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Artù n°53 - Novembre - Dicembre 2012
Gusto ⦁ Tendenze ⦁ Mercati
Il Bacalao secondo Mollica e Quintela: gusto memorabile Nuove “locande”: le Quattro Ciacole, una storia da leggere Oltre la fusion, a Milano è vincente l’esempio di Wicuisine Dal mondo del vino: nuovi prodotti e strategie per la ripresa Grand Hotel Europe di San Pietroburgo: puro lusso russo
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EDITORIALE n°53
edi tori al STROLGHINO
Il made in Italy? Tutti ne parlano, molti lo esaltano, pochi ancora si accorgono delle sue vere potenzialità, almeno fra le mura domestiche di questo strano Paese, piegato dalla crisi e dalla necessità di sopravvivere alla bufera in atto. Per andare avanti bisogna inventarsi qualcosa di nuovo, questo è fuori discussione e lo dicono (quasi) tutti. Perciò mi viene da dire, pensando alla creatività italica, che è ormai inevitabile applicare il “modello Strolghino” ad ogni nostra attività: produttiva, commerciale, persino comunicazionale. Ovvero, è necessario riuscire a creare qualcosa di co-
munque unico e accettabile (e in linea con le aspettative del mercato), attraverso il “recupero” delle rimanenze di “altre” realtà più importanti, pregiate, costose. Nel caso dello Strolghino, come è ben noto, si tratta di reinventare un prodotto partendo dagli “scarti” (ma preferirei chiamarli in altro modo, per esempio nobili ritagli) di sua maestà il Culatello. Un esempio concreto di questo “recupero e reinvenzione” da parte dell’industria alimentare? I dati parlano chiaro: nel 2011, lo Strolghino è cresciuto (in volumi di vendita) del 230%, nonostante crisi e quant’altro. D’altronde, sul modello “Strol-
rimane impressa nella memoria e nell’immaginario non ha prezzo). Ma il consumatore “normale” (milioni di persone) non vuole rinunciare a qualità né a gusto: per poterselo permettere, desidera proposte ragionevoli, coerenti, compatibili con un concetto di price for value che si è prefigurato nella propria mente. Si tratta di capire un meccanismo delicato che nasce da un desiderio contraddittorio: da un lato nessuno vuole svilirsi e abbassarsi, dall’altro nessuno vuole spendere ciò che non ha (più). Una risposta a questa esigenza può arrivare solo da una ritaratura dei valori commerciali assegnati ai beni di consumo e alle esperienze edonistiche (come una cena al ristorante o la scelta di un vino): pur sapendo che l’eccellenza costa (e spesso ha un valore smisurato), è fondamentale ricreare nuovi “standard valoriali” legati a qualità e gradevolezza, immagine e stile. Attributi che non devono sentirsi mortificati dalla “fissazione” di prezzi equi, commisurati all’esperienza fatta. Ormai da decenni predichiamo la necessità di ridurre i margini di profitto (che vengono poi, peraltro, risucchiati dalla fiscalità) su certi generi: penso per esempio al vino che, nonostante la grande evoluzione del comparto, spesso viene proposto a sta creando oggetti – contrassegnati da prezzi ritenuti dal produttore “obbligati”, una linea denominata “Petit H” - di alta ma non comprensibili dal consumatore, gradevolezza, che vadano a rimpolpare il che li ritiene appunto smisurati. A maggior business di famiglia. In un certo senso, ragione questo meccanismo è sbagliato ci piacerebbe che il modello Strolghino se il nome della cantina non mobilita si estendesse sempre più e diventasse alcun coinvolgimento emotivo e l’etichetta un modo nuovo di comportarsi, di lavorare, non è minimamente evocativa (di un prodi esprimersi. Cercare di dare il meglio duttore, di un territorio, di un blasone). possibile, ma a prezzi più accessibili di Non è facile capire la qualità se non è quelli che il mercato imponeva in tempi sorretta anche da un forte impegno in “ante crisi”: purtroppo, non si è ancora comunicazione del valore percepito e percompresa a fondo la dinamica del cam- cepibile del prodotto. Sempre secondo il biamento e in molti continuano a preten- “modello Strolghino”, s’intende… dere cifre senza senso per esperienze Alberto P. Schieppati non memorabili (perché l’esperienza che ghino” (che mi piacerebbe brevettare, almeno per quanto riguarda le sue estensioni ad altri settori!) stanno convergendo anche i nomi più altisonanti della moda e del lusso internazionali. Pascal Mussard, il guru di Hermès (la più potente, inimitabile griffe del fashion e del lifestyle di altissima gamma), ha deciso di riciclare i resti di lavorazione della pelle (e di altri materiali) in modi alternativi, bizzarri, diversi dalle linee di prodotto più blasonate. Anche per Hermès, il lusso può essere reinvenzione e, come il macellaio sapiente sa utilizzare i resti delle lavorazioni della carne, così la casa di moda francese
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In copertina: primo piano del Bacalao di Giraldo, importato dalla Spagna in Italia da Longino & Cardenal.Durante un evento gourmet al Four Seasons di Firenze, lo chef Vito Mollica – insieme a Andoni Arrieta Quintela, chef emergente basco- è stato protagonista di una cena indimenticabile, tutta a base di baccalà.
Info people Gualtiero Marchesi, laurea magistrale di Alberto P. Schieppati Evviva la carne inglese. Parola di Pickard di Alberto P. Schieppati Info people&brand Nuove cariche nel settore, in continuo movimento Champagne, Musetto, Krug, Amarone, Cabochon, Tramin... Info brand Terre del Barolo, dai Cru al Progetto Qualità di Elisa Facchetti Enrico Martellozzo: Prosecco, Brunello e cultura di Theo Smith Rhex nuovo interprete di ospitalità di Elisa Facchetti Nasce Alpe Regis, il top di Rotari WineAmore, il touch che fa la differenza di Elisa Facchetti Focus food Bacalao Giraldo al Four Seasons Firenze di Alberto P. Schieppati Chef a domicilio. Due storie vincenti di Stefania Zolotti Protagonisti wine Bosio, la Franciacorta identitaria di Alberto P. Schieppati Protagonisti food Il genio di Berton rivive da Pisacco di Fiorenza Auriemma Oltre la fusion. L’esempio di Wicky di Fiorenza Auriemma Format food Milano breakfast in drogheria di Fiorenza Auriemma Locanda Quattro Ciacole, crocevia del gusto di Alessandra Piubello Tendenze Evviva l’Osteria. Un tuffo nella memoria di Emilio Magni Accueil Campagna toscana. Un resort a misura d’uomo di Gualtiero Spotti Grand Hotel Europe. Luogo non comune di Gualtiero Spotti Locali Il calamaro ripieno del Quirinale di Claudio Zeni Equipment Menu, evitare le banalità di Davide Deponti Secondo Artù Indirizzi ragionevoli che accontentano il mercato Artù n°53
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Gualtiero Marchesi Laurea magistrale quarant’anni fa, era ritenuta solo una semplicissima cucina delle mamme (o delle nonne): buona, gustosa, sapida, genuina forse, ma non certo statutaria, emblematica, creativa, geniale, talvolta azzardata. Fino ad allora cucina italiana voleva innanzitutto dire tradizione (termine tanto generico quanto fascinoso, in un paese che vive di passatismi); da Marchesi in poi la cucina italiana diventa grande e moderna. Meglio, contemporanea. Come? Valorizzare la cucina italiana significa, per il Maestro, partire dalla materia prima per arrivare fino alla sua preparazione e presentazione, dando la giusta importanza ai gusti degli ingredienti ma anche ai contrasti e alle possibilità, ovvero alla ricerca di nuove espressioni, di strade inedite, di ricerca costante sulle materie prime e sul loro utilizzo sano e intelligente. Per esprimere concretamente il concetto di SEMPLICITÀ, il vero punto di arrivo. Gualtiero Marchesi, ai tempi delle stelle Michelin, era molto apprezzato dalla critica ma scarsamente compreso dalla sua città, la Milano sempre frettolosa e distratta, la Milano di Alberto P. Schieppati del “pago e pretendo”, la Milano alla riLo scorso 10 ottobre, all’Università cerca di sapidità e prezzo (basso) piutdi Parma, è stata conferita a Gualtiero tosto che del temibile “riso, oro e zaffeMarchesi, rettore di Alma, la laurea rano” (uno dei piatti di Marchesi che honoris causa in Scienze gastronomi- hanno fatto epoca, insieme al raviolo che. Nel corso di una cerimonia tanto aperto, al dripping di pesce, alla minestra suggestiva quanto emozionante, il d’estate). Oggi, dopo anni di luoghi coMaestro ha tenuto una lectio docto- muni, il grande Maestro arriva alla ralis, initiolata “La mia via”, nella Laurea Magistrale Honoris Causa in quale ha raccontato la storia di una Scienze gastronomiche. Non è un punto esistenza votata al genio e alla rea- di arrivo, ma di ri-partenza. Bravo Guallizzazione di un equilibrio armonico, tiero, grande Maestro! non solo in materia culinaria. Figlio di albergatori, apre il suo ristorante, in via Bonvesin de la Riva, quando aveva quarantasette anni, dopo quindici anni di esperienze e frequentazioni con i più grandi cuochi di Francia, quelli che avrebbero dato vita alla tanto decantata quanto vituperata nouvelle cuisine. Si deve a Gualtiero Marchesi, uomo di alta cultura musicale ed artistica, sposato con la sua insegnante di musica, Antonietta, il grande merito di avere saputo innovare la cucina italiana, restituendo valore ed immagine a quella che, fino a
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Evviva la carne inglese Parola di Pickard Eblex, l’ente inglese che promuove le carni rosse in Europa, ha presentato a Milano un progetto di ricerca Doxa, che ha fatto chiarezza sul consumo di carni bovine in Italia e, in particolare, sulla percezione del prodotto inglese presso il pubblico dei consumatori italiani. Ne è emerso un quadro positivo, avvalorato dall’intervento di Robert Pickard, eminente nutrizionista inglese, che ha evidenziato l’importanza della carne nell’alimentazione moderna. Evviva la carne rossa! Evviva la carne inglese! Il consumatore la teme sempre meno e, compatibilmente al rispetto di dieta e salute, ne è sempre più fedele consumatore… In queste poche parole, apparentemente trionfalistiche ma in realtà molto fedeli alla verità, si racchiude la percezione della carne bovina presso il consumatore italiano. Parola di Doxa, che in una indagine sul consumo di carne (in generale) e di carne inglese (in particolare), presentata a Milano, “gode di elevata considerazione in quanto alimento gustoso, versatile, oltre che attivatore simbolico ed emozionale”. Dalle parole di Jeff Martin, poi, che rappresenta Eblex nel nostro paese, sono emerse considerazioni positive per quanto riguarda l’importazione di carni inglesi in Italia, ritenuto uno dei mercati più interessanti per il prodotto, utilizzato soprattutto nella ristorazione d’eccellenza (ormai proverbiale la presenza degli chef Carlo Cracco e Andrea Berton come testimonial di agnello gallese e manzo inglese). Dopo l’intervento di Eblex e i saluti del Console Generale
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Britannico, Vic Annels (a capo anche di UK Trade&Investement), è stata la volta di Elisabetta Genta (responsabile consulenza Marini srl) e di Francois Tomei (direttore di Assocarni) con interventi mirati ed esplicativi delle tendenze in atto. Ma è stato l’intervento del professor Robert Pickard, docente emerito di neurobiologia presso la Cardiff University e consulente scientifico di vari Ministeri britannici, a catturare la platea del convegno in virtù di una difesa d’ufficio (assai ragionata e munita dei necessari crismi scientifici) della carne bovina. “I prodotti a carne rossa bovina – ha detto in sintesi il professore – fanno parte, insieme al latte, del gruppo di alimenti più ricchi per gli esseri umani, storicamente onnivori. Le persone anziane, in particolare, traggono beneficio dai prodotti a base di carne rossa grazie alla elevata presenza di micronutrienti che ne facilitano l’assorbimento, compensando carenze sintetiche nel sistema metabolico”. Dunque, dal mondo accademico arriva un segnale positivo e incoraggiante, capace – se seguito e applicato – di rappresentare una svolta significativa nella percezione (spesso ansiosa e colpevolizzante) del consumo di carne rossa. In chiusura, è stato dato un altro contributo alla valorizzazione delle carni inglesi, ma stavolta è arrivato da un grande chef. Andrea Berton, dopo un breve intervento sulla costanza qualitativa delle carni bovine, ha offerto dimostrazione pratica della versatilità e dell’Eblex Taste cucinando gustosi e succulenti manicaretti creativi. Tutti, ovviamente, a base di English Beef. (APS)
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Nuove cariche nel settore, in continuo movimento A Venezia torna Gusto in Scena È un appuntamento imprescindibile e anche per Artù rappresenta sempre una notizia di grande rilievo. Curata e ideata dal giornalista Marcello Coronini, la manifestazione Gusto in Scena si caratterizza ogni anno per un tema trattato, o meglio protagonista è un ingrediente della cucina a cui, grazie alla creatività e agli “escamotage” ideati da grandi chef, si può rinunciare guadagnandoci anche in salute. Il leitmotiv “Cucinare con...Cucinare senza...” quest'anno sarà completato dall'ingrediente più dolce in assoluto: lo zucchero. La Scuola Grande di San Giovanni Evangelista di Venezia – risale al 1261 –, sarà ancora una volta la location d'eccezione che ospiterà dal 17 al 19 marzo 2013 tre eventi in parallelo: Chef in concerto – Il congresso di alta cucina, i Magnifici Vini di Mare, Montagna, Pianura e Collina e Seduzioni di Gola. Novità della quinta edizione l'importante ruolo dei vini proposti da alcune cantine dei I Mignifici Vini abbinati ai piatti degustati a Chef in Concerto. Seduzioni di Gola presenterà come sempre una selezione di numerose specialità gastronomiche italiane ed europee, a cura di Lucia e Marcello Coronini, una ri-
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cerca basata su prodotti di qualità e sulla valorizzazione del territorio.
Carla Latini miglior imprenditrice 2012
prodotta. Il colore, il profumo ed il sapore del grano duro si conservano nella pasta artigianale di qualità e la rendono unica protagonista della tavola. In questi anni Carla Latini ha incontrato ed è diventata amica di tanti cuochi, di opinion leader e gourmet in ogni parte del mondo. Rapporti importanti che sono serviti e servono per veicolare, insieme alla pasta, altri prodotti artigianali italiani di grande qualità, dei quali si è fatta sempre paladina". Imprenditrice, Carla Latini gestisce dal 1997 il sito www.carlalatini.it, uno spazio dove racconta in modo ironico e divertente il mondo dell'enogastronia.
Diageo Italia, nuovo ruolo per Carlos Parra Carla Latini È Carla Latini la miglior imprenditrice 2012 a cui è andato il prestigioso Trofeo Galvanina. Durante la XII° edizione del Festival della Cucina Italiana, a Pergola (PU), il museo dei bronzi dorati ha fatto da cornice alla cerimonia di premiazione, coinvolgendo il meglio dell'enogastronomia italiana. Carla Latini, in tal senso, ha rappresentato e continua a rappresentare nel mondo, l'ambasciatrice della vera pasta artigianale italiana di qualità, la Pasta Latini appunto, prodotta con gli antichi grani duri come il Senatore Cappelli e il Taganrog. E che le ha permesso di coltivare preziose collaborazioni e amicizie con il mondo della ristorazione di qualità – chef, cuochi, gourmet e opinionisti gastronomici –. Questa la motivazione del riconsocimento: "Carla Latini ha sposato con entusiasmo e passione la sua mission ed il suo compito è stato ed è tuttora quello di raccontare che la pasta non è solo acqua e farina, ma che è importante conoscere e apprezzare la qualità della materia prima, il grano duro, con cui viene
Cambiamenti in vista per Diageo Italia, la società che fa capo a Diageo, prima azienda a livello mondiale nel settore delle bevande alcoliche che opera in 180 mercati con oltre 20.000 collaboratori presenti in 80 Paesi. In dettaglio le novità riguardano la nuova struttura organizzativa: a Josè Aidar Neto, amministratore delegato Diageo Italia che ha completato il suo mandato di due anni e mezzo, è subentrato Tassos Evangelou, già amministratore delegato Diageo Grecia, che ha assunto il ruolo di AD per Diageo Italia e Svizzera. Carlos Parra, già direttore vendite Diageo Italia, è stato invece nominato direttore commerciale Diageo
Carlos Parra Italia con diretta responsabilità di tutte le funzioni commerciali. Tra i marchi Diageo presenti in Italia Baileys, Gordon’s, Pampero, Smirnoff, Guinness, Johnnie Walker e J&B.
Ferrarelle: gli “eletti” del Water Plate Contest Grande festa in casa Ferrarelle. La sede milanese si è infatti trasformata in una location d'eccezione per brindare con i vincitori della prima edizione del concorso Acqua di Chef, organizzato da Ferrarelle e ItaliaSquisita. A fare gli onori Michele Pontecorvo, responsabile Ufficio Stampa e Relazioni Esterne di Ferrarelle, la redazione di ItaliaSquisita e lo chef Gennaro Esposito, parte della giuria insieme con il sommelier Luca Gardini e Max Bergami, professore universitario e gourmand. 6 i vincitori proclamati, scelti tra 12 finalisti, abili domatori del primordiale
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Massimo Spigaroli e Gennaro Esposito
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i premiati
elemento presente in natura: tre eletti dal popolo di internet e tre da ItaliaSquisita, che ha premiato il primo classificato per le seguenti categorie: miglior ricetta, miglior concept e miglior video. Primo posto per Alessandro Negrini , Fabio Pisani e Mario Peqini de Il Luogo di Aimo e Nadia a Milano per la categoria miglior ricetta; Enrico Crippa del Piazza Duomo ad Alba si aggiudica il premio per il miglior concept e Andrea Mainardi dell’Officina Cucina a Brescia vince con il miglior video – da vedere! –. Con loro sul podio i tre vincitori decretati dalla giuria popolare: primo posto per Giuseppe Iannotti del ristorante Kresios a Telese Terme (Bn), a cui segue Antonello Martuscelli del ristorante Il Panigaccio di Eboli (Sa), e terzo posto per Tano Simonato del ristorante Tano Passami l’Olio di Milano. Post premiazione, ad allietare i palati, un generoso "happy hour" con le prelibatezze di Gennaro Esposito, i salumi straordinari di Massimo Spigaroli, i fritti della tradizione napoletana proposti dai pizzaioli Francesco e Salvatore Salvo, i latticini del caseificio Barlotti, il tutto accompagnato da una selezione di vini di Enoteca Italiana. Tocco di dolcezza con la Gelateria Gabriele, per il suo gelato servito con brioches, e l’azienda Viva Dolce, che ha offerto per l’occasione sfogliatelle, ricce e frolle. Il successo di questa prima edizione ha concretizzato il sogno di proseguire con un nuovo contest: per il 2013 il tema sarà "Scatti di chef" (tutte le info sono già sul sito www.acquadichef.com).
Ilario Bonzani all’Acanto di Milano Punto di riferimento della sala e bi-
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Fabio Maccari
glietto da visita di un ristorante che vuole sottolineare la propria professionalità. Ma non solo. La figura del Restaurant Manager è molto di più, è una vocazione, è la nota capace di creare armonia, è il tessitore di ogni giornata che sa vedere oltre e prevedere il futuro. Un "mestiere" non certo facile che richiede anni di esperienza e una vita di sacrifici, un lavoro forse oggi passato in secondo piano a causa delle lunghe ombre proiettate dall'imponenza del-
Ilario Bonzani la figura dello chef, a cui tanti, troppi giovani mirano – come ha dichiarato recentemente Francesco Cerea al convegno dedicato alla ristorazione promosso dalla nostra casa editrice, Edifis, da Artù, e moderato dal nostro direttore Alberto Schieppati – . E non è un caso se il nuovo Restaurant Manager del ristorante Acanto dell’Hotel Principe di Savoia di Milano si chiama Ilario Bonzani. Dopo aver frequentato la Scuola Alberghiera Mellerio Rosmini nella sua città natale, Domodossola, la passione per la professione lo ha portato al Kulm Hotel di St. Moritz, al Park Hotel Delta Ascona,
fino al Castello del Sole e Villa Caesar. Per poi trascorrere cinque anni a Londra nella storica catena alberghiera Savoy Group. Dal 2000 al 2012 Ilario Bonzani è stato Maître d’Hotel al Palace Hotel di Milano, e dal 2010 al 2012 al Park Hyatt Hotel di Milano in qualità di Assistant Outlet Manager. Una nuova esperienza attende Ilario Bonzani, che così commenta il prestigioso ruolo: “Poiché l’arte del ricevere a tavola per me è sì una vocazione ma anche una grande sfida, sono fiero di accettarla”.
Gruppo Mezzacorona, nuovo direttore generale Il Gruppo Mezzacorona saluta il nuovo direttore generale Fabio Maccari, ingegnere brianzolo 54enne. Dopo un'importante esperienza professionale nell'ambito di gruppi nazionali e internazionali del settore agroalimentare, eredita oggi una realtà tra le più affermate nel settore vitivinicolo in Italia, il Gruppo Mezzacorona, portato al successo grazie alla lungimiranza di Fabio Rizzoli. Amministratore delegato del Gruppo, Fabio Rizzoli ha espresso la volontà di non ricandidarsi in tale veste continuando, tuttavia, a operara in Nosio Spa e a garantire la sua preziosa collaborazione e il suo qualifcato supporto. Sandro Costa e Federico Vecchioni
Un accordo per l’agroalimentare italiano Costa Group, importante società ligure attiva nell’ideazione di concept e nella realizzazione di arredamenti nel food&beverage, ha siglato un accordo con Agriventure, società di consulenza agroalimentare del gruppo Intesa Sanpaolo. A Firenze Sandro Costa, Consigliere e AD Costa Group, e Federico Vecchioni, Presidente Agriventure, hanno firmato l'importante accordo con l'obiettivo di promuovere e facilitare la realizzazione di progetti imprenditoriali innovativi nel settore agricolo e agri-industriale, garantendo la competitività del “Made in Italy” alimentare sui mercati nazionali e internazionali. In un momento come questo la preziosa partnership rappresenta una "boccata d'ossigeno" per la realizzazione di progetti imprenditoriali innovativi nel settore agricolo e agri-industriale, volti a valorizzare la produzione locale dei territori e a innovare il settore dell’agribusiness italiano, dalla piccola alla grande impresa. Nella foto: Sandro Costa, Consigliere e AD Costa Group, e Federico Vecchioni, Presidente Agriventure.
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Champagne, Musetto, Krug, Amarone, Cabochon, Tramin... Nuda e cruda! Così è Dab, la birra nata nel 1868 e prodotta esclusivamente a Dortmund, in Germania, tanto da fregiarsi del marchio europeo Igp. Premium beer cruda, a bassa fermentazione, dal colore chiaro paglierino, rivela al primo sorso un gusto deciso valorizzando al meglio i soli tre ingredienti ammessi per produrla: acqua di Dortmund, malto e luppolo. E per meglio risaltare tali caratteristiche è stata rinnovata l'immagine di bottiglie e lattine, per comunicare l'origine 100% naturale di questa birra cruda. Dortmunder Export, l'azienda produttrice, e il marchio Igp sono le valenze che appaiono in primo piano sul nuovo look ideato per il mercato italiano. Non solo, nuova veste anche al sito dabcruda.it: di veloce consultazione il nuovo sito presenta quattro sezioni (rappresentate da quattro sfere) che rispondono in modo concreto alle richieste del cliente: cosa significa Dab cruda; la cultura tedesca della birra; dove trovo Dab; eventi Dab. E non manca lo spazio dedicato a numerose ricette e una section movie per visionare, grazie a un video, le varie fasi di produzione visitando la birreria di Dortmund. Dab è distribuita in Italia da Redeberger Groupe Italia.
contrano una selezione di formaggi realizzati in esclusiva dal maestro Hansi Baumgartner, affinatore di formaggi dell’azienda Degust. Proposto in vendita presso Cantina Tramin (Bz) a partire da metà novembre, la confezione ideata per le feste natalizie – con un packaging che richiama le tradizionali cassette di legno per le mele – proporrà una degustazione eclusiva: un formaggio a latte crudo, nobilitato in lavorazione da Gewürztraminer e avvolto in foglie dello stesso vitigno, e una bottiglia di Gewürztraminer classico, al prezzo di 18,00 euro. La selezione di formaggi gourmet, creata appositamente per accompagnare il vino principe di Cantina Tramin, presenta aromi come il coriandolo, il pepe di Szechuan, il finocchio e l'anice, profumi e sentori che naturalmente si sposano alle delicate note aromatiche del classico Gewürztraminer. A dimostrazione del grande potenziale nell'abbinamento di cibi pregiati che il famoso bianco può regalare, sposandosi con le propietà organolettiche di alcuni preziosi formaggi che rappresentano a pieno titolo il territorio dell'Alto Adige.
Lovison, mitico musetto Chi ha visitato l’ultimo Salone del Gusto, a Torino, fra mille prelibatezze
Tramin, Alto Adige in “limited edition” Cantina Tramin rende omaggio alla straordinaria terra dell'Alto Adige con un abbinamento capace di esaltare i sapori più caratteristici del territorio. Le note aromatiche del Gewürztraminer, classica eccellenza della Cantina, in-
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Musetto di Lovison
ne avrà sicuramente potuta apprezzare una davvero senza uguali: stiamo parlando del “musetto”, tipica specialità friulana prodotta dal salumificio Lovison di Spilimbergo (Pn). Il salumificio nasce ai primi del ‘900, quando macellare era soprattutto una festa popolare, un rito che si svolgeva perlopiù manualmente: non a caso, il maiale è sempre stato sinonimo di tradizione e legame con il territorio. E proprio in virtù di questa connotazione, ancora oggi, dopo un secolo di storia, i prodotti Lovison hanno mantenuto artigianalità produttiva e sapori autentici, a testimonianza di una cultura alimentare semplice ma ricca di sapori. Il Musetto di Lovison (che produce anche un ottimo salame a punta di coltello, salsiccia e soppressa) merita una menzione particolare ed è molto apprezzabile per la sua versatilità di utilizzo nella ristorazione di qualità, come antipasto caldo ma anche come secondo piatto: il suo gradimento deriva dalla qualità delle carni utilizzate, tutte provenienti da allevamenti locali, e dall’esperienza dei “maestri salumieri” che si tramandano quest’arte da generazioni.
Glamour coffret, la proposta Veuve Clicquot Creativa, ironica e fashion style. La proposta per il Natale firmata Veuve Clicquot propone come sempre il meglio dei propri Champagne, abbinati a originali "accessoires": il coffret Ponsardine è un metal box ispirato alle classiche scatole di sardine al cui interno alloggia una
Suit Me bottiglia di Yellow Label. La scatola è un omaggio alle origini della Maison, giocando con il cognome del fondatore, Nicolas Ponsardin, da cui prende spunto lo stemma di famiglia: un ponte – pont – sotto una sardina – sardine –. Prezzo al pubblico indicativo 60,00 euro. Di sicuro successo il coffret Veuve Clicquot Suit Me, una confezione innovativa per il trasporto dello Champagne: l'astuccio isotermico, che ricorda un appendiabiti, contiene una bottiglia di Yellow Label e uno stopper a forma di manico di ombrello. L'astuccio permette di tenere al fresco lo Champagne fino a due ore. Prezzo al pubblico indicativo 70,00 euro. E per finire la Grande Dame de la Champagne. Il coffret racchiude La Grande Dame 2004, concepita con 2/3 di Pinot Noir e 1/3 di Chardonnay, in una bottiglia di perfetta purezza che evoca i vecchi modelli in vetro fumé con incise l'ancora e la cometa, simboli cari alla Maison Veuve Clicquot. Realizzato con carta proveniente da foreste gestite in modo sostenibile, il prezioso cofanetto vuole sottolineare l'attenzione della Maison verso la sostenibilità ambientale, una scelta che accompagna Veuve Clicquot da più di dieci anni. Prezzo al pubblico indicativo 125,00 euro. I tre coffret sono tutti in edizione limitata.
info brand Cantine Pellegrino
Cantine Pellegrino 20 anni di vendemmia E di grandi soddisfazioni. Tanto da aggiudicarsi la leadership nei vini siciliani, raggiungendo una quota di mercato nei vini Dop liquorosi del 70% e vinificando oltre il 60 % dell'uva zibibbo coltivata a Pantelleria. Ed è propria la sede di Pantelleria che ha ospitato un centinaio di agenti e clienti per festeggiare i 20 anni della Cantina e partecipare alla vendemmia e vinificazione dei noti Moscati e Passiti di Pantelleria: il Moscato e Passito di Pantelleria Dop, il Nes Passito Naturale di Pantelleria Dop e lo Gibelè, un vino bianco da tavola IGP vinificato a secco. "Vent’anni di cantina e di vendemmia – dice l'amministratore delegato Benedetto Renda – andavano meritatamente festeggiati con la nostra rete vendita e i nostri clienti storici proprio nella sede dell'isola, madre del nettare prezioso di questa terra, lo zibibbo”. Il tutto coronato con l’ambito riconoscimento dei Tre Bicchieri del Gambero Rosso per l’edizione 2013 con il vino Duca di Castelmonte Tripudium Rosso Igp Sicilia 2009, che si aggiunge ai Tre Bicchieri dell’edizione 2012 del Nes Passito Naturale di Pantelleria 2009 e ai Tre Bicchieri Plus conseguito dal Marsala Vergine Riserva 1981 Doc nella Guida Vini d’Italia 2011 del Gambero Rosso. Così commenta i prestigiosi riconoscimenti Emilio Ridolfi, direttore commerciale di Cantine Pellegrino: "Sono molto soddisfatto per questi riconoscimenti in quanto dimostrano che anche un'azienda dai grandi numeri
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(7 milioni di bottiglie) riesce a produrre vini di altissima qualità dal rapporto qualità/prezzo eccellente".
Gerardo Cesari, Amarone da podio Se è vero che il tre rappresenta il numero perfetto, allora Gerardo Cesari ha raggiunto la perfezione. E l'ha raggiunta in Germania, al concorso enologico internazionale Mundus Vini, una delle più importanti manifestazione di degustazione a livello mondiale promossa dell’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino OIV e dell’Unione Internazionale degli Enologi UIO. Protagonisti assoluti dell'evento i tre diversi Amarone della Valpolicella dell'azienda di Cavaion Veronese Gerardo Cesari che, tra i vini provenienti da tutte le zone di produzione del mon-
do, si sono pienamente aggiudicati il podio con ben tre medaglie: oro per il Bosan Amarone della Valpolicella Doc 2004 e medaglia d'argento per il Bosco Amarone della Valpolicella Classico Doc 2006 e Amarone della Valpolicella Classico Doc 2008. "Questi risultati ci rendono giustamente orgogliosi – afferma Franco Cesari, presidente della Gerardo Cesari – perchè sono premi che hanno un valore soprattutto tecnico, quindi di grande soddisfazione, e testimoniano la grande cura e qualità delle nostre produzioni, da sempre incentrate sui vini della Valpolicella. Lo dimostra anche la scelta della giuria di premiare tre vini della stessa tipologia, l'Amarone, vero simbolo del nostro territorio".
San Felice, dalla Toscana con amore Storia e modernità possono convivere anche in una bottiglia di vino, se quel vino è il Chianti Classico Riserva PoggioRosso dell'azienda agricola San Felice. Nato nel 1978 ha toccato la 30° vendemmia con l’annata 2007, prodotta in circa 22.000 bottiglie, confermando e consacrando a tutti gli effetti l'intuzione di Enzo Morganti (allora anima dell’azienda) che proprio sul finire degli anni ottanta aveva dedicato al Chianti Classico un singolo vigneto secondo il concetto del "cru". Da allora, nel vigneto omonimo situato a quasi 400 metri slm, molti sono stati i cambiamenti, una naturale evoluzione che parla di modernità. A partire dal 2004, quando il Chianti Classico Riserva cru Poggio Rosso vede affiancare al Sangiovese (vitigno-corpo del vino con l’80%) anche una piccola percentuale di Colorino (10%) e di Pugnitello (10%): il primo è un vitigno tradizionalissimo da sempre partner del Sangiovese, il Pugnitello, invece, era vitigno toscano quasi estinto, recuperato proprio da Agricola San Felice. Il risultato? Un Chianti Classico profondo, distribuito e apprezzato nei migliori ristoranti ed enoteche in tutto il mondo.
LG, team building a Fontanafredda Un tuffo nel passato per consolidare l'affiatamento di un gruppo che guarda sempre al futuro. È questa l'idea di LG Electronics che ha scelto una location d'eccezione per rafforzare il lavoro di squadra del proprio team in un vero e proprio "team building". Nel cuore delle Langhe, la Tenuta Fontanafredda si è trasformata per l'occasione in una "palestra" per riscoprire lo spirito di collaborazione attraverso attività coinvolgenti. Borgo ottocentesco, Fontanafredda rappresenta soprattutto un'azienda vitivinicola tecnologicamente all'avanguardia, dove si affinano i grandi vini rossi delle Langhe in un ambiente incantevole: tra i colori dell'ocra e del bruno fanno da cornice i cento ettari di vigneti, la piccola chiesetta, la famosa villa della "Bela Rosin" e il "Lago dei cigni" che raccoglie le acque della sorgente "fontana fredda" da cui deriva il nome della Tenuta. Il team di LG non solo ha partecipato ad alcune attività come l'outdoor orienteering – competizione tra squadre per trovare un determinato percorso con bussola e cartina –, ma è stato anche coinvolto in degustazioni, visite alle storiche cantine, e in un breve corso dedicato alla degustazione dei preziosi vini della Tenuta. L'interessante team building nella sede storica della Tenuta Fontanafredda ha voluto celebrare un piacevole connubio tra innovazione e tradizione, confermando il prezioso lavoro di squadra di un'azienda come LG Italia che ha chiuso il 2011 con un fatturato di oltre 500 milioni di euro e che può vantare una fondamentale collaborazione di 300 dipendenti in tutta Italia.
Con Ventura “piatti d’autore” Torna per la terza volta l'appuntamento con l'alta cucina e il buon gusto della
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frutta secca firmata Ventura. Lo spazio Galvanotecnica Bugatti, a Milano, ha accolto l'evento "La mia frutta secca – Ventura Top Chef 2012" che ha visto protagonisti 30 Maestri di Alma, la Scuola Internazionale di Cucina diretta da Gualtiero Marchesi, e i prodotti firmati Ventura. Tra show cooking e star stellate, come lo chef Gianni D'Amato, Gennaro Esposito e Antonio Cannavacciuolo, gli ospiti hanno potuto gustare in anteprima alcuni "piatti d'autore" – ricette che saranno riproposte nei ristoranti degli chef ideatori del piatto, cosultabili sul sito madiventura.it – e vivere momenti di pura arte grazie al contributo del Prof. Concetto Pozzati, quotato artista italiano, che ha reso omaggio all'evento con l'opera "Quasi dolce per Ventura" consegnata a tutti gli chef coinvolti nel progetto in esemplari numerati. Ventura conferma così un nuovo trend che pone l'accento sulle potenzialità e le applicazioni della frutta secca nell'alta cucina, il tutto accompagnato dall'esperienza ultrasensoriale del maestro Pozzati che ha rilevato come chef e pittore condividano in realtà la stessa tensione verso la ricerca e la sperimentazione. Nella foto lo chef stellato Antonio Cannavacciuolo.
rinnovabili e di una viticoltura integrata, affiancata da tecniche di lavorazione innovative. Ed è con queste parole che Wolfang Reifer, proprietario dell'azienda, accoglie i naviganti online sulla pagine web colterenzio.it, a sottolineare una filosofia di vita e di lavoro iniziata più di 50 anni fa, nel 1960. E la linea Lafòa di Colterenzio ne sa esprimere tutto il valore. Le uve appartengono al podere Lafòa – gode di un'ottima posizione e clima asciutto – e regalano un Sauvignon Blanc e un Cabernet Sauvignon che rappresentano l'espressione completa di questo territorio. Il Sauvignon Blanc Lafòa, dopo un pluriennale affinamento in bottiglia, rivela note fruttate che ricordano il sambuco, i fiori di acacia e la salvia legati da sentori di legno; il Cabernet Sauvignon della stessa linea è invece un rosso strutturato con toni di ribes nero, cioccolata amara, marzapane e vaniglia. L'ultima annata, quella del 2009, è stata premiata con i Tre Bicchieri del Gambero Rosso. Entrambi sono stati premiati di recente con i 5 Grappoli 2013 dalla guida Bibenda.
Colterenzio punta su Lafòa Krug, Cuvée esclusive "Il vino non è solo un prodotto, ma anche un oggetto culturale, simbolo dell'ospitalità Altoatesina: coltivare i nostri vigneti, ispirandoci al principio della sostenibilità, è per noi non solo un'attitudine naturale, ma anche un impegno nei confronti dell'ambiente in cui viviamo". Sono queste le parole che racchiudono la mission di Cantina Colterenzio, 300 ettari di vigneti compresi tra i 250 e 650 metri slm, e 12 varietà di uve coltivate. Parole che esprimono le caratteristiche intrinseche di questa azienda che punta da sempre al rispetto dell'ambiente grazie a forme di energie
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È un Natale prezioso quello suggerito da Maison Krug, parte del Gruppo LVMH (Moët Hennessy-Louis Vuitton), che dedica al 2012 la Krug Christmans
Collection con il raffinato Shering Set. Un coffret, chiuso da una placca con inciso il logo Krug, racchiude una bottiglia di Krug Grande Cuvée e due flûtes Joseph in cristallo, omaggio al fondatore della Maison Joseph Krug. L'elegante cofanetto è proposto al pubblico al prezzo indicativo di 220,00 euro, in edizione limitata. Ma il 2012 si rivela ancora ricco di sorprese. Per la prima volta la Maison ha presentato contemporaneamente tre Cuvée: Krug 2000, espressione di Pinot Nero, Chardonnay e Pinot Meunier, nasce da una maturazione di oltre dieci anni; primo millesimato del nuovo millennio, Krug Clos du Mesnil 2000, esalta invece la purezza di una sola varietà d'uva, lo Chardonnay, che proviene da un singolo appezzamento circondato da antiche mura, il Clos du Mesnil appunto. Solo 11.390 bottiglie prodotte, tutte numerate. Dal vigneto di Clos d'Ambossay, fonte privilegiata della Maison per la produzione di uve di Pinot Noir, raro appezzamento di soli 0,68 ettari, nasce Krug Clos d'Ambossay 1998, il più pregiato e raro Champagne della gamma Krug prodotto in 4.760 bottiglie da 75 cl numerate.
Cabochon Monte Rossa, l'eccellenza del 2008 La terra dei Franciacorta rivive in un brut millesimato di cui la cantina Monte Rossa ne è l'artefice. Tutto nasce nel 1985, con una ricerca volta a selezionare i migliori cru della collina Monte Rossa
e di un nuovo sistema di vinifcazione, con risultati tali da ottenere un vino unico capace di imporsi come migliore etichetta aziendale. Cabochon, questo il nome della famiglia dei Franciacorta più prestigiosi ottenuti da 70% di Chardonnay e 30% di Pinot nero, accoglie oggi un nuovo millesimato, il Cabochon Brut millesimato 2008. Prodotto in un'annata particolarmente favorevole, come tutti i Cabochon Monte Rossa, si rivela per il colore oro brillante e lucente, dal perlage ricco e prolungato. Oltre 40 mesi di affinamento in bottiglia regalano al Cabochon Brut millesimato 2008 richiami di nocciola tostata, pesca e fiori di camomilla, svelando note di biscotto e cioccolato bianco.
Rastal, il calice ufficiale "Il giusto bicchiere per ogni bevanda". Da qui nasce la storia di Rastal, azienda che opera da quasi un secolo nel settore del vetro, producendo bicchieri e calici dedicati anche a degustazioni professionali. Non a caso dal 2009 Rastal è partner tecnico ufficiale Fisar, la Federazione Italiana Sommelier Albergatori e Ristoratori, per cui ha realizzato il calice ufficiale. Utilizzato in ogni evento di spicco, il calice Rastal è
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stato protagonista anche del Congresso Nazionale organizzato ogni anno da Fisar. Evento animato anche dalla proclamazione del migliore Sommelier Fisar dell’anno: il trofeo, offerto da Rastal, è stato consegnato da Paolo Fulgosi, Rappresentante di Rastal, a Filippo Franchini della Delegazione Valdelsa – Antiche Terre, nella spledida locatione del Casinò di Venezia.
Electrolux, il futuro è “professional”
consumi e i costi di gestione fino al 50%. Innovazione, rispetto per l'ambiente, ma anche design. E di design vogliamo parlare con Libero Point, la piattaforma "express" di cucina mobile progettata da Michele Cadamuro e Davide Benvenuti: cucina a vista, ultra compatta, prepara infinite pietanze in tempi record, con il grande vantaggio di essere spostata secondo le esigenze di cucina o di sala. Il sistema integrato di ventilazione anti-odori a triplo filtraggio blocca gli odori generati dal piano cottura, trasformando l'aria "cattiva" in aria fresca e pulita. Per le sue caratteristiche di funzionalità, praticità, e soprattutto design, volte a migliorare l'aspetto lavorativo di cuochi e chef, il sistema Libero Point è stato selezionato dall'Osservatorio Permanente del Design per la pubblicazione nel volume ADI Design Index 2012. Nel 2011 ha anche ricevuto l'importante riconoscimento Janus de l'Industrie.
Natale con Villa Sandi Innovazione, design e rispetto per l'ambiente. La linea Professional Electrolux è tutto questo e anche di più, proiettata nel futuro per offrire soluzioni professionali hi tech, ma al tempo stesso concrete, al mondo della ristorazione e dell'ospitalità. Come il forno air-o-convert Touchline "tutto in uno": facile e intuitivo, il forno può essere accolto in qualsiasi tipo di cucina professionale, dotato di tre diversi livelli di umidità e del generatore istantaneo di vapore ad altissima capacità e precisione. Ma non solo, il nuovo forno permette di salvare fino a 1000 ricette e scaricarle su chiavetta USB, soluzione ideale per ripetere menu e ricette, anche su un'altra postazione airo-convert, e 16 sono i cicli di cottura multifase. Con l'opzione Make-it-mine si può anche scegliere di personalizzare l'interfaccia e bloccare con password di accesso la configurazione scelta. E con un solo click la pulizia è servita: il sistema automatico consente di selezionare quattro programmi differenti e le nuove funzioni verdi ottimizzano i
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Sono cinque le nuove proposte di Villa Sandi, tutte dedicate alle feste natalizie, che racchiudono in un elegante box le bollicine più indicate per accompagnare le festività, ma non solo. Al Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Cuvèe Oris è abbinato un bracciale rosso-oro (costo box 38,00 euro), mentre due sono le varianti per la confezione regalo con Valdobbiadene Prosecco Docg Cuvèe Oris e Filio: una proposta in cofanetto rosso a pois bianchi con due calici dallo stelo rosso, l'altra in cofanetto nero a cui viene abbinato un libro dedicato alle decorazioni floreali per il centrotavola (rispettivamente 45,00 euro e 55,00 euro). Oro invece per la bottiglia di spumante abbinata a cioccolato fondente in granelli (a 35,00 euro). Per accompagnare crostacei o pietanze delicate, Villa Sandi propone il cofanetto più prezioso: Spumante Metodo Classico Opere Trevigiane Riserva abbinato al calice in vetro soffiato, al prezzo di 90,00 euro. Tutte le confezioni sono disponibili nelle Botteghe del Vino Villa
Sandi di Valdobbiadene e di Crocetta del Montello, anche su spedizione.
Ca’ del Bosco Vintage Collection Con una serata intitolata “With all your senses”, la celebre azienda di Franciacorta, guidata da Maurizio Zanella, ha voluto presentare a Milano la propria Vintage Collection: una sorta di dichiarazione d’intenti, la definizione di un “Metodo” capace di esprimere al meglio il percorso della natura, fatto di tempi da rispettare, di tradizioni da seguire fedelmente, di nuove strade da esplorare. Da questa “filosofia” culturale e produttiva, bene evidenziata dal lavoro di Giuseppe La Spada, artista digitale che ha allestito per l’occasione un “percorso” tattile e sonoro che ha messo in luce il lavoro (e i risultati) in vigna e in cantina, è nata la Vintage Collection: Brut, Dosage Zero, Satèn, millesimi 2008. Tre etichette tutte da gustare e degustare, connotate dall’utilizzo del Metodo Ca’ del Bosco: potente, elegante e raffinato il Brut, forte di un 55% di chardonnay, 30% di pinot nero e 15% di pinot bianco; rara espressione del suo terroir e dotato di immenso potenziale il Do-
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sage Zéro (65% chardonnay, 22% pinot nero, 13% pinot bianco); cremoso, morbido e ben caratterizzato sotto il profilo degli aromi primari il Satèn, frutto di un’accurata selezione delle uve e di una sapiente vinificazione. Notevoli, durante la serata, gli abbinamenti dei tre vini al caviale Calvisius, il caviale italiano per eccellenza, prodotto da Agroittica Lombarda a Calvisano (Bs).
Rosé millesimato Villa in festa Grande serata a Monticelli Brusati, in Franciacorta, per festeggiare i successi dell’Azienda agricola Villa, della famiglia Bianchi. Protagonista dell’evento il Rosè Brut Franciacorta Docg Millesimato, una bollicina di rara eleganza visiva e olfattiva, capace di regalare a chi lo degusti eleganti percezioni di ciliegia e frutti di bosco. Prodotto da uve chardonnay (60%) e pinot nero (40%), durante la cena condotta dallo chef Carlo Bresciani dell’Antica Cascina San Zago di Salò (uno dei più bravi interpreti della cucina contemporanea, finger food in testa), il Rosé di Villa ha ulteriormente dimostrato le proprie qualità: perfetto a tutto pasto, ideale con piatti profumati e gustosi, capace di contrastare i sapidi gusti della tradizione gastronomica regionale e di riequilibrirarne in modo armonico la sapidità. La serata “in rosa”, condotta amabilmente da Roberta Bianchi, patron dell’azienda, con il marito Paolo Pizziol, ha ulteriormente confermato i successi raggiunti dall’azienda vinicola Villa.
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Terre del Barolo, dai Cru al Progetto Qualità una crescita esponenziale che ha concretizzato, grazie anche all'assistenza tecnica degli specialisti della Cantina, il sogno di presentarsi sul mercato con la prima linea di imbottigliamento a marchio Terre del Barolo. Una crescita che tutt'oggi rivela l'anima della Cantina, gestita dall'attuale presidente Matteo Bosco che così la definisce: "Sono tre gli aggettivi per definire Terre del Barolo: storia, uomini e vino di qualità". Una superficie vitata da circa 650 ettari, coltivata a Nebbiolo da Barolo, Dolcetto, Barbera e vitigni a bacca bianca, permette di produrre ben 13 linee di prodotto, dal Barolo alle piccole Doc. Cru e produzione Dopo il lancio della prima linea sempre di Elisa Facchetti più attenzione viene rivolta all'indiviNella valle che unisce Alba a Barolo duazione delle migliori posizioni – in sono i dolci pendii a fare da padrone gergo "i Cru" – sulle colline del Barolo in una terra, quella delle Langhe, e nelle zone di Castiglione Falletto nota in tutto il mondo per i suoi (dove nasce il Barolo Rocche), terreni vini, in primis il Barolo. Un territorio ben circoscritti e selezionati per dare che rivela grande fermento per storia, risalto alla produzione vitivinicola delle tradizioni e naturalmente per produ- Langhe, di cui i grandi vini ne portano anche i nomi: Grinzane Cavour (Barolo zione vinicola. Castello, culla embrionale di questo A destra del crocevia per Castiglione grande vino), Verduno (Barolo MonviFalletto, piccolo comune piemontese gliero), il Barbera d’Alba Valdisera, in provincia di Cuneo, tra le lievi colline Dolcetto di Diano Cascinotto e Dolcetto che uniscono Alba a Barolo, da più di d’Alba Castello. Dal 2003 si è aggiunto cinquant'anni Cantina Terre del Barolo anche il Barolo Brunate dai vigneti di interpreta questo territorio vocato da alcuni soci del paese di Barolo. Nove sempre ai grandi Barolo. Curiosa la i Cru che ne esaltano la produzione: storia della Cantina, fondata per l'esa- Barolo Rocche a Castiglione Falletto, tezza l'8 dicembre del 1958 da Arnaldo Barolo Monvigliero a Verduno, Barolo Rivera, maestro di scuola elementare Castello a Grinzane Cavour, Barolo ed ex comandante partigiano. La sfida, Brunate a Barolo, Barolo Cannubi a tra mille difficoltà, era quella di costi- Barolo, Barolo Ravera a Novello, Bartuire una cooperativa di viticoltori, un bera Valdisera e Dolcetto Castello a progetto di certo non ben accetato Grinzane, Dolcetto Cascinotto a Diano da chi già il vino lo produceva, temendo d’Alba. Una gamma, questa, che imdi perdere il monopolio sul mercato. preziosisce la produzione del Barolo Ma si sa, in tempo di ricostruzione e Docg, del Nebbiolo d’Alba, del Langhe al principio di quello che sarebbe Nebbiolo, della Barbera d’Alba, del stato il famoso boom economico dei Grignolino, del Freisa e del Pelaverga, mitici anni 60, per molti la cooperativa ricavato dal vigneto autoctono delle rappresentava l'unica opportunità per colline di Verduno. Infine, ma non per continuare a lavorare la vigna e in importanza, i vini bianchi: Chardonnay, vigna. E molti ci hanno creduto. Da il Langhe Favorita, il Gavi, il Roero Aruna quarantina di soci a più di 350: neis, il Metodo Classico e il Moscato
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ottenuto da lavorazioni nel pieno rispetto dell'ambiente. Un progetto che ha preso forma nel 2001, nato da uno studio delle diverse microzone vocate alla produzione di Barolo. Il monitoraggio delle migliori esposizioni da parte di esperti agronomi lungo tutte le fase vegetative del vigneto, ha così decretato il successo di alcune zone circoscritte puntando su una produzione qualitativa, di basse rese, evitando l'utilizzo di trattamenti parassitari, Progetto Qualità Valorizzare le Langhe, intepretare con rispettando i tempi di vendemmia in i grandi vini l'anima di questo territorio, base alla maturazione dell'uva e sfrutpreservandone al tempo stesso i terreni tando i microclimi. Un rispetto per la e il paesaggio naturale. Così possiamo natura che si traduce in ricchezza oldefinire la mission di Cantina Terre fattiva e gustativa in ogni bottiglia. del Barolo, attenta a controllare, attra- "La Cantina Terre del Barolo – ci spiega verso il Progetto Qualità, l'operato di il presidente Matteo Bosco –, da anni ogni singolo socio, imponendo un'agri- lavora sulla strada della sostenibilità. coltura sostenibile per valorizzare al Siamo stati tra i primi a credere in meglio il terreno e garantire al cliente questo. Per ottenere un vino sempre finale un prodotto controllato e sano, migliore, siamo molto attenti al rispetto dell'ambiente in tutte le fasi della lavorazione: dal vigneto alla bottiglia finita. In ogni passaggio abbiamo investito risorse economiche e umane, e i nostri soci sono stati formati all'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari e al miglioramento del lavoro in vigna: l'inerbimento naturale e l'abolizione dei diserbanti sono, per esempio, due aspetti molto importanti". Un impegno che non solo rappresenta una filosofia di lavoro per tutti i soci, uno sforzo non certo facile, ma che ha contribuito a rendere i vini di Terre del Barolo ancora milgiori, e ora anche certificati: "Abbiamo ottenuto la Certificazione Ambientale dal Ministero dell’Agricoltura, superando tutte le tappe dell’iter. E questo è un risultato raggiunto da tutti, e che premia in primis i soci" afferma Matteo Bosco. E continua: "La formazione continua di tutto il personale porta a risolvere aspetti pratici dalla vigna alla cantina, e ci permette di razionalizzare al meglio le risorse per una maggiore qualità del prodotto. Il nostro motto è coniugare la qualità del prodotto alla sicurezza del consumatore: il vino dev’essere buono e sano". E conservare sempre il corretto rapporto qualità-prezzo. d’Asti, il Langhe Nascetta del Comune di Novello, senza dimenticare il Langhe Rosato Eclissi. Vini, Cru, territori vocati, ma non solo. Per fare vino di qualità Cantina Terre del Barolo affianca da sempre alla propria tradizione del vinificare la tecnologia più avanzata, avvalendosi così di una produzione tale da confermare anche una costante presenza sui mercati europei.
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Enrico Martellozzo Prosecco, Brunello e cultura Incontriamo Enrico Martellozzo a Milano, per una breve ma succosa conversazione sul mercato del vino, sulle prospettive internazionali, su quello che accade in Italia. Una chiacchierata stimolante, che lascia intravedere scenari complessi, da monitorare con attenzione e prontezza. Enrico Martellozzo rappresenta l’ultima generazione della famiglia Martellozzo, che da oltre un secolo opera nel settore del vino in Veneto. È del 1993 l'acquisizione della storica azienda Bellussi (www.bellussi.com), di Valdobbiadene, patria del prosecco. Sotto la sua guida, coerentemente con l’obiettivo della qualità, si è investito nei vigneti e nell’adeguamento tecnologico delle cantine. Nel 2000 la gamma Bellussi si arricchisce con la presentazione di Theo Smith della linea Belcanto, risultato di una riRafforzare e valorizzare le nostre uni- cerca dell’enologo della cantina, Francità, avviando progetti rispettosi del cesco Adami, responsabile della proterritorio e promuovendo cultura e duzione aziendale. Enrico Martellozzo, comunicazione. La “filosofia” di Enrico prima ancora che imprenditore vitiviniMartellozzo (Bellussi, Belcanto e Bel- colo, è uomo di profonda cultura, sopoggio) punta decisa sul Made in prattutto musicale. Non a caso, nel 1996, ha istituito il Premio Bellussi ValItaly di qualità. dobbiadene, riservato ai vincitori del concorso internazionale per cantanti Toti Dal Monte, con lo scopo di caratterizzare il proprio marchio in un contesto culturale aperto alle giovani generazioni. Questa iniziativa ha ottenuto un significativo apprezzamento dal Premio Guggenheim e, nello stesso tempo, Belcanto è stato prescelto come partner ufficiale del Festival pucciniano di Torre del Lago. “Questi eventi sono per noi – dice Martellozzo – ottimi strumenti di comunicazione, nel senso della crescita culturale, decisamente fondamentale per la crescita delle imprese”. E, in questa logica di acquisizione e arricchimento culturale, si inserisce un’altra tappa nel processo identitario della famiglia Martellozzo: l’acquisto di una tenuta nel territorio di Montalcino, chiamata Belpoggio. Un progetto di famiglia che ha visto la nascita e il consolidamento di un marchio che può contare su 10 ettari, di cui 5 vitati (sangiovese grosso 100%) e gli altri costituiti da un antico uliveto, situato a soli 500 metri dall'Abbazia di Sant’Antimo, con
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straordinario panorama sulla Val d’Orcia. Dalla marca Trevigiana alla Toscana, dunque, passando per un rafforzamento dell’export del prodotto principale, il Prosecco, storico e originario cavallo di battaglia di Bellussi. Così, se i mercati internazionali rappresentano oltre il 50% delle strategie aziendali, l’altra metà della produzione si rivolge direttamente al mercato dell’horeca, entro i confini nazionali. “Certamente vi sono enormi potenzialità all’estero – conferma Enrico Martellozzo –. Stati Uniti, Gran Bretagna, mercati asiatici, Cina: c’è molto da lavorare per valorizzare i nostri migliori prodotti”. E l’Italia? “Apparentemente c’è un po’ di saturazione, in Italia e in Europa… ma credo che ci siano ulteriori spazi per una crescita intelli-
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gente: abbiamo prodotti unici e dobbiamo saperne difendere l’unicità”. Partendo dal Prosecco? “Il Prosecco, nonostante la produzione immensa (320 milioni Doc e 60 milioni Docg, nda), si è ulteriormente caratterizzato in senso qualitativo grazie, soprattutto negli ultimi anni, a un’evoluzione positiva: la zona di produzione è stata regolamentata, con disciplinari chiari e definiti. Insomma, si è fatto ordine, e credo sia stato fatto un ottimo lavoro. Il Made in Italy di qualità è il nostro migliore biglietto da visita, nel mondo ma anche in Italia”. E a proposito del Brunello? “Il progetto Brunello è ormai giunto a destinazione: con le nostre 16.000 bottiglie di Brunello, 10.000 di Rosso di Montalcino e altrettante di Di Paolo IGT, abbiamo dato valore identitario a dei territori straordinari, capaci di esprimere al meglio carattere e potenzialità”. Un altro tassello della filosofia Bellussi, orientata – in Toscana come a Valdobbiadene – a difendere le unicità dei prodotti, per comunicare valore, qualità e, soprattutto, cultura.
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Rhex nuovo interprete di ospitalità dal mondo dei locali d’intrattenimento alla ristorazione collettiva, dai progettisti La fiera dedicata al mondo dell'ho- dell’ospitalità e dei luoghi di consumo reca riflette le mutate esigenze di ai distributori, con iniziative e proposte buyers e operatori di settore che ri- mirate per ogni target. chiedono format più snelli e grande professionalità. Nuovi contenitori Ma quali sono le novità di Rhex? Lo ab"Cambiano le esigenze e cambiano i biamo chiesto a Patriza Cecchi, Direttore tempi. Ma non la qualità offerta". Po- Business Unit di Rimini Fiera: "Il carattere trebbe suonare così il nuovo claim di distintivo di questo evento sarà l'innovaRimini Fiera, forte di una tradizione zione, in particolare quella rappresentata nel settore horeca – ricordiamo l'im- dal superamento della vetrina commerportante esperieza delle ex mostre SIA ciale, mediante la costruzione di molteGuest e Sapore – che le ha permesso plici format dove contenitore, contenuto di cogliere gli aspetti salienti di questo e innovazione di servizio sono letti nella mondo e ripartire con nuovo slancio: loro valenza di soluzioni globali. L’evento nasce Rhex, acronimo di Rimini Horeca sarà quindi un’occasione unica per preExpo. Attesa, ovviamente a Rimini dal sentare agli operatori nuovi, originali, 23 al 26 febbraio 2013, la nuova ma- modelli di business, format di locali fanifestazione porta con sè un format cilmente replicabili, corsi di gestione rinnovato, più con- manageriale per fronteggiare al meglio centrato e più fruibile le sfide del mercato e dare risposta da parte degli ope- alle esigenze di consumo dell’immediato ratori che troveranno futuro. È inoltre previsto un percorso una vetrina ricca di che dall'ospitalità e dal wellness passerà Rimini Fiera soluzioni e tendenze per l'accoglienza e la ristorazione, il dal 23 al 26 del mercato del "fuo- tutto integrato da aree mostra interattive, febbraio 2013 ri casa": dal mondo talk show, tavole rotonde con i protagonisti www.rhex.it dell’ospitalità a quel- delle case history più innovative e sezioni lo della ristorazione, speciali che raccoglieranno gli ultimi ritrovati e le soluzioni presentati in anteprima dalle aziende espositrici". Numerosi gli eventi in programma, dalle iniziative legate alla ristorazione al Congresso Nazionale delle trattorie italiane, e una quattro giorni dedicata a show cooking con sei grandi chef che allestiranno anche una mostra permanente delle tavole dei loro ristoranti. Luca Gardini, sommelier campione del Mondo, organizzerà inoltre una serie di eventi dedicati al mondo dell’ospitalità. Dedicato al management delle strutture alberghiere di lusso il Convegno nazionale di Federalberghi. "Secondo un calcolo realizzato sulla base dell’affluenza alle due edizioni precedenti di Sia Guest e Sapore – conclude Patriza Cecchi – le stime parlano di 1465 espositori, 12 padiglioni, 110.750 visitatori, 5000 business meeting, 500 top buyer provenienti da 5 continenti". E i numeri sembrano non tradire l'atteso evento. di Elisa Facchetti
info Rhex Dove Quando Sopra: Patrizia Cecchi, Direttore Business Unit di Rimini Fiera.
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Nasce Alpe Regis Il top di Rotari un millesimato di pregio, per ora prodotto in 45.000 bottiglie e destinato alla ristorazione di qualità e ai wine bar qualificati A base di uve Chardonnay (100%), Alpe Regis esalta appieno le qualità del vitigno, che ha trovato nell’area dolomitica le condizioni ideali per la perfetta espressione del suo carattere: la vendemmia, rigorosamente manuale, si svolge mediante una accurata selezione in vigna dei grappoli migliori, al fine di esaltare nel prodotto finale la componente qualitativa legata a territorio e vitigno. Alpe Regis è un Trentodoc in cui prevalgono franchezza e pulizia, conseguenza diretta del serio e meticoloso lavoro svolto in vigna e successivamente in cantina. Il non utilizzo di liqueur troppo invadenti, È nato il nuovo Trentodoc della cantina inoltre, consente di apprezzarne la tipicità trentina Rotari, marchio del Gruppo Mez- e di coglierne gli aspetti legati al territorio zacorona. Una scelta imprenditoriale che produttivo: non a caso, l’obiettivo di Alpe premia e conferma l’eccellenza produttiva Regis è di esaltare lo stile Rotari e le podella cantina cooperativa, da sempre tenzialità uniche della denominazione simbolo della migliore tradizione spu- Trentodoc che negli ultimi anni è diventata mantistica trentina. Alpe Regis, che va sinonimo di qualità spumantistica indiad aggiungersi alla prestigiosa gamma scussa. Alpe Regis è un Extra Brut dal dei Rotari (Cuvée 28, Rosé e Flavio) è perlage fine e persistente, dal colore giallo paglierino e dal profumo intenso ed elegante di frutta matura, mele golden e ananas; inoltre, ricercate note fruttate e aromi di crosta di pane completano questo importante bouquet aromatico, rendendo il prodotto adatto ad essere abbinato alle migliori specialità della cucina regionale italiana. Alpe Regis è stato presentato in Cantina, alla presenza dei massimi dirigenti di Mezzacorona, durante un evento memorabile anche sotto l’aspetto gourmet: grazie all’abilità degli chef coinvolti nella realizzazione della serata, l’evento ha visto la presentazione di piatti di impronta fusion, in una eclettica, geniale alternanza fra preparazioni sushi (Oriente) e ingredienti della tradizione trentina e italiana (Occidente). Il risultato di questo connubio è stato di estrema gradevolezza, grazie anche alla perfetta abbinabilità di Alpe Regis alle differenti proposte di cucina realizzate durante la cena. Nella stessa serata, è stato presentato anche il Caveau Rotari, prezioso e suggestivo spazio nel quale sono conservati i migliori Trentodoc della sua storia.
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WineAmore il touch che fa la differenza
di Elisa Facchetti Artù torna a parlare di WineAmore, l'innovativo sistema digitale simbolo di grande sintesi, capace di unire l'icona post moderna del famoso tablet alle conoscenze ultrasensoriali dei vini. Lo sguardo attento di Artù si posa ancora una volta su WineAmore, per monitorare, a distanza di quasi due anni dall'entrata in scena sulla nostra testata – e da quasi un anno nella ristorazione –, il successo della "Lista dei Vini Digitale" su iPad. I trend di mercato parlano chiaro: le nuove tecnologie, nello specifico i tablet, rivelano oggi un enorme potenziale da applicare alle dinamiche del mondo ristorazione, di cui WineAmore ne rappresenta l'interprete più vivace. Dalla scoperta a Vinitaly – Artù n°43 –, alla sua presentaQui a lato: come si presentano all'ingresso i tavoli del ristorante Le Bistrot Des Maquignons, a Lione.
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zione – Artù n°45 –, l'iter di WineAmore prosegue, questa volta, in modo empirico portando in campo alcune testimonianze di ristoratori che hanno adottato, nella quotidianità del lavoro in sala, la tecnologia all'avanguardia della "carta digitale". Con Sergio Cocco, fondatore e ammistratore di WineAmore, nonchè precursore di una elastica fruibilità della carta dei vini ed esegeta di un nuovo sfruttamento della tecnologia al "servizio di", ripercorriamo insieme il significato di WineAmore. "WineAmore – ci ricorda Sergio Cocco – è una applicazione per iPad volta a sostituire al tavolo del ristorante la classica Carta dei Vini con una Lista dei Vini Digitale, grazie alla quale il cliente può scegliere in modo interattivo il vino, e dove può approfondirne le caratteristiche grazie ai contenuti, presentati in diverse lingue. Il ristoratore poi, può gestire con facilità la lista, apportando velocemente tutte le modifiche necessarie: prezzi, disponibilità formati". A distanza di un anno dal lancio sul mercato, come è stata recepita la nuova proposta? Il mercato dimostra molta attenzione verso il prodotto: quando lo presentiamo ai ristoratori siamo sempre accolti e ascoltati con vero interesse. In molti, poi, sono passati dal semplice interesse all’effettiva adozione. Quale è la tipologia di clienti che ha deciso di adottare il vostro sistema? Non vi è una tipologia specifica: abbiamo sia clienti con cantine molto importanti
(anche superiori alle 500 etichette), sia ristoranti che puntano a un'offerta di 50/70 etichette ben selezionate. E non mancano le enoteche e i wine-bar. Dove siete presenti all’estero? Abbiamo già attivato clienti in Brasile, Francia, Olanda, Svizzera e abbiamo in corso trattative per numerosi altri paesi. Parlando di estero, proprio dall’Olanda, ci è appena giunta la notizia che un nostro cliente, il ristorante De Lindeboom New Style, è stato premiato dalla prestigiosa guida Gault Millau per la Miglior Carta Vini del paese. Siamo quindi davvero orgogliosi di aver contribuito con il nostro apporto all’ottenimento di questo importante riconoscimento: la giuria infatti ha espresso nella motivazione del premio anche la “superbe interface” (tradotto: l’interfaccia stupenda) della lista. Quali sono i principali ostacoli che state incontrando? Sicuramente il momento di crisi generale non aiuta il ristoratore nel prendere decisioni che prevedono un, seppur minimo, investimento iniziale; ma, vorrei specificarlo, si tratta di un investimento che ha un immediato ritorno economico: migliore rotazione della cantina, minor tempo dedicato all’aggiornamento della lista dei vini, minor spesa legata alla formazione del personale per proporre e vendere il vino. Tutto ciò si traduce in effettivo risparmio economico, a cui si associano come ulteriori vantaggi l'innovativo servizio verso il cliente, il miglioramento dell'immagine del locale e la possibilità di illustrare le caratteristiche del vino anche ai clienti stranieri grazie alle diverse lingue disponibili. L’ostacolo principale è quindi quello di far percepire al ristoratore che l’investimento nella carta dei vini digitale non rappresenta un complessivo aumento dei costi, bensì un modo per ottenere un effettivo tornaconto. Con quale strategia state portando WineAmore sul mercato? In Italia stiamo attivando una rete di agenti, mentre all’estero i nostri principali interlocutori sono gli importatori e i distributori di vino che utilizzano il nostro strumento come leva di marketing per promuovere i vini e fidelizzare la clientela. Preziose le parole di Sergio Cocco, ma
info brand
A destra: la Targa-premio della guida Gault Millau. Il prestigioso riconoscimento al ristorante De Lindeboom New Style per la Miglior Carta Dei Vini dell'Olanda. La giuria ha espresso apprezzamento anche per la innovativa ed elegante presentazione della carta dei vini su iPad.
Info: sales@wineamore.com tel. 035 4158846 L’applicazione DEMO di WineAmore è scaricabile gratuitamente su iPad dall’AppStore
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ancora più preziosa la fotografia scattata da Artù su alcune realtà imprenditoriali legate al mondo della ristorazione che hanno adottato il sitema della Carta dei Vini Digitale. Il loro contribuito "in presa diretta" conferma la grande intuzione di WineAmore, che può leggere in queste testimonianze la chiara soddisfazione di alcuni ristoratori che per primi hanno creduto nel sistema digitalizzato al servizio del mondo dell'horeca. Alessandro Gallo, titolare di Gallo Restaurant di Trani. È stato uno dei primi clienti di WineAmore. La sua testimoniaza rivela come la presenza del ristoratore, attento alle abitudini dei propri clienti, possa coesistere ed essere facilitata dalla presenza della Carta dei Vini Digitale. Dopo oltre un anno di utilizzo, ci vuole raccontare la sua esperienza a riguardo? Dopo questo primo anno di utilizzo, il bilancio è sicuramente positivo. All’inizio mi chiedevo come i miei clienti avrebbero accolto la novità…ed è stato un successo. Anche i pochi clienti abituali che all’inizio si erano mostrati un po’ ostili, vedendo girare sugli altri tavoli l’iPad, hanno superato il primo imbarazzo nell’utilizzo ed ora sono completamente a proprio agio nell’utilizzarla. È cambiato il suo modo di proporre
il vino? Quando posso, preferisco ancora essere io in prima persona a suggerire i vini ai clienti in base ai loro gusti. Purtroppo, però, specie nelle serate più affollate, non mi è possibile seguire tutti i tavoli. E grazie a WineAmore riesco a offrire un ottimo servizio, anche senza la mia presenza fisica al tavolo. L’adozione della Lista dei Vini Digitale ha influito sulle vendite? A dire il vero non ho fatto un calcolo preciso e quantificabile, ma sicuramente l’aumento c’è stato, specie per i vini più particolari e sconosciuti al cliente medio. Il cliente, infatti, è più propenso a provare un vino che non conosce quando nella lista ne trova descritte le caratteristiche e la storia. Andrea Rossi, direttore dell’Hotel BellaRiva 5 stelle a Gardone Riviera, sulla sponda orientale del Lago di Garda. Aggiornamento in tempo reale e professionalità riconosciuta anche dal cliente rappresentano i punti di forza di WineAmore. Andrea Rossi sottolinea inoltre la grande dinamicità di questo sistema che permette una facile fruibilità anche da parte di un pubblico straniero. Perché ha scelto di adottare la Lista dei Vini Digitale?
Essendo una persona curiosa e pragmatica, ho trovato nella soluzione digitale il giusto compromesso tra facilità di aggiornamento e miglior servizio al cliente, anche perché, avendo una clientela per buona parte straniera, avevo la necessità di trasferire le informazioni sui vini in diverse lingue. I clienti si trovano “spiazzati” quando al tavolo viene portato l’iPad al posto della carta? Più che spiazzati, le prime volte rimangono stupiti e incuriositi. Grazie al facile utilizzo, poi, iniziano subito a scoprirne e ad apprezzarne le innumerevoli funzionalità: scelta dei vini per colore, per formato, per area di provenienza. Gianluca Murgia, titolare e sommelier del Sa Cardiga Su Schironi di Capoterra, in provincia di Cagliari, ristorante tipico che vanta una cantina di oltre 800 etichette. La testimonianza di Gianluca Murgia coglie forse l'aspetto più ludico di WineAmore, che traspare dalla curiosità dei clienti nell'utilizzo della Carta dei Vini Digitale. Il sistema digitalizzato consente inoltre di riscoprire vini poco conosciuti e un aggiornamento immediato. "Con grande entusiasmo parlo di WineAmore, perché grazie alla sua semplicità di utilizzo la clientela si diverte a scovare i vini più particolari, per esempio quelli di nazioni che si affacciano ora sul mercato vinicolo: vini che rischiavano di risultare poco visibili nel troppo lungo e dispersivo menu tradizionale. Ora, invece, vendiamo vini di diverse qualità e tipologie, anche i grandi formati e i distillati. E io riesco ad offrire un servizio inappuntabile: grazie alla facilità di aggiornamento della Lista, anche durante il servizio di ristorante, se un prodotto termina, posso cancellarlo all'istante. Grande merito infine all’opzione della scheda dettagliata del vino, dove il cliente trova tutte le indicazioni della cantina."
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Bacalao Giraldo Memorabile
di Alberto P. Schieppati
degli chef professionali), ma anche rischioso (nel senso che pochi lo sanno Grande serata al Four Seasons di Fi- proporre e interpretare al meglio, senza renze, la splendida struttura guidata banalizzarlo e omologarlo in gusti preveda Patrizio Cipollini: lo chef Vito Mollica dibili), l’accoppiata Mollica-Quintela è ospita Andoni Arrieta Quintela e, in- riuscita ad esprimere un menu di altissimo sieme, confezionano un menu memo- valore. Ovviamente in questo sono stati rabile, con protagonista il baccalà di aiutati dalla qualità della materia prima, Giraldo, importato in Italia da Longino & Cardenal. Abbinamenti ai vini della tenuta Argentiera e allo champagne J.De Telmont. Bravo Vito Mollica. E bravo anche Andoni Arrieta Quintela, lo chef basco con esperienze nei più importanti ristoranti gourmet della Spagna. Sarà che nella lingua ispanica la parola “bravo” significa “coraggioso”, sarà che Vito Mollica è uno chef di talento unico (accompagnato da quella umiltà di fondo che lo rende un professionista a tutto tondo), saranno tutti questi aspetti insieme... . Fatto sta che la serata del 19 ottobre scorso al Four Seasons di Firenze può entrare a testa alta negli eventi gourmet capaci di caratterizzare un momento storico di evoluzione gastronomica. Mi spiego meglio: in una fase come questa, in cui il baccalà sta vivendo un momento felice (di attenzioni da parte della categoria
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il Bacalao Giraldo, diventato punto di riferimento indiscusso della gastronomia internazionale. “Questo baccalà – ci dice Riccardo Uleri, a capo di Longino & Cardenal –, è una perfetta combinazione di innovazione, materia prima ed esperienza, in un mercato sempre più orientato a conoscere e valorizzare questo prodotto. La Giraldo garantisce che i suoi prodotti sono realizzati con quello che è considerato il miglior merluzzo del mondo, l’autentico Gadus Morhua (mai congelato), pescato all’amo e messo sotto sale sulle Isole Faroe e in Islanda: un prodotto unico, elaborato attraverso un metodo di dissalazione tradizionale, lasciato riposare in acqua fredda e senza l’uso di prodotti chimici, in modo che non perda sapore, consistenza e gelatinosità”. Sapore, gusto e consistenza sono stati efficacemente “testati” durante la cena al Four Seasons, in cui il geniale Vito Mollica e il tenace Andoni Quintela hanno unito le proprie forze per consegnare ai fortunati commensali un menu straordinario: baccalà marinato Ajoarriero con acqua di pomodoro, risotto mantecato alla burrata con capperi e limone (straordinario per consistenza e delicatezza), cautarogni lucani con trippa di baccalà, cecino rosa e tartufo bianco di
San Miniato (piatto di grande caratterizzazione territoriale, espressione di gusti decisi, in cui la presenza del tartufo era forse pleonastica), baccalà con pil pil di percebes e vongole (eccellente per succulenza), crema cotta all’arancia con croccante di miele. Piatti indimenticabili, realizzati grazie alla abile regia della brigata del Four Seasons e proposti nella suggestiva cornice del Conventino a un pubblico che è rimasto soddisfatto e al tempo stesso stupito dalla versatilità di questo baccalà esclusivo, ricco di sapore e adatto all’utilizzo nella ristorazione di serie A. Fondamentale per la riuscita dell’evento, oltre alla perfetta organizzazione della direzione dell’hotel (Patrizio Cipollini è il geniale deus ex machina del successo della struttura, validamente supportato da manager del valore di Claudia Porrello), l’abbinamento con i vini della Tenuta Argentiera di Bolgheri e con lo champagne J.De Telmont, distribuito da Longino. L’azienda vinicola toscana, di proprietà di Corrado e Marcello Fratini, rappresenta oggi una delle realtà più significative della Toscana: ottimo il Villa Donoratico 2007 (proposto in Magnum), così come l’Argentiera 2008. Vini che hanno saputo esprimere la loro pienezza anche in abbinamento ai piatti del
menu, mentre gli straordinari finger food preparati dalla brigata del Four Seasons hanno visto l’accostamento con lo champagne De Telmont Grand Riserve Brut. Bollicine preziose, frutto dell’attività di una maison a conduzione familiare, decisa a perpetuare la tradizione produttiva per consentire al prodotto di esprimere la propria qualità, in modo fedele allo stile originario.
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Chef a domicilio Due storie vincenti
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di Stefania Zolotti TRA TWITTER E RICETTE Stima e professionalità di uno chef a domicilio non si misurano certo in chilometri. Eppure, se questo fosse il metro, RoDante Il Cuoco Errante sa- navirebbe comunque sul podio (all’anagrafe ganti), coordina banqueè Roberto Dante Vincenzi). ting e catering senza Attivissimo in rete tra facebook e twitter, porre più di tanti limiti agli inviti la sua poetica si potrebbe tradurre in ma, soprattutto, crede fortemente che il tre parole: “ovunque nel mondo”, perché suo mestiere non sia sinonimo di elite è questa la distanza con cui raggiunge i perché un pasto indimenticabile – anche potenziali clienti grazie a un network dav- solo per una volta – è diritto di tutti. Il vero fitto di contatti e richieste con cui suo è un pensiero fatto di “ricette e sencopre l’intero territorio nazionale e non sazioni” e i piatti si intrecciano sempre solo. Basti pensare che è stato anche il al momento della preparazione e al cuoco ufficiale per l’Isola dei Famosi nel- luogo fisico in cui cucina. Molte ricette l’edizione del 2010. Più a domicilio di sono per lui dogmatiche, cioè inderogabili: così! Poche regole, ma decise, quelle “perché”, sostiene RoDante, “spingere che si è dato in quarant’anni di esperienza: sulla creatività per smontare un piatto andare solo dove vuole, rispettare senza quando ha già raggiunto il suo apice”? deroghe la privacy, proporre ricette clas- Le sensazioni, invece, sono quel bagaglio siche e, non da ultimo, avere carta di percezioni con cui entra a casa d’altri bianca sulle portate purché il cliente de- per lasciare il proprio segno. La sua è linei almeno i gusti. Sorride con sarcasmo una cucina intrisa di ricette nate dalla quando parla di questa moda tra i cultura delle geografie in tavola, dedicate fornelli: lui che nel 1974 già sperimentava al ciclo delle stagioni e arricchite dalla il metodo, ricorda che nel 2000 compariva semplicità intesa come purezza. Ha smonsolo il suo nome digitando “chef a domi- tato la pasta alla carbonara (lui dice sia cilio” su Google. Provateci oggi e resterete nata a Riccione) e l’origine della pizza increduli di come la cucina sia diventata (veneta, non napoletana), ripete che i una tendenza pericolosa per chi non sa vincisgrassi sono solamente marchigiani distinguere il falso dal vero. RoDante e lo fa rabbrividire l’idea del pomodoro da Fano (perché è nelle Marche che ha nel ragù alla bolognese (la ricetta prevede concentrato gli anni più lunghi della sua solo la conserva, aggiunta a proporzioni carriera e lì ancora risiede) oggi lavora quasi matematiche di alcuni tagli di carsoprattutto a Milano, Verona, Brescia e ne). Se lo inviterete, chiedetegli di Bergamo. Ogni giorno dell’anno è buono cucinare la crescia brusca (tipica pizza per accontentare chi lo cerca, ma quasi di formaggio marchigiana a forma di pacertamente non lo troverete per le feste nettone, un suo must) e non confondecomandate. O forse sì, dipende. Così tevi tra il brodetto di Fano e quello di come è certo che non cucinerà per voi San Benedetto del Tronto (li conosce se siete fanatici di qualsiasi integralismo entrambi alla perfezione e ne gusterete in tavola: non cercatelo per cene vegane, le differenze). La sua presenza potrebbe ma provateci per serate vegetariane. Il anche essere un regalo a sorpresa che domicilio per lui è un accessorio, purché qualcuno ha richiesto per voi: un giorno gli consenta di esprimere tecnicamente potrebbe suonare il vostro campanello la propria abilità: cucina dappertutto, è e presentarsi alla porta in giacca bianca uno chef di terra e di mare (non pochi i e tutto il suo metro e novanta di allegria. contatti che riceve durante il periodo Cappello da chef a parte. estivo per soddisfare il piacere di clienti www.rodante.it Artù n°53
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QUANDO IL TEMPO È A LA CARTE La città è Firenze, lo chef è Arturo Dori con un nome e un cognome che avrebbero sfondato anche da artista. Ma cosa c’è nella sua storia? Partiamo dalle basi del mestiere. Chi fa lo chef ha un suo ristorante di riferimento, che ne sia il titolare o un collaboratore: in ogni caso uno spazio fisico, un civico definito e georeferenziato (per dirla col linguaggio della rete) e dentro quelle pareti di cucina e quelle sale si creano i legami e la vita del locale. Lui, in quella cucina, si è fatto le ossa partendo da un sogno infranto di fotografo talentuoso con un biglietto pronto in mano per mordere la Grande Mela. Lo ha fermato una donna, la donna: quella che ha sposato, quella con cui nel ’94 ha aperto il Cavolo Nero e sempre quella con cui ancora oggi condisce la sua vita privata. Fine delle premesse, inizio della sua storia di personal chef. Il quartier generale è ora la sua casa dove gli attrezzi di cucina sono non soltanto quelli tradizionali, ma anche il portatile dove aggiorna il blog, scheda la preparazione delle ricette, organizza la spesa e pianifica il lavoro che è diventato ogni giorno diverso. Nella Firenze dell’arte e della moda, fare il personal chef vuol dire nutrire anche personaggi noti o stranieri innamorati dell’Italia che in casa vogliono la certezza del mangiar bene e sano senza perder tempo tra i fornelli. Ma cucinare a domicilio è un’incognita, ecco perché Arturo Dori chiede sempre un primo incontro a casa di chi lo cerca: gli serve capire l’identità del “cliente” attraverso gli spazi quotidiani, le abitudini
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alimentari, le richieste ricalate nel contesto. È per questo che fare il personal chef può anche voler dire un no, senza ma, nel rispetto di una propria etica. Lui gira il mondo in un piatto, spaziando dalla filosofia sensoriale del finger food (suo marchio di fabbrica, al punto che sta per pubblicare un libro), alla memoria dei sapori mediterranei. In mezzo a questa forbice c’è tutto il suo imprinting culturale di chi ha scelto di mettersi al servizio e non solo in gioco. L’estate è la stagione più densa di appuntamenti e di richieste, tra banqueting, originali picnic organizzati per stranieri in ville da sogno e momenti social dal ricco calendario toscano (come le Cene Galeotte di qualche anno fa, alle prese con i detenuti addetti alla cucina nel carcere di Volterra o la Boccaccesca di Certaldo dove ha saputo dedicare una “Cena senza limiti” ai celiaci intervenuti). La sua fede in cucina non ha più confini. Le contaminazioni umane con cui si misura ogni giorno lo hanno reso elastico a sfide sempre nuove, preparando felafel a domicilio per la famiglia di norvegesi così come piatti brasiliani per clienti dai palati esotici. I must, però, fortunatamente restano: come il celebre piccione con il suo sugo, o la mini tartare di manzo con bottarga di muggine e pane croccante o, ancora, la creme brulée di foie gras. I numeri non lo spaventano. A richiederlo, come consulente o come chef, sono coppie, famiglie, gruppi di amici, enti, società di catering. Tecnicamente, passare dal ristorante al domicilio, ha tracciato una grande differenza: cambiare i tempi, ridimensionando i piatti con cotture a fuoco basso. La spesa è il momento di sintesi tra i mille impegni, il gesto forse per lui più sacro. Perché cucinare a casa di qualcuno non è la stessa cosa che cucinare a casa per qualcuno. Una preposizione, a volte, fa tanta differenza. www.arturodori.com
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Bosio, la Franciacorta IDENTITARIA
di Alberto P. Schieppati L’azienda agricola di Timoline di Corte Franca, in Franciacorta, a pochi chilometri dal lago d’Iseo, è una perfetta combinazione fra rispetto delle tradizioni vitivinicole e forte propensione all’innovazione. Cesare e Laura Bosio, i due fratelli alla guida della cantina, sono fortemente convinti che il territorio, in tutte le sue differenze e potenzialità, sia il protagonista indiscusso di ogni produzione qualitativa. Oltre che il punto di partenza per uno sviluppo coerente e corretto del rapporto fra terroir e vitigni. “Un territorio piccolo, il nostro, ma grande per le diversità e, quindi, per la sua versatilità produttiva, nel rispetto estremo della qualità”. Esordisce così Cesare Bosio, il giovane vignaiolo (meglio sarebbe definirlo imprenditore vitivinicolo, ma il suo profondo amore per la vigna è palpabile a prima vista e arriva prima di ogni altra considerazione) che, con la sorella Laura, rappresenta ormai la quarta generazione di famiglia. Risale al 1998 l’ingresso in azienda dei giovani, che decidono di continuare l’attività dei genitori, Luigi e Teresa, concentrati su un’altra attività, squisitamente commerciale. È dunque relativamente recente l’avventura dei Bosio, che hanno avuto
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la geniale intuizione di rivisitare e, in un certo senso, riconvertire le vigne di proprietà. I vigneti attualmente in produzione occupano una superficie di oltre venti ettari, posti su area collinare con esposizione variabile. L’interpretazione di questi fattori (terreno, esposizione, condizioni climatiche) permette di ottenere una produzione diversificata e di alta qualità. Venti ettari, ventitre vigne: “Una sorta di microzonazione aziendale che ci consente – ci dice Cesare Bosio – di interpretare le varietà (sei vigne di Pinot nero e quattordici di Chardonnay) per avere un prodotto a base spumante che sia la fedele espressione di quel territorio”. Le suddette varietà sono inserite nelle vigne in maniera estremamente attenta al rapporto fra territorio e vitigno, con l’obiettivo di creare vini capaci di esprimersi in modo caratterizzato e originale. Oltre a Pinot nero e Chardonnay, destinati alla produzione del Franciacorta Docg e dei vini bianchi, l’Azienda agricola Bosio coltiva anche Merlot, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Barbera per la produzione dei rossi, fra cui segnaliamo, per eleganza e struttura, il rosso Zenighe (che prende nome dall’omonima zona di produzione, a Corte Franca): un rosso memorabile, recentemente degustato nel millesimo 2006, che ha un 50% di Cabernet Sauvignon, un 40% di Merlot e un 10% di Cabernet Franc. Ma è ovviamente nei Franciacorta Docg (possiamo chiamarle bollicine?) che si esprime al massimo la filosofia produttiva di Cesare e Laura (a quest’ultima il compito di seguire e monitorare il complesso mercato dell’horeca). Il Brut, 90% Chardonnay e 10% Pinot nero, rappresenta la freschezza e risponde a un bisogno di morbidezza estrema. Prodotto in circa 50.000 bottiglie, il Brut è destinato al consumo di qualità, agli enoappassionati che vogliono trovare in modo armonico le caratteristiche di un territorio ben definito. Di colore giallo paglierino con lievi riflessi verdognoli, presenta un bouquet tipicamente floreale: al palato si presenta morbido, fresco e complesso. In gamma, dopo il Brut, l’azienda Bosio presenta un altar “bolla” speciale, il
Satén. Un Franciacorta di estrema gradevolezza, che rivela appieno la sapida complessità dello Chardonnay in purezza: caratterizzato da un perlage finissimo e persistente offre al naso sentori floreali di rara nettezza: il Satèn di Bosio, massima espressione dello Chardonnay, è prodotto in circa 20.000 bottiglie, destinate alla ristorazione d’eccellenza e ai wine bar gestiti all’insegna della professionalità, come sottolinea Cesare Bosio. L’equilibrio dell’Extra Brut Millesimato “Boschedòr”, dal canto suo, è dato dalle percentuali (50% e 50%) di Pinot nero (la forza) e Chardonnay (l’eleganza): paritetici e armonici si compenetrano per offrire un millesimo dal profilo maturo e raffinato, molto ricco e con note di spezie e lieviti: al palato si presenta forte, complesso, autorevole, anche in virtù del blend paritario. Il vino base, in questo caso, fermenta e affina per sette mesi in vasche di acciaio termocondizionate a una temperatura di 14-15 gradi, più basse della media: dopo il tiraggio matura sui lieviti per 30 mesi prima della sboccatura. Boschedòr, prodotto in circa 10.000 bottiglie, è forse da ritenersi il prodotto bandiera, la flagship di un’azienda fortemente concentrata sul rispetto della viticoltura tradizionale, abbinata alla ricerca delle possibilità espresse dal territorio. Anche i Bosio, pur nella estrema caratterizzazione della propria produzione, mai indulgente verso le mode ma tenacemente legata alla territorialità, producono un bel Rosè, dalla connotata mineralità sapientemente combinata ad un bouquet inconfondibile, con frutti di bosco e agrumi in prima linea. Un vino integro, pulito, floreale, che non accetta compromessi, forte di un bell’80% di Pinot nero. L’espressione dei vitigni “maestri”, ovvero Chardonnay e Pinot nero, continua nel Franciacorta Brut Millesimato Docg, 30% Pinot nero e 70% Chardonnay: giallo paglierino, presenta un bouquet equilibrato con evidenti note di lievito, spezie ed agrumi. Un altro prodotto memorabile, di cui è facile innamorarsi, è il Franciacorta Pas Dosè Riserva “Girolamo Bosio” Docg: prodotto in sole mille
bottiglie (e 100 magnum), il Riserva (dedicato al nonno Girolamo, fondatore dell’azienda) presenta un perlage finissimo, un bouquet elegante con note speziate e comunica in bocca immediata importanza, complessità manifestata anche grazie al 70% di Pinot nero e al 30% di Chardonnay, un blend sapiente che non delude l’appassionato. “Il mondo si muove sempre più in fretta, dice Cesare: per noi è fondamentale presentare al mercato prodotti che rifuggano da ogni tipo di standardizzazione e che, al tempo stesso, sappiano esprimere appieno le caratteristiche del territorio franciacortino. Per questo motivo, non vogliamo assecondare ad ogni costo i gusti del consumatore, spesso indotti dalle mode, ma offrirgli prodotti autentici, che sappiano comunicare il valore dell’uva di partenza”. Non a caso, la gestione delle viti è quasi maniacale, così come l’attenzione per l’ambiente: “In collaborazione con il Consorzio Franciacorta e con il consorzio Sata, abbiamo da tempo adottato il sistema Itaca, in grado di controllare l’emissione finale di CO2”. Parola di Cesare Bosio, agronomo, imprenditore innamorato del suo territorio e sapiente comunicatore delle diversità dei singoli vitigni. In poche parole, schietto erogatore di piacere enoico.
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Il genio di Berton rivive da Pisacco 46
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Pisacco
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di Fiorenza Auriemma La presenza del nome di Andrea Berton, da poco orfano del Trussardi alla Scala, ha fatto sì che di Pisacco si cominciasse a parlare ben prima della sua apertura, verso metà dello scorso mese di settembre. Sarà davvero il nuovo locale del grande (e non solo per via dell’imponente statura) chef? E con che formula? Insomma, erano in tanti a non vedere l’ora che si alzassero per la prima volta le serrande di questo “bistrot contemporaneo”, come viene definito da chi l’ha voluto, pensato e realizzato. In effetti, Berton c’è. Ma non proprio come alcuni anticipavano e auspicavano. Ovvero, non è fisicamente dietro ai fornelli. Però, la sua presenza è comunque evidente e fondamentale, oltre al fatto che non è raro incontrarlo seduto a uno dei tavoli del locale. Perché lo chef che ha portato il Trussardi al traguardo delle due stelle firma e sovraintende la linea di cucina di Pisacco, affidata poi nella quotidianità al giovanissimo Matteo Gelmini, approdato qui dopo aver lavorato all’Eat’s Bistrò dell’Excelsior di Milano. Come a Milano è ovviamente anche Pisacco. E non in una “Milano” qualunque, bensì nella parte forse meno nota e nobile – all’altezza del numero 48, verso Corso Como – della storica e centralissima Via Solferino, arteria strategica e rinomata anche per ospitare tra l’altro la sede del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport. Dopo il mistero iniziale, le intenzioni sono quindi ora più che chiare: offrire ai milanesi, e non solo, un luogo piacevole ed easy, dove la cucina è curata – a cominciare dalle materie prime –, ma la formula è al passo con in tempi: e quindi informale, veloce, conviviale ed economicamente abbordabile. È interessante notare come questa tendenza al bistrot si stia lentamente, ma inesorabilmente, facendosi strada nella metropoli meneghina, prendendo spunto dal collaudatissimo modello francese per declinarlo in
varie ed eventuali modi, tutti comunque all’insegna dell’italianità. Tornando a Pisacco, il progetto nasce da un’intuizione collettiva. Infatti, alle spalle ha una famiglia “allargata”, che comprende manager, collezionisti d’arte, avvocati, architetti. Tutti uniti dalla passione per una cucina italiana semplice e attuale. In sostanza, si tratta del primo intervento diretto sul campo di food.different, società di consulenze enogastronomiche i cui soci stavano pensando da tempo a “scendere in campo”, e che quindi hanno colto la palla al balzo quando un fuoriclasse come Berton è tornato di nuovo sul mercato per chiedere la sua collaborazione. Dal suo sì al trovare la location adatta e ad aprire, il passo è stato breve: dove ora c’è Pisacco, nel corso degli ultimi anni si sono succeduti altri ristoranti, con formule e intenti diversi, l’ultimo dei quali di nome Bisbiglio. Ecco perché gli interventi necessari sono stati minimi, accelerando i tempi per poter arrivare al giorno del battesimo. Articolato su due piani, Pisacco è per ora aperto tutti i giorni a pranzo, e sei a cena (con l’intento però di essere presto a disposizione anche la domenica sera), passando dall’aperitivo. Che si può prendere seduti ai due grandi tavoli che all’ingresso hanno preso il posto del bancone bar, proprio con l’intento di rendere di nuovo conviviale un appuntamento – quello con l’aperitivo – che negli ultimi anni ha preso strade differenti e a volte confuse. Vediamo nel dettaglio chi sono i “padri” di Pisacco, oltre ad Andrea Berton (che, per inciso, ha detto la sua in modo sostanzioso per la realizzazione Artù n°53
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della nuova cucina, dove è avvenuto l’intervento maggiore per consentire alla brigata di lavorare con strumenti all’altezza delle esigenze più moderne), ci sono Giovanni Fiorin, professionista della gestione e servizio nell’ospitalità; Diego Rigatti, avvocato, sommelier e competente gourmand, e l’architetto Tiziano Vudafieri, firma dell’interior per noti brand del lusso. In più, Gabriella Ciancimino, che ha realizzato il wall drawing, ovvero le decorazioni alle pareti. In sostanza, una squadra di professionisti che – fatta eccezione per Berton – di solito si occupa di altro, ma che non per questo non aveva le carte in regola per lanciarsi in questa nuova avventura. E in un momento non propriamente favorevole per la ristorazione. Forse la scommessa di Pisacco sta proprio qui: mettere a punto un format che sia in linea con la realtà dei tempi, senza nulla togliere a colonne portanti che possiamo riassumere in poche parole: qualità del cibo e del servizio a prezzi contenuti. Quindi, resterebbe deluso chi prendendo posto a uno dei tavoli
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– sia al piano terra, sia in quello inferiore che gode di una rilassante vista sul giardino interno ricavato dove in origine c’era un tratto della Conca delle Gabelle, la più antica di Milano, quando il naviglio della Martesana confluiva in città verso piazza San Marco – si aspettasse di poter consultare un menu lungo, complesso e articolato. Perché volutamente la proposta culinaria di Pisacco è molto compatta e comprende quattro antipasti, tre primi, quattro secondi, tre contorni e quattro/cinque dolci. Il tutto scritto su un foglio di carta con una curiosa intestazione che ricorda una e-mail (per aggiungere un tocco innovativo al gettonatissimo menu vergato a mano sulla lavagna) e con un ricambio mensile – tranne il piatto del giorno, che cambia appunto quotidianamente – ma con una costante: puntare sui “fondamentali” per offrire piatti della tradizione italiana – curati sia nella scelta delle materie prime, sia nella preparazione e presentazione – però aggiornati e sfiziosi. Ecco quindi che nel menu delle prime settimane, i più gettonati tra gli antipasti sono stati la carne cruda tagliata al coltello condita con una delicata maionese alle erbe e un ovetto di quaglia sodo, e il calamaro alla plancia con crema di cipollotto e lime che si scioglie in bocca tanto è morbido. Mentre tra i primi hanno spopolato gli spaghetti al pomodoro e basilico con crema di mozzarella di bufala e il minestrone al pesto, reso più intrigante dalla presenza di tre cappesante incipriate con un trito di capperi; tra i secondi, standing ovation per l’hamburger Berton e anche per il merluzzo nero con indivia belga e peperoni. E i prezzi? Anche qui – come anticipato – siamo nel new deal della ristorazione meneghina: 8 euro per l’antipasto, tra gli 8,50 e i 9,50 per i primi, tra i 12 e 14 euro per i secondi e 6 euro per i dolci. Scelta questa che – abbinata alla concretezza dell’offerta, alla piacevolezza del luogo e al nome di Berton – si è rivelata fin
da subito vincente: tutto esaurito, o quasi, compreso il vezzoso tavolino in vetrina con vista su Via Solferino. Resta ancora un mistero da svelare: che cosa vuol dire Pisacco? Non c’è una risposta, è la risposta che ci è stata data. Perché di fatto ha tanti possibili significati: è una parola semplice, sembra un cognome, ha assonanza con un personaggio famoso, permette di fare giochetti mentali per memorizzarlo, ha un che di italianità ecc. ecc. Insomma, è un brand a tutti gli effetti.
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Oltre la fusion L’esempio di Wicky
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di Fiorenza Auriemma Una novità sulla scena milanese, il ristorante Wicuisine, conferma che cultura, passione, ricerca sono gli elementi fondamentali per caratterizzare il livello qualitativo dell’offerta. Con l’aggiunta di una buona dose di riflessione ayurvedica. Da fuori non lo noti. Devi entrare per comprendere che non si tratta di uno dei tanti locali giapponesi – o similari – di Milano. Né dell’ennesimo luogo di cucina fusion. Quello che avverti invece è di aver messo piede nella casa, o meglio ancora nel villaggio di qualcuno. Un villaggio particolare, accogliente e semplice, ordinato e al tempo stesso caldo e vicino a un mare diverso dal nostro ma non estraniante. Le pareti dipinte di scuro, ad esempio, non incutono timore né trasmettono distacco: al contrario, trattengono all’esterno il caos urbano e rilassano lo sguardo che vi si posa, come accade con i cieli al tramonto. Ci si sente a proprio agio da Wicky’s Wicuisine Seafood, in via San Calocero 3, a pochi passi dal trafficato e impersonale Corso Genova. E soprattutto, si ha l’impressione di essere approdati in un luogo che appartiene sì a un’altra tradizione e qualcun altro, ma senza essere una “terra straniera”. E questo benché Wicky e Nozomi – rispettivamente lo chef del locale e sua moglie – vengano da territori molto lontani: dallo Sri Lanka lui, dal Giappone lei. Come anche la brava sommelier, Naoko Takeda, che segue con competenza il servizio del vino. Il perché di tutte queste sensazioni apparentemente contraddittorie e contrastanti e in realtà complementari – il rigore, la semplicità, il calore, la diversità, l’agio – non è semplice da spiegare a parole. Bisogna provarlo di persona. Sarà la grande
icona di luna piena dorata incastonata al centro della lunga parete. O il movimento sinuoso delle onde stilizzate che avvolge le vetrate evocando il mare. O le piccole luci che pendono dal soffitto a mimare il luccichio delle stelle. Saranno i tavolini di rovere chiaro apparecchiati con elegante discrezione, oppure il lungo bancone dello stesso morbido legno che permette a più persone di condividere il cibo fianco a fianco, gettando tra un boccone e l’altro occhiate furtive a ciò che c’è e accade dall’altra parte: le ciotole, gli attrezzi, le bottiglie, i vasetti; e le mani che preparano e finiscono i piatti, gesti veloci, sicuri e morbidi che modellano il riso bollito per farlo diventare la base su cui poggiare il pesce. Attenzione, però: è bene precisare subito che il sushi qui c’è, eccome, però non la fa da padrone. Al contrario, è una possibilità che si divide il menu con molte altre. Non è lui il protagonista, quindi, bensì un elemento importante né più né meno tanto quanto gli altri attori dello spettacolo
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Qui sotto: Ombrina con salsa magica (salsa Champagne e vino bianco aromatizzata ai limone e soia).
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culinario che – in versione condensata a mezzogiorno e amplificata la sera – va in scena da Wicuisine. È solo cominciando a mangiare che diventa più chiaro il motivo di questo sentirsi “diversamente bene” qui rispetto ad altri luoghi che servono piatti di ispirazione orientale. “Come definisco la mia cucina? Con una parola. Anzi, due: rispetto e cultura. Rispetto per le materie prime e i sapori del mondo. E anche per la cultura del mondo. Perché ho girato molto e soprattutto ho vissuto molto, nel mondo. E ho visto persone importanti e famose, così come clochard che mangiavano e dormivano per strada”. Non è un uomo di tante parole, Wicky Pryian, che prima di aprire questo suo locale – circa un anno fa – ha lavorato per cinque anni da Zero, noto ristorante giapponese in corso Magenta, sempre a Milano. Ma quello che dice è più che sufficiente a trasmettere una visione della sua vita – e della sua cucina – allargata e tonda, proprio come la Terra: si parte dallo Sri Lanka, isola dov’è nato poco più di 40 anni fa in una famiglia che pratica da sempre la medicina ayurvedica, per frequentare poi molto spesso il Giappone, l’Africa, le foreste amazzoniche del Brasile, e anche l’India, dove per mesi Wicky ha passato il tempo osservando coloro che hanno come casa la strada, e ha vissuto, dormito e mangiato con loro. Tutto questo,
per lavoro. Al contrario di altri suoi colleghi, però, Wicky non ha girato il mondo indossando toque e giacca da chef. Perché nasce professionalmente come criminologo, ed è proprio in quella veste così particolare che si è reso conto di quanto fosse importante per le persone poter mangiare bene. Sono spezzoni intensi di vita che lo chef non sbandiera; anzi, sembra quasi restio a raccontarli e a raccontarsi. Però, per lui parlano gli occhi, i gesti, la postura, le pause, i movimenti. Che rivelano anche un altro importante aspetto del suo passato: la passione per le arti marziali giapponesi e il Budo, via di ricerca della conoscenza e metodo di perfezionamento che ha come fulcro l’insegnamento dell’unità di mente e tecnica, l’addestramento del corpo e il raffinamento dello spirito; insieme - e non è un caso - alla pratica del Rei, ovvero del rispetto. Era quindi inevitabile che, dopo aver scelto di passare dai crimini ai fornelli, quest’uomo che conosce così bene il mondo abbia ora la capacità di farlo incontrare – e in modo equilibrato – nei suoi piatti. Che si possono definire convegni gastronomici internazionali dove si ritrovano cotture, spezie, salse e condimenti più diversi, all’unico scopo di dare luce, spessore e spazio alle materie prime. “Ci affidiamo ad alcuni fornitori giapponesi che stanno in Germania per procurarci quello che non troviamo qui. E ciò che non hanno nemmeno loro, perché molto particolare, lo andiamo a prendere direttamente in Giappone, un paio di volte all’anno”, racconta Nozomi. Ma non temano i più nazionalisti: è dall’Italia che proviene la maggior parte delle materie prime che qui viene poi trasformata in piccoli capolavori gastronomici universali: pesce fresco e verdure in primis, ma anche olio di oliva extravergine siciliano, capperi di Pantelleria, olive taggiasche, colatura di alici di Cetara e molto altro, vini compresi. In ogni piatto c’è un tocco di italianità, ed è questo un altro elemento che caratterizza la cucina di Wicky. Il quale, di una cosa in particolare va molto orgoglioso delle sue salse:
“Ne ho più di 50 in cucina, tutte preparate da me. Ma nella testa ne ho almeno altre 200”, racconta, e mentre lo dice sorride, e gli occhi gli si illuminano. Perché per lui le salse sono importanti, non tanto per coprire o distogliere da ciò che è protagonista del piatto: al contrario, le sue miscele di sapori sottolineano, esaltano, completano, armonizzano anche quando sembrano creare contrasto. Siamo quindi ancora a parlare di contrasti apparenti. E anche questo evoca il mondo, dove molto di ciò che appare così “diverso” è di fatto simile. “Certo che nei miei piatti ci sono le spezie. Ma non predominano mai: si tratta di usarle in modo equilibrato”. L’equilibrio comincia ad esempio dai piatti che nel menu sono alla voce Prima Onda e corrispondono – nel nostro linguaggio gastronomico – agli antipasti. Qualche esempio? “Dei cinque continenti”, a base di tonno, salmone e ricciola con una salsa marinata di agrumi, lemongrass, zenzero, semi di finocchio, erba cipollina, basilico, coriandolo fresco, sale, olio di oliva extravergine e pepe nero; “Rosso Siciliano”, dove il gambero rosso di Sicilia è accompagnato da una salsa a base di pomodoro datterino, basilico, sale, olio d’oliva e pepe nero; “Di mare con il nostro pesto”, tavolozza di tonno, ricciola, branzino e salmone conditi con salsa di wasabi e prugne giapponesi, salsa al yuzu e gocce del pesto fatto in casa; “Piovra alla Kaneki Kyoto”, bollita per tre ore con la salsa di soia, sake, vino bianco e mirin, e poi cotta al vapore per un’ulteriore ora prima di essere servita con soia verde. Il viaggio del contemporaneo e goloso Marco Polo prosegue con la Seconda Onda (primi piatti), dove gli amanti del sushi possono
bearsi grazie a una moltitudine di proposte che Wicky racconta di aver appreso dal suo maestro Kan; e ordinare dal tonno alla cappasanta, dalla ricciola (con una speciale Wicky’s Sauce e caviale di tartufo: da assagiare!) al roll di astice in tempura e asparagi avvolti in filetti di astice con salsa dei cinque continenti, la stessa che arricchisce il roll di Angus. Il quale è disponibile anche in versione sushi, così come il filetto di Kobe, anche con una speciale salsa al rosmarino. Per chi al crudo preferisce il cotto, ecco quindi la Terza Onda che frange sulla spiaggia del menu: e che comprende tra l’altro una “Ombrina magica” con salsa di Champagne e vino bianco aromatizzata al limone e soia, caviale di melanzana, basilico e fiocchi di sale; un “Merluzzo nero” marinato con la speciale Wicky's Miso e servito con verdura bok-choy al vapore condita con olio di oliva; un delizioso “Kaneky Kyoto”, ovvero maiale tipico della tradizione giapponese, bollito per 16 ore secondo la tecnica Artù n°53
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di Kaneki e poi accompagnato con mela caramellata e senape; e ovviamente il filetto di Angus (con la salsa alle spezie di Wicky) e di Kobe (cucinato con soia, sake, alghe konbu e pomodori datterini essiccati, e servito con tagliolini di zucchine). Chi non fosse ancora sazio, può cullarsi nella Quarta Onda, quella finale e dolce. Che lo chef propone grazie alla preziosa e attenta collaborazione con Andrea Besuschio, pasticcere dallo sguardo aperto: “Noi rispettiamo il suo lavoro e lui il nostro. Ci ascoltiamo a vicenda”, come tengono a precisare Wicky e Nozomo. Anche se, a dire il vero, dopo aver “viaggiato” per il mondo a bordo della Wicuisine non si sente più di tanto il bisogno di concludere in dolcezza: c’è già tutto, in questi piatti. Ma gli italiani sono così tradizionalisti, anche quando sono in “casa d’altri”: “Il mondo è avanti, con gli ingredienti e tutto resto, mentre l’Italia è ancora un po’ indietro, pur avendo tutto: mare, montagna, cultura, ingredienti. È la mentalità a essere ancora un po’ chiusa”, commenta senza superbia lo chef. Per questo, i clienti che approdano qui e che possono restare disorientati dalla girandola di sensazioni che frullano nel palato, hanno l’opportunità di chiedere e allargare
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così i propri orizzonti gustativi. “A chi lo desidera, raccontiamo e spieghiamo con piacere da dove arriva la materia prima o come sono le nostre tecniche di cottura”, precisa Nozomo. Perché il mondo non ha segreti, bensì caratteristiche, sfumature e angolazioni che non aspettano altro che essere scoperte.
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di Fiorenza Auriemma A Milano Drogheria Plinio propone un nuovo modo di consumare, che parte dalle reali e schiette esigenze del cliente. Con un pizzico di eccentricità. Siete stanchi della solita colazione al bar con cappuccio e brioche? Sognate di non dover sempre chiedere “Per cortesia, mi darebbe anche un bicchiere d’acqua naturale?” ogni volta che ordinate un caffè? A pranzo avete poco tempo e/o pochi soldi da investire per mangiare altro dal solito panino? Provate nostalgia per l’aperitivo di una volta il cui compito era aprire lo stomaco e non intasarlo? Vorreste cenare fuori casa con un piatto semplice e con tutta la famiglia ma senza sensi di colpa economici? E magari, prima di tornare a casa, comperare formaggio, yogurt o un barattolo di gelato di cascina, una confezione di pasta artigianale, una bottiglia di vino, un pacchetto di biscotti diversi dal solito, o addirittura una padella? Se anche uno solo di queste opzioni rientra nel vostro carnet dei desideri, e se abitate a Milano, fate un salto alla Drogheria Plinio, al numero 6 della omonima via. Il locale – aperto a fine agosto e che si autodeArtù n°53
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I soci Fulvio Losi, Roberto Calloni e Monica Romanelli.
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finisce “bar, cucina, enoteca, emporio” – è in sostanza una versione gastronomica del concetto di “melting pot”. Ma è soprattutto una declinazione di negozio/ristorante che intende rispondere alle esigenze attuali. Ovvero, mangiare e acquistare cibo “nostrano” in un luogo “normale” e spendendo cifre ragionevoli. Se questo agorà culinario darà i buoni frutti che promette e riuscirà a essere una valida alternativa a format molto più rodati e modaioli, è ancora presto per dirlo. Noi per ora ci limitiamo a raccontarne le intenzioni e a lodare lo spirito innovativo, ma sempre attento alla tradizione, dei tre soci: Monica Romanelli, Fulvio Losi e Roberto Calloni. Il nome “drogheria” e la bilancia old style posizionata all’ingresso evocano immagini di altri tempi, mentre ciò che si trova all’interno nasce dalla volontà di coniugare in modo diverso e concreto i segreti dell’antica saggezza italiana e le richieste di oggi. “Si tratta di un cammino appena cominciato, e la scelta di andare in cerca di partner e fornitori con requisiti compatibili con il nostro progetto implica una dimensione in continuo divenire, destinata a evolversi, arricchirsi e affinarsi nel tempo”. Si legge così nello “statuto” dei tre soci. Quindi, può essere che quello che vi raccontiamo oggi a proposito di Drogheria Plinio possa non coincidere con ciò che sarà tra qualche mese. Il tutto, a ogni modo, con l’intento dichiarato di migliorare, ampliare, calibrare, testare,
monitare e – quando necessario – cambiare e modificare. Ciò che invece è destinato a restare è lo stile del locale, studiato ad hoc per essere funzionale, informale e – per dirla con un termine d’altre terre – easy. Questo vale, per esempio, per le scaffalature molto semplici che permettono di avere un immediato colpo d’occhio sui prodotti in vendita, e che in più sono versatili (all’occorrenza, quelle nell’area enoteca si possono trasformare in bancone per degustare vini e cibi, mentre nella zona all’ingresso vengono in parte usate come sedute). E anche per i tavoli e le sedie che rimandano agli anni 60 e contribuiscono a creare un’atmosfera “di casa”, resa più originale e moderna dai barattoli di vetro di marmellata e conserve riciclati e trasformati in piccoli lampadari che illuminano il locale. Il tutto, ribadiscono i soci, è stato pensato allo scopo di richiamare sia alla memoria, sia ai sensi le latterie e le drogherie con cucina che caratterizzavano la Milano di un tempo. Senza trascurare i bisogni moderni. Un esempio? L’intero locale è wi-fi. Ricavato dove prima c’era una panetteria, Drogheria Plinio sfrutta i suoi 150 mq suddividendoli in aree specifiche e complementari: l’ambiente centrale è destinato alla degustazione dei piatti proposti dalla cucina, così come delle materie prime utilizzate e alla vetrina di quelle in vendita: in altre parole, a secondo degli orari della giornata diventa bar, luogo per pranzi veloci o tradizionali aperitivi e/o per una ce-
na informale realizzata con i prodotti nell’elenco vendita dell’emporio. Passando accanto al bancone bar – dove non si può non notare dispenser e bicchierini per l’acqua fai-da-te da accompagnare al caffè - si raggiunge in fondo la piccola cucina a vista che fronteggia l’ingresso della minuscola enoteca (con poche etichette in vendita a un prezzo accessibile) arredata con bottiglie e anche tavolini che sono a disposizione per chi preferisce pranzare, cenare o bere un calice in un ambiente un po’ più riparato. Vediamo ora maggiormente nel dettaglio l’offerta attuale di Drogheria Plinio. Aperto dalle 8.00 alle 23.00 (dal lunedì al sabato, con il proposito di alzare la serranda anche la domenica) nella prima parte della giornata il servizio di caffetteria propone croissant, torte, fette biscottate, biscotti e panini secchi, oltre ovviamente a caffè espresso e cappuccino (compresi quel-
li di soia e di latte di riso). All’ora di pranzo, dalla cucina escono piatti leggeri e veloci con un menu (la scelta è fra tre primi – a 5 euro – e altrettanti secondi – a 7 euro) che cambia ogni giorno; oltre a insalate e panini personalizzabili su ordinazione attraverso la combinazione d’ingredienti di sta-
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da “assaggini” di prodotti tipici (olive, salumi, formaggi ecc., a scelta dello chef), spendendo dai 5 ai 7 euro. Per cena, infine, si può scegliere tra il menu degustazione a prezzo fisso (15 euro per primo e secondo) o una ristretta gamma di piatti – quattro o cinque, che cambiano ogni settimana – alla carta basata su pietanze tipiche della cultura tradizionale a un prezzo compreso tra 8 e 18 euro, cui si aggiungono taglieri di salumi e formaggi. Tenendo sempre conto che la cucina prepara ciò che il mercato di stagione offre. “Il nostro pubblico? A pranzo ovviamente chi lavora negli uffici qui in zona, mentre la sera per ora ci frequentano sia i residenti in zona, sia persone che vengono qui incuriosite dall’insegna e da ciò che si vede attraverso le due luci sulla strada”, gione e di origine nostrana che fanno spiega Fulvio Tosi, ribadendo poi: “La bella mostra di sé dietro l’apposito nostra idea era creare un posto accobancone del fresco. Chi preferisce, gliente, piacevole e ricercato, dove può anche ordinare il pranzo per tele- condividere il cibo “vero” senza spenfono (a scelta tra i piatti del giorno) e dere una fortuna”. E aggiungendo ritirarlo in negozio all’ora convenuta, come non sia da scartare l’idea di reoppure farselo recapitare a domicilio plicare il format anche in altre vie nell’area immediatamente circostante della città. “Per ora è prematuro. Ma il locale. Verso sera, gli appassionati di sicuro lo faremo solo se e quando dell’aperitivo tradizionale, possono se- troveremo collaboratori che hanno la dersi per un bicchiere di vino al calice, nostra stessa spinta e concetto di una birra o un cocktail accompagnato “drogheria con cucina”.
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Locanda Quattro Ciacole Crocevia del gusto di Alessandra Piubello Vicino a Verona, sulla Transpolesana, un format lineare e al tempo stesso geniale, inserito in un ambiente di struggente autenticità e di potente rifiuto di ogni moda: grandi salumi, grandi vini, grandi in virtù non tanto della loro notorietà, ma del loro valore oggettivo. Alla Locanda delle Quattro Ciacole, trionfa il gusto, in tutte le sue declinazioni territoriali. Perché il “terroir” di cui tutti parlano ha bisogno di interpreti di elevata professionalità, che sappiano anche essere selezionatori del meglio possibile. “La loro casa! Ed il tepore, questo, intimo, all’ombra degli affetti in calmi cieli trasmessi! È la soglia, codesta, che varcaron con passo agile, risa chiare, prima che, stesi nella bara, trisavoli dalla parrucca a bianche chiocciole, nonne in crinoline e toccarli non più che nella forma sbiadita di tarlate carte! Con i miei assegnati giorni, cosa miserabile allora, mi sento io, passeggero in transito tra indifferente stabilità di pietra…”. Leonello Fiumi (Rovereto 1894 – Roverchiara 1977)
Roverchiara
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Patria di insigni letterati e cultori della storia del luogo, la Bassa Veronese accoglie il visitatore per il silenzio ovattato delle sue piane bruciate dall'afosità estiva o avvolte nella caligine lattea dell'autunno, preludio del maestoso incedere invernale. Una terra di pievi, ville, turriti castelli e gesta di briganti (nel tempo, leggenda ancor viva) e di antichi usi e tradizioni gastronomiche. Un genius loci legato al culto dell'acqua, là dove il familiare paesaggio rurale apre alle “fresche e chiare” risorgive naturali. E grazie all'operosità degli abitanti, poiché ingegno ed intraprendenza convivono pacificamente nell'amore per la terra, questo mondo antico non finisce di stupire. Fermati un attimo, viandante del gusto, a Roverchiara, in questa Bassa popolata da gente di memoria avita ancora accoccolata nei ritmi della natura, della famiglia e del tempo, e proverai meraviglia. Lasciati trasportare dal vento carezzevole del pia-
cere alla fu Roverciara, così chiamata per i suoi boschi di rovere (lo stemma della cittadina è una quercia) o forse Ripaclara, a causa del suo porto sul fiume Adige e del faro che lo illuminava. All’ombra di un campanile, nella piazza principale del paesino che fu vescovado, troverai la locanda della felicità. Nulla a che vedere con la famosa commedia agrodolce del più noto regista cinese Zhang Yimou, né con il film strappalacrime “La locanda della sesta felicità” con la mitica Ingrid Bergman, tratto dal romanzo di Alan Burgess. No, qui siamo alla “Locanda le 4 ciacole” ma si incontra madama felicità. Come? Lo scoprirai leggendo. Diceva François de La Rochefoucauld: “La felicità sta nel gusto e non nelle cose; si è felici perché si ha ciò che ci piace, e non perché si ha ciò che gli altri trovano piacevole”. Già la parola locanda suscita, nell’immaginario, una felice storia antica: millenario crocevia di uomini che, sostando per una pausa ristoratrice dai lunghi viaggi, narravano racconti diventati leggende. Il topos letterario ne ha molteplici esempi, dalla locanda Almeyer del libro Oceano Mare di Alessandro Baricco alla leggendaria locanda dell’ammiraglio Benbow nell’Isola del Tesoro, scritto da Robert Luis Stevenson, alla Locanda delle streghe di Joseph Conrad, solo per citarne alcuni. Luoghi delle memorie, dagli arcaici stili di vita ma dai piaceri semplici, fondamentali, irrinunciabili, locali nei quali il dialogo diventa confidenza, condivisione. E che dire dell’oste, dal latino hòspes, ovvero colui che riceve in casa i forestieri? “Vista ch’ebbe la guida, ‘maledetto!’ disse tra sé: ‘tu che m’abbia a venir sempre tra’ piedi, quando meno ti vorrei!’ Data poi un’occhiata in fretta a Renzo, disse, ancora tra sé: ‘non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti conoscerò’. Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dell’oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi. Cosa comandan questi signori? – disse ad alta voce.” Così ci descrive un oste Alessandro Manzoni, ne I Promessi Sposi. Tradizionalmente è
figura che conosce l’animo umano, pronta al dialogo, che sa relazionarsi entrando in sintonia con le persone. Un tris d’assi: Tiziano e Marco Scandogliero e Rudy Casalini Nelle locande d’un tempo si giocava a carte, ma i locandieri di Roverchiara (seppur a volte si divertano in qualche partita fra amici) azzardano solo su un fattore: la perenne, instancabile ricerca della migliore qualità nella materia prima. Tiziano Scandogliero, cinquantasette anni di vivace franchezza, il mestiere della bottega ce l’ha nel sangue. Gli studi di architettura e le esperienze all’estero come topografo non lo distolgono dalla passione genetica per gli alimenti. Il negozio di famiglia ha più di cento anni: seppur da qualche anno dato in gestione, è ancora lì, a pochi passi dalla locanda nata nel 2008. “Andavo fin da piccolo con papà Emilio – racconta Tiziano – ad accompagnarlo nei caseifici per la selezione dei formaggi e alla ricerca di gustosi salumi in giro per
l’Italia. Era un curioso e uno sperimentatore, il primo per esempio ad introdurre nella Bassa la mozzarella”. Tiziano possiede le tipiche doti di un gastronauta (non esiste mica solo Paolini…): il brivido della scoperta del prodotto autentico, attrazione per il gusto, desiderio di convivialità, amore per l’armonia e la bellezza, scelta della lentezza come stile di vita, voglia di condividere il piacere. Per uno scopritore di sapori veri
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come è lui, il negozio di alimentari va pertanto stretto, lì diventa sempre più difficile proporre prodotti artigianali esteticamente magari meno attraenti ma più genuini, ben lontani dalla globalizzazione. Dall’omologazione dei gusti c’è solo un riparo: il forte aggancio alla territorialità, all’artigianalità e alla tradizione. Perché il cibo non è una merce, il cibo non è un prezzo, è sapienza, sacralità, memoria, identità. In una bottega non si può avvicinare la gente a questi concetti, non si può portarla, attraverso la conoscenza diretta della degustazione ad un percorso di consapevolezza gastronomica. E Tiziano sente questa missione. Lodevole: far cultura alimentare persi nelle nebbie della Bassa Veronese a quaranta chilometri dalla città, in una cittadina di duemilaottocento abitanti, non è come farla in una conosciuta località di passaggio. Da lui ci si deve andare appositamente, ma il ricercatore dei sapori genuini troverà ristoro e riparo dalle fatiche della cucina astrusiana (l’ultimo trend internazionale è l’Eating design) e dalla banalizzazione del cibo. Appena varcata la soglia sarà accolto da un monumentale bancone di salumi e formaggi (più di centosessanta tipologie) dietro il quale spunta il sorriso cordiale, appena sotto il baffetto provocatore, del padrone di casa. Un vero bendiddio, che il simpatico oste conosce nei minimi particolari: ha visitato personalmente i suoi produttori,
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ne conosce storia e caratteristiche. “Non posso proporre ciò che non conosco per esperienza diretta o ciò che non mi piace, non ci riesco – afferma giustamente Tiziano, che non si affida a nessun consulente o rappresentante –. Vivo per la mia passione e per raccontarla alle persone che arrivano qui, che molte volte non conoscono più i gusti della memoria, non sanno più cos’è un prodotto naturale, la sua stagionalità, il territorio dal quale proviene”. Pensieri gastronomici che affondano le loro radici nella familiarità del desco, nella convivialità della condivisione dei sapori, dei saperi e dei piaceri. La tavola poi non rifulge senza lo splendore di Bacco, (Galilei scriveva che il vino è la luce del sole tenuta insieme dall'acqua) e qui arriva il momento del nostro coppiere, Marco Scandogliero. Ventinovenne, il figlio di Tiziano sgambettava da piccino in negozio, ma la passione per il vino viene dai ricordi casalinghi con il nonno paterno, fine degustatore. “Sono sommelier ma non uso la tecnica dei libri per parlare di un vino. Non faccio menzione di grigi numeri per esprimere un vino, che è colore. Racconto il vino attraverso le mie esperienze e il mio vissuto personale. Sono andato a visitare direttamente, senza intermediazioni di distributori, più di trecento cantine fra Italia, Spagna, Francia e Germania e mi piace riportare le mie emozioni, i miei ricordi, il territorio
che ho visitato e soprattutto la personalità del produttore con il quale sono entrato in contatto. Credo che sia importante mettere la propria esperienza sensoriale e la propria professionalità al servizio del cliente, senza salire su un piedistallo a sentenziare ciò che è buono o cattivo. Il vino è sogno, emozione: ha una storia affascinante che va trasmessa. Assaggio sempre più volte i vini che ho in carta, proprio per sentirne l’evoluzione nel tempo – a volte sorprendente – e poterli descrivere al meglio a chi si avvicina al nostro modo di intendere il convivio. In sala bisogna divertirsi e far divertire e non si fanno calcoli. È una scelta antieconomica, ma il nostro intento non è il business, se non in giusta dose: siamo autentici e proponiamo autenticità”. La carta è ampia ma fortemente caratterizzata e personale, con presenze internazionali e tanti vini “naturali”. La scelta al bicchiere è giornaliera e non ci sono abbinamenti fissi al menu (“troppa rigidità e programmazione, non mi divertirei più”). Per rendere unica la sosta e far assaporare la felicità sorso a sorso, qui ti fanno sentire proprio come a casa, nella naturalezza di un’accoglienza familiare, preludio di concreta amicizia. La filosofia del buon gusto degli Scandogliero va ben oltre la scelta rigorosa delle materie prime, l’accurata selezione dei vini, lo stile nella mise en place, la studiata arte nell’impiattare, ma abbraccia il modo di concepire il locale, il servizio stesso. D’altronde se gli
uomini si siedono a tavola non è solo per nutrirsi, anzi non è quasi mai per nutrirsi. È per cum-vivere, celebrare riti, per compiere un atto vitale che è anche moto dell’anima. Alla locanda 4 ciacole sono maestri nell’accudimento, nella coinvolgente narrazione del percorso gastronomico. Tutti i ragazzi della sala arrivano ogni giorno alle tre del pomeriggio (il locale è aperto solo alla sera, giorno di chiusura la domenica) per partecipare, insieme con il personale della cucina, alla preparazione del pane, della pasta, delle ricette, dei dolci. È con l’esperienza diretta che poi ai tavoli raccontano ogni singola creazione dello chef, proponendo spesso anche dei fuori carta, per coccolare il cliente e raccogliere le sue impressioni. Senza essere troppo presenti, sanno intervenire al momento giusto per aggiungere un dettaglio, pronti per soddisfare una curiosità, per stimolare un approfondimento, facendoti compartecipare alla passione che anima il locale. Il buon padre di famiglia, al termine del pasto, interloquisce con gli avventori per ultimare l’opera e scam-
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biare, con le ultime chiacchiere, le esperienze culinarie. Che vanno sempre riportate allo chef Rudy Casalini, il pilastro storico della locanda, anche lui originario della Bassa. Rudy, cuoco autodidatta, ha in comune con gli Scandogliero umiltà, disponibilità, passione, voglia di rimettersi in discussione, eterna ricerca di perfezione. Ha un rispetto maniacale dell’ottima materia prima e cura l’origine delle ricette e degli ingredienti. Cucina per affetto e non per effetto in un atto di donazione e di dedizione completa. Nel suo menu compaiono piatti semplici, leggibili, facilmente comprensibili, evidenziando il nesso strettissimo fra agricoltura, cucina, gusto. Verdura, frutta, carne di manzo, di maiale, di bisonte, di pollo, ma anche pesce: qui tutto è accuratamente selezionato e ricercato nel rispetto della naturalità, della specificità territoriale e dell’antica tradizione. Rudy privilegia le cotture leggere per far emergere la genuinità dei sapori, ma nel suo regno, tecnologicamente all’avanguardia, trovano spazio tutte le tipologie, dalla bassa temperatura in olio e acqua, alle dirette, alla salamandra, alla brace, al gastrovac, oltre ai fuochi classici e al microonde. “Ogni prodotto ha la sua più idonea cottura – commenta – che lo valorizza. La mia filosofia culinaria è soprattutto basata sulla stagionalità e freschezza delle materie prime di altissima qualità che provengono da tutta Italia, anche da presidi Slow Food. Cambio il menu almeno ogni tre mesi, e vi inserisco sempre dei piatti per i celiaci, vegetariani e vegani. Mi piace creare sempre nuove ricette, che mi arrivano alla mente facilmente soprattutto di notte. Poi le sperimento nella pratica, affidando a Tiziano la ricerca dell’optimum negli ingredienti disponibili sul mercato nazionale. Un piatto che non manca mai? Da buon figlio della Bassa il risotto è sempre presente”. Puntiglioso e preciso nella sua creatività, Rudy si ritiene al servizio del commensale; per esempio nessun piatto esce dalla sua cucina senza essere preventivamente testato, per fornire sempre il massimo dell’attenzione al singolo cliente. Qualche
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esempio di ricetta? Oltre a quelle fotografate nel servizio, fragranti, gustose ed armoniche nel godurioso assaggio, ecco qui: risotto tradizionale Vialone Nano con taglio di culatello fresco di maiale antico, “bogoni” giganti veronesi in guscio con pesto di prezzemolo, controfiletto di puledra Tenuta di San Rossore e verza croccante al forno, coniglio di Carmagnola al forno con olive taggiasche e crema al rosmarino… vi bastano per sollecitare l’immaginario gustativo? La parte più vecchia della locanda risale addirittura al Quattrocento. Concepita in un sogno, con un disvelarsi cerebrale dopo arrovellanti pensieri nel bel mezzo di un viaggio nella foresta amazzonica: “Non prendermi per matto – racconta Tiziano – dopo tanto riflettere, ho proprio avuto la visione della locanda così come poi l’ho realizzata veramente”. I lavori, iniziati nel 2005 e portati a termine nel 2008, sono stati affidati ad artigiani locali in piccole squadre per avere il tempo di seguire che tutto corrispondesse all’intuizione iniziale. Mattoni e travi a vista, il calore del rosso pompeiano alle pareti, i toni caldi del cotto al pavimento e la quieta storia dei mobili d’antiquariato rendono l’atmosfera delle sale accogliente: già il décor predispone alla piacevolezza del convito. Curata esteticamente nel singolo particolare, riscaldata dalla passione che traspare in ogni cosa, la locanda induce al relax con un comodo salotto per le famose quattro ciacole (in italiano, chiacchiere) del nome. Presto verrà terminata la Cigar club per godersi in tranquillità un rinomato sigaro accompagnato da un buon distillato (Marco propone una carta davvero notevole). “Magnar, bear, dormir” è il sottotitolo, ovvero mangiare, bere, dormire. Qui si può infatti riposare nelle stanze Peperoncino, Cannella, Noce Moscata, Salvia, Pepe Rosa e Zafferano, tutte con colori che richiamano la spezie scelta. Il conto? Sia che ci si fermi nelle confortevoli camere, sia che si torni nelle proprie stanze da letto, si può star sicuri di dormire fra quattro guanciali. Un rapporto qualità-prezzo da restar di sasso.
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Evviva l’osteria Un tuffo nella memoria
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di Emilio Magni L’osteria esiste ancora? Bella domanda: se riuscisse ad adeguarsi ai tempi senza perdere la semplicità dell’offerta, potrebbe essere il format “vincente”, come abbiamo scritto su Artù. Ma si tratta pur sempre di un’osteria moderna, “rivisitata”, perché quella d’antan è ormai sparita, in virtù del cambiamento dei tempi. Ospitiamo volentieri la testimonianza sull’argomento di Emilio Magni, lo storicoscrittore che ha saputo recuperare egregiamente le tradizioni culturali lombarde, fatte di nostalgia per un mondo sparito. L’osteria esiste? Pare di sì, nonostante segnali contraddittori. Addirittura dà qualche segno di sopravvivenza. Ma è un segnale fasullo. Infatti le nuove osterie sono soltanto un’illusione. Anche se sono stati recuperati banchi di un tempo, tavoli e pure qualche “zainera”, termine del dialetto meneghino per indicare lo scaffale che stava dietro il banco sorreggendo, ben allineate, schiere di bottiglie di liquori e di amari, è impossibile rivivere, nelle osterie moderne, quella calda aria godereccia e talvolta trasgressiva di quelle vecchie di cui, purtroppo, si è perso quasi anche l’eco. Perché l’osteria vera dunque è scomparsa? Se n’è andato quel popolo semplice, onesto nel suo modo di vivere e di esprimersi, costretto a una vita di duro lavoro e di pochi svaghi, ancor meno distrazioni, che con dignità si accontentava di quel che la vita gli offriva. L’osteria era una, forse l’unica, ricreazione di cui i contadini, il popolo in generale, poteva in qualche modo godere. Per qualche anziano come me sono solo un ricordo assai lontano i contadini che, dopo una settimana di fatiche e sudori tremendi tra le zolle dei coltivi, nella stalla, sui covoni dei fienili, “santificavano” il pomeriggio della domenica giocando accanite e urlate partite alle carte: un sorso di vinaccio meridionale malamente tagliato dall’oste disonesto accompagnava ogni conteggio dei punti. Terminava il pomeriggio con la moglie
che giungeva in osteria a recuperare il “vecchio”, che non era più nella facoltà di esprimere un pensiero e di muovere passi. Per il patriarca il ritorno alla dimora era una “via crucis” di pedate e di cazzotti vibrati dalla donna che così si vendicava di una settimana di tirannie e violenze subite dal maschio marito, padre e padrone. Quello della sbornia, la famosa “ciucca” devastante, forse era il lato peggiore della vita dell’osteria, l’immagine che poneva in una luce un po’ sinistra questo luogo che doveva essere solamente di raduni e di svaghi. L’osteria ha avuto però un ruolo importante e pure anche molti meriti nella storia dell’Italia, in particolare quelle della parte settentrionale e dell’intera fascia subalpina e della pianura. Per secoli è stata il contro altare (nessuna altra parola potrebbe rivelarsi più significativa) della chiesa, ovvero di quel severo, duro e potente mondo che si aggrovigliava intorno al campanile e che quasi sempre era in perfetta rela-
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zione con il potere delle grandi famiglie proprietarie terriere. Era dunque in osteria dove si faceva la fronda alla dominante figura del parroco che di ogni famiglia conosceva i segreti. Avveniva infatti che nelle parrocchie si conservavano i cosiddetti “archivi degli stati delle anime” e i “processicoli” matrimoniali secretati, cioè gli interrogatori che il parroco faceva separatamente ai due fidanzati prima del matrimonio. Carlo Albino Ferrari, grande studioso della vita delle borgate alpine e prealpine, nel suo libro “Alpi segrete.
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Storie di uomini e di montagne”, riferisce bene quale era il potere del parroco del paese. Egli custodiva tutti i fatti irriferibili, i peccati più gravi, aborti, incesti, gli atti più feroci tenuti nascosti nel privatissimo ambito della famiglia e del confessionale. Il parroco sapeva di tutto e di tutti, ma nulla poteva conoscere di cosa si discuteva, si decideva in osteria. Qui si concentravano le reazioni, talvolta appena sussurrate, altre urlate e accompagnate da imprecazioni corroborate dall’elevato tasso alcolico. In osteria si tramava, si cospirava contro il potere, non solo del parroco, ma soprattutto dei padroni delle terre, si organizzavano le lotte sindacali, si creavano le associazioni dei contadini. Le “leghe rosse” sono nate nelle osterie della Bassa: lombarda, padana, emiliana, romagnola soprattutto. Ma anche le “leghe bianche” qualche aggancio con l’osteria lo hanno avuto. Sulla fronda e l’avversione al fascismo i pareri sono discordi. Qualcuno sostiene che anche il fascismo non trovò mai pieni consensi tra l’atmosfera fumosa dell’osteria e molti osti dovettero sudare le sette camicie per non avere guai con le camicie nere. L’osteria però è soprattutto sempre stata semplicemente un luogo di svago che, nel mondo contadino, assolveva un ruolo del tutto particolare, come ben spiega Roberto Fumagalli, nel capitolo dedicato agli “spazi della festa contadina” del libro “Lunario lombardo” pubblicato una quarantina d’anni fa. Sia pure per un tempo breve (la domenica pomeriggio e qualche mezz’ora il mattino nei giorni del mercato, qualche fugace apparizione la sera) l’osteria suggeriva all’uomo dei campi un senso di profonda liberazione dall’assiduo lavoro che era visto come una necessità assolutamente tassativa e rigorosa: un dovere estremo che per molti contadini di buon senso e di grande onestà diventava una cosa sacra. Dunque quei pochi lassi di tempo trascorsi in osteria erano l’evasione dal costante dominio di una regola severa, quella del lavoro nei campi. Tramite il generoso aiuto del vino si dimenticava per un
po’ la dura legge delle necessità e quindi l’osteria diventava anche un luogo di lieto contatto umano. Nei “conversari” dominavano i proverbi, quelle massime che per secoli sono stati al tempo stesso una scienza e una regola di vita per la gente popolare ma, a guardar bene, anche dei ceti più elevati. Fino a quando le alzate di gomito non avevano portato annebbiamenti nei cervelli, i dialoghi poggiavano pure su scambi di esperienze di lavori nei campi, nella conduzione della stalla, degli animali, e del fienile. Non era però solo l’agricoltura al centro delle argomentazioni, anche il lavoro artigiano dei fabbricatori di attrezzi agricoli e di tutta una serie di altri prodotti erano all’ordine del giorno. L’osteria ha però accolto anche legioni di operai che andavano e tornavano dal lavoro e che, pure loro, dedicavano alle partite a carte e alle discussioni intorno ai tavoli con le tovaglie a quadrettoni, la domenica pomeriggio. Fino a qualche decennio fa a Lecco, nel cuore del quartiere industriale del Caleotto, a Sesto San Giovanni, alla Bicocca, aprivano ancora locali dove il profumo del vino e della grappa si mischiavano al fumo acre dei forni delle ferriere che rendevano incandescente l’acciaio. Fumagalli spiega che in osteria si discuteva, si ricevevano insegnamenti da parte di contadini sapienti ormai quasi al culmine della loro vita piena di lavoro e di esperienze, ma soprattutto si giocava: alle carte e alla morra. E spesso, anche a causa delle libagioni sostenute, si sfiorava la rissa: solo a parole però. Raramente si arrivava a muovere le mani. C’era un codice non scritto, ma assai rispettato, secondo il quale il litigio nato dal gioco era soltanto una baruffa superficiale che non arrivava in fondo all’animo. Anche l’offesa più grave era dimenticata in un battibaleno. Nessun rancore persisteva quando i giocatori, terminata la partita, si alzavano per tornare a casa: da soli se ce la facevano. Altrimenti erano guai seri se arrivava la moglie, magari accompagnata dalle figlie. Mi ricordo di aver vissuto, da ragazzo,
gli ultimi albori di questo stupendo mondo. I miei sono lampi di rimembranze che ancora qualche emozione me la portano: come quella di un uomo di mezza età che costantemente appoggiato al banco, in un pomeriggio di una domenica, nell’osteria Brianza ad Erba Alta, si è bevuto ben diciotto “grappini armando lati”, l’uno dopo l’altro. Ad ogni sorso donava ai presenti una massima che era una lezione di vita. Per evitare brutte sorprese finali l’ostessa pretendeva la giusta mercede ad ogni mescita. Alla fine, pagato l’ultimo grappino, l’uomo ha inforcato la bicicletta, vi è salito al volo e ha preso a pedalare sicuro verso casa. Al mercato del bestia-
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me di Erba Incino, ho assistito assieme a mio nonno vecchio e saggio contadino brianzolo, a un affare di compravendita di bestiame. Raggiunto l’accordo sul prezzo di un “manzetta”, i due contraenti, il mediatore e un testimone, si sputarono ciascuno sulle loro dita e poi si strinsero le mano destra. Era questo il rito della quadruplice stretta di mano che valeva più di una carta bollata firmata davanti a un notaio: un accordo perfetto, una pace garantita. Andarono poi tutti in osteria a festeggiare l’accordo: un bic-
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chiere tira l’altro. Alla fine il conto era salato e nessuno voleva onorarlo. Altro che pace e accordo: fu quasi un rissa vera. Le dimensioni dell’osteria variavano a seconda se aprivano in un villaggio o in una borgata, oppure in un grosso paese, o addirittura in città dove erano frequenti nei quartieri popolari. In alcune di queste è passata anche la storia della città: come avvenne a Milano. Godevano anche di spazi all’aperto, dove i tavoli si allineavano sotto ombrosi bersò, accanto ai viali per il gioco delle bocce. Per le osterie dei villaggi bastava un nucleo di 200-250 persone per permettere all’oste di dar ricetto nel suo locale a 50-60 persone e tirare avanti con guadagni tali da mantenere la famiglia. Legato all’esercizio viveva anche un piccolo commercio per la vendita del vino, dei liquori e di salumi e formaggi, oppure dolciumi. Spesso l’osteria si trasformava in trattoria e allora nel locale si pranzava e si cenava: quasi sempre piatti tradizionali della cucina rustica. Alcune trattorie sono diventate celebri. Esibivano, sulle loro insegne e sulle “ventaline”, dei nomi bellissimi come “Osteria del cuor contento”, che a Longone al Segrino è diventato “L’osteria de l’alegre corason”, quella del romanzo “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda. Il grande scrittore aveva infatti la casa di vacanza a Longone. Ricordo “Il sollievo” a Carpesino d’Erba, la “Scala santa” e “Ul Bucabelin” a Cantù, “La Suspirada” a Montorfano. Si potrebbe scrivere una storia di ognuna delle infinite osterie che hanno portato un po’ di gaudio e di sorrisi alla gente, quando i tempi erano più semplici di adesso.
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Campagna toscana Un resort a misura d’uomo
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di Gualtiero Spotti Lasciarsi alle spalle la frenesia e il turbinio turistico di Firenze può essere, una volta tanto, la strada giusta per vivere con spirito romantico una sosta di stile a pochi passi dal capoluogo toscano. E riscoprire così una Toscana autentica e dal gusto rurale senza rinunciare a quei comfort e a quegli agi propri di un hotel pratico e moderno in una delle zone collinari più ambite della Toscana, quella del Mugello. A Pratolino, solo pochi chilometri da piazza della Signoria, si trova il Demidoff Country Resort, hotel inaugurato nel 1990 ma che nell’aprile dell’anno scorso ha riaperto dopo un restyling che lo ha riqualificato e reso ancora più funzionale e ricco di servizi per il cliente. Il curioso nome della struttura è un omaggio alla vicina e antica residenza Demidoff, una
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una significativa svolta al look della hall e degli spazi comuni, ora più luminosi e moderni, con le esposizioni a scadenza stagionale di opere d’arte di artisti di fama internazionale (ora è il turno del bolognese Matteo Nannini con i suoi quadri realisti ed espressionisti), e arredando con un gusto contemporaneo le camere, più dotate della più moderna tecnologia. Grande attenzione è stata rivolta al mercato congressuale e viaggi aziendali, grazie al funzionale Centro Congressi che dispone di sei sale e a un Auditorium capace di villa medicea che un principe russo ac- accogliere fino a 600 persone in platea. quistò nell’800 e che è ancora oggi, A tutto questo si aggiunge il valore enocon il suo grande parco ricco di opere gastronomico della sosta, grazie alle architettoniche (tra cui il famoso Colosso creazioni e allo stile del quarantatreenne dell’Appennino del Giambologna), una cuoco Riccardo Sarni, già alla corte di delle mete preferite per il classico fuori Luciano Zazzeri, il patron de La Pineta, porta dei fiorentini. L’albergo, anch’esso e di Michele Martinelli, executive chef circondato dal verde e immerso nella dei Reali di Giordania. Nel ristorante quiete delle colline, ha rivisto da un 1556 (il nome è preso a prestito dal anno a questa parte il suo concetto di numero civico del Demidoff) si incontra ospitalità grazie a una serie di novità a una cucina che ha forti legami con la partire dall’ampia zona benessere, con tradizione toscana di terra, interpretata la grande piscina riscaldata interna, in chiave contemporanea, anche se Ricdotata di area relax, tisaneria, sauna e cardo Sarni ama in particolar modo il palestra attrezzata, cui, nei progetti del mare della regione e proprio da questo nuovo dinamico General Manager Vito trae ispirazione per una cucina fresca Spalluto, si aggiungeranno a breve una e leggera, dove si incrociano il rombo Spa e una terrazza panoramica. Ma cotto sulla lisca, il classico baccalà non è tutto. L’hotel Demidoff ha dato alla livornese, il trancio di salmone al
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vapore, l’astice alla plancia con carciofi crudi sott’olio, frutta secca e pere marinate allo zenzero. D’altro canto Sarni vive a Cecina, sulla costa, ed ha sempre avuto nelle sue corde una cucina più improntata ai sapori del mare. Ciò non toglie che in carta si possono trovare anche piatti locali irrinunciabili come la trippa alla fiorentina, i tortelli farciti di ceci e pane (con burro, acciughe e mostarda di cipolle), i tortelli alla Mugellana con ragout alle tre carni (vitello, maiale e manzo) e crema di parmigiano o il petto di pollo farcito con prosciutto e pecorino, accompagnato da fagioli in umido. I dolci sono curati dal pasticcere Marco Pistolesi e vale la pena provare il cioccolato con zafferano, pane, sale e olio (dove la crema è emulsionata con zafferano di Fiesole essiccato al forno a bassa temperatura) o l’esotico cheesecake con ananas, basilico e lime. Buona anche la carta dei vini che mette in evidenza le scelte operate dal sommelier Salvatore Roccaro, con poche ma significative etichette della zona tra cui l’imperdibile Testamatta di Bibi Graetz. A disposizione degli ospiti c’è poi anche InCollina, il ristorante utilizzato per le colazioni e dove si può gustare un ricco e salutare buffet con i prodotti bio del territorio. www.hotel-demidoff.it
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RIVA di FRANCIACORTA FRESCHEZZA E PULIZIA
Informazione promozionale
Come si riconosce un Franciacorta, a parte l’etichetta? La domanda è stimolata dalla forte azione di comunicazione che il Consorzio sta portando avanti per affermare il termine Franciacorta come definizione unica della produzione DOCG di questo territorio che è stato trasformato in raffinato paesaggio, oltreché centro di produzione di eccellenza, dalla visione di un gruppo di imprenditori. Fascino per il vino e passione per l’arte sono, ad esempio, le due attività a cui si è dedicato Alberto Riva che, insieme al fratello Alfredo, oltre a gestire un’altra (tuttora la principale) attività imprenditoriale, hanno iniziato, nel 1990, a selezionare e acquistare terreni vocati alla realizzazione di vini capaci di vantare una forte identità. “Dall’acquisto dei primi terreni abbiamo lasciato passare diversi anni prima di cominciare a produrre i nostri Franciacorta. All’inizio conferivamo le uve, perché volevamo avere le idee ben chiare rispetto al nostro progetto vitivinicolo” racconta Alberto Riva. E qui si vede la stoffa dell’imprenditore che sa dove vuole arrivare, con tutto il tempo necessario per riuscirci. Solo nel 2005 ha avuto inizio la prima produzione, dopo che la conoscenza delle diverse attitudini del suolo ha permesso di personalizzare la coltivazione delle differenti varietà di vite. Alla definizione delle scelte hanno concorso l’agronomo Marco Tonni, associato allo Studio Sata, mentre per la parte Enologica i fratelli Riva decisero di avvalersi dell’enologo Marco Zizioli. Gli ettari in proprietà sono 34, alcuni accorpati all’azienda, altri distribuiti nelle zone migliori della Franciacorta, come la collina di Monterotondo dove è collocato il Pinot Nero. L’investimento successivo all’acquisto dei vigneti è stato fatto in cantina dove si sta realizzando, in diversi step, una struttura che avrà una capacità produttiva di 800.000 bottiglie, rispetto alle attuali 250.000 in produzione. Ma a valere sono i criteri con cui i due fratelli Riva hanno pensato la loro cantina: un moderno contesto architettonico basato sul risparmio energetico. Concepito per limitare l’impatto sull’ambiente, il progetto per la nuova ala della cantina prevede impianti all’avanguardia per il trattamento dell’aria e dell’acqua: un impianto di aspirazione della CO2 monitorato tramite canali di estrazione con allarme, una
struttura ipogea che favorisce il riciclo dell’aria e cattura la luce naturale all’interno dell’edificio tramite la presenza di quattro grandi aperture esterne e regolate automaticamente. È stato ultimato anche un impianto speciale che regola il recupero delle acque: l’acqua impiegata durante le fasi di lavorazione della materia prima viene purificata e rimessa in circolo. Il tutto completato da un sistema di termoregolazione naturale dell’aria. Infine è prevista la copertura totale della struttura con la realizzazione di giardini e vigneti che andranno a creare un nuovo piano per una totale conciliazione tra naturale e tecnologico. Nascono qui i Franciacorta Riva. Quattro tipologie dall’identità strutturata, vini freschi, fragranti e seducenti, ricchi di carattere, sapidità e complessità: Franciacorta Brut, Satèn, Rosé, Brut Millesimato Rivalto. A distribuirli in Italia è la D&C, compagnia d’importazione di prodotti alimentari, vini, liquori e champagne di alta gamma. “Abbiamo raggiunto in pochi anni un soddisfacente posizionamento nel canale ho.re.ca ma intendiamo crescere ulteriormente, soprattutto guardando all’estero come mercato di sbocco, su cui stiamo facendo riflessioni sulle modalità di presenza - afferma Alberto Riva -. L’ideale sarebbe una forte azione di comarketing tra aziende e consorzio che ci consenta di raggiungere la massa critica capace di penetrare nuovi mercati”. Questa strategia di espansione è uno tra i tanti motivi che ha spinto la Cantina Riva di Franciacorta a scegliere come direttore commerciale Mario Zuffada: alle spalle diverse consulenze con affermate cantine in Franciacorta, un Master sensoriale a Bordeaux che l’ha formato sotto l’aspetto gustativo e olfattivo, rendendolo uno dei pochi professionisti presenti in Italia. A lui chiediamo come si fa a riconoscere un Riva di Franciacorta: “I nostri Franciacorta si presentano con ottime caratteristiche di acidità ed estrema pulizia, dall’approccio olfattivo freschissimo: giusta gradazione alcolica, zuccheri bassi 4/5g.l, vivace bouquet dalle note floreali e le tonalità chiare sono i tratti distintivi che fanno riconoscere i nostri vini fin dal primo impatto”. Società Agricola Riva di Franciacorta Cantina www.rivadifranciacorta.it
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Grand Hotel Europe Luogo non comune
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di Gualtiero Spotti La suggestiva struttura, del gruppo Orient Express, rappresenta al meglio l’offerta alberghiera di una città unica come San Pietroburgo, la ex Leningrado di sovietica memoria. Oltre al lusso della sua ospitalità, l’Europe propone una cucina improntata sui grandi classici e su una intelligente e originale idea dell’arte culinaria internazionale. San Pietroburgo è una città dal fascino inimitabile. Certo, è facile cadere nei cliché turistici mentre si passeggia lungo i suoi canali o sulla Neva, oppure se si osserva la magnificenza dei palazzi che riportano alla mente il fasto della dinastia degli Zar, o, ancora, si visita l’immenso Hermitage. Quante volte si sono sprecati i confronti con Parigi, con Venezia, con altre città universalmente note per la loro bellezza. Eppure San Pietroburgo risulta essere a suo modo unica, per quel mistero che subito avvolge le località meno facili da raggiungere, ma anche per la lingua e per il confuso approccio iniziale con i caratteri cirillici, per l’incontro con una cultura molto diversa da quella a noi conosciuta, che abbraccia il Mar Mediterraneo e la Mitteleuropa e non il freddo Mar Baltico. Questo è quello che viene in mente osservando, tra le altre cose, l’andirivieni un po’ internazionale e un po’ russo di persone che animano la hall del Grand Hotel Europe, Artù n°53
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gonista dei maggiori avvenimenti del Paese. E forse è l’ultimo grande albergo di San Pietroburgo rimasto a testimonianza di un’era passata della quale si sono un po’ perse le tracce. Nei suoi primi anni di apertura, in realtà, l’hotel ha vissuto un periodo piuttosto travagliato con diverse modifiche nella struttura dell’edificio, l’accorpamento ad altri palazzi della via dove si trova tuttora, la MIkhailovskaya ulica (e nel 1830 fu l’architetto italiano Carlo Rossi a crearne la facciata), ed ha cambiato spesso anche il nome, diventando definitivamente Grand Hotel Europe solo nel 1875. I suoi interni rivelano ancora oggi come il passaggio attraverso i secoli abbia determinato un incrocio di stile nei diversi ambienti. Basta osservare il ristorante principale Europe, la lobby, il Caviar Bar o la Billiard Room per riconoscere il marchio di fabbrica dell’architetto russo-svedese Fyodor Ivanovich Lidvall, responsabile degli interni Jugend risalenti all’inizio del secolo scorso. Gli anni della rivoluzione Bolscevica e delle due guerre mondiali hanno poi coinciso con il periodo più funesto per l’albergo, tramutato, durante l’assedio dell’allora Leningrado, in un ospedale ricovero con 1300 letti. Gli anni Cinquanta hanno in seguito permesso di restaurare l’edificio, ma attraverso alterne vicende il Grand Hotel Europe ha più volte rischiato la chiusura definitiva e l’abbandono totale. Solo con il nuovo corso della storia russa, nel 1990, è avvenuta una completa ristrutturazione e l’albergo è tornato alla sua destinazione naturale in un rinnovato splendore. Per dieci anni, dal 1994 al 2004, la gestione portava la firma Kempinski e in seguito, con il management tuttora in pista, quella del gruppo Orient-Exil luogo deputato a rappresentare l’ele- press che ha nel suo carnet una quaganza dell’ospitalità cittadina ormai rantina di grandi alberghi in giro per il dal lontano 1824, l’anno della sua Mondo. Il nuovo secolo ha consegnato apertura. Si tratta di uno degli alberghi alla città l’antico palazzo al suo massipiù famosi dell’ex Unione Sovietica, mo splendore, complici diverse ristrutgrazie alla sua posizione privilegiata turazioni e una nuova clientela internaadiacente alla Prospettiva Nevsky, ai zionale che lo ha reso la meta più “in” pregiati interni in stile Art Nouveau e di San Pietroburgo. Se non bastava alla lunga storia che lo ha visto prota- l’architettura a stupire l’ospite ci pen-
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sano poi le molte possibilità offerte dalla cucina. Che qui mette in fila ristoranti per tutti i gusti. Si parte con il classico Caviar Bar&Restaurant in stile russo, per trascorrere una serata all’insegna del folclore locale e con la musica tradizionale russa, accompagnata da splendidi piatti a base di caviale (Beluga, Oscietra, Sevruga) e annaffiati da vodka di ottima qualità. Al punto che al vostro tavolo si presenterà l’unico vodka sommelier in Russia, pronto a farvi assaggiare alcuni bicchieri delle settanta bottiglie di vodka in carta. I piatti però non sono da meno e giocano sul sicuro negli abbinamenti con uova, caviale (oscietra) e tartufo, oppure ricordano all’ospite che il granchio della Kamchatka ha una carne deliziosa e il filetto Stroganoff (accompagnato da barbabietola, cetrioli e patate) è pur sempre un classico irrinunciabile. Per chi ama una cucina più internazionale e gourmet c’è il ristorante Europe, che negli anni ha visto ai suoi tavoli, tra gli altri, la Regina Elisabetta II, Igor Stravinsky, Catherine Zeta Jones, Elton John e Bill Clinton ed è sempre la portaerei dell’hotel, con la sua splendida sala dove spicca la vetrata mosaico
creata da Leon Benois, con le eleganti balconate che si affacciano sul ristorante e le cinque piccole alcove per cene più intime e romantiche. Gli altri ristoranti sono l’italiano Rossi’s (dove si trovano classici del Bel Paese ben realizzati, dal vitello tonnato alla pasta ai quattro formaggi) e il Chopsticks, angolo di cucina del Cantonese e della regione di Sechuan. Infine si può consumare il proprio pasto anche nel Mezzanine Café nella corte interna dell’hotel, oppure al lobby bar. Le sorti di tutte le cucine, ed è la vera curiosità del Grand Hotel Europe, sono ormai da un paio di anni nelle mani esperte del cuoco veneto Marco Alban che, dopo un lungo peregrinare tra diverse realtà di ristorazione sempre legate ad alberghi in giro per il Mondo (Maldive, Sri Lanka, India, Portogallo, Francia, Svizzera) ha trovato la sua giusta dimensione sulle rive della Neva. Anche per la sua spiccata curiosità e la volontà di esplorare sempre con passione nuovi territori, prodotti, climi e culture. Basti pensare che il suo motto è “Fusion without confusion”. Un altro must culinario dell’albergo è poi la fabbrica di cioccolato interna, che
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sforna deliziose praline e blend di rari semi di cacao, spesso uniti con l’immancabile vodka. Il piccolo shop al Mezzanine Café permette così di lasciare l’hotel con un dolce cadeau, anche se sono in molti a non resistere alla tentazione e finiscono per sedersi al lobby bar solo per il piacere di ordinare del cioccolato maison. Infine un consiglio: chi soggiorna al Grand Hotel Europe ha la possibilità di scegliere una tra le dieci nuove suite realizzate poco più di tre anni fa nell’ala nord dell’edificio. Si tratta di camere speciali, ognuna con il nome di un personaggio famoso (Stravinsky, Pavarotti, Dostoevsky, Faberge e Romanov tra questi) il cui stile ha in qualche modo dato l’impronta dell’arredamento, dell’ambiente, del decor delle suites. Sono arredate quindi con gusto antico, ma fornendo sempre comfort e standard per il cliente contemporaneo. Un tuffo nel passato prerivoluzione, quando già il Grand Hotel Europe era il faro del bel mondo russo. Grand Hotel Europe – San Pietroburgo Nevsky Prospekt, Mikhailovskaya ulica 1/7 Tel: +7 812 329 6000 www.grandhoteleurope.com
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Il calamaro ripieno
del Quirinale
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di Claudio Zeni Antico palazzo della fine del XIX secolo, l’Hotel Quirinale, fondato nel 1880, ha saputo conservare e ricreare l'atmosfera affascinante dei primi del Novecento. Ma la cucina, mai banale, grazie alla professionalità dello chef Mauro Pavia, è in continua evoluzione: “Il mio maestro, dice, è Gualtiero Marchesi”. Questo universo di lusso e raffinatezza, un'autentica oasi di pace e tranquillità, è anche una piacevole sosta gourmet, grazie al suo ristorante Rossini alla cui guida si trova lo chef Mauro Pavia. Originario di Villa Santa Maria, in provincia di Chieti, luogo di nascita tra l’altro di San Francesco Caracciolo, ritenuto dalla fantasia popolare il protettore dei cuochi, Pavia non è nuovo all’Hotel Quirinale. Già negli anni Novanta aveva contribuito alla crescita del Ristorante Rossini, “che all’epoca, però, aveva una carta meno ricca di adesso - ammette lo chef. Negli anni, infatti, le proposte sono decisamente cresciute e il menu oggi è più raffinato, potendo contare sulla possibilità di sperimentare molto: una strada che
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mi entusiasma perché amo misurarmi e confrontarmi con le possibilità gustative di ogni singola materia prima”. Lo stile di Mauro Pavia sembra essere ispirato alle piante e ai fiori del giardino dell’Hotel Quirinale, uno spazio magico che nella bella stagione diventa la naturale estensione del Ristorante Rossini. I suoi piatti sono essenziali, eleganti nella naturalezza dei loro abbinamenti cromatici e intrinsecamente ricchi di suggestioni che arrivano gradualmente al palato emozionando in crescente progressione. Se nella carta di base sono sempre presenti i grandi classici (impeccabili) del Rossini, che vanno dai primi tradizionali romani come l’antipasto di puntarelle con pomodorini confit e mozzarella di bufala, 'la' amatriciana, amatissima dagli stranieri e non solo, e naturalmente il medaglione di vitello alla Rossini, Pavia ha inserito nel menu – che varia stagionalmente – anche proposte sorprendenti, spesso affiancate da piccoli, estrosi, esperimenti, come le trofie con melanzane, basilico e Nutella o il riso alle fragole ed erba cipollina, che rimangono in carta pochissimo tempo per lasciare spazio a nuove avventure. Sul suo percorso professionale, che non lo ha mai visto lavorare fuori dai confini nazionali, Pavia precisa: “È vero, non ho mai lavorato all’estero. D’altra parte tutti i miei maestri erano qui e io non ho sentito l’esigenza di fare degli stage in altri paesi, avendo intrapreso già un percorso mio in Italia”. Un percorso che gli ha dato basi solide sulle quali costruire poi il suo stile personalissimo. “Il mio modello, il Maestro al quale da sempre guardo e a cui mi
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ispiro, è Gualtiero Marchesi – aggiunge Pavia – e da lui ho appreso il coraggio e le tecniche per mettere in atto il mio istinto naturale di sperimentatore. Adoro lavorare sulla possibilità di strutturare e destrutturare piatti consolidati nell’immagine e nella percezione della clientela: credo nella scomposizione e nella ricomposizione dei gusti, così come alla possibilità di rielaborare un piatto tradizionale cambiando l’ordine degli addendi. Ma bisogna saper sorprendere anche con le preparazioni più classiche”. Il suo calamaro ripieno con
Hotel Quirinale
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cicoria piccante su crema di funghi è una piacevole sorpresa, in effetti. Ma anche la riproposta delle tradizionali seppie 'in zimino', tipiche della Liguria, non è un travisamento ma una interpretazione concreta. Rappresentano una fuga dalla banalità anche piatti come l’involtino di petto di pollo farcito su crema di avocado, le lasagne alle primizie primaverili con provola affumicata o il tortino di polipo e patate con crema di carote al timo e gocce di aceto balsamico. Un gran cambiamento di rotta, non c’è che dire, per uno chef che cucinò come primo piatto dei banalissimi (ma gustosi) involtini di prosciutto cotto ripieni di insalata russa. “Avevo sei anni quando li preparai – sorride Mauro Pavia, raccontando l’aneddoto – mia madre mi comprò tutti gli ingredienti e io li cucinai veramente tutti da solo. Un successone!”. E aggiunge che per lui quello è stato il momento dell’illuminazione, ovvero quando ha capito che nella vita avrebbe solo e sempre fatto il cuoco. Pavia è uno chef dotato di una grande sensibilità che si denota – oltre al suo stile personale in cucina – anche attraverso un’ulteriore caratteristica: l’attenzione verso le intolleranze alimentari. “Oggi le allergie e le intolleranze sono
sempre più diffuse e uno chef non può più ignorarle – conclude Pavia – per questo motivo esigo che la descrizione del piatto nel menu ne contenga tutte le caratteristiche, affinché i clienti non abbiano sorprese e non debbano continuamente fare domande sugli ingredienti che compongono il piatto. Conto presto di poter anche inserire nel menu piatti concepiti espressamente per chi ha precise intolleranze alimentari, così che il piacere di andare al ristorante passi anche attraverso il benessere psicologico – e non solo gastronomico – di chi è troppo spesso costretto ad affrontare il disagio di chiedere piatti speciali fuori menu”. Apprendiamo, in chiusura di numero, che lo chef "storico" del Quirinale, Mauro Pavia, ha lasciato la struttura per altre sfide professionali. Augurandogli fortuna e successi, prendiamo atto che il nuovo Executive chef è Diego Collador, quarantenne, con esperienze in diverse realtà: abbiamo avuto modo di constatarne le capacità lo scorso mese di novembre a Gubbio (Pg), dove era tra gli chef finalisti al Concorso sul tartufo bianco. Auguriamo anche a Collador i migliori successi per la sua futura carriera professionale. www.hotelquirinale.it
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MENU, più intelligenti per evitare le banalità sporre un menu adeguato. Innanzitutto perché lo prevede la legge, ovvero l’articolo 180 del R.D. 635/1940, secondo il quale il ristoratore ha l'obbligo di esporre il menu con i prezzi delle singole portate. Ritorna insomma l’importante concetto di menu come strumento di vendita del ristorante e proprio per questo allora la sua concezione deve essere eseguita rispettando delle regole precise, al fine di proporre alla clientela un supporto all’apparenza e alla consultazione semplice, ma che invece non lasci nulla al caso in termini di gestione dei prezzi e delle risorse.
di Davide Deponti Non sottovalutiamo la carta: ecco come pensarla, scriverla e realizzarla bene (anche in formato elettronico). Per non correre rischi e fidelizzare la clientela. La storia del ristorante come attività commerciale è strettamente legata a quella del menu. Il primo passo da fare dopo aver deciso di aprire un’impresa di ristorazione infatti è quello di voler mostrare al pubblico – per poter loro vendere nel miglior modo possibile – l’elenco di piatti, ricette e bevande a disposizione. Principio banale finchè si vuole, d’accordo, ma fondamentale per introdurre il discorso sull’importanza del menu come primario veicolo di comunicazione verso i clienti. Anche perché, per dirla nuovamente in modo scontato, non ha senso preparare dell’ottimo cibo se, fuori della cucina, non si è trovato il modo di promuoverlo al meglio. Ecco perché allora è così importante non solo realizzare, ma anche pensare e redigere nel modo giusto proprio quella carta grazie alla quale, una volta che il cliente è seduto, ma anche prima di sedersi se il menu stesso è esposto in vetrina, si dovrà essere sicuri di soddisfare i desideri di chi paga. A questo punto però facciamo un passo indietro e chiediamoci perché è necessario, anzi importante, predi-
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Ingegneria del menu Ovvero menu engineering, formuletta in lingua inglese che racchiude quella capacità di compilare una carta in modo che essa stessa spinga il cliente a fare determinate scelte nell’acquisto dei piatti. L’ingegneria del menu comprende alcune regolette, magari banali, che se tenute presenti aiutano sempre il ristoratore a ottimizzare i suoi flussi di vendita. Si parte dalla compilazione delle liste dei piatti presenti nella carta, liste che sono di solito organizzate per gruppi: antipasti, primi, secondi. Diversi studi sociologici dimostrano che se un’utente decide di scegliere un dolce, prenderà con probabilità più alte il primo della lista dei dessert. A quel posto vale la pena allora mettere una proposta con buon margine di guadagno o dalla semplice preparazione. Al contrario, i piatti che offrono poco margine di guadagno o che richiedono molto tempo e lavoro di preparazione, è meglio che vengano messi alla fine di una sezione, quando il cliente ha magari già letto diverse altre cose che lo interessano. Tra le regole del menu engineering non manca quella legata all’aiuto visuale. Fare segni grafici attorno al nome di una pietanza o magari mettere una foto della stessa stampata sulla carta, di solito rende un cliente più propenso a ordinare. Una ricerca condotta da un’università americana invece spiega come sia sempre meglio nel menu evitare di indicare il segno dell’euro e i decimali del prezzo, la-
sciando invece la cifra più astratta e sospesa possibile. In questo modo la spesa diventa inconsciamente meno minacciosa. Altro trucco, che trucco non è ma è invece oramai una consuetudine che è partita dai menu degli chef di grande fama, è quello di fare sulla carta una precisa descrizione degli ingredienti di ogni piatto. Raccontare al cliente infatti da dove arriva davvero un ingrediente o come e perché è stato scelto, crea una maggiore empatia e un senso di fiducia. Ovviamente mai raccontare panzane: non solo la strategia di ingegneria verrebbe scoperta, ma si farebbe una pessima figura da un punto di vista deontologico. Parole, parole, parole Per poter creare, ma anche scrivere, un menu che sia il più possibile comprensibile oltre che adatto a dare un servizio al cliente e un buon controllo sulle possibilità d’ordinazione al ristoratore, non va mai dimenticato un altro fatto in apparenza ovvio. Che il menu è un testo scritto e che in quanto tale deve essere comprensibile a tutti e privo di errori, non solo in italiano, ma anche e soprattutto se riporta la sua traduzione in altre lingue. Nel caso della parte nella nostra lingua allora è innanzitutto bene evitare le esagerazioni e i voli pindarici nelle descrizioni. Va bene essere un po’ allusivi nella spiegazione della preparazione o molto precisi nel racconto della provenienza degli ingredienti, ma non bisogna mai diventare troppo prolissi in quanto ad aggettivi e superlativi. Un piatto deve infatti essere caratterizzato da una sua unica e importante peculiarità: descriverlo con tre righe di aggettivi che rimandano a caratteristiche troppo diverse tra loro non fa che creare confusione in chi legge e deve scegliere cosa ordinare.
Il menu standard
Le cose si fanno poi ancora più complicate nel caso di una traduzione in un'altra lingua. Se è bene, innanzitutto, dire che spesso i clienti stranieri amano trovare nel ristorante – e quindi anche nel menu – un tocco di estro e follia italica, non bisogna assolutamente esagerare per cercare, ad esempio, di tradurre “letteralmente” concetti (o ingredienti o nomi di ricette) intraducibili. Quante volte, entrando in un ristorante all’estero ci siamo divertiti leggendo le versioni in italiano di menu e carte dei vini? Evitare che siano i clienti stranieri a farlo e, quindi, magari a considerarci, nel migliore dei casi, dei professionisti poco precisi e documentati, è d’obbligo. Come è necessario quindi affidarsi a professionisti del settore delle traduzioni che evitino, ad esempio, di trasformare un “fior di latte” in un “flower of milk”.
La carta, elenco dettagliato dei cibi e delle bevande che un ristorante propone, deve rappresentare immediatamente la qualità e il tipo di cucina del locale. Ovviamente, al di là della personalizzazione che le si vuole dare in termini di aspetto e fruizione (di carta, a libro, a muro, elettronico), deve contenere alcune fondamentali sezioni o categorie che dir si voglia. - Antipasti: spesso sono specialità dello chef, anche regionali. In alcuni ristoranti sono previste degustazioni dove sono presenti più antipasti. Possono essere suddivisi tra freddi e caldi. - Primi piatti: minestre, paste asciutte e risotti. Sono suddivisi a seconda che siano a base di carne o di pesce. Anche in questo caso si possono prevedere degustazioni di due o più piatti insieme. - Secondi piatti: suddivisi a seconda che siano di carne o di pesce. E ancora per il tipo di carne o per il tipo di cottura. - Contorni: insalate e legumi, ma anche proposte meno solite fatte con ingredienti tipici del territorio. - Formaggi: è una sezione non sempre presente nei menu, ma che può essere aggiunta per dare un’idea di maggiore ricchezza nelle proposte. - Dolci e frutta: è la parte che comprende i dessert, freddi e caldi, la frutta di stagione e le macedonie. - Bevande: esclusi i vini, che vanno presentati con grande precisione nell’apposita carta, vi si trovano le tipologie di acqua (non solo divisa tra naturale e gassata, ma magari anche in base alla provenienza o alla ricchezza di minerali), le bibite, le bevande calde per il dopo pasto (caffè, the e infusi) e i superalcolici (amari, grappe e liquori da meditazione). - I piatti del giorno: una sezione alternativa può contenere eventuali ricette suggerite dallo chef, magari connotate da cadenza stagionale. - Menu tematici: possono essere del giorno, turistici, a tema o a degustazione e in genere racchiudono una scelta della proposta generale del ristorante. - Coperto: è infine buona norma indicare se è previsto un costo aggiuntivo per il coperto, ovvero quella voce che comprende, a seconda dei casi, la tipologia qualitativa del servizio reso, la particolarità del ristorante stesso, la professionalità del personale e gli ulteriori plus non quantificati nel conto.
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Tecnologico oppure no? Il futuro è nella tecnologia? Molti, anche ristoratori, scommettono di si. A supporto di questa tesi basti vedere il grandissimo successo che i gadget elettronici hanno goduto negli ultimi tempi. Su tutti c’è probabilmente l’iPad, la fantastica tavoletta multifunzione di casa Apple, che ha rivoluzionato il modo di comunicare e di stare informati grazie alla sua intuitività e versatilità d'uso. Per queste sue caratteristiche d’utilizzo il famoso tablet (e che vanta già una lunga serie di concorrenti, realizzati da aziende altrettanto importanti nel mercato della tecnologia, come ad esempio Samsung), sembra essere davvero un utilissimo strumento a disposizione delle molteplici attività quotidiane: sul web, infatti, la sua semplice e accattivante formula tecnologica è sempre più spesso utilizzata dalle aziende come vero e proprio strumento di business, anche in settori nei quali non è semplice immaginarsi applicazioni veramente utili. E
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uno di questi settori è proprio quello della ristorazione, nel quale fino ad ora le innovazioni della tecnica sono state introdotte quasi esclusivamente nella parte gastronomica e in cucina (macchine per la conservazione e preparazione dei piatti o per la cottura), e molto più raramente nella parte della sala. Oggi la tendenza si sta invertendo e sono sempre di più i ristoranti, in diverse località del mondo più che in Italia, per il momento, che hanno già introdotto iPad e altri tipi di tablet in sostituzione della tradizionale carta. I vantaggi? Moltissimi, a partire dal punto di vista del marketing e della comunicazione. Un cliente infatti che abbia la possibilità di scegliere la propria cena curiosando tra i piatti presentati con foto, testi e magari video, si sente molto più ispirato e allettato al momento della scelta. Altro vantaggio dato dai tablet è quello di poter avere una più efficiente gestione del contenuto della carta. Grazie alla multimedialità si può essere in grado di organizzare il menu proposto in sezioni principali, ma con una struttura del contenuto simile a quella delle tradizionali pagine internet, quindi anche organizzata in categorie e sottocategorie, così da renderne la consultazione più chiara e immediata. Infine, grazie al supporto tecnologico con funzioni audio e video, ci sarà anche la possibilità di mettere in evidenza proposte speciali (magari più costose) o menu per particolari tipologie di clienti, come ad esempio i celiaci o i vegetariani.
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Indirizzi ragionevoli che accontentano il mercato PARCO Corso Magenta 14 20123 Milano 02 72003520 www.parcosushi.it
Ritorna nella sua Lombardia Alessandro Garzillo, giovane chef trentenne con esperienze di grande diversificazione. Ultima tappa a Genova Boccadasse, dove in poco tempo ha portato il Santa Chiara al successo. Oggi Garzillo si occupa della cucina del Parco, noto ai milanesi come ristorante Sushi/Sashimi, ma “mosso” verso altri orizzonti, pur salvaguardando l’eccelsa proposta “jap” del locale, da sempre molto caratterizzata e “fuori dal coro”. Ad Alessandro Garzillo è stato affidato da poche settimane (inizio autunno) il compito di allargare le potenzialità del locale, tenendo conto dei desideri di una clientela alla ricerca di novità ma anche di armonia nel piatto. I risultati dei piatti, recentemente testati, sono assai incoraggianti: le capesante su vellutata di sedano rapa e zenzero con riduzione di birra asahi sono un’ottima apertura delle danze, così come la succulenta tartare di manzo con funghi, panna acida e uovo di quaglia croccante. Due entrate che ben dichiarano la “filosofia” dello chef, teso verso un concetto di “fusion” inedito e innovativo. Da provare anche (con somma soddisfazione) gli udon – se preferite chiamateli noodles – di riso con bisque di astice, profumata alla menta: una evidente forzatura in chiave mediterranea di una base prettamente orientale. Fra i secondi abbiamo ottimo ricordo di fagottino croccante di branzino con verdure profumate alla soia ed emulsione di saké e ginger. Al momento di andare in stampa, giungono alla redazione di Artù voci affidabili che vedrebbero Alessandro Garzillo nel ruolo di chef supervisor del ristorante Vento, in via Washington 20, sempre a Milano. La “irrequietezza” professionale di Garzillo è sicuramente di buon auspicio, oltre che un segnale concreto della volontà del giovane di contribuire
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stress-free, vagamente impostato al ha portato, forse non avrei mai scoperto modello rurale delle abitazioni pre- questa trattoria bresciana autenticaboom economico (credenze, vecchie mente tipica, strenuo baluardo di una suppellettili, seggiole fascinose), i verità culinaria ultra-radicata sul terriAROMANDO BISTROT Via Moscati 13 grandi piatti della tradizione (paste torio. Piercarlo Martinelli, che ha la (angolo Via Canonica) fresche, minestroni, cappelletti, testa- sue radici proprio qui, fra questi boschi 20149 Milano roli) e abbinateli, oltre che agli ottimi di Franciacorta non ancora attraversati 02 36744172 vini della piccola carta, al repertorio dal vento modaiolo, propone una cumagico di verdure proposte. Tutto al- cina di gusto e sapori, decisi certo, l’insegna del fresco vero, perché qui, ma aderenti a una tradizione altrove in questo ambiente caldo e familiare, dimenticata. Serviti nella rustica sala Prenotate, prenotate, prenotate. L’aper- il gelo forse non arriverà mai. Prezzi (evocativa di nostalgie venatorie) dalla tura di un “bistrò” vero, dietro all’Arco sotto la media milanese, per una qua- graziosa moglie del cuoco-patron, per della Pace, a Milano, ha avuto presto lità decisamente più elevata. cominciare asseggerete (in quantità il gradimento di quella clientela alla non certo rivisitate né “adeguate ai ricerca di piatti semplici, autentici, OSTERIA PIAN DELLE VITI ritmi della vita moderna”!!) spiedini seppure adeguati con intelligenza ad Loc. Pian delle viti 2 di lumache al bacon, ottimi salumi loun mercato complesso come quello 25050 Provaglio di Iseo (Bs) cali e gnocco fritto, salame di Montisola milanese. L’artefice di questo rapido 030 9883264 (al top). Fra i primi: casoncelli freschi successo (ci auguriamo che duri, Mi- www.osteriapiandelleviti.it al burro versato, tagliolini freschi con lano è città incostante e modaiola) è culatello, riccioli di pasta integrale merito di Savio Bina, vecchia conocon il sugo di anatra. Fra i secondi: scenza del settore. Lui, padano doc, bolliti misti, brasato di cinghiale, manzo mantovano per l’esattezza, già primo Mica facile arrivarci. Non fosse stato all’olio del Sebino con polenta. Cito sommelier di Carlo Cracco, è un pro- per Cesare Bosio, il produttore vinicolo solo alcuni piatti dal menu perché, fessionista con la P maiuscola: sommo di Timoline di Corte Franca che mi ci credete, Pian delle Viti merita il viaggio. conoscitore di vini, esteta della proposta culinaria, sagace nella ricerca LEGENDA delle materie prime, abile nel comunicare con il cliente, sempre inappunCervello incoronato = Memorabile, coerente, tabile nel servizio. Savio si è affiancato ineccepibile per qualità, serietà (nella vita e nel lavoro) a Cristina Aroe ragionevolezza dell’offerta mando (ecco da dove arriva il nome del locale, che tutti attribuiscono al Tre corone = Cucina eccellente, gerundio del verbo aromare!), toscoperfetta esposizione delle voci in menù, romagnola abilissima in cucina, caambiente e servizio all’altezza pace di regalare emozioni semplici, Due corone = Ottimo per qualità dell’offerta corrette e “genuine” come la cultura del suo magico entroterra, a cavallo Una corona = Cucina corretta e affidabile fra tre regioni: Toscana, Marche, RoCorona nera = C’è ancora molto da fare magna. Scegliete, in questo ambiente al successo dei locali grazie alla propria innovativa linea di cucina.
Tre cervelli = Il massimo della ragionevolezza Due cervelli = Molto ragionevole Un cervello = Abbastanza ragionevole Cervello nero = Scarsamente ragionevole
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La carta dei vini, data la zona, è ricca di etichette stimolanti, destinate ad abbinarsi al meglio a una cucina (povera ma ricca) che non dimenticherete facilmente. Prezzi molto onesti.
TRATTORIA TOSCANA DA GIOVANNI Via Fara 9 20121 Milano 02 66987100
terno, un pinziomonio regale e deliziosi cannellini cotti nel fiasco. E in tavola sempre una calda, fragrante “carta da musica”. Come si nota ci sono due anime: quella toscana e quella sarda di cui è portatore il patron Giovanni Loi, a Milano da oltre 40 anni, ma sempre legato alla sua terra. Lo affianca il validissimo figlio Alessandro. (Guido Bernardi)
BOCCONDIVINO Via Carducci 17 20123 Milano Non è nel gotha della ristorazione mi- 02 866040 lanese questa Trattoria Toscana, né ha www.boccondivino.com mai ambito ad esserlo. È un locale solido, onesto, costante, con una ristorazione “italo-sardo-toscana” e qualche timido ammiccamento alla modernità: E bravi i Concordati, padre e figlio, è quello che richiede una clientela so- che continuano con la grinta di sempre lida e costante come il locale: avvocati a condurre questo locale milanese della zona, bancari, artigiani, accanto storico (ha aperto nel 1976). Sommea qualche turista straniero entusiasta lier di razza, Luigi Concordati, il padre, e, talvolta, qualche vip in incognito. Il ha l’ospitalità nel dna, ma non solo: tono, nella cucina e nel servizio, è è, da sempre, attento selezionatore quello della trattoria di quartiere, con del meglio di salumi e formaggi (da un pizzico di cura e intelligenza in più tempi non sospetti, quando ancora nella cucina ed un servizio simpatico non si trattava di una moda enogae cortese. C’è un bel banco di antipasti, stronomica diffusa). Ad ogni salume, molti a base di verdure, ottimi salumi, i Concordati abbinano un vino, al deliziosa bottarga con pomodorini: in calice o in bottiglia, ricordando al stagione sempre i funghi, ovuli per le cliente che qui la cantina è molto forinsalate e porcini (sia in insalata che nita: più di trecento etichette per alliecon le fettuccine), alla griglia o alla ge- tare le esigenze degli enoappassionati, novese. E poi una fiorentina fra le mi- alla ricerca – anche – di etichette non gliori della città, un porceddu arrosto convenzionali. Antesignano del concetto croccante all’esterno e morbido all’in- di “territorio” e di “origine”, Concordati descrive di ogni salume italiano la provenienza e, in alcuni casi, il produttore, così come per i formaggi, proposti in diverse varianti. Boccondivino è il regno dell’abbinamento, ovviamente, ma non manca la proposta di piatti caldi (pochi, per la verità, perché questo è il regno della salu-formaggeria di qualità, accompagnata da un pinzimonio di regale presenza). Ma i risotti sono edibili, così come le paste fresche, proposte all’insegna di tradizione e concretezza. Un format certamente datato, quello del Boccondivino, ma con il grande pregio della costanza qualitativa e del prezzo accessibile.