeuro! (APS) dano, risotto mantecato alla barbabietola con fonduta di gorgonzola, riso pilaf integrale con petto d’anatra e salsa al brasato, ALBERGO CANZO Piazza Garibaldi 2 trancio di sampietro con salsa di prosecco 22035 Canzo (Co) e zafferano, filetto di manzo cotto nell’aceto 031 670572 balsamico. Piatti con un pizzico di creatività www.albergocanzo.it ma con prezzi molto aderenti al non facile momento di mercato: a pranzo, due piatti dal menù del giorno a 15 euro, al giovedì sera menù degustazione Giorgio Ponzoni, chef tuttofare (nel senso di 3 portate con vini in abbinamento al che da executive chef si è “allargato” alla calice per ogni piatto a 28 euro, alla pasticceria con rimarchevoli risultati), non carta spesa media che si aggira intorno delude i clienti di questa caffetteria-bar- ai 40-45 euro per un ricco menù di ristorante con camere, nel centro di Canzo, quattro portate. Un’esperienza connotata mirabilmente condotta dal patron Gianni da una notevole attenzione per gli ingreRatti, che sa coniugare proposte di qualità dienti e da una cura dei dettagli che è sia prezzi contenuti e, appunto, ragionevoli. curamente destinata a migliorare ulteriorL’abilità di Ponzoni (nel dolce e nel salato) mente nel tempo grazie alla professionalità si rivela chiaramente nelle proposte di e alla passione della gestione. (PF) finger food e appetizer per il rito dell’aperitivo, curato da Gianni (esperto sommelier OFFICINA DEI SAPORI e cultore di grandi etichette, presenti nel- L’ARTE DEL GUSTO l’enoteca-cantina al piano sottostante). Via G.B. Moschini 26 Da quando Giorgio segue la linea di 37100 Verona cucina, Canzo ha finalmente un approdo 045 913877 sicuro: specialista nella ricerca di materie www.officinasapori.com prime, con la supervisione di Gianni Ratti, lo chef ha creato menù innovativi, destinati a soddisfare quella parte di clientela in cerca di creatività e un po’ insofferente Nel cuore di Verona, sicuramente già inverso certe tradizioni gastronomiche locali flazionata di ristoranti di livello, un altro (che il più delle volte significano polenta indirizzo da tenere comunque presente. e/o salame, in svariate declinazioni). Una squadra di giovani vi accoglie in Così, in menù si trovano piatti inconsueti questo locale dall’impronta innovativa, per la zona: scaloppa di foie gras di connotata da un’attenzione alle forme e al design. La cucina dei due giovani chef è molto raffinata e punta sul pesce di mare, freschissimo, proposto anche crudo: ho ottimi ricordi dal piccolo fritto di benvenuto con triglie, polpo, julienne di calamaro e gamberi. Ottime le tartare di tonno: da provare il piatto unico, proposto a 18 euro, ovvero il guazzetto di pesci di scoglio con patate di Cologna Veneta (omaggio alla produzione locale di qualità) al vapore: rana pescatrice, calamaro, polpetti, scorfano, cozze e gamberoni. L’Officina dei sapori ci è sembrata una dimostrazione concreta di come la cucina di pesce sappia anche esprimersi in modo creativo e non pedissequo. Bravi.




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