Artù 2013 01/02

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Artù n°54 - Gennaio - Febbraio 2013

Gusto ⦁ Tendenze ⦁ Mercati

Toscana: monocultivar e alta cucina al Silene di Roberto Rossi Freewine convince: l’esempio di vini “liberati” dai solfiti Amarone Bosan, una degustazione rivela grandi potenzialità Gli artisti del Culatello: i protagonisti di un fenomeno gourmet Lastage di Amsterdam: perché brilla la stella di Rogier van Dam

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Vinitaly 47th edition Organized by

Verona, 7/10 April 2013

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EDITORIALE n°54

edi tori al Ci vuole un coraggio da LEONI Un paese in cui tutto sembra impossibile può avere un futuro? Una società impaurita e impauperita può avere una visione di crescita a medio termine? Da che parte deve girarsi la nostra economia per risollevarsi? Con quali idee-forza può svilupparsi il volano della ripresa? Per anni abbiamo detto e scritto che “chi lavora bene, vince sempre”, che la “professionalità paga”, che “è fondamentale sapersi sintonizzare sulle esigenze della clientela” eccetera eccetera. Alla luce di quanto avvenuto negli ultimi tre anni, potrebbero oggi sembrare parole al vento, proclami inutili, dichiarazioni di principio purtroppo slegate dalla realtà. Già i processi evolutivi nel nostro paese sono tradizionalmente molto lenti, come se tutto fosse un problema, anche diventare “moderni”. Ma certamente, negli ultimi tempi, questa lentezza si è acuita con la dittatura dei tecnici, con la cronica assenza di investimenti, con la chiusura di migliaia di piccole imprese, con lo strapotere delle banche e della finanza che hanno letteralmente “soppresso” valori come crescita, sviluppo, lavoro, ambiente, business. Il risultato, oltre a una cronica mancanza di liquidità nelle tasche degli italiani, è una depressione generale che lascia ben poco spazio alla speranza di ripresa. Oggi nessuno (o quasi) guadagna più come un tempo: se chiedete a un ristoratore come va la sua attività, nella mi-

gliore delle ipotesi vi risponderà: “si sopravvive, ed è già un successo”. Quando non vi dirà che sta per chiudere, o che lavora solo grazie alla clientela russa (una meteora che prima o poi cadrà). Se preferite, invece, chiederlo ad un’azienda del vino, vi risponderà che “grazie all’export i risultati sono in crescita” e che “in Italia è sempre più complicato lavorare”! Ora, come può riprendere la crescita economica in un paese in cui il principale obiettivo è “sopravvivere”? Chi ha governato fino a ieri (e rigovernerà con larghe intese anche domani) non ha favorito in alcun modo alcuna spinta alla modernizzazione, all’espansione dei mercati, al consolidamento di una vera meritocrazia finalizzata e orientata al miglioramento degli asset sociali, economici, comportamentali. Ce l’hanno messa tutta per farci passare la voglia….Il risultato del finto “rigore” è stato di garantire alle banche la possibilità di salvarsi dalla bancarotta, grazie anche all’impegno forzato (e forzoso) di milioni di italiani “normali” che hanno visto impoverire le proprie risorse grazie a una politica fiscale che in ultima analisi ha azzerato i consumi, modificato gli stili di vita, imposto un abbassamento dei comportamenti che ci ha fatto regredire a trent’anni fa. Come se trent’anni di fatica, impe-

gno, determinazione,coraggio, investimenti, consumi fossero valsi a nulla. Una vera tristezza, che ha visto i consumi tornare al livello degli anni settanta, grazie a una logica saccente, perversa e presuntuosa spacciata come necessaria per adeguarsi all’Europa (che, come in Germania, ha risolto da molto tempo problemi che da noi sembrano insormontabili a causa di logiche corporative, arretrate, protezionistiche). Eppure questo è il momento in cui, se vogliamo salvarci, dobbiamo avere il coraggio di una rivoluzione, di un cambiamento totale che risponda a nuove logiche valoriali che rimettano al primo posto intelligenza, coraggio, spirito d’impresa. Visto che ci hanno fatto tornare indietro, dobbiamo mettere all’ordine del giorno i valori di un tempo, ritornando leoni e smettendola di fare le pecorelle ubbidienti. Forse ci schianteremo, ma almeno saremo stati noi stessi. Con o senza l’aiuto delle banche, dobbiamo ritrovare la spinta per nuovi progetti, strategie innovative, indi-

viduazione di nuovi target di clientela, ripresa dell’iniziativa a favore della qualità dell’offerta. Nella ristorazione e nell’hotellerie. Non dobbiamo deprimerci se ci chiedono di ritornare indietro, perché la mossa del gambero può paradossalmente farci ritornare forti, più forti di prima. Come? Ricominciando dal valore dell’uomo, dalle capacità dei singoli, dall’intelligenza e dalle riflessioni pacate che, insieme ad una analisi mirata dei potenziali comportamenti di consumo, può ridefinire i criteri di una ripresa che potrebbe essere anche più vicina del previsto. Per farlo, però, dobbiamo sbarazzarci di quanti vogliono ostacolare il libero pensiero e che, come in un regime odioso e detestabile, chiedono sacrifici finalizzati solo all’impoverimento generale. Con la sola, vergognosa, eccezione della casta che prospera e si allarga a dismisura, potendosi permettere di non lavorare e di ingrassare alle spalle dell’Italia migliore, costretta all’immobilismo da lor signori. Alberto P. Schieppati

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In copertina: gelato alla fragola con il tortino all’extravergine, condito con il “Silene” denocciolato (foto Bruno Bruchi). Un piatto di Roberto Rossi, chef patron del Silene di Seggiano, in Toscana: la località è nota anche per il suo cultivar, l’Olivastra, che consente di produrre un grande olio.

Info people S. Pellegrino, Sapori Ticino a Berlino di Elisa Facchetti Tartufo di Gubbio. Chef in gara di Claudio Zeni Il Borro di Ferragamo nei Relais & Chateaux di Elisa Facchetti Info people&brand Parte bene GourMarte. E Vittorio apre in Engadina Marchesine, Chiarli, Cornell. E Krug con Enrico Bartolini Info brand Freewine in crescita, storie di vini low sulfites Rational Self Cooking Control di Elisa Facchetti Cantina Ponte, simbolo di Venezia Focus wine Bosan di Cesari, grandi annate in divenire di Alessandra Piubello Focus food Alla corte di sua maestà di Alberto Lupetti Il Comandante di Napoli e la sua prima stella di Claudio Zeni Appennino Parmense. La cucina di Morini di Davide Bernieri Carne inglese, Dry o Salt? Protagonisti wine Coevo di Cecchi dalla parte degli chef di C.M. Protagonisti food La forza del territorio. Silene insegna di Rocco Lettieri My Chef in Triennale. Gusto e sobrietà di Luisa Contri Accueil Relais Santa Croce, lusso fiorentino di Theo Smith Grand Hotel Bernardin, vanto di Portorose di Gualtiero Spotti Dal mondo Lastage-Amsterdam, lo stile di van Dam di Gualtiero Spotti Pan brioche, pollo o champagne? Segmentazioni d’alta quota di Alessia Castelletti Libri Veronelli, Oldani, Ferrari. Arte al San Domenico Secondo Artù Formule che resistono, Langhe, Redarca, Correggio Artù n°54

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S. Pellegrino Sapori Ticino a Berlino

di Elisa Facchetti Torna uno dei più grandi eventi enogastronomici. E lo fa con un tocco ancora più europeo, ospite di una città, Berlino, simbolo di una vivace dinamicità culturale, abile interprete anche in ambito gastronomico. L’edizione 2013 di S.Pellegrino Sapori Ticino vuole quest'anno affiancare l’eccellente tradizione ticinese alla cucina di affermati chef berlinesi. La manifestazione, partita dal Ticino nel 2007 con la volontà di diffondere la cucina del suo territorio, varca i confini nazionali alla ricerca di nuove esperienze gastronomiche, di nuovi interpreti mitteleuropei, approdando quindi in terra tedesca e scegliendo Berlino come capitale gastronomica d'eccezione. Un gemellaggio volto a testimoniare non solo il crescente interesse verso il mondo della cucina di qualità da parte della capitale tedesca, ma anche l'aurea di autorevolezza che la manifestazione S.Pellegrino Sapori Ticino ha dimostrato e guadagnato in questi anni, imponendosi come una tra le manifestazioni più riconosciute a livello internazionale. Ne danno testimonianza le parole di Dany Stauffacher, ideatore e organizzatore di S.Pel-

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legrino Sapori Ticino: “Sono felice di questa nuova ed entusiasmante sfida che vede una delle città più cosmopolita e all’avanguardia d’Europa, incontrare il Ticino, per esprimere il meglio dei due territori. Il 2013 sarà anche un’occasione speciale per portare i nostri chef a Berlino e in seguito ospitare in Ticino i bravissimi e innovativi colleghi tedeschi”. Non a caso, proprio negli ultimi anni, Berlino si è dimostrata città-volano per chef innovativi e ambiziosi, come afferma il CEO di visitBerlin Burkhard Kieker (www.visitBerlin.com): "A Berlino non ci si limita a cucinare, qui si sperimentano gusti e sapori. Nel 2012 la Guida Michelin ha assegnato 16 stelle in 13 diversi ristoranti e Berlino è la città tedesca con il più alto numero di stelle. La partecipazione a S.Pellegrino Sapori Ticino 2013 rappresenta una grande opportunità per far conoscere i suoi migliori chef e permettere a tutti di assaporare la cucina berlinese anche fuori dai confini nazionali". Due gli appuntamenti da non perdere: il 26 e il 27 febbraio a Berlino, dove si esibiranno gli chef italiani Marco Ghioldi, Dario Ranza, Lorenzo Albrici, Egidio Iadonisi, Andrea Bertarini, Alessandro Fumagalli. E dal 7 aprile al 12 maggio le cene in Ticino con gli chef berlinesi. Tra location d'eccezione, piatti innovativi e vini prestigiosi anche tre serate lounge – il 25 aprile presso il Disco Club WKND di Lugano, il 2 maggio al Beach Lounge di Ascona e il 9 maggio al Lido Bar di Lugano – e due pranzi: il 20 aprile alla Locanda del Boschetto di Lugano e il 27 aprile alla Locanda Orico di Bellinzona.


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Tartufo di Gubbio Chef in gara

di Claudio Zeni La quarta edizione del “Premio Tartufo di Gubbio 2012” è stato un concorso gastronomico da record: giovani i cuochi in gara, padri e figli ai fornelli e per la prima volta nella storia della manifestazione una chef donna tra i contendenti. È in questa cornice che si è tenuto alla fine dello scorso anno il match in cucina tra otto chef selezionati nei più apprezzati ristoranti eugubini e italiani per interpretare al meglio l’inconfondibile aroma del tartufo bianco di Gubbio. Per la prima volta, il riconoscimento è andato ad una ‘berretta bianca’ del territorio, apprezzata dalla giuria per il suo rendimento costante nelle tre prove del concorso e nell’equilibrio mostrato nel combinare gusto, presentazione del piatto e originalità delle proposte. Il vincitore, Paolo Pascolini, ha sottoposto all’esame dei giurati un menu composto da antipasto di “Uovo pochè con carciofi fritti e tartufo bianco di Gubbio”, primo di “Bottoni ripieni ai marroni su fonduta di caciotta di Norcia e tartufo bianco di Gubbio” e per secondo “Guancia di vitello cotta a bassa temperatura con purè di topinambur e tartufo bianco di Gubbio”. Il trentaseienne Pascolini svolge quest’attività da diciotto anni e da dieci è titolare, insieme alla famiglia, del ristorante “La Cia” di Gubbio. “Sono felice

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– ha commentato il vincitore, premiato dall’assessore comunale al Turismo della Città dei Ceri, Marco Bellucci –, finalmente insieme anche agli altri cuochi locali siamo riusciti a far rimanere il premio a Gubbio”. Nelle precedenti edizioni, infatti, il premio è stato assegnato a Gilberto Rossi del Pepe Nero di San Miniato (Pi) nel 2009, a Marcello Spadone della Bandiera di Civitella Casanova (Pescara) nel 2010 e ad Alessio Rossi dello Splendid Royal di Lugano nel 2011. Tornando all’edizione 2012 del “Premio Tartufo di Gubbio 2012”, una menzione speciale è andata al piatto “Petto di piccione con tavolozza di patate, foie gras, cracker al rosmarino e tartufo bianco di Gubbio”, dello chef Daniele Canella del ristorante “Le Fontanelle” di Castelnuovo Berardenga (Si), risultato quello con la votazione più alta in assoluto, mentre gli altri cuochi in gara erano: Giacomo Ramacci del ristorante “Taverna del lupo”, Vito Favuzzi del ristorante “Il Bottaccione in gola”, Laura Tognellini del park hotel “Ai Cappuccini”, Diego Colladon dell’hotel “Quirinale” di Roma, Maurizio Cecilioni della locanda “Strada della Marina” di Scapezzo di Senigallia (An) e Massimo Rossi del ristorante “Belvedere” di Monte San Savino (Ar). Componenti della giuria, presieduta dal giornalista enogastronomico Bruno Gambacorta (Tg2 Eat parade), oltre al nostro direttore Alberto Schieppati, erano Paolo Capresi (Italia Uno), Tarsia Trevisan (Class Tv), Roberto Vitali (Italia a Tavola e L’eco di Bergamo), Vittorio Cota (Giornale Radio Rai), Salvatore Marchese (Guida ristoranti L’Espresso), Francesco Cerea del ristorante da Vittorio di Brusaporto (Bg), tre stelle Michelin e Giancarlo Colombo (Casa Vinicola La Versa). “Il tartufo di Gubbio non è secondo a nessuno – ha detto Bruno Gambacorta durante la premiazione – e bisogna insistere sul marketing territoriale e sulla promozione mirata”. La serata conclusiva, al park hotel “Ai Cappuccini” è stata l’occasione per conferire il riconoscimento “Eccellenze umbre nel mondo - Premio tartufo di Gubbio”, a Marco Caprai, l’imprenditore montefalchese che, tra l’altro, sta portando avanti un’appassionante sperimentazione a Gubbio in campo vitivinicolo, in collaborazione con Ubaldo e Carmela Colaiacovo.


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Il Borro di Ferragamo nei Relais & Chateaux San Giustino Valdarno

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Il Borro

di Elisa Facchetti A una manciata di chilometri da Arezzo sorge tra dolci pendii l'antico borgo medievale di San Giustino Valdarno. Un luogo magico, risalente al 1039, trasformato oggi dalla famiglia Ferragamo, dopo anni di anonimato, in uno dei Relais & Chateaux più belli in Toscana: Il Borro. A cogliere le grandi potenzialità di questo antico borgo la famiglia Ferragamo, che acquistata la tenuta nel 1985, decide solo nel 1993 di rilevare, oltre alla Tenuta,

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anche tutta la proprietà annessa, incluso il piccolo borgo medievale, e di dare un nuova vita al noto "borro", termine che indica un burrone formato dal letto di un torrente. Nasce così Il Borro, un'oasi immersa nel verde in un paesaggio tipico toscano, interprete oggi di quel lusso elegante definito dalle famose cinque "C": charme, cortesia, carattere, calma e cucina. "Accoglienza e riservatezza sono le caratteristica del nostro Relais" – spiega Salvatore Ferragamo Jr., CEO de Il Borro – "la destinazione perfetta dove rifugiarsi dedicandosi alle proprie passioni, per evadere in un luogo dove il tempo si è fermato". Ambasciatore Relais & Chateaux 2013, Salvatore Ferragamo Jr. unisce oggi all'attività di CEO de Il Borro quella di viticoltore, producendo alcune etichette riconosciute anche all'asta organizzata da Gelardini e Romani Auction Wine a Hong Kong (novembre 2012), come Il Borro IGT Toscana Rosso 2009 e il Magnum. Non solo, la Tenuta gode infatti di una posizione privilegiata per la coltivazione della vite, consentendo

alla famiglia Ferragamo di coltivare ben 45 ettari, tutti situati tra i 300 e i 500 metri s.l.m., vitigni come il Merlot, Cabernet Sauvignon, Syrah e Petit Verdot; Sangiovese piantato a 350 metri e Chardonnay a 500 metri. Sei le suites nel borgo medievale e 12 gli appartamenti, camere e spazi che accolgono, dopo un rispettoso e attento lavoro di restauro, anche il cliente più esigente, nel pieno rispetto dell'ambiente e in armonia con l'eleganza del "tuscany style": colori caldi dall'ocra al giallo, fino all'avorio. La Tenuta comprende diverse strutture ricettive: Villa Il Borro risale alla seconda metà dell'ottocento, è dotata di tutti i comfort, piscina riscaldata, area fitness, bagno turco e sauna e tavolo da biliardo; domina l'antico borgo con una splendida veduta. Chiocci Alto è invece il complesso rurale situato in una delle zone panoramiche più belle della Tenuta, un classico casale di campagna rivistato in stile "luxury" con zona wellness e cinque camere da letto. Immersa nei vigneti di Merlot, Casetta rappresenta l'ultimo casale restaurato della Tenuta, un luogo di assoluto lusso immerso in un'atmosfera resa magica dai vigneti circostanti. Ambienti eleganti e confortevoli anche per le due proposte culinarie, l'Osteria del Borro, dove assaporare tutto il piacere della Toscana più tradizionale, e il VinCafè Restaurant, luogo luminoso e di design dove gustare piatti sfiziosi, sempre ispirati all'alta qualità del cibo – e del vino – toscano. Info: www.ilborro.it



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Parte bene GourMarte E Vittorio apre in Engadina Pianeta GourMarte Assoluta novità e prima edizione nella storia delle eccellenze lombarde: stiamo parlando di Pianeta GourMarte, la manifestazione dedicata alla tipicità della gastronomia lombarda "lanciata" alla fiera di Bergamo dal 1 al 3 dicembre 2012. Obiettivo dell'evento la divulgazione al pubblico del "piccolo grande mondo" dei protagonisti lombardi del settore alimentare. Promotore dell'evento Promoberg: "Tenendo conto che si trattava di una manifestazione al suo debutto – spiega Stefano Cristini, direttore Ente Fiera Promoberg –, siamo soddisfatti della risposta del pubblico. In particolare

siamo soddisfatti per i commenti molto positivi espressi da tutte le persone che hanno partecipato a Pianeta GourMarte: i produttori, i cuochi, e il pubblico. Abbiamo allestito un evento con un format innovativo, con tour degustativi e ristorazione di alta qualità. Con una caratteristica distintiva: i prezzi, rapportati alle accellenze presenti, sono stati per una volta davvero accessibili a tutti". Ben cinquemila le presenze, tra cui 23 big della cucina per un totale di 25 stelle Michelin, a ribadire la grande evoluzione della cucina Lombarda e non a caso, proprio durante GourMarte, è avvenuta la premiazione del Premio Luigi Veronelli, a sottolineare l'impegno verso la qualità dei prodotti enogastronomici. Coinvolti durante l'evento anche numerose realtà del territorio, tra cui istituti alberghieri e scolaresche di formazione professionale.

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A Venezia Gusto in Scena Appuntamento imperdibile e da non dimenticare: dal 17 al 19 marzo 2013 torna Gusto in Scena, la manifestazione curata e ideata dal giornalista Marcello Coronini che si caratterizza ogni anno per un tema trattato, dove protagonista è un ingrediente della cucina a cui, grazie alla creatività e agli “escamotage” ideati da grandi chef, si può rinunciare guadagnandoci anche in salute. Il leit motiv “Cucinare con...Cucinare senza...” quest'anno sarà completato dall'ingrediente più dolce in assoluto: lo zucchero. La Scuola Grande di San Giovanni Evangelista di Venezia – risale al 1261 –, sarà ancora una volta la location d'eccezione che ospiterà tre eventi in parallelo: Chef in concerto – Il congresso di alta cucina, i Magnifici Vini di Mare, Montagna, Pianura e Collina e Seduzioni di Gola. Novità della quinta edizione l'importante ruolo dei vini proposti da alcune cantine dei I Mignifici Vini abbinati ai piatti degustati a Chef in Concerto e la proposta di piccole cantine sconosciute, i famosi Cervim, ovvero i “vini eroici” prodotti in zone di montagna, di forte pendenza o delle piccole isole. L'evento sarà anche un'occasione per organizzare workshop, come quello dedicato ai produttori e organizzato durante la tre giorni dalla Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina, analizzando anche le nuove frontiere dell'enogastronomia italiana in Cina. Seduzioni di Gola presenterà come sempre una selezione di numerose specialità gastronomiche italiane ed europee, a cura di Lucia e Marcello Coronini, una ricerca basata su prodotti di qualità e sulla valorizzazione del territorio: dal culatello al pata negra, da assaggi di baccalà mantecato a diverse stagionature di Parmigiano Reggiano. Maggiori informazioni e tutti gli aggiornamenti su www.gustoinscena.it.

Fratelli Cerea Da Vittorio a St. Moritz Un nuovo progetto vede coinvolti i fratelli tristellati Enrico e Roberto Cerea, impegnati nelle cucine del Carlton Hotel, a St. Moritz, dove è stato inaugurato a metà dicembre 2012 il ristorante Da VittorioSt.Moritz: durante tutta la stagione invernale, all'ex Ristorante Tschinè, si potranno gustare menu di pura tradizione lombarda. Nuovo ristorante, ma stessa disciplina nella preparazione dei piatti: la cucina dei fratelli Cerea in terra Engadina, come a Brusaporto, si basa su prodotti freschi e di altissima qualità, lavorati in modo tradizionale, ma anche con tecniche ricercate, sempre nel rispetto del gusto e delle proprietà degli ingredienti, piatti che risaltano la tradizione lombarda e che hanno reso celebre Da Vittorio: scamponi al vapore, moscardini con la polenta della tradizione, paccheri alla Vittorio o gran fritto misto con frutta e verdura, e non potevano mancare nel menu i dolci della tradizione italiana. Il menu à la carte del nuovo ristorante del Carlton Hotel St. Moritz prevede sia una proposta completa, sia la possibilità di scegliere anche un solo piatto, un'esperienza gastronomica completata da un’ampia selezione di vini internazionali. Per info e prenotazioni www.carlton-stmoritz.ch.


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Marchesine, Chiarli, Cornell E Krug con Enrico Bartolini Loris Biatta Grandi millesimi Le Marchesine, l’azienda agricola di Passirano, in Franciacorta (www.lemarchesine.com), non sta certo ferma a guardare né si spaventa di fronte alla crisi: grazie all’intuizione e alla instancabile genialità di Loris Biatta, patron della cantina, la prestigiosa azienda vinicola ha presentato a Milano, prima di Natale, due nuove etichette, destinate a trovare il loro spazio nella ristorazione d’eccellenza. Il primo è uno chardonnay in purezza che si esprime al meglio nel Franciacorta Brut nature Secolo Novo “Giovanni Biatta” , millesimo 2007; prodotto in sole 5.700 bottiglie, rivela un finissimo perlage e comunica gradevolezza estrema grazie al suo bouquet ampio e complesso, caratterizzato da note floreali, fruttate e speziate. Una vera chicca nella produzione delle Marchesine, presentato alla stampa in abbinamento ad un grande menu di pesce al ristorante milanese da Giulia, in piazza Gramsci, alla presenza di Loris Biatta, produttore appassionato e grande comunicatore. Una rivelazione anche l’altra bollicina dell’azienda franciacortina, il Brut Blanc de Noir Millesimato 2009, proposto durante lo stesso evento: in questo caso, le bottiglie prodotte sono 6.700, a conferma - anche in questo caso - della particolarità del prodotto, destinato a pochi, raffinati intenditori. Un prodotto straordinario, che conferma la costanza qualitativa delle Marchesine: colore rosa pallido, riflessi ramati, perlage finissimo e persistente.

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A cena da Cleto Chiarli Cleto Chiarli Tenute Agricole, a Villa Cialdini di Castelvetro, ha accolto la Nazionale Italiana Ristoratori, alla consueta cena prenatalizia, con gli spumanti Rosé e Modèn e con il Pignoletto classico superiore Sit a Montuì della Tenuta Santa Croce. Protagonista della cena i Lambrusco Cleto Chiarli, in abbinamento ai tipici sapori emiliani proposti da Matteo Morandi dell’Hosteria Giusti di Modena e ai dolci della Pasticceria Giamberlano di Pavullo, accompagnati dal passito Domus Aurea di Ferrucci. Anselmo Chiarli ha ringraziato tutti i presenti consegnando ad ognuno un cofanetto contenente due bottiglie di Vigneto Cialdini e Lambrusco del Fondatore, tre bicchieri Gambero Rosso 2013.

Colterenzio cantina green Da 28 piccoli vignaioli a 300 viticoltori. La storia di Cantine Colterenzio rappresenta un inno alla passione per la vite in Alto Adige, una storia che unisce tradizione e tecnologia al fine di preservare l'ambiente e il vitigno, conservare la fertilità del terreno e migliorare la qualità delle uve, nel pieno rispetto di quel progetto di sostenibilità ambientale che da alcuni anni Colterenzio porta avanti non solo in campagna, ma anche in cantina. La sede, ristrutturata ispirandosi a criteri di compatibilità ambientale, utilizza energia pulita prodotta interamente da fonti rinnovabili. Un'attenta filosofia "green" di cui ne beneficiano soprattutto i vini prodotti, come il Gewürztraminer Atisis 2010 Doc, Linea Cornell, che viene prodotto da uve che trovano il loro habitat naturale nei terreni calcarei di Cornaiano (Bz). Ne nasce un ricco bouquet con note di rosa canina, noce moscata, cannella, arance mature e limoni. La linea Praedium di Colterenzio comprende invece una serie di vini prodotti da uve che nascono su appezzamenti selezionati nei possedimenti storici d’Oltradige. Tra questi spicca il St Daniel Pinot Nero Riserva Doc 2009, un rosso granato medio che nasce sulle alture tra Ora e Montagna dove sviluppa una raffinata eleganza grazie ad aromi di bacche rosse mature con un tannino fine e delicato.

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Risultati brillanti e senza aloni. È questa la mission dell'azienda Walo Professional, specializzata nella produzione di lavastoviglie per uso professionale, studiate ad hoc per l'alta intensità di sfruttamento, come richiedono gli esercizi ad alta frequntazione quali bar, pub, ristoranti, bistrò, enoteche. E proprio pensando alle tali specifiche nasce Wine Bar, un prodotto unico che garantisce una profonda ma delicata pulizia del cristallo, abbinata a una asciugatura senza aloni, grazie alla ricerca tecnologica

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Krug, l’Effimero diventa realtà Effimero è tutto ciò che diletta e poi scompare. Ne erano abili interpreti i commedianti rinascimentali, quando, durante il peiriodo di Carnevale, trasformavano la città con fondali effimeri, che magicamente si montavano e si smontavano dall'alba al tramonto. Così sarà il primo Ristorante Effimero italiano, che esisterà solo dal 20 al 26 febbraio 2013, durante la Fashion Week milanese. Artefice la Maison Krug, che con l'apertura del ristorante Krug en Capitale Milano, al 27° piano della Diamond Tower, a Porta Nuova, ribadisce il concetto di un evento straordinario, chiamando a testimonianza di queste serate tutta l'esperienza dello chef Enrico Bartolini del Devero Hotel. Prenotazione obbligataria, a partire dal 20 febbraio, e solo online al sito www.krugencapitale.it, per vivere un'esperinza gastronomica con un menu d'eccezione, anche per il prezzo. Tre le proposte di Bartolini, un omaggio "rivisitato" ai piatti celebri della città meneghina, tra cui cassoeula, riso alla milanese, alici in carpione: "Unforgettable Krug" a 250 euro, e i due menu "A sense of Krug" e "Journey into the Krug universe" a 300 euro, piatti sempre accompagnati da Champagne Krug.

Prime Uve fa 25 Per festeggiare il primo quarto di secolo di vita dell’acquavite di uva Prime Uve, la famiglia Maschio ha scelto di organizzare un imponente quanto piacevole pranzo presso la sede dell’azienda Bonaventura Maschio a Gaiarine. A fare gli onori di casa Anna e Andrea Maschio, insieme al padre Italo e a deliziare gli ospiti due grandi nomi della gastronomia italiana: Moreno Cedroni e Corrado Assenza. Il primo ha preparato un menu salato di sei portate - dagli “Scampi crudi con pomodoro e Prime Uve Oro” alla “Coscia d’anatra con caramello alle Prime Uve e salsa di verza e cavolo cappuccio” -, il secondo ha provveduto ai dolci. In altre parole, è stato un vero e proprio tripudio per occhi e palato. Il tutto, reso ancora più gradevole dalla gentilezza, dall’ospitalità e dall’amabilità dei padroni di casa. Per l’occasione è stato imbottigliato e messo in commercio una speciale selezione di Prime Uve.

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L’arte di soddisfare i cinque sensi.


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Freewine in crescita storie di vini low sulfites Artù, sempre attenta alla vivacità del mondo enologico, torna a parlare di un grande e importante progetto: Freewine® E lo fa, questa volta, interpellando alcuni dei protagonisti che hanno sposato idee e disciplinare per produrre vini con consistenti riduzioni della quantità di solfiti, evitando che l'anidride solforosa aggiunta come conservante causi i famosi "mal di testa" che spesso si presentano dopo un bicchiere di vino. Il progetto Freewine®, nato quattro anni fa, si avvale del supporto scientifico del Dipartimento di Biotecnologie dell'Università di Verona e dell'Istituto di Biologia e Biotecnologie Agrarie del Centro Nazionale delle Ricerche (CNR) di Pisa, a dimostrazione che dopo quattro anni di intensi lavori e di precisi protocolli da seguire, è stato possibile creare una nutrita schiera di produttori, più di 40, che vogliono distinguire i propri vini "Freewine®", apportando sulla bottiglia il marchio che ne identifica la caratteristica peculiare. Un'innovazione che ha già riscontrato numerosi successi e apprezzamenti e che guarda sempre più al futuro, con la promozione per il 2013 anche di un wine shop online. Un futuro rivolto alla sostenibilità, che si pone come obiettivo finale la produzione di un vino con zero solfiti aggiunti. Di seguito la parola ad alcuni tra i primi produttori che hanno aderito al progetto Freewine®, a cui Artù ha chiesto di sintetizzare i motivi di adesione al protocollo, di spiegarne la produzione e le aspettative per il futuro.

"Abbiamo aderito al progetto Freewine® per la sempre maggiore richiesta da parte del consumatore di prodotti "genuini". Fare a meno dell'anidride solforosa nella produzione dei vini è la strada che secondo noi dà maggiori benefici in termini di salubrità del prodotto. È stata per noi una sfida, la paura di avere alla fine un prodotto "non buono" o comunque che non rispettasse la tipicità era molto alta, tuttavia alla fine siamo stati premiati da un prodotto di grande qualità e grande tiGiacomo Baruffaldi picità. È ancora prematuro fare un bilancio del progetto Freewine® (il nostro prodotto è stato messo un scelte di produzione. C’è commercio da troppo poco temgrande interesse e apprezpo), ma possiamo senz'altro afzamento del consumatore fermare che siamo molto soddiper questi vini, ma ancora sfatti del risultato qualitativo, e poche persone li conoscoanche i consumatori sembrano no. Il Castello di Stefanago apprezzare molto. Al momento ha due etichette Freewine®: abbiamo un solo prodotto Freeil Müller Thurgau è un bianwine®, si tratta del Valdobbiadene co di insolita mineralità Docg brut "Zan", nome che deriva con delicati sentori aromada un nostro antenato. È uno tici e profumo di erbe offispumante molto tipico che si cinali, una gradevole acidità presta bene ad essere cosumato e una spiccata nota di tancome aperitivo, ma anche a tutto nicità ne fanno un vino frepasto, magari con piatti di pesce sco, elegante, ideale per o primi piatti leggeri. Il prezzo al l’aperitivo, sui piatti di peconsumo è attorno ai 12-13 sce, le carni bianche, i formaggi freschi. La Croatina è un rosso euro a bottiglia. Sicuramente il progetto piacevole e particolare, con inusuali note Freewine® ha un futuro roseo, il consue intense fragranze di frutta fresca; una matore è sempre più attento e cercherà equilibrata tannicità e una fresca acidità sempre più prodotti sì salubri, ma che rendono questo vino adatto ad accom- siano anche buoni. E in questo senso pagnare tutto il pasto. Fascia prezzo Freewine® ha mantenuto le promesse". circa 12,00 euro. Il mio obiettivo è quello di proseguire il cammino inziato con Freewine®”.

Azienda Vitivinicola Bortolin F.lli srl (Tv) Castello di Stefanago (Pv) Andrea Bortolin, cotitolare Giacomo Baruffaldi, titolare con il fratello Antonio “L’azienda vitivinicola Castello di Stefanago, che io conduco insieme con mio fratello, ha scelto da tempo l’agricoltura biologica: produrre vini senza aggiunta di solfiti è stato un naturale arricchimento delle nostre

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Andrea Bortolin

La Travaglina soc. agr. (Pv) Stefano Bottiroli, marketing e commerciale dell'azienda

Stefano Bottiroli “La Travaglina è stata sempre attenta alla salubrità dei suoi vini e al rispetto per l’ambiente. La decisione di aderire a Freewine® è un altro passo in questa direzione e inoltre pensiamo che i vini Freewine® esaltino le caratteristiche del vitigno preservando nel vino aromi e sentori che i solfiti tendono normalmente a inibire. La crescita del progetto sarà direttamente proporzionale alla nostra capacità di diffondere il messaggio che non si tratta di una moda passeggera, ma è il frutto di studi mirati per ottenere vini che uniscano ad una qualità importante la garanzia di degustare prodotti sani e naturali. Oggi siamo più che mai convinti che sia stata una scelta giusta. Produciamo, in accordo con Freewine®, la Barbera Doc La Rivoltosa, un vino fruttato, fragrante e immediato, che continua a sorprendere anche noi che ne seguiamo da vicino l’evoluzione. È un vino da tutto pasto, ideale abbinato a salumi, formaggi e primi piatti al sugo di carne, ed è in vendita al pubblico a 8-12 euro a bottiglia”.


Azienda Agricola Quinta della Luna (Pn) Marco e Monica Vettor, fratelli e titolari "Nel 2012 abbiamo realizzato un ambizioso progetto al quale avevamo iniziato a dedicarci già dal 2009, che però non era Sieghard Vaja ancora arrivato fino all’imbottigliamento: la produzione di un Cabernet Franc Masseria Duca d’Ascoli (Fg) senza solfiti, aderendo così al progetto Sieghard Vaja, Freewine® portato avanti con la collaenologo consulente borazione dell’azienda Tebaldi di Verona "Masseria Duca d'Ascoli, dalla e seguendo il protocollo che ci ha asvendemmia 2011, crede fortesegnato il marchio oro che identifica mente nel progetto Freewine®. i vini con meno di 10 mg di solfiti La nostra azienda biologica, per litro. Il nostro Cabernet Franc da sempre impegnata nella è molto diverso da quello francese. riduzione dei solfiti aggiunti, È un vino erbaceo e molto caratha avuto risposte positive teristico. Si colloca in una posisoprattutto dall'estero e dai zione di controtendenza rispetto nostri clienti più esigenti a quello che viene proposto atdelle maggiori città italiane. tualmente a livello enologico inPer noi si tratta di una riscoternazionale: rosso rubino intenso, perta del nostro vitigno prinselvatico e caratteristico nel suo cipe "Nero di Troia" allo stato sapore erbaceo da giovane, arinaturale. I nostri clienti instocratico, pieno, ha corpo e vece trovano in questa nopersonalità. Gli abbinamenti che vità un ritorno alla salubrità noi consigliamo per apprezzare del prodotto non rinunciando nel con- al massimo le note di questo rosso sono tempo alla bevibilità solita dei nostri pro- gli arrosti di carne, sia bianche sia rosse, dotti di qualità. È evidente la sensibilità o anche i piatti di cacciagione, selvaggina dei consumatori attenti, verso questi vini e salumi. Fascia prezzo: 5,50-6 euro ai innovativi. Intendiamo perciò concretizzare privati in cantina". le nostre esperienze in una futura versione affinata in botti grandi, che affiancherà la versione varietale attualmente disponibile. Masseria Duca d'Ascoli produce unicamente Nero di Troia dell'alta Puglia biologico. La versione Freewine® è senza solfiti aggiunti (etichetta gold) che è proposta al pubblico a 18,00 euro. Si tratta di un vino elegantemente varietale e senza affinamento in legno, abbinabile con formaggi stagionati, primi al sugo e carni frollate alla griglia".

Intervista a Marco Tebaldi, enologo e fondatore del progetto Freewine Perchè nasce il progetto Freewine®? Freewine® ha come primo obiettivo la salute del consumatore: questa secondo noi è stata la chiave del successo e dell’interesse che si è generato intorno al progetto da parte delle aziende vitivinicole, dal mondo della comunicazione e dai professionisti che si sono attivati per la commercializzazione. Nel tempo – siamo partiti quattro anni fa con basi metodologiche e partner istituzionali di rilievo – abbiamo portato avanti un lavoro non solo tecnico, ma anche culturale, di “educazione” al nuovo vino, sapendo che oggi il consumatore si informa, dialoga in rete ed è disposto a sperimentare conoscendo i vantaggi di un nuovo prodotto. Vantaggi che gli permettono un consumo di vino quando prima magari non poteva. Quante sono le aizende che ad oggi hanno aderito al progetto? Ad oggi sono circa 40 le aziende in tutta Italia che partecipano a Freewine® con una gamma variegata e di alta qualità dove senza il “velo della solforosa” emerge un sentore più fresco e fruttato. Si possono scoprire i vini presso i “punti Freewine®” sparsi sul territorio cioè locali, ristoranti, negozi dove si può gustare o acquistare almeno un vino aderente al gruppo. Cosa prevede per il futuro del progetto Freewine®? Il futuro? Pensiamo di essere su una buona strada: il trend del benessere e della sostenibilità legato all’alimentazione (quindi anche al vino) è in prossima espansione, dicono gli esperti. E ne abbiamo avuto prova diretta sia ai nostri eventi con i privati, sia ricevendo richieste dall’estero.Vogliamo perciò incrementare la spinta di un’adeguata promozione che supporti tutti i canali e i soggetti del mercato, e perché no, espanderci con il brand fuori confine. Un perno fisso per noi rimarrà la ricerca a garantire un “miglioramento continuo” e gli studi in materia di vino e salute.

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Marco e Monica Vettor

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Rational Self Cooking Control

di Elisa Facchetti Offrire il massimo vantaggio possibile a chi prepara piatti caldi nelle grandi cucine e nelle cucine industriali. Questa è la mission del Gruppo Rational, azienda a livello mondiale che ha rivoluzionato le tradizonali attrezzature professionali di cottura grazie all'introduzione sul mercato di unità SelfCooking Center whitefficiency, apparecchi di cottura che permettono non solo di risparmiare energia e spazio, ma soprattutto tempo, grazie al funzionamento automatizzato che permette di controllare in autonomia la sequenza di cottura ottimale per qualsiasi pietanza. E i numeri parlano da soli: nel solo 2012, a un anno dalla messa a punto del sistema, sono state prodotte quasi 40.000 unità SelfCooking Center whitefficiency. Numerose testimonianze di personale qualificato, in primis chef, confermano con entusiasmo l'efficienza e la tecnolgia Rational, a cui si

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aggiunge la voce dello chef stellato Gennaro Esposito, dal suo ristorante Torre al Saracino a Vico Equense: "Definirei la mia cucina moderna. Per essere bravi chef è necessario avere il tempo di inventarsi delle regole, il tempo per approfondire la conoscenza sia dei prodotti, sia della cultura generale. Tutto questo è possibile grazie a forni con processi di cottura automatici che garantiscono un risultato finale sempre perfetto. I benefici di un SelfCooking Center si sintetizzano nel concetto di migliore qualità del lavoro, in un contesto come il mio dove creatività, massima cura e attenzione nei confronti dei clienti, sono alla base della filosofia culinaria. Molto importante per uno chef è conoscere i prodotti, valorizzandoli al meglio grazie all’uso di nuove tecnologie. Da questa esigenza è nata la voglia di conoscere meglio il Self Cooking Center whitefficiency. Queste tecnologie, ci regalano nuove potenzialità, e ogni giorno stiamo apprezzando questo forno sempre di più. Sono convinto che quando avremo compreso a pieno le potenzialità del SelfCooking Center whitefficiency, non basterà un’intervista per raccontarle tutte!”. Ideale anche per la cottura di dolci, che spesso richiedono doppie cotture o cotture delicate, l'unità realizzata da Rational permette di essere personalizzata e la nuova tecnologia abbinata indica allo chef quali prodotti possono essere cucinati insieme, controllando la temperatura in modo autonomo in ogni ripiano, in base al carico e a quante volte e per quanto tempo viene aperta la porta dell'unità. “Rational, con il suo SelfCookingCenter whitefficiency, si distingue ancora una volta quale azienda di riferimento nell’innovazione tecnologia delle attrezzature di cucina – afferma Marco Ferroni, amministratore delegato della filiale italiana Rational –. Gli chef avranno da ora un controllo totale e preciso del processo di cottura e la garanzia di un prodotto sempre perfetto. Per quanto riguarda invece il mercato nella sua globalità, la nuova unità avrà presto un enorme impatto nei tre campi chiave: sostenibilità, accessibilità, qualità”. Per info o per partecipare a un seminario gratuito Rational CookingLive www.rational-online.com



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Cantina Ponte simbolo di Venezia Ancora una volta l’azienda vitivinicola guidata da Massimo Benetello ha scelto Venezia e il Gran Teatro La Fenice per sottolineare il proprio legame profondo con la città più bella del mondo e con la sua istituzione più prestigiosa, in una logica di riaffermazione dell’identità territoriale. Ulteriore occasione di questa raffinata partnership è stata, alla fine dello scorso anno, l’apertura della Stagione teatrale 2012-2013 alla Fenice, che ha visto una magistrale “prima” dell’Otello, inserita nello splendido contesto delle celebrazioni del bicentenario della nascita di Verdi e Wagner. Cantina Ponte ha suggellato l’evento con la propria presenza, concreta e di immagine, alla prima teatrale, confermando il proprio percorso di “stile ed eleganza all’interno di un progetto di comunicazione che vede La Fenice e Ponte impegnate a valorizzare il concetto di venezianità in ambito internazionale”, come ha sottolineato Massimo Benetello, direttore generale di Viticoltori Ponte durante la conferenza stampa, insieme a Cristiano Chiarot, sovrintendente del Teatro, Valter Menazza, presidente di Ponte, Alessandro Ragazzi, presidente di Licensing Vision, la società che si occupa di promuovere i marchi Ponte e la Fenice. L’incontro veneziano è stata l’occasione per presentare il nuovo Rosso Doc Venezia e per ribadire il legame della Cantina con il proprio territorio. Non a caso il direttore Massimo Benetello ha sottolineato come “il progetto La Fenice nasca in modo pienamente coerente con una visione moderna, ma attenta alla tradizione e profondamente legata al territorio: l’obiettivo principale è di trovare i migliori partner identitari per esprimere l’eccellenza delle nostre terre venete, seguendo logiche evolutive, profondamente rispettose della nostra identità. Quale migliore connubio, se non quello con uno dei più celebrati, affascinanti ed eleganti Teatri d’Opera nel mondo?” La prestigiosa partnership, figlia di un

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ambizioso progetto nato nel 2011 che vide l’inizio della commercializzazione delle etichette solo in primavera 2012, è stata efficacemente comunicata alla migliore stampa specializzata nei mesi scorsi, ma ha avuto momenti di ulteriore valore comunicativo nella giornata della “prima”: un indimenticabile pranzo-gourmet preparato dall’executive Silvio Giavedoni, stella Michelin del ristorante del Caffè Quadri, condotto dai fratelli Alajmo, ha consentito di gustare grandi piatti: involtini di scampi fritti con bottarga, basilico, mandorle, origano, mezzi paccheri con crudo di pesce e salsa di pistacchi, astice al vapore con puré aspro all’olio e salsa di crescione, polentina fritta con taleggio e tartufo nero, tortino al cioccolato con sorbetto di mandorle. L’esperienza enogastronomica del Caffè Quadri ha avuto degno abbinamento con la gamma dei vini della Viticoltori Ponte, alcuni presentati proprio in questa occasione, come il Rosso doc Venezia: un’anteprima assoluta per un prodotto che ha stupito per la sua freschezza e per le note speziate, che hanno confermato la forza e l’eleganza di merlot (90%) e raboso (10%). Fra gli altri vini degustati, il Pinot Grigio doc Venezia ha rivelato grande morbidezza e struttura che ne hanno esaltato l’equilibrio e l’armonia; il Prosecco Extra Dry Millesimato ha ribadito la propria versatilità e, vera rivelazione per chi non lo aveva ancora degustato, il Rosé Extra Dry – raboso al 100% – si è rivelato prodotto di grande modernità, adatto anche a tutto pasto. La giornata ha visto un ulteriore momento, dopo la prima al Teatro, sul roof garden del Molino Stucky, il prestigioso hotel ubicato sull’isola della Giudecca, dove

c’è stato un dopoteatro di particolare suggestione, che ancora una volta ha avuto come protagoniste le bollicine della Cantina di Ponte di Piave. Il progetto Ponte-La Fenice, dedicato ad un segmento di nicchia in Italia e nel mondo, ha raggiunto il traguardo delle prime 40.000 bottiglie, delle quali oltre l’80% è rappresentato dal prosecco, che si conferma un portabandiera indiscusso del vino veneto e italiano. La Cantina Ponte, nata nel 1948, è oggi una delle realtà produttive più dinamiche del Veneto. (T.S.) Artù n°54

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Bosan di Cesari

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di Alessandra Piubello Una degustazione di quattro millesimi di Amarone Bosan mette in luce grandezza, carattere, evoluzione (ma anche freschezza, nel caso del 1998, nonostante i quattordici anni dalla vendemmia) di un grande vino, prodotto di punta della cantina veronese. Fra tutte le annate spicca il 2000, decisamente il migliore fra i vini della batteria. È un Cristoforo da tempo arrivato nelle Americhe quello che ci accoglie da Cesari, azienda fondata nel 1936 (anche se allora non in terra veronese). Gli Amarone della cantina del fondatore, Gerardo, erano presenti fra i primi in America negli anni Settanta. Non a caso l’azienda è più conosciuta all’estero, dove esporta l’ottanta per cento della sua produzione, che in Italia. Dagli anni Novanta Cesari è diventata un Gruppo formato da tre soci con quota paritaria: Franco Cesari, Rinaldo Corvi e Annibale Materossi. È il figlio trentottenne di Annibale, Cristoforo, a traghettarci alla scoperta dei vini della cantina di Cavaion Veronese. “Lo spirito, la passione, i valori e i rapporti personali - spiega Cristoforo Materossi - sono ancora a dimensione familiare. C’è una grande attenzione al singolo e alla valorizzazione del suo contributo per la

crescita del Gruppo.” Oggi, complessivamente, l’azienda controlla 100 ettari nelle zone della Valpolicella e del Lugana. La Gerardo Cesari, che ha una gamma di diciassette etichette, ha opportunamente selezionato quattro cru, destinati a dare le produzioni più qualificate: Bosan, Bosco, Jèma e Centofilari. Noi ci concentreremo su una degustazione dell’Amarone Bosan, il vino di punta aziendale, ottenuto dopo ben dieci anni di ricerca, lavoro agronomico e sperimentazione, che hanno dato vita nel 1997 alla produzione. Prima di addentrarci nella descrizione del Bosan, una breve digressione per ricordare un po’ la storia dell’Amarone, che sta riscuotendo un enorme successo, soprattutto all’estero. Vino storico e prestigioso tipico della famosa zona vinicola della Valpolicella (dal latino Vallis-polis-cellae, valle dalle molte cantine) e di alcuni comuni nella provincia di Verona, ad est dell'Adige, l’Amarone è un classico della “letteratura vitivinicola”. L’origine deriva dalla parola amaro, che iniziò ad essere usata per distin-

Nella foto in alto Cristoforo Materossi (sulla destra) con Paolo Grigolli, consulente enologo della cantina, durante la degustazione. Artù n°54

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guerlo dal Recioto, l'altro vino rosso tipico della zona della Valpolicella, più dolce, e da cui ha avuto casualmente origine. Di un "Vino amaro" parla già Catullo declamando "calices amariores" (bicchieri più amari) nel suo Carmine No. 27. Ma per risalire alla leggenda della nascita del nome "Amarone", dobbiamo arrivare alla primavera del 1936, quando il responsabile della locale Cantina Sociale Valpolicella trova casualmente una botte di Recioto, dimenticata in cantina da qualche anno. Si racconta che, dopo aver spillato il contenuto, lo assaggia, e sorpreso dal gusto, esclama: "questo vino non è amaro, è un amarone", battezzando così un nuovo tipo di vino. Praticamente il Recioto, messo in botte e poi dimenticato, continuò a fermentare fino a diventare secco. Gli zuccheri si trasformarono tutti in alcol facendo perdere la dolcezza al vino, al quale, in contrapposizione a quello che avrebbe dovuto essere, è stato dato il nome di Amarone. Ma torniamo al Bosan, e alla sua storia, non tanto nell’origine del nome, quanto per il significato in giapponese: monaco. Fra gli amanti di questo vino (che invece deve la sua nascita ad una richiesta specifica di un cliente elvetico, che poi ha contribuito a diffonderlo così ampiamente in Patria che la Svizzera è al primo posto per l’esportazione) ci sono molti nipponici che lo considerano per l’appunto un perfetto vino da meditazione… .

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Bosan ha per protagoniste le uve più tipiche del territorio veronese: corvina (80%) e rondinella (20%). Sono uve autoctone e particolarmente adatte, per la consistenza della loro buccia, ad essere sottoposte a processi di appassimento abbastanza prolungati come nel caso dell’Amarone. La corvina è un vitigno vigoroso e produttivo, grappolo di buona consistenza, con un buon apporto tannico, che consente di ottenere vini di colore rosso rubino intenso, mediamente corposo e duraturo. La rondinella presente in percentuale decisamente inferiore, circa il 20%, è un vitigno generoso, adatto anche ai terreni più argillosi e meno esposti; grappolo di medie dimensioni, cilindrico, dal suo frutto si ottengono vini di colore rosso rubino intenso, con aroma gentile, fruttato, con sapore non tannico ma di buona struttura. Il vigneto Bosan si trova nel cuore della Valpolicella, nella zona di Corrubbio di Negarine (San Pietro in Cariano). Il terreno, situato a 300 metri d’altezza, è prevalentemente limoso argilloso, a tratti calcareo alluvionale. La superficie è di circa 10 ettari coltivati a viti di 18 anni d’età, impiantate a pergoletta veronese con densità di 3.300 ceppi per ettaro. Il clima, fresco e ventilato, permette di evitare ristagni di umidità, dannosi per i grappoli. Le uve destinate alla produzione dell'Amarone vengono raccolte con 1-2 settimane di anticipo rispetto a quelle per il Valpolicella. Du-


rante la vendemmia vengono selezionati solo i grappoli perfettamente integri ed asciutti, poi adagiati, in cassette basse, con un solo strato di grappoli. Rimangono ad appassire nei fruttai, per evitare il rischio dell'attacco di muffe. Il processo di appassimento dura fino a fine febbraio. Nel corso di questi mesi i grappoli vengono costantemente controllati ed eventualmente rimossi se danneggiati. Al termine dell’appassimento le uve perdono il 3040% del loro peso mentre aumentano la concentrazione zuccherina, indispensabile, durante la successiva fermentazione, a garantire un notevole grado alcolico. La macerazione viene effettuata a contatto con le bucce per un periodo di 20-30 giorni. Dopo la svinatura il prodotto passa in vasche di acciaio per svolgere la fermentazione malolattica nei mesi successivi. A questo punto inizia la fase di maturazione, che durerà 3 anni con affinamento in botte grande (rovere di Slavonia) e legni piccoli, bar-

rique (rovere francese). Prima dell’immissione al consumo la maturazione è completata da 12-15 mesi di riposo in bottiglia. Questo vino ha le sue basi nella cura con cui è gestito il vigneto, nell’intensità di impianto, nella potatura accurata, nel diradamento e nella scelta dei grappoli migliori. Occorrono quasi sei anni prima che l’Amarone Bosan esca dalle cantine. E ora diamo spazio alle verticale: ogni annata sarà preceduta da una breve introduzione sull’annata, in modo da meglio comprendere il vino nel bicchiere. Bosan ‘99 e ‘02 non sono stati prodotti, ritenendo che non avessero le caratteristiche idonee per essere commercializzati. Amarone Bosan 1997 Una fine inverno piuttosto asciutta e con temperature medie molto stabili ha favorito un germogliamento abbastanza precoce, in anticipo di 8-10 giorni sulla media, subendo poi un rallentamento nel mese di aprile per

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effetto dell’abbassamento delle temperature. Il periodo estivo è stato caldo e soleggiato e questo andamento climatico è continuato durante tutto il mese di settembre favorendo le operazioni di vendemmia e consentendo, quindi, la raccolta di uve perfettamente sane e con alta concentrazione zuccherina. L’annata 1997, scarsa dal punto di vista quantitativo, è stata eccezionale dal punto di vista qualitativo. Questa è la prima annata di produzione, che inizia con 25.000 bottiglie, per poi assestarsi su 30.000. Un “quindicenne” dal vestito granato, che ancor oggi sa darci aromi di tostatura, potpourri, confettura evoluta e tartufo.

calda e soleggiata con temperature di molto sopra la media, particolarmente nel mese di luglio, che ha portato ad una maturazione delle uve con un anticipo di una settimana. Quest’annata, rispetto alla precedente, apre ben altre prospettive: un vino ancora vivo, fresco, anche nel colore più luminoso. Le note tostate sono sempre ben presenti, insieme ad aromi di sottobosco, prugna, confettura. Al palato si distende bene pur mantenendo una sorprendente freschezza, considerando l’età.

Amarone Bosan 2000 La vendemmia 2000 è stata contrassegnata da una diminuzione delle quantità prodotte alla quale si conAmarone Bosan 1998 trappone un buon livello qualitativo La stagione invernale ha presentato dei vini. L’annata è stata caratterizzata temperature superiori alla media. Ciò da un netto anticipo di tutte le fasi veha favorito un anticipo nel ciclo vegeta- getative della vite sino alle operazioni tivo, mitigato poi dalle piogge e dall’ab- di vendemmia. Le calde temperature bassarsi delle temperature medie di primaverili hanno favorito le fasi della aprile e maggio. L’estate è stata molto fioritura con un anticipo superiore alla

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settimana. Dal punto di vista fitosanitario l’annata è stata condizionata dalle anomale condizioni climatiche. Le modeste precipitazioni piovose cadute nel periodo primaverile hanno limitato lo sviluppo di infezioni. Il prodotto raccolto si presentava sano e maturo, con grappoli con buccia spessa, polpa concentrata e gradazioni zuccherine superiori a quelle dell’anno precedente. Un vino notevole, il migliore della batteria. Nel bicchiere esprime pulizia e un frutto integro di ciliegia e prugna, per poi lasciar spazio a note di liquirizia e cioccolato. Elegante nella sua avvolgente bevibilità, ha una scorrevole progressione in bocca; ritmato, integra morbidamente volume e calore. Amarone Bosan 2001 Il germogliamento è avvenuto con anticipo grazie ad una buona piovosità primaverile e a temperature leggermente superiori rispetto alla media stagionale. Il mese di giugno si è caratterizzato

per una buona piovosità che ha permesso il mantenimento di un ottimo equilibrio vegetativo e non ha ostacolato la completa invaiatura di tutte le varietà. La maturazione delle uve è proseguita, quindi, nei giusti tempi, permettendo un’eccellente vendemmia. Al naso è

ancora chiuso e fatica un po’ ad aprirsi. In bocca è discontinuo, deve ancora integrarsi, anche se è certamente destinato ad evolversi. Amarone Bosan 2004 La primavera è stata caratterizzata da precipitazioni di poco superiori alla media. Un maggio soleggiato ha favorito un’ottima fioritura e la successiva allegagione, ha garantito una buona copiosità dei grappoli. L’andamento estivo è stato abbastanza costante, nella seconda metà di agosto buone precipitazioni hanno permesso l’ingrossamento degli acini. L’elevata escursione termica fra il giorno e la notte registrata in questo periodo ha contribuito ad una maturazione regolare delle uve che, unita all’ottimo stato sanitario delle uve e alla buona conformazione del grappolo, ha permesso un’ottima e regolare vendemmia. Fra i vari premi, ha preso 94 punti e si è piazzato nei primi cento vini italiani al mondo per la rivista americana Wine Enthusiast. Dopo il 2000 è il secondo miglior vino della verticale. Esala profumi freschi di frutta rossa dall'approccio sussurrato, seguito nel tempo da aromi speziati di liquirizia, vaniglia e note di cioccolato. Vino dal corpo armonico, in bocca gode di un sorso lungo, equilibrato. I tannini sono rotondi, è strutturato con notevole morbidezza eppur sostenuta da acidità. Artù n°54

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Alla corte di sua maestà 28

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dagli associati del Consorzio omonimo (www.consorziodelculatellodizibello.it), Tra le nebbie della Bassa Parmense mentre quello spacciato per tale da nasce il Culatello, il “re dei salumi”, molte (troppe) realtà di vendita e distria cui fanno da corollario “parenti” buzione altro non è che la Culaccia, ovnon meno prelibati. Alla scoperta vero il Culatello non scotennato. Indelle squisitezze che ci regala il somma, è pur sempre il muscolo ponobile suino, ricordando che “i Cula- steriore della coscia, ma poi trattato come un prosciutto. Il Culatello di telli non sono tutti uguali”. Zibello, invece, è ben altra cosa. La Bassa Parmense, più semplicemente la “Bassa”, è quella porzione della Pia- La storia, la produzione nura Padana che ricade nella provincia Sulle origini del Culatello, la storia si di Parma e vanta una ricchezza straor- confonde con la leggenda. C'è chi lo dinaria di storia e tradizioni, ma soprat- vuole già nel 1332 al banchetto di tutto è la terra d’elezione delle eccellenze nozze di Andrea dei Conti Rossi e Giogastronomiche italiane, salumi in primis. vanna dei Conti Sanvitale, altri che i È qui, infatti, che nasce il “re dei Pallavicino lo omaggiassero a Galeazzo salumi”, sua maestà il Culatello. Fac- Maria Sforza, duca di Milano; in realtà, ciamo subito chiarezza, però: il Culatello, le prime tracce attendibili di questo saè solo quello di Zibello Dop prodotto lume risalgono al XVIII secolo e, comundi Alberto Lupetti

Qui sotto, il Culatello di Zibello, il "re dei salumi", ha una storia antica che si confonde con la leggenda ed è solo dall'ultimo dopoguerra che è uscito dalla nebbiosa Bassa per conquistare il mondo. È Dop dal 1996.

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A lato l'ingresso dell'Antica Corte Pallavicina, ovvero il regno dei fratelli Spigaroli. Il monumento al maiale è un doveroso omaggio alle squisitezze, Culatello in primis, che ci regala questo animale.

molto popolare nella zona di Langhirano, dal clima più secco e ventilato. Pertanto, iniziarono a fare dei tentativi riducendo la coscia per ricavarne un salume più piccolo e più semplice da stagionare: era nato il Culatello. Dei due Culatelli che producevano ogni anno questi contadini, uno veniva regalato al proprietario terriero, l'altro veniva usato per comperare un altro maiale da allevare fino all'anno dopo”.

Nella cantina di Spigaroli stagionano anche preziosi Culatelli ottenuti da una razza di suino recuperata proprio da Massimo Spigaroli, la Nera Parmigiana.

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Gli artisti del Culatello Il più noto e celebrato produttore di Culatello è certamente l’Antica Corte Pallavicina (www.acpallavicina.com), il regno di Massimo e Luciano Spigaroli. I loro splendidi salumi hanno conquistato il mondo e portato al riconoscimento della Dop, nonché alla nascita del Consorzio. Lo propongono di diverse stagionature (anche oltre 30 mesi), nonché di diverse razze, tra cui la rara Nera Parmigiana. Ma gli Spigaroli oggi non sono più i soli a muoversi su livelli di eccellenza. Da una loro costola (vi entrò a lavorare giovanissimo, a 15 anni, nel 1998 per uscirne nel 2010 e mettersi in proprio) è nato il Salumificio Squisito (www.salumificiosquisito.it) di Angelo Capasso, di cui ho accennato prima. Angelo, pertanto, è cresciuto nella migliore scuola, ma soprattutto va apprezque, fino a metà del '900 è rimasto ap- zato perché oggi è praticamente impospannaggio di nobili o dei ricchi. Angelo sibile vedere un ragazzo (ha solo 30 Capasso, autentico artista di questo anni) portare avanti con tanta passione pregiato salume a dispetto della giovane e impegno un'arte che sarebbe criminale età (è il deus ex machina del salumificio perdere. Angelo, dunque, è un vero Squisito a Diolo di Soragna), spiega artista, che non sa solo lavorare il Culache “il culatello nasce agli inizi del tello alla perfezione, ma anche capire 1700 a opera dei contadini della Bassa quando questo potrà andar bene o meParmense che allevavano i maiali. Eb- no, finanche salarlo a occhio senza bene, il clima umido e nebbioso impediva sbagliare... . Inoltre, Angelo fa notare a costoro di realizzare - e soprattutto che il vero segreto del Culatello è il stagionare - il classico prosciutto, invece modo e il luogo in cui stagionarlo: “Il

Qui sotto Massimo Pezzani, ovvero l'Antica Ardenga, uno dei produttori più noti e apprezzati. Produce anche una sorta di selezione di Culatello battezzato Supremo.


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Figura n. 1 Culatelli al termine della salatura pronti per essere insaccati. Figura n. 2 Una volta insaccato nella vescica, il Culatello viene cucito. Figura n. 3-4 Segue l'importante fase della legatura, fondamentale per una corretta asciugatura durante la stagionatura nonché per dare al salume la giusta forma. Figura n. 5 Il Culatello è pronto per iniziare la sua lenta stagionatura nelle umide cantine della Bassa. Figura n. 6 Culatelli nella cantina dell'Antica Ardenga. Il Culatello vi dovrebbe passare due estati affinché stagioni in maniera ottimale fino alla "goccia". Figura n. 7 Al termine il Culatello va opportunamente preparato: spazzolato, messo a bagno in acqua per una notte, quindi privato di corda e pelle, infine opportunamente rifilato. Quest'ultima è un'operazione molto delicata, da fare con grande cura, come mostrato in foto presso il Salumificio Squisito.

posto ideale è una cantina interrata, ma con aperture che consentano di ventilare all'occorrenza. E, naturalmente, ci deve essere la nebbia che con la sua umidità aiuta il Culatello a stagionare al meglio”. Massimo Pezzani, titolare dell’Antica Ardenga (www.anticardenga.it), è un altro produttore degno della massima considerazione. Fa giustamente notare che “i Culatelli non sono tutti uguali” perché “seleziono personalmente la carne di soli suini di non meno di 250 Kg, produco soltanto nei mesi invernali nel rispetto della migliore tradizione, quindi con poco sale e assoluta mancanza di additivi e conservanti chimici. E poi - continua - come diceva Lino, gran maestro norcino, ‘un Culatel al ga mei da curar’, un Culatello non deve mai correre, deve vedere rispettati tutti i suoi tempi, le sue attese nei vari ambienti naturali, prima di arrivare con calma nelle nostre umide cantine". Cantine naturali, per Pezzani, rivolte a nord e con poche finestre, tre o quattro gradini sotto terra, tra spesse mura di cotto e pavimenti in mattoni. Perché le cantine del Culatello non devono avere nessun condizionamento esterno né climatizzatori, ma un microclima unico che lasci fare il suo corso alla natura. Pezzani produce il Culatello di Zibello

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Come nasce un Culatello Pochi lo sanno, ma tecnicamente il Culatello è un insaccato. Si comincia estraendo dalla coscia il muscolo posteriore, eliminando il grasso in eccesso, quindi si procede alla rifilatura - per conferirgli la classica forma a pera - alla salatura e alla massaggiatura affinché il sale venga assorbito, infine il futuro Culatello è lasciato riposare. Successivamente, è inserito nella vescica, cucito e legato. Inizia a questo punto la stagionatura, di non meno di 14 mesi (ma i migliori superano i 20, anche di molto) in ambiente fresco e molto umido. Per questo la produzione dovrebbe avvenire nella sola stagione invernale, nel periodo in cui la nebbia avvolge la “Bassa”. A fine stagionatura, quando avrà perso circa il 30% del suo peso, il Culatello va opportunamente preparato per il consumo: innanzitutto lo si spazzola per bene per rimuovere le muffe, quindi va messo a bagno per una notte in acqua corrente. Al termine, si rimuovono le corde e la "pelle" (operando una lunga incisione dalla parte del magro) e si rifilano la parte esterna del grasso e le scanalature prodotte dalle corde (che potrebbero avere un marcato sapore di cantina, quasi di muffa). Il Culatello è pronto ma, se non affettato tutto, va avvolto in un canovaccio umido per conservarlo. Per Marco Dallabona il Culatello non andrebbe toccato prima dei 20-22 mesi di stagionatura in quanto "devono passare due estati, la prima per lasciarlo asciugare e la seconda per fargli fare la goccia" ed è ancora lui a ricordare che l'utilizzo del vino per bagnare il Culatello è bandito. Infatti, una leggenda vuole che durante la preparazione vada immerso in acqua e vino e alla fine lo straccio vada anch'esso bagnato di vino. Questa è una procedura errata, praticata solo da chi vuole mascherare eventuali difetti di sapore. Pertanto occorre solo acqua per lasciare la massima purezza di sapori al pregiato salume.

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Dop Tradizionale e il Supremo, stagionato almeno 24 mesi e da suini pesanti attentamente selezionati. Degni di nota anche Dallatana (www.dallatana.it), Colombo per la costante offerta di Culatelli stagionati 24 e 36 mesi e Brè del Gallo (www.bredelgallo.it) del bravo Alfredo Magnani, che contende il podio ai nomi appena visti.

Qui sotto i produttori Brè del Gallo della famiglia Magnani. In foto, nella cantina di stagionatura, il titolare Alfredo con i figli Fabrizio e Amedeo.

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Lo Strolghino, il figliolo del re Il Culatello non è solo: è in buona, anzi ottima compagnia. Il suo parente più stretto, di squisitezza non certo inferiore, è lo Strolghino. Fino a pochi anni fa, era impossibile trovare questo salametto di circa 300 gr. fuori dall’Emilia, ma poi ha iniziato a fare la sua comparsa anche in alcune salumerie e addirittura nella grande distribuzione. Purtroppo, però, nel 90% dei casi non si tratta di Strolghino, bensì di un salame spacciato per tale. Questo perché la produzione dello Strolghino e il suo nome non

sono regolamentati (e protetti) da un disciplinare, come fa notare con tristezza Luciano Spigaroli, quindi chiunque può produrre salami e venderli come Strolghino. Invece, quello autentico è prodotto solo nella Bassa da chi produce il Culatello di Zibello. Inoltre, lo Strolghino, che andrebbe correttamente chiamato “Strolghino di Culatello”, è un salume fresco, non solo privo di conservanti, ma anche da non stagionare, per questo la sua vita è inferiore ai due mesi. La sua produzione, poi, corre quasi parallela a quella del Culatello, anche se la prima termina a febbraio, mentre la seconda può spingersi fino alla primavera. In proposito, Marco Dallabona, patròn del ristorante Stella d'Oro di Soragna (1 stella Michelin) e, soprattutto, profondo conoscitore e illuminato stagionatore dei salumi della Bassa, è drastico: “Il vero Strolghino si produce solo in inverno e ha massimo 40 giorni di vita, se ne ha di più vuol dire che sono stati


Qui sopra il parente più prossimo del Culatello è lo Strolghino, salametto fresco, morbido e dolce, prodotto con le rifilature dello stesso Culatello. È un'autentica squisitezza, ma attenzione che sia veramente Strolghino di Culatello e non un mera "imitazione". Quello di Squisito, però, è tale di nome e di fatto... In alto a destra Massimo Spigaroli intento a tagliare la Spalla Cotta di San Secondo, il salume più antico della Bassa. Impagabile proprio quando gustato caldo e tagliato grossolanamente a coltello.

aggiunti nitrati". Sul nome, poi, i pareri sono discordanti. Qualcuno vuole derivi dalla parola dialettale “strolgata”, riferita a un’idea geniale, mentre per Angelo Capasso questo salame era prodotto dai mezzadri quando preparavano i Culatelli per il proprietario: tenevano per loro i gustosi Strolghini e, parallelamente, intuivano le potenzialità dei Culatelli: “Qui nella Bassa si dice che lo Strolghino sia la “cavia” per capire come sarà a fine stagionatura il Culatello. Quindi se lo Strolghino è eccellente lo sarà anche il Culatello”. Marco Dallabona, invece, riconduce tutto all'economia delle famiglie contadine basata sul maiale, spiegando che, di tutto ciò che di buono dava il suino, lo Strolghino era il primo a essere consumato ed era ritenuto un po' il salame dei bambini. Infatti, veniva insaccato con una parte del budello (duodellina) che non permetteva la lunga stagionatura. A ogni modo, l'averlo portato fuori dalle case dei contadini e fatto conoscere al mondo, finanche averlo recuperato dai confini dell'estinzione, si deve agli Spigaroli e, in effetti, il loro è eccellente, ma quello di Squisito rende perfetta-

mente merito al nome del salumificio. Angelo, come vuole la tradizione, lo produce dalle rifilature del Culatello conciate con ingredienti rigorosamente naturali come vino (Malvasia secca), pepe in grani, sale e aglio schiacciato. L’uso dell’aglio da parte di Angelo è molto oculato: lo tiene a bagno nel vino e poi lo elimina, quindi non lo macina nell’impasto. Risultato: dà quel tocco, ma non rende il salume agliato. Segue l’insaccatura e poi la stagionatura per una decina di giorni o poco più, i primi in cella, i successivi nella cantina dei Culatelli. È fondamentale ricordare che le caratteristiche dello Strolghino devono essere la morbidezza e la dolcezza, quindi se al tatto è duro e al gusto è molto speziato o salato, beh non è Strolghino. Tra l’altro, lo Strolghino non può essere duro (quindi stagionato a lungo) perché il tipo di budello in cui è insaccato alla lunga si bucherebbe. Per gustarlo, infine, prima di tutto va spellato (se l’operazione dovesse risultare difficoltosa va prima bagnato) e poi tagliato a fette diagonali spesse un dito ("la fetta deve reggersi", dicono nella Bassa). I cugini non meno nobili Se la coscia di sua maestà il suino (che, bontà sua, meriterebbe più d'un monumento) dà vita a Culatello e Strolghino, la spalla Artù n°54

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A sinistra il vino per antonomasia da accompagnare a tutti i salumi della Bassa, la Fortana, che Ceci produce ancora in maniera tradizionale.

Accoppiata vincente Il Culatello rappresenta un sontuoso antipasto, ma può essere anche uno squisito piatto unico. Quale vino accompagnarci? Storicamente nella Bassa si usava affiancare ai salumi di tradizione (dal Culatello alla Spalla Cotta, fino allo Strolghino) la Fortana del Taro, antico vino rosso frizzante, di moderata gradazione alcolica e gusto dolce, prodotto dalla varietà autoctona omonima. Purtroppo sono rimasti in pochi a produrla, ma chi volesse ancora provare l'abbinamento può rivolgersi a Ceci (www.lambrusco.it), con la classica Fortanina, rispettosa della tradizione (varietà Fortana in purezza per un vino rosso frizzante da 7° alcolici), proposta nella classica bottiglia con il tappo in sughero fermato con lo spago. I Ceci ne fanno anche una versione più "moderna", spumantizzata (Spumante 13 Fortana). Ma la Bassa è una terra godereccia, appassionata. Ed entra in scena anche lo champagne, che con il Culatello e i suoi cugini dà vita a uno degli abbinamenti più riusciti. Da preferire i Blanc de Blancs (da quelli di Bruno Paillard a quello di Louis Roederer, fino al monumentale Comtes de Champagne di Taittinger), ma la versatilità è tale che si ottengono gustosi risultati anche con assemblaggi (ad esempio lo straordinario Dom Pérignon Œnothèque) o Rosé (come il millesimato di Deutz). Nel suo ristorante, infine, Marco Dallabona consiglia per lo Strolghino un altro vino tipico della zona, la Malvasia frizzante, oppure un Lambrusco rosato spumantizzato, come l'incredibile Metodo Classico di Cantine della Volta (www.cantinedellavolta.com). Ottimo anche lo champagne, ma a patto di sceglierne uno particolarmente giocato sull'eleganza. Passando alla Spalla Cotta, che ritiene imprescindibile gustarla calda e tagliata grossolanamente, Marco preferisce il Lambrusco alla Fortana, mentre tra gli champagne ne consiglia uno non troppo asciutto, quindi un assemblaggio a maggioranza di Pinot Noir o addirittura un Blanc de Noir. Infine il Culatello: beh, per Marco "è talmente grande che sta con tutto, dall'acqua in poi!".

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non è da meno. Che, ancorché molto meno nota, è declinata in ben due varianti parimenti squisite: la Cotta di San Secondo e la Cruda di Palasone. La Spalla Cotta di San Secondo è il più antico salume del parmense, nota e apprezzata già nel lontano 1100. Più recentemente, invece, ha visto tra i suoi estimatori Giuseppe Verdi, che non solo usava regalarla agli amici più cari, ma dava consigli ai produttori su come cucinarla al meglio. Per la realizzazione, la carne è prima condita e salata, quindi lasciata asciugare per una trentina di giorni. A questo punto, la spalla è disossata, insaccata, legata per conferirle la forma ovoidale e poi cotta lungamente (circa 14 ore) a bassa temperatura in acqua, con vino bianco e spezie. E qui è bene sottolineare che la Spalla Cotta di San Secondo non è un banale prosciutto cotto, bensì un salume pregiato dal gusto raffinato e delicato. Per questo, può essere gustata sia fredda, tagliata con l'affettatrice (ma non eccessivamente sottile!), sia calda, tagliata grossolanamente a coltello. Ecco, in questa seconda declinazione è tutta da scoprire e in grado di lasciare a bocca aperta (il caldo muove le molecole del grasso, rendendolo più rotondo e suadente). Provare per credere: acquistate un pezzo da circa 1 Kg e fatelo mettere sottovuoto. Al momento di servirla, immergete la spalla con la plastica in acqua molto calda per alcuni minuti, quindi rimuovete l'involucro, tagliatela a mano con un coltello e portatela in tavola al fianco

di un buon purè di patate. Per Marco Dallabona, che la tradizione norcina della Bassa l'ha appresa da bambino e praticata per diversi anni, diventando attento conoscitore di tutti questi salumi, la Spalla Cotta nacque dalla Cruda quando questa non stagionava bene ("se non iniziava ad asciugarsi, veniva bollita così si recuperava il salume") e poi, visto che piaceva, si è iniziata a produrla costantemente. Ma lui preferisce la "spalletta", la Spalla Cruda di Palasone, altro salume eccellente, ma quasi sconosciuto in quanto l’industrializzazione della salumeria ha relegato la spalla a sottoprodotto del prosciutto cotto o carne da macinare per i salami. Potrebbe essere definita un “mini-Culatello” e, in effetti, qualcuno la preferisce addirittura a “sua maestà”. In conclusione, nella Bassa, la capacità di adattarsi al clima della zona ha costretto i norcini a industriarsi (tutti i salumi sono disossati per i problemi di stagionatura di cui s'è detto e sono tutti insaccati in quanto non si sugna come, invece, si fa con il prosciutto), però è proprio questa creatività che ha portato alla nascita e alla valorizzazione di salumi unici, straordinari, che oggi tutto il mondo ci invidia. Qui sotto Marco Dallabona, chef e titolare del ristorante Stella d'Oro di Soragna, è un'autentica enciclopedia vivente sui salumi della Bassa. Ne conosce tutti i segreti, sa chi produce i migliori ed è superbo affinatore egli stesso.


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Il Comandante di Napoli e la sua prima stella

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di Claudio Zeni Un nuovo astro brilla nel firmamento dell’alta cucina italiana: il ristorante Il Comandante del Romeo Hotel di Napoli, insignito di una Stella dalla prestigiosa guida gastronomica internazionale Michelin. Come ben sappiamo, l’importante riconoscimento che premia le migliori tavole è attribuito esclusivamente ai ristoranti giudicati meritevoli in base ad una somma di criteri di valutazione: la scelta dei prodotti, la personalità della cucina, la padronanza delle tecniche di cottura e il rapporto qualità/prezzo. “Siamo onorati di ricevere questo riconoscimento – ha commentato il direttore del Romeo Hotel Stefano Petrucelli – che premia lo chef e tutto l’impegno profuso dalla nostra squadra fino ad oggi e che ci incoraggia a lavorare sempre meglio. La Stella Michelin è un ottimo punto di partenza per tutti i professionisti che lavorano ogni giorno nella nostra struttura e che contribuiscono a fare di questo albergo un esempio contemporaneo e dinamico di accoglienza di lusso internazionale”. Il riconoscimento arriva al ristorante dall’insediamento dello chef executive Salvatore Bianco, giunto al Romeo Hotel nel febbraio 2012. Giovane, ma con alle spalle una forte esperienza nelle Artù n°54

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migliori cucine d’Italia, Bianco si esprime in cucina attraverso piatti di rara eleganza, costruiti con materie prime di grande qualità, lavorate al minimo per non alterare sapori e valori nutrizionali. Originario di Torre del Greco, Bianco è cresciuto alle falde del Vesuvio, ha studiato a Vico Equense, e si è formato in cucine importanti da Capri a St. Moritz, passando per Sorrento, il Chianti senese, Porto Ercole, Milano e Roma. “La mia cucina fa perno su ingredienti di primissima qualità – ricorda Salvatore Bianco – tutto parte dalla selezione e dal rispetto delle materie prime, dalla ricerca di combinazioni inedite che non alterano sapori e suggestioni, dalla cura di ogni più piccolo

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dettaglio”. Il risultato sono piatti equilibrati, curati ed eleganti nella presentazione, tipicamente mediterranei e italiani nei sapori, proposti da un professionale servizio in sala, accompagnati da selezionate etichette fornite da una cantina a vista e in continuo aggiornamento. Al decimo piano dell’hotel cinque stelle più innovativo di Napoli, Il Comandante ha ampie vetrate spalancate sul Golfo e sulla città: da una parte il mare con le isole, dall’altra la collina. Il ristorante incarna nel contempo le molteplici anime del capoluogo della Campania con un ambiente elegante in cui si mescolano gli stili, dove spiccano le opere d’arte contemporanea realizzate per il Romeo


Hotel dall’artista Lello Esposito e i tavoli in acciaio “Frammenti di un naufragio” di Sergio Fermariello. La sala del ristorante può ospitare fino a cinquantadue posti con quattro tavoli a vista sulla cucina e una parete di vetro proiettata sulla città e la collina di San Martino, mentre gli altri guardano la baia e il porto di Napoli. In posizione centrale e privilegiata, con vista strepitosa sulla baia, c’è lo chef’s table, il tavolo curato direttamente dallo chef e impreziosito da un cannone di Arte Giapponese Periodo Edo - XIX se-

colo e da pregiate porcellane e tovagliato Hermes, dove gli ospiti (max 10 persone) si lasciano guidare completamente dall’estro e dalla professionalità dello chef con il menu degustazione “a mano libera”. Se Il Comandante è un compendio di sapori volti a stimolare il palato, il Romeo Sushi Bar & Restaurant è il posto ideale per chi volesse provare il miglior sushi e sashimi di Napoli, grazie ad un ambiente esclusivo e raffinato, dove si può cenare al grande bancone in marmo arabescato attraversato da

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una singolare fontana, tra luci soffuse e giochi di colore, mentre al nono piano dell’hotel si trova l’elegante Beluga Sky Bar, che offre la possibilità di gustare cocktail ed aperitivi, insieme a colazione, pranzo e snack, il tutto servito di fronte ad una vista di impareggiabile bellezza. Le eccellenze culinarie del Romeo Hotel si interpretano e si fondono perfettamente con lo stile della struttura, nata alla fine 2008 dal sapiente recupero e restauro del celebre palazzo Lauro di fronte al Porto di Napoli su disegno del celebre architetto Kenzo Tange e Associati di Tokyo, sintesi perfetta di design, arte contemporanea, antiquariato e lussuoso “made in Italy”. Tre le tipologie di camere, Deluxe, Deluxe Bay View e Studio Corner che rappresentano la sintesi perfetta tra semplicità ed eleganza, progettate a Napoli per Napoli, e tre Suite: la Wellness Suites, le Romeo Bay View e la Japanese Garden Suite, che oltre a godere dei servizi delle camere classiche si contraddistinguono per spazi più ampi, per una migliore qualità di comfort, armonia e design. I bagni sono arredati con marmo, metallo e ceramica perfettamente integrati tra loro e all’interno ogni prodotto è appositamente realizzato per l’hotel, il tutto creando una combinazione perfetta di eleganza e stile, di tecnologia e innovazione, che rende il Romeo Hotel una tra le strutture di lusso più importanti di Napoli. Altro fiore all’occhiello del Romeo Hotel è la Dogana del Sale, che si distingue nel

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panorama dei beauty&health center per la scelta di trattamenti all’avanguardia e per la vocazione all’Haloterapia, la terapia naturale che sfrutta le proprietà benefiche del cloruro di sodio allo stato puro, mentre il Salotto dei Giochi è il nuovo spazio all’interno della Lobby, una lounge dedicata alla lettura, al gioco e al divertimento, con raffinato tavolo da biliardo, calciobalilla di design, scacchiera di alabastro, slot machine e juke box vintage. Non c'è da meravigliarsi, quindi, se il Romeo è tra gli hotel preferiti dai clienti più esigenti, frequentato da celebrità della musica e dello spettacolo a stelle internazionali dello sport, da viaggiatori d'affari a semplici turisti alla ricerca di un trattamento cinque stelle. ROMEO Hotel Via Cristoforo Colombo, 45 – Napoli. T. 081 0175001 – www.romeohotel.it



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Appennino Parmense La cucina di Morini 42

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di Davide Bernieri Cucina e velocità, un abbinamento che pare un’eresia in tempi di “slow” imperante. Ma qui la velocità è quella dei motori che rombano a pochi metri, mentre all’interno del Ristorante Morini, hotel restaurant dell’Albergo della Roccia di Varano Melegari (Pr) regna un’atmosfera ovattata e rilassata, quasi intima. Siamo all’imbocco della Valceno, a pochi chilometri dal casello autostradale di Fornovo sull’A15, nei primi contrafforti appenninici che guardano alla pianura parmense, proprio di fronte all’autodromo Paletti, uno dei più attivi nel Nord Italia nell’ospitare manifestazioni motoristiche, tra competizioni, raduni e rievocazioni storiche. La Factory Dallara, il celebre costruttore di veicoli da competizione, e una manciata di meccanici altamente specializzati, fanno di quest’angolo di provincia la “motor valley” parmense, forse meno nota della “food valley” che incide sullo stesso territorio, ma di certo un bacino di clienti molto importante per l’hotel e il ristorante stesso. Un abbraccio “a fasi alterne” quello tra i frequentatori dell’autodromo e il ristorante, che lo chef Maurizio Morini vuole mantenere solido ma non esclusivo, aprendo le porte del locale che porta il suo nome anche all’esterno di questo mondo. Che rimane, tuttavia, fonte di ispirazione anche per il menu. Non a caso, uno degli appetizer si chiama proprio 500 Miglia, ricordando la celebre competizione di Indianapolis: un hamburger in formato mignon che, insieme a un carrè vegetariano, si assume il compito di aprire il pranzo. Morini, che maturato la sua esperienza presso le più importanti cucine parmensi, tra le quali quella del ristorante Parizzi, un’istituzione nella cittadina ducale, e ha lungamente insegnato presso la scuola alberghiera di Salsomaggiore (Pr), oggi assume questa sfida, facendo leva su una solida preparazione tecnica, su materie prime di qualità e su un profilo personale dei piatti, non “strillati” né appariscenti. “Credo - spiega - che la co-

noscenza tecnica sia un bagaglio forte dal quale partire, senza troppi voli astratti. Utilizzo la tecnologia anche per i piatti della tradizione, come per gli stracotti o i guancialini, che io cuocio a bassa temperatura per fare risaltare al massimo la tenerezza delle carni, pur preservandone caratteristiche e gusto. Sì alla territorialità delle materie prime, come funghi porcini o tartufo nero, ma senza rin-

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chiudersi nel fortino della tipicità, altrimenti i clienti locali tendono a fossilizzarsi e perdono il piacere della ricerca e della scoperta”. Si inseriscono in questo filone di pensiero i due piatti seguenti, una terrina d’astice con olio al finocchietto, dove domina l’armonia anche nella presentazione molto pulita su piatto rettangolare, e il cocktail di coniglio con salsa al sedano rapa e zenzero, che lascia da parte i picchi gustativi per focalizzarsi sulla scioglievolezza della carne, cotta a vapore a bassa temperatura. Si poteva osare di più, spingendo sull’acceleratore del finocchietto o dello zenzero, ma conoscendo lo chef successivamente, si capisce che questi piatti assomigliano decisamente a lui, solido, un filo taciturno, concreto, senza le sparate tipiche della categoria. Inconsuete, ma piacevoli, le scelte legate al vino, un leit motiv che durerà tutto il

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pranzo, guidato dalla passione e dal sorriso del sommelier Matteo Pessina, che ci guiderà in un percorso molto personale, alla scoperta di etichette “eretiche”. Come il Rosè Metodo classico del produttore marchigiano Garofali, da uve Montepulciano o il Sauvignon Colli Orientali del Friuli Vigne di Tano da uve biologiche, un vino piacevolmente spigoloso che accresceva la piacevole sensazione palatale della carne, così come il Carlaz di Prima Terra, azienda vitivinicola della Val di Vara, che interpreta in modo personale il bianco di quelle terre da uve vermentino al 100%. Dal parmense alla Sicilia il passo è lungo, ma Morini lo compie in scioltezza con i suoi spaghetti alla chitarra con gamberi rossi di Sicilia e pesto leggero al Basilico. Un piatto ben riuscito tra la buona consistenza della pasta e l’apporto del pesto, che tiene fede al suo appellativo di leggero ma che riesce a dare la giusta profondità a tutto l’insieme, ben supportato dal pomodorino confit, di ottima fattura. A seguire uno dei cavalli di battaglia di Morini, i ravioli di faraona con spuma di Parmigiano-Reggiano, un piatto che fa leva sulla delicatezza determinata dalla consistenza della spuma, che gioca in contrasto con il ripieno dei ravioli. Contrasto accentuato dalla scelta del vino, una Schiava dell’Alto Adige della cantina sociale di Nalles a Magredo (Bz), bottiglia del 2009 con una ricca mineralità che rende molto intrigante il connubio. Il filetto di ricciola arrostito con purea di melanzane e scalogno confit, è un’interpretazione personale di un piatto mediterraneo, che si propone di giocare con le consistenze ma che sconta una carne un po’ asciutta per non sbocciare completamente. Una nota positiva sul pane, prodotto nel ristorante e continuamente rabboccato durante il pasto, insieme ai grissini, al sesamo e piccanti, che magi-


camente ritornano al loro posto, grazie a un servizio attento, disponibile e discreto. Il dessert è introdotto da un Passito di Pantelleria del 2007, Fermatemi che volo di Mastronaro, vino dalla forte mineralità determinata dal suolo vulcanico dell’isola che fa da contraltare alla Sfogliatina di albicocche caramellate con sorbetto alla lavanda. Qualche cristallo di ghiaccio di troppo nel sorbetto, insieme a un gusto eccessivamente delicato, rendono “il dolce” leggermente disarmonico, anche se Morini promette investimenti per migliorare la capacità produttiva del gelato, prodotto sul quale lo chef vuole incentrare la sua ricerca nel prossimo futuro. 60 i coperti complessivi, più uno spazio esterno che amplia la capacità ricettiva del ristorante fino a 200 persone con un servizio di banquettistica curato dallo stesso Morini, mentre il range di prezzo di un pasto medio va dai 35 ai 40 euro, con un corretto ricarico sulle bottiglie. Artù n°54

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Carne inglese, Dry o Salt? Eblex propone agli intenditori di carne due proposte esclusive di “aging”, all’insegna di origine e tracciabilità: Dry Aged Beef e Salt Aged Beef, con tipologie di frollatura differenti e mirate. “Queste carni esclusive – afferma Jeff Martin responsabile Eblex Italia – sono la nostra risposta ad un mercato difficile. Alla crisi rispondiamo con la qualità e offriamo al consumatore italiano un prodotto speciale che, certo non tutti i giorni, ma di tanto in tanto, può concedersi al suo ristorante preferito”. Gli inglesi sono da sempre un popolo di grandi “mangiatori” di carne. In passato il consumo di questo prodotto, e del cibo in generale, aveva connotazioni simboliche: il maiale e il bacon, ad esempio, erano consumati principalmente dalla classe operaia, la selvaggina dai ricchi, mentre il manzo e il montone erano “il piatto” dagli yeoman, ovvero quella classe composta da contadini, artigiani e commercianti, che rivestiva un ruolo fondamentale nella società inglese. La presenza di buon beef sulle loro tavole faceva parte del loro status ed erano molto orgogliosi di servirlo “al naturale”, senza condimenti o salse. Questo piatto semplice divenne senza indugio il simbolo di un’intera nazione. Nel 1822 fu creato il primo

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“Herd Book”, una lista di bestiame, contenente anche particolari sulle loro caratteristiche e il loro sviluppo. I primi a compilare un “Herd Book” furono probabilmente Benjamin Tomkins della contea di Hereford (da cui prende il nome anche la razza) e Thomas Bates che ne compilò uno sulla razza Shorthorn. Con lo sviluppo dell’Impero Britannico queste conoscenze si diffusero in tutto il mondo. La carne di manzo ha pertanto una tradizione secolare nella storia della gastronomia d’oltremanica: oggi questo prodotto è il risultato del connubio fra le antiche conoscenze sul mondo bovino tramandate e fra i metodi di allevamento più innovativi, introdotti in epoca più recente. Ne sono un esempio illuminante il “Dry Aged Beef” e il “Salt Aged Beef”, due carni esclusive che Eblex, l’Ente inglese promotore delle carni bovine e ovine, presenterà al mercato italiano proprio nel 2013. La carne bovina si costruisce nelle diverse fasi che caratterizzano il processo produttivo, dall’allevamento fino alla distribuzione del prodotto sul punto vendita. Un concetto semplice per il consumatore finale, che esige una carne tenera e gustosa. Un concetto arti-


colato per gli operatori, che da monte a valle della filiera si passano idealmente di mano un testimone, la qualità, ottenuta in ogni singola fase del processo, sinonimo di attenzione, eccellenza, sicurezza alimentare, efficienza. Le componenti che

sorprendentemente tenera. Si tratta di un processo molto accurato, e di conseguenza anche costoso, che genera un prodotto di elevata qualità, ideale soprattutto per la ristorazione, poiché garantisce un risultato davvero eccellente sia in termini di gusto che di tenerezza. Il Salt Aged Beef rappresenta, se possibile ancora di più, l’innovazione e sfrutta proprio le proprietà del sale, come suggerisce il nome stesso. La maturazione, infatti, avviene in una cella le cui pareti sono rivestite di sale. L’aria salina che si genera mantiene sotto controllo l’ambiente di maturazione, permettendo così un processo di frollatura assolutamente governato. La carne non è mai a contatto con il sale, il quale agisce delicatamente sulla maturazione consentendo alla carne di mantenere inalterato il proprio sapore naturale. Questo particolare metodo di frollatura è possibile però solo con la carne proveniente da bestiame allevato al pascolo. Dry Aged Beef e Salt Aged Beef, come tutta la carne prodotta in Inghilterra, vantano una tracciabilità garantita. In Inghilterra i controlli sull’intera filiera sono determinano la qualità della carne bovina molto severi e tutti i produttori rispettano sono certamente la razza e l’alimentazione, le misure di sicurezza alimentare. Il ma le modalità di lavorazione delle carni rispetto del disciplinare garantito da da parte dell’industria sono indispensabili Eblex, nello specifico, prevede: la selezione per ottenere delle carni veramente tenere e il controllo degli allevamenti secondo e saporite. Ciò che rende “speciali” il criteri di professionalità e il controllo del“Dry Aged Beef” e il “Salt Aged Beef” è l’ambiente e del benessere degli animali; proprio la loro lavorazione, o meglio la il controllo e la registrazione della razza frollatura che subiscono. e della provenienza degli animali da alleIl Dry Aged Beef, infatti, viene “appeso” vamento; la selezione e il controllo dei per l’anca e lasciato maturare per 28 macelli secondo criteri di qualità del progiorni in un ambiente piccolo, con tem- dotto e di igiene; la selezione delle carperatura che va dallo 0,5 a 1°C, con casse nel macello seguendo una normaluci ultraviolette che evitano la formazione tiva che esiga integrità e classificazione. di batteri. Questo lungo periodo di matu- La qualità della carne è la somma della razione permette all’umidità presente passione e della professionalità che gli nei muscoli di evaporare rendendo ancora allevatori e macellai applicano al prodotto più intenso il gusto naturale della carne, e ai loro procedimenti: è possibile sapere mentre gli enzimi naturali abbattono il tutto dell’animale, dalla sua nascita alla tessuto connettivo della carne rendendola macellazione. Artù n°54

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COEVO di Cecchi dalla parte degli chef Con l’ultimo Tour Coevo Cecchi ha presentato la vendemmia 2009 in un viaggio che ha toccato otto nomi dell’alta ristorazione italiana. Otto chef che si “sono messi alla prova” in un gioco che non è il semplice abbinamento di un piatto con un vino, ma la sintesi di un incontro fra quell’arte che trasforma gli ingredienti in “opera gastronomica” e il risultato della ricerca e della passione che solo il territorio toscano può dare. Otto personalità diverse che si sono raccontate, insieme a Coevo, in un percorso partito da Milano e arrivato a Roma, attraversando molti “santuari” gourmet, nei quali la cucina d’eccellenza regna sovrana. Momenti d’incontro importanti per Andrea e Cesare Cecchi. Un’occasione per ritrovarsi, in amicizia, con chef, enotecari e giornalisti. È stato un viaggio che, alla seconda edizione, ha creato uno “Stile Coevo”. Lo stesso stile che si ritrova in questo vino, che tanto interesse ha suscitato in Italia e all’estero. Siamo alla terza vendemmia dopo la novità proposta con l’annata 2006 e l’entusiasmo dimostrato con il 2007. Un vino che rappresenta la contemporaneità e il territorio in cui nasce, la Toscana. Da uve Sangiovese, in prevalenza, e Cabernet Sauvignon da Castellina in Chianti, assemblate con Petit Verdot e Merlot dell’azienda Val delle Rose in Maremma, questo IGT Toscana è per la famiglia Cecchi una sintesi del passato, riferimento per il presente, ma soprattutto è uno sguardo verso il futuro. “Perché per la nostra famiglia – ha detto Andrea Cecchi – la tradizione è futuro”. Otto incontri iniziati a ”l’Osteria Pomiroeu”, continuati al “Park Hyatt” di Milano, “dal Pescatore” a Canneto sull’Oglio, a “L’Osteria Francescana” di Modena, a “Il Palagio” del Four Seasons Hotel di Firenze, a “La Pineta” di Marina di Bibbona, da “Romano” a Viareggio, per finire a Roma da “Oliver Glowig”, hanno riunito insieme oltre 200 amici con una presenza totale di circa 50 stelle Michelin. Non solo Coevo ad accompagnare i piatti degli chef, ma anche Collard Picard, lo champagne importato e distribuito da Cecchi, Vermentino Litorale, Morellino di Scansano Val delle Rose e Chianti Classico Villa Cerna. (C.M.)

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La forza del territorio

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di Rocco Lettieri Definito “un’isola in terraferma”, il monte Amiata rappresenta uno dei paesaggi meglio conservati della Toscana. Storicamente, l’Amiata è stato punto di contatto tra la cultura senese e quella della Maremma e da questo incontro è nata una civiltà ricchissima di tradizioni, anche gastronomiche. Roberto Rossi, chef patron del Silene, racconta ad Artù le sue esperienze. L’ambiente amiatino è caratterizzato da folte foreste di faggi e castagni e conta ben sei riserve naturali. Nella Toscana meridionale, alle pendici del Monte Amiata, presso località famose quali Arcidosso, Castel del Piano e non lontano da Montalcino, sorge il piccolo paese di Seggiano, borgo medievale eretto nella valle del torrente Vivo completamente circondato da olivi secolari. Questo caratteristico borgo situato su di un alto poggio con un’invidiabile posizione climatica, si apre ad ovest verso la Maremma su uno scenario immenso dove l’aria cristallina nelle giornate serene lascia intravedere, lontano, la striscia luminosa del mar Tirreno. A pochi km si

trova il Ristorante Hotel Il Silene, in località Pescina, piccolo villaggio turistico, punto di partenza ideale per escursioni nelle mete vicine di Pienza, Bagno Vignoni, Castiglione d’Orcia e il parco naturale della Val d’Orcia. Nelle vicinanze il Parco Giardino di Daniel Spoerri. Qui, da sempre, si coltiva una tipologia di oliva chiamata “Olivastra Seggianese”, una cultivar prestigiosa di cui lo chef del Silene, Roberto Rossi, ci racconta la storia: “Parlar di Olivastra Seggianese è raccontare l’agricoltura della mia Toscana, il lavoro del “mi” babbo e del “mi” nonno, è una pianta custode di tradizioni; ognuno di noi a Seggiano ha un gioco, un riferimento, un ricordo legato all’Olivastra. Si legge e si narra che le prime piante furono portate dai monaci Benedettini già nel 1300. Grandi e abili maestri,

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avevano notato che un certo tipo di ulivo non temeva il gelo e dalle sue olive ne usciva un olio “vivo”. Per questo, presero questa pianta in osservazione e con il passare del tempo diedero vita ai primi oliveti sul Monte Amiata. Alcuni sostengono che possiamo datare a quel tempo la cura e la selezione delle prime piante “Olivastra di Seggiano”. Una pianta antica, rara, una specie a sé, un gioiello botanico; i suoi frutti sono piccoli, rotondeggianti come bacche, ma allo stesso tempo succosi e pieni di olio. L’Olivastra

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non teme il gelo, anzi, può vivere in zone alte e non conosce attacchi da parassiti, è biologica per natura, è una pianta selvatica, non ha bisogno e non vuole trattamenti. L’Olivastra di Seggiano non si riproduce dal nocciolo, ma solo per innesto perché autosterile, e solo alcune tipologie di olivo come il “Frantoio”, il “Moraiolo” e il “Correggiolo”, i cosiddetti “maschi”, possono fecondarla. L’aborto dei suoi frutti oscilla tra il 10 e 35%. L’olio extra vergine d’Olivastra Seggianese ha un elevato contenuto di acidi grassi insaturi (colesterolo buono) ed un bassissimo grado di acidità (circa 0.20%) che lo rende particolarmente leggero e digeribile. Tutto questo preambolo anche per ricordare che in queste terre, l’Associazione Nazionale Città dell’Olio, organizza un’iniziativa chiamata Pane e Olio in Frantoio, con il contributo del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, ed è un’occasione volta a far conoscere da vicino il variegato mondo dell’olio di qualità, una vera e propria festa al nuovo raccolto che unisce l’Italia da Nord a Sud, dal Friuli alla Sicilia, dalla Liguria alla Puglia. Ogni città apre le porte ai visitatori più curiosi richiamando i turisti attratti dall’enogastronomia tipica in luoghi dove da sempre si coltiva l’olivo e se ne lavora il frutto seguendo metodi tradizionali, avendo rispetto per il territorio e l’ambiente. Tra le varie città che aderiscono al programma figura, come si può immaginare, Seggiano, questo paesino dell’Amiata, al confine con la Val d’Orcia, dove si produce un


olio tra i più importanti d’Italia (anche denocciolato come lo voleva Luigi Veronelli) e dove troviamo anche ulivi tra i più vecchi d’Italia, con più di mille anni di età. Per parlare del nostro (raro più che mai) Olio Extra Vergine denocciolato Il Silene – continua Roberto Rossi – posso solo confermare, come nel passato, che la qualità prodotta è sicuramente elevata e le accortezze che sempre osserviamo in fase di estrazione sono necessarie più che mai. I profumi primari sono di erba fresca, carciofo verde e foglia di pomodoro, e a volte prevale il profumo del cardo e del sedano verde. Al palato si sente una leggerissima sensazione di fruttato che dopo una prima degustazione trasmette una sensazione di

oliva fresca che dona anima ai condimenti e ai piatti tradizionali Toscani e non. Non finiremo mai di ricordare ai nostri consumatori che il nostro olio va consumato a crudo e mai per cotture prolungate...al massimo “un ovo al tegamino” con tartufo bianco”. Il monocultivar denocciolato trova le proprie origini in epoca romana. Nel suo trattato di agricoltura De Rerum Rustica, lo scrittore latino Columella, infatti, racconta come l’olio destinato ai re venisse prodotto con olive alle quali veniva tolto il nocciolo. La tecnica prevede che le olive vengano innanzitutto denocciolate per mezzo di un apposito macchinario. La polpa, già frantumata e trasformata in sansa, viene quindi amalgamata per circa

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45-50 minuti in una gramolatrice, per poi infine passare in un decanter che estrae l’olio separandolo dalla polpa senza alcun aggiunta di acqua. La tecnica permette una completa estrazione delle parti nobili della polpa dell’oliva, e in modo particolare dei profumi e dei polifenoli.

per pani e paste fatte in casa, ai salumi di Cinta senese; le carni sono nostrane (siano esse bovine, ovine o di cinta senese) o di cacciatori della zona (cinghiali, tordi, fagiani, caprioli); le verdure sono del giardino di casa come anche le erbe aromatiche; i formaggi del Caseificio di Seggiano; i funghi solo dei boschi dell’Amiata. Vini Il Silene adeguati alla cucina con ottimo rapporto Il ristorante Il Silene è una “piccola qualità prezzo, con preferenza ai toscani bomboniera” ricavato da una casa di di Montalcino, del Chianti e dell’Orcia campagna, con entrata ruotante e con Doc. Tra i miei ricordi dell’ultima visita sala camino e piccolo angolo bar per settembrina: il battuto crudo di vitellone aperitivi. Non manca mai uno spumante (al coltello); assaggio di zuppa di scotBrut Rosé o Champagne con i grissini, tiglia (piatto della tradizione con carni i pani arricchiti e le focacce calde in miste e a lunga cottura); ravioli di picdiverse versioni, sempre stuzzicanti e cione cacio e pepe; petto d’anatra appetitose. Sei le camere, poste al scaloppato in padella di ferro e grigliata, piano superiore, linde e pulite con par- contornato da verdure fritte; trilogia di quet in legno. Un solo grande locale formaggi con pane e uvetta e, in chiuaccoglie una trentina di posti, in tavoli sura, tortino ripieno di cioccolato fonrotondi da otto coperti. Come detto il dente su crema di lamponi freschi e pane e le focacce sono fatti in casa mentuccia romana. Un indirizzo da sedue volte al giorno. L’olio monocultivar gnare in agenda per ogni stagione deldi casa in bottiglia da 10 cl. è sempre l’anno (chiude a Gennaio). Un appunto sul tavolo per essere degustato a crudo importante per chi ci legge: la gestione o a caldo sulle zuppe. Marinella è la e la ristorazione (con mini alloggio) mano destra (e anche sinistra) di Ro- del Giardino di Spoerri è da alcuni berto (lui si alterna in cucina e in anni affidata a Roberto Rossi, con sala). L’offerta dei piatti cambia ogni un’offerta gastronomica locale di tutto mese e segue la natura dei prodotti lo- rispetto, per visitatori del mezzogiorno cali. Scelta di materia prima eccezionale, o per banchetti in un ambiente di dalle farine biologiche di Podere Forte grande fascino.

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Roberto Rossi si racconta Roberto Rossi, affidandosi agli amici Andrea Cappelli (giornalista) e Bruno Bruchi (fotografo), ha dato alla stampa per la Tipografia Bandecchi & Vivaldi di Pontedera (Fi) un volume di quasi 200 pagine dove ha voluto raccontare la sua pur giovane esperienza nel campo ristorativo e la sua passione per l’olio della sua terra. Abbiamo rivolto a Roberto alcune domande, in una breve ma “succosa” intervista: Un libro dedicato ad una vita di lavoro (anche se la vita non si misura in anni). Cosa hai voluto significare e a chi o per chi? Certamente un libro intimo, un libro dedicato a me e agli ospiti che hanno fatto crescere e conoscere Il Silene. Un libro sincero nei pregi e nei difetti, in quelle che sono tutte le attività del nostro lavoro di oste. Di solito gli chef che si dedicano un libro sono già famosi o presenti sulle più prestigiose guide. Come mai una persona giovane, ancora non presente nel giro gastronomico “importante”, si è voluta dedicare un volume di questo spessore? Fondamentalmente perché tutti oggi hanno un libro e anch’io ne sentivo l’esigenza. Di fatto sull’importanza del libro ognuno la interpreta a modo proprio.

Per me questo era il modo di fare sapere della mia pur breve storia fatta di tanti sacrifici. Anche perché c’era da raccontare non solo la mia cucina, le mie ricette, ma anche il mio olio denocciolato e il Parco di Arte Contemporanea di Daniel Spoerri. Fare un libro richiede tempo e “finanze” solide. Un modo come un altro per aprirsi strade nel campo ristorativo o in quello più congeniale a te che potrebbe essere, ad esempio, quello dell’olio? Si è vero, fare un libro richiede finanze, ma anche tempo per partorire le idee. Io ho pensato e organizzato il da farsi per non trovarmi spiacevoli sorprese. Sono stato fortunato nel trovare la collaborazione di amici professionisti che mi hanno aiutato nella stesura dei miei pensieri e consigliato nel migliore dei modi. Posso affermare che ancor prima di cominciare era già stampato nella mia testa. Essendo figlio della terra, figlio di contadini, avevo tanto da raccontare e da far fotografare. Il più grande complimento da parte del fotografo sulle scelte da fotografare è stato quello di non essere un esteta, di dare la giusta profondità fotografica ai miei piatti, e onestamente per me è stato un grandissimo complimento perché ancora una volta mi sono dimostrato un minimalista e un purista nei sapori e colori. Non vado mai a cercare in un piatto sapori e colori che non servono. A libro finito, sfogliandolo tra le mani, che cosa si prova? Grande soddisfazione e consapevolezza di non avere

perso il tempo. Per i soldi spesi ho rinunciato alla nuova Audi e a qualche settimana di vacanze. E quali le emozioni vissute “internamente” con i familiari e con i più stretti collaboratori? La soddisfazione più grossa è stata quella di condividere e proseguire questa avventura con Marinella, anche perché senza il suo aiuto non avrei mai potuto pensare di scrivere un libro. Per la mia famiglia è un documento che testimonia il “tempo della famiglia”, e negli anni me ne hanno dato davvero tanto. Cosa ti aspetti di ritorno da questo grandioso lavoro? Che io possa vendere le copie che ho fatto stampare in modo da potermi permettere una nuova Audi e qualche giorno di riposo. Scherzo: non mi aspetto nulla, sono felice ed appagato dal primo momento che ho aperto e sfogliato le pagine del libro. Per quello che mi riguarda chi ha materialmente fatto il volume ha fatto un bel lavoro. Emozioni a parte, cosa ti senti di dire a chi leggerà queste poche righe? Mi basterebbe che le ricette venissero cucinate ed eseguite nei momenti importanti e nelle occasioni uniche della vita. Così tutto avrebbe ancora più senso. Per quello che riguarda il lato olio spero di avere contribuito a creare informazione, cultura e ad aver tolto tanti dubbi e curiosità ai miei ospiti in modo da spingerli ad aumentare la cultura dell’olio, fondamentale nella mia cucina e in quella mediterranea.

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My Chef in Triennale Gusto e sobrietà 56

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di Luisa Contri

rimentato per confermare la replicabilità e sostenibilità economica delle procedure Esperienza, creatività, versatilità, con- e dell’organizzazione complessiva del forcretezza, modestia. Sono le qualità che mat: modalità d’approvvigionamento, laMyChef (gruppo Elior) cercava nella vorazioni in cucina, impostazione del serpersona cui affidare la messa a punto vizio in sala, nonché per rodare il tipo del nuovo format ristorativo MyChef d’offerta gastronomica che i MyChef EmoEmotion. tion andranno a proporre. “Il nuovo brand”, spiega infatti ad Artù Citino, “caUn concept che porterà in ristoranti inseriti ratterizzerà locali anche molto diversi fra in aree di servizio autostradali, aeroporti loro quanto a offerta gastronomica. I e altre location cittadine ad alto traffico, menu dovranno essere di volta in volta una proposta culinaria in tutto e per adattati alla location in cui opera il tutto simile a quella di un locale dell’alta singolo ristorante e alla tipologia di ristorazione, a prezzi però abbordabili. clientela che lo frequenta. Filo conduttore Qualità che MyChef, grazie alla geniale in- dei MyChef Emotion sarà però il fatto di tuizione di Sergio Castelli, AD di MyChef, proporre piatti ben cucinati e ben preha trovato in Michelangelo Citino, chef sentati, a prezzi accessibili e secondo quarantenne di origini milanesi, con una modalità di servizio sobria, ma proun’esperienza ventennale a tutto tondo, fessionale e comunque di livello superiore maturata collaborando con personaggi a quella che è la norma in locali direttadel calibro di Gualtiero Marchesi, Davide mente confrontrabili”. Su cosa ha lavorato Oldani e Pietro Leemann e ricoprendo Citino? Innanzitutto sulla semplicità di negli ultimi 11 anni il ruolo di sous chef realizzazione delle ricette. Semplicità che nei ristoranti di due hotel 5 stelle di si coglie anche leggendo “in profondità” Milano: il Park Hyatt e il Principe di il menu, dove ogni piatto ha definizioni Savoia e nel ristorante Marino alla ScalaTrussardi, sempre di Milano. A un anno e mezzo dalla nomina di Citino a restaurant manager ed executive chef del Design Cafè & Restaurant, il ristorante-caffetteria gestito da MyChef all’interno della Triennale, il museo del design di Milano, il nuovo format è pronto per essere esteso a nuovi locali. Pur non portando il nome del nuovo brand MyChef Emotion, il Design Cafè & Restaurant era stato scelto come pilota, luogo dove sperimentare la fattibilità dell’idea di Sergio Castelli, ovvero di portare una ventata di novità nel modo di concepire e organizzare l’offerta culinaria di ristoranti gestiti secondo logiche di catena, per differenziarsi dai competitor. Un pilota un po’ sui generis, in realtà speArtù n°54

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esecuzione e presentazione dei piatti”. I ritmi sostenuti al Design Cafè & Restaurant sono dettati dal fatto che in settimana, la clientela del locale, è costituita prevalentemente da impiegati presso uffici della zona, che quindi hanno una pausa pranzo breve. Mentre di domenica il locale si riempie di famiglie con bambini, che frequentano i laboratori didattici del calendario Triennale Design Milano Kids. “Un’altra scelta che mi consente di contenere i costi”, prosegue Citino, “è stata quella di utilizzare quasi esclusivamente materie prime di stagione e questo significa acquistare la merce a prezzi mispesso intriganti. “Proprio la semplicità”, gliori. Inoltre i prodotti di stagione hanno dichiara Citino, “consente di sostenere un gusto migliore, essendo al top quanto ritmi di lavoro anche intensi e pur dispo- a maturazione, consistenza e colore, e nendo di una brigata di cucina essenziale, valorizzarli in cucina risulta più facile” (Olin questo modo si tengono sotto controllo dani docet!). Citino ha anche lavorato i costi. Al Design Cafè & Restaurant, per per abbattere tutti gli sprechi. “Per il esempio, oltre a me, in cucina ho un pane, per esempio, ho individuato un forsous chef e tre capi partita. E riusciamo nitore che ce ne propone di tre tipi: un fia servire dai 50 ai 70 coperti in poco più loncino alle olive, una baguette e un di un’ora nei giorni feriali e 120-150 pane al sesamo, con un rapporto resa/cocoperti nel turno di mezzogiorno della do- sti ottimale” spiega Citino. “Comprandolo menica, senza mai scadere quanto a già fatto o preparandolo internamente c’è sempre il rischio di rimanere senza o di avanzarlo. Il pane che ho scelto, invece, lo prepariamo mezz’ora prima dell’inizio del turno e se notiamo che sta finendo non dobbiamo far altro che metterne dell’altro in forno”. Seppure non proprio popolari, i prezzi dei piatti presenti nella carta del Design Cafè & Restaurant sono comunque contenuti e, come tiene a sottolineare Citino, commisurati all’impegno che comporta la loro preparazione. Oscillano dai 9 ai 13 euro per gli antipasti, dagli 11 ai 13 per i primi, dai 12,50 ai 17 per i secondi e dai 6,50 agli 8 per i dolci. “Il nostro primo più caro al momento sono i ravioli di zucca con burro acido e nocciole” puntualizza Citino, “che propongo a 13 euro. Sono però fatti da noi, non comprati già pronti e la porzione è di 13 ravioli. Per chi vuole spendere meno, abbiamo poi previsto un piatto unico a 15 euro e un’insalatona a 12 euro, che cambiamo ogni due giorni e che proponiamo soltanto nei giorni feriali”. Pranzando al Design Cafè & Restaurant della Triennale o al MyChef Emotion dell’aeroporto milanese di Linate di recentissima inaugura-

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zione o in uno dei MyChef Emotion che apriranno nelle stazioni di servizio autostradali gestite dal gruppo, un cliente attento potrà riconoscere la mano di Citino, ma non potrà spingersi, tuttavia, ad affermare d’aver gustato la sua cucina. “Quella che si farà nei MyChef Emotion” evidenzia Citino, “non potrà dirsi la mia cucina, in quanto il mio ruolo impone che individui per ogni singolo locale il menu più adatto, in relazione alla posizione geografica del ristorante, alla clientela che lo frequenta e alla concorrenza diretta. Sarò dunque camaleontico”. Un certa impronta comunque si nota. I piatti del Design Cafè & Restaurant sono spesso aromatizzati con spezie e frutta secca. Nel menu autunnale, per esempio, fra gli antipasti, figurava la stracciatella di bufala, pere al vino rosso, cannella e fave di cacao; fra i primi c’era il riso mantecato al parmigiano e frutta speziata; fra i secondi la guancetta di vitello, albicocche secche, sedano e salsa tonnata; e fra i dolci il tortino caldo alla barbabietola, mascarpone e pepe nero. “Spezie e frutta secca” sottolinea Citino, “mi consentono di trasferire al cliente l’idea che si tratta di piatti strutturati e pensati allo stesso modo in cui lo sono le opere esposte nel museo in cui si trovano”. E per far vivere il locale anche la sera – il Design Cafè & Restaurant deve rispettare gli orari del museo, chiude dunque alle 20,00, salvo il giovedì quando

resta aperto fino alle 22,30 e fa servizio ristorante su prenotazione anche per cena – Citino ha pensato di proporre, sempre su prenotazione, degli aperitivi rinforzati. “Anche per sole 5-6 persone” dice Citino, “possiamo proporre di accompagnare un vino al calice con una serie di tapas da 2,5 euro l’una. Tapas che altro non sono se non mini porzioni dei piatti del menu di mezzogiorno”. Un ulteriore sfida che Citino ha raccolto è quella di pensare per il Design Cafè & Restaurant piatti ispirati alle mostre che si avvicendano alla Triennale. La stessa sala del ristorante può d’altronde considerarsi un’estensione del percorso espositivo. Non solo ospita mostre d’oggetti di design, che cambiano ogni mese, ma anche i tavoli e le sedie utilizzate dai clienti sono tutti di design e ognuno è diverso dall’altro. Di tutt’altro genere sarà il menu del MyChef Emotion dell’aeroporto di Linate. “In un locale frequentato per lo più da stranieri” anticipa Citino, “proporre una cucina italiana tradizionale è stata una scelta obbligata. I nostri piatti dovranno però essere realizzati ad arte perché sia percepibile la professionalità che sta dietro la preparazione e la presentazione anche di ricette semplici, come una coda alla vaccinara o un fegato alla veneta”. E ancora diversi, e attualmente allo studio, saranno i menu dei MyChef Emotion che apriranno lungo le autostrade italiane.

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Relais Santa Croce lusso fiorentino

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di Theo Smith Nel centro storico di Firenze, in quella via Ghibellina resa celebre dal grande Pinchiorri, una struttura di fascino, ricca di affreschi e testimonianze storiche, accoglie ospiti esigenti, alla ricerca di autenticità e caratterizzazione. Arredi raffinati, sale e decori del Settecento, atmosfere esclusive, ma anche una ristorazione molto vivace e moderna, garantita da una direzione di alta professionalità come quella di Eugenio Rigo, general manager di grande esperienza, al Relais Santa Croce dal 2009. Nel cuore della Firenze più vera, dietro a Santa Croce, in quella via Ghibellina tanto conosciuta per ospitare il ristorante italiano più celebre, l’Enoteca Pinchiorri, svetta un vertice dell’ospitalità italiana. E proprio con lo storico locale di Annie Feolde e Giorgio Pinchiorri, il Relais Santa Croce (www.relaisantacroce.com) divide, in un certo senso, l’ingresso di questo elegante palazzo fiorentino del

Relais Santa Croce

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18 secolo, al 67 di via Ghibellina, una delle più lunghe della città. Il general manager dell’albergo, un cinque stelle lusso che fa parte del gruppo Baglioni Hotels e aderisce ai Relais & Chateaux, è un professionista di valore, quell’Eugenio Rigo che tanta esperienza e passione esprime da anni nella propria attività grazie a una solidità professionale comprovata nel tempo: Grand Hotel Metropoli a Venezia, Due Torri di Verona, Albereta ad Erbusco, Relais Franciacorta a Cortefranca sono solo alcune delle location dirette in modo eccellente da Rigo, direttore “di razza”, attento ai dettagli come pochi altri sanno essere. L’hotel, cinque stelle lusso, è un’oasi di pace e serenità di alto livello: acquisito nel 2009, il Relais Santa

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Croce è diventato in breve tempo una punta di diamante del Gruppo Baglioni (www.baglionihotels.com). Il palazzo stesso è considerato uno dei migliori esempi di residenza nobiliare fiorentina, generando in chi vi alloggia la sensazione unica di trovarsi in una dimora privata: salendo l’ampio scalone principale, si raggiunge il piano nobile, dove il ricevimento è a disposizione degli ospiti 24 ore su 24, con rara efficienza e cortesia. All’arrivo, subito dopo il ricevimento, si è attratti da un ambiente insieme discreto e raffinato, molto più di una hall, connotato da colori caldi e atmosfere soffuse: è la Sala della Musica, un luogo contraddistinto da arredi d’epoca, da un pavimento originale in legno nobile, da un soffitto decorato da stucchi chiarissimi su sfondo crema. Il luogo è ideale per la lettura, la riflessione, gli incontri, magari di fronte al caminetto in marmo bianco, o nel fumoir, una sala quadrata con meravigliosi affreschi, arredata con comode poltrone in legno e pelle: un ambiente che sfoggia al tempo stesso discrezione e lusso. Il Relais dispone di 24 camere, tutte ovviamente diverse l’una dall’altra: nove camere de luxe, quattro camere exclusive, cinque junior suite, quattro suite (cinque metri quadrati) e una presidential suite garantiscono alla clientela più esigente una permanenza ottimale in questa bomboniera ricca di storia e fascino. La vista e gli “affacci” sono strepitosi: dalle stanze si possono ammirare la facciata della basilica di Santa Croce, la cupola del Brunelleschi e, da alcune camere privilegiate, si ammira un panorama unico sulla città, che si estende fino ai giardini di Boboli. Oltre agli ambienti, che testimoniano un passato di fasti e buon gusto, il Relais Santa Croce ha un altro fiore all’occhiello, di cui il direttore Rigo è particolarmente orgoglioso: il ristorante Guelfi e Ghibellini, la cui cucina è diretta dallo chef Fabrizio Innocenti, un cuoco di grande esperienza e personalità, che ha saputo dare al locale un’impronta molto caratterizzata. Il menù punta su proposte semplici, dalle definizioni lessicali coerenti, chiare e


non ridondanti, così come poi risultano essere i piatti una volta serviti al tavolo: un equilibrio gustativo notevole, realizzato grazie a materie prime di qualità, che ben si esprimono in antipasti come l’involtino di verza con funghi, burrata e prosciutto di Langhirano, flan di carciofi con brodetto al Grana padano, pistilli di zafferano e pomodori confit. Fra i primi, notevoli i paccheri di ragnano alle delizie del mare, broccoli e bottarga di muggine e il semplice ma gustoso risotto polpo, cacio e pepe. Fra i secondi, equamente divisi fra carne e pesce, suggeriamo piatti di impronta creativa, come la sella di maialino con cipolla caramellata di Tropea e roesti di patate, o il filetto di branzino croccante con purea di zucca, bietole saltate e pomodorini di pachino essiccati. Ma l’intuizione geniale di Rigo è stata quella di saper proporre, parallelamente al menu innovativo, altri menu, come quello “della tradizione toscana”, all’insegna di proposte tipiche, eseguite al massimo della correttezza, dove primeggiano piatti come l’uovo barzotto con bieta e tartufo, l’acqua cotta alla maremmana, la mitica bistecca alla fiorentina. Il menu toscano è affiancato da altre suggestioni, come il “Povero ma buono” (un menu in cui primeggiano zuppa di farro, pollo alla salvia e fagioli all’uccelletto) e il richiestissimo – soprattutto dalla clientela internazionale – “Sua Maestà lo Spaghetto”: e qui è la vittoria di carbonara, cacio e pepe, vongole, aglio olio e peperoncino. Grano duro di qualità, preparazioni semplici ma strabilianti sotto il profilo gustativo. Una sorta di menu-degustazione all’insegna dei sapori della semplicità e della tradizione italiana, proposta a livelli eccelsi e a prezzi decisamente adeguati all’eccellenza degli ingredienti e delle preparazioni. Ma anche della raffinata, irripetibile atmosfera che si respira in questi ambienti ricchi di storia e fascino. Artù n°54

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di Gualtiero Spotti La Slovenia si affaccia sul Mare Adriatico grazie ai suoi trenta chilometri scarsi di costa, quelli che separano l’Italia dalla Croazia e che raccolgono in un piccolo lembo di terra molte località turistiche diventate meta di vacanzieri amanti del wellness, del relax e perfino del gioco d’azzardo, visto che da queste parti non mancano Casinò capaci di offrire tutti comfort necessari per la sosta del cliente moderno. Portorose, Isola, Pirano, Strugnano, sono questi i nomi delle cittadine, alcune delle quali veri e propri borghi di grande fascino e dall’inequivocabile architettura di origine veneziana, che ricorrono puntualmente nei depliant della promozione turistica sul territorio e che invitano a visitare i gioielli della costa slovena. La località più conosciuta ed accogliente rimane Portorose, centro nevralgico dell’area e luogo di concentrazione degli hotel e dei principali motivi di svago. Qui uno degli alberghi più rinomati e forse anche il più originale nella sua imponente struttura (ci si accorge della sua “silhouette” unica arrivando dal mare) è il Grand Hotel Bernardin, un cinque stelle punta di diamante di un gruppo alberghiero

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dalla piscina verso il mare). Oltre ad offrire ai suoi ospiti momenti assolutamente originali e piacevoli, come nel caso della Spa breakfast rivista in chiave salutista. In questo caso si può scegliere di consumare la propria colazione in accappatoio tra bevande energetiche, frutta e stuzzicherie light, prima di tuffarsi nel relax dell’area wellness o di affrontare gli impegni della giornata. Chi invece vuole godere dell’aria aperta, ma questo solo nella stagione più favorevole, basta poi scendere fino al primo piano e, davanti all’ingresso che si affaccia sulla passeggiata pedonale, lungo la strada che collega Pirano al centro di Portorose, si può sostare al Tropic bar o godere della piccola spiaggia (con piscina per i più piccoli) capace di dare un tocco quasi esotico alla permanenza in hotel. Tra i tanti servizi che sono confezionati su una clientela dedita alla cura del che in zona vede molte strutture per corpo e al piacere della vacanza tutta l’accoglienza e di diversa categoria (per ozi, non si può dimenticare il lato gail business, per le famiglie o per amanti stronomico offerto dall’albergo che varia del benessere). Con un look total white a seconda delle diverse esigenze dele uno sviluppo verticale, l’edificio che l’ospite. Così, osservando i due ristoranti ospita l’albergo si appoggia delicata- principali, non c’è da stupirsi che lo mente alla scogliera ed ha il primo stile del Grand Restaurant sia più piano a livello del mare, mentre la re- classico e con uno spiccato gusto interception, così come la Spa e il ristorante, nazionale, mentre il Sunset, al contrario, si trova ai piani alti, consentendo in abbia un taglio più creativo e gourmet, questo modo una vista mozzafiato verso e con la giusta attenzione verso le prol’Adriatico sin dall’arrivo e dall’ingresso duzioni locali, come nel caso dell’ottimo nella hall. L’hotel ha solo camere fronte pesce del vicino allevatore Fonda premare e gode di un panorama rimarche- sente in carta. Il tutto seguendo i rigidi vole che spazia verso la vicina Croazia dettami della trentacinquenne cuoca e l’imbocco del golfo di Pirano, dove si di origine croata Dušanka Milovanovič, trovano le famose saline. È, come detto, un cinque stelle che vive di una sua forte anima congressuale, ma con una serie di servizi che attirano l’attenzione di una clientela decisamente variegata. Perché oltre alla sua posizione, l’albergo, il quale conta ben 260 tra camere e suite, mette sul piatto la splendida Paradise Spa, in un ambiente che ha pochi eguali in Slovenia, con un percorso di massaggi e di trattamenti quasi zen (e un personale thai specializzato in rituali benessere), che permette l’accesso alla zona wellness e alla piscina con acqua di mare (con una grande vetrata capace di creare un effetto infinity, cioè

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ospita un vivace centro fisioestetico, mentre l’hotel Salinera, quello dall’anima più salutista e sportivo, permette di svolgere sedute di meditazione joga, di rigenerarsi con trattamenti specifici per il benessere del proprio corpo. O semplicemente di inforcare una mountain bike per visitare i dintorni, ricchi di storia, di cultura e tradizioni.

che da circa vent’anni si preoccupa di gestire il nutrito team di cucinieri dell’albergo. Attenzione massima, quindi, alla materia prima e alla costruzione del piatto finalizzata sempre a voler rappresentare un gusto rigorosamente made in Slovenia, in un ambiente forse un po’ retrò, tra tendaggi imponenti e moquette rosse, ma che non manca di colpire per il suo fascino discreto capace di riportarci indietro di qualche anno. Infine, una possibilità interessante offerta è quella di unire, per gli ospiti, la visita agli altri hotel del gruppo. Ognuno dei quali vive di una sua peculiarità. Il vicino Histrion, ad esempio, permette di attraccare con la propria barca in una piccola baia e sotto il profilo benessere offre winetherapy e jacuzzi riservata per indimenticabili momenti relax di coppia; il Grand Hotel Metropol confina con il Casinò di Portorose e

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Lastage

Amsterdam lo stile di van Dam

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di Gualtiero Spotti

della città da frequentare”. Il ristorante è a suo modo un piccolo gioiellino di Amsterdam è una città in fermento accoglienza informale e semplice, dove culinario. Non l’intera città, a dire il i dettagli sono sempre curati con grande vero. L’area che conta di questi tempi attenzione. In qualche modo a Lastage è quella tra la stazione dei treni e il si ha la sensazione di trovarsi in un vecRed District, forse la zona più caotica chio appartamento olandese (il locale e vivace durante l’intera giornata (e è lungo e stretto con, sul fondo, una nottata) della metropoli olandese. stanza soppalcata, nello scantinato la Qui, sulle rive dell’Oosterdok, uno cucina e all’ingresso un piccolo angolo dei tanti canali navigabili, si sta svi- bar che si affaccia sulla via), ma al luppando una Amsterdam moderna tempo stesso c’è la ricercatezza e la con nuovi hotel, ristoranti, negozi e cura di una cucina perfetta per quella uffici, che si mescola con quella più che è l’Amsterdam di oggi, ovvero una caratteristica, quella delle casette città dinamica e dove le novità si sussetradizionali affacciate sull’acqua, al- guono di continuo, dove si rimane trettanto dinamica e ricca di fascino. inebriati dalle cucine etniche, in particolar Alcuni dei ristoranti di maggior pregio di Amsterdam sono proprio qui, a partire da quel &Samhoud places del cuoco israeliano Moshik Roth che lo scorso anno, all’apertura, ha fatto scalpore per lo stile di cucina d’avanguardia proposta, passando per il ristorante Vermeer dell’NH Hotel Barbizon (con un cuoco inglese), e arrivare fino al Lastage dove il padrone di casa è lo spigliato e simpatico cuoco quarantenne (ma dimostra dieci anni di meno) Rogier van Dam. Che da quando ha ricevuto la stella Michelin, poco più di un anno fa, ha portato il suo piccolo bistrò da quaranta coperti a diventare uno degli indirizzi più hit per chi vuole stare bene a tavola da queste parti. È lui a raccontarci il piacere di lavorare in un piccolo ristorante situato nel cuore nevralgico della città. “Sono felice e sto vivendo a Lastage un momento di grande soddisfazioni professionali”, racconta con trasporto e passione. “Ho aperto due anni fa in una zona che sapevo per certo sarebbe diventata importante e che mi ha permesso di abbracciare una tipologia di clientela decisamente varia, soprattutto tra i giovani. Noi siamo molto vicini all’affollato quartiere rosso, ma al tempo stesso ne restiamo ai margini e non veniamo toccati dal caotico andirivieni della zona. E poi da qualche mese a questa parte ho molti cuochi come vicini, il che crea interesse sul quartiere e permette ai gourmet di avere una zona ben precisa Artù n°54

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modo quella indonesiana, ma anche dai piatti dei grandi cuochi che lavorano nel solco della migliore cucina europea. Quindi cosa si può trovare passando a trovare Rogier van Dam a Lastage? Sicuramente un’impronta di cucina cosmopolita che cerca ispirazione nelle diverse cucine del mondo (e in particolar modo quella italiana), poi un cuoco che potrebbe essere un giovane designer o un deejay, ma sa perfettamente il fatto suo quando si muove tra i fornelli, poi un servizio in sala di ottimo livello, una piccola ma curiosa lista di vini (anche qui con molti riferimenti del Bel Paese, visto che la ragazza di Rogier importa vini dall’Italia), un menu agile, con pochi piatti e idee chiare, e infine i prezzi, che sono determinati dal numero

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di portate ordinate e non dal singolo prezzo di ogni portata. D’altro canto l’essenzialità della proposta culinaria va di pari passo con le indicazioni imposte dai nuovi trend culinari che, anche per ottimizzare i costi in tempi difficili un po’ dappertutto, suggeriscono ai ristoratori più accorti di ridurre drasticamente le giacenze di magazzino e di costruire proposte ad hoc su menu fissi verso i quali indirizzare il cliente. Al La-

stage a tavola va in scena una curiosa sequenza di piatti che offrono uno spaccato chiaro di quale sia l’idea di cucina del cuoco. Versatilità, innanzitutto, e poi il gusto, con preparazioni che strizzano l’occhio all’Italia, come detto (avete mai ordinato un Vitello Tonnato in Olanda? Qui c’è ed è di ottima qualità), ma anche francesismi con il rombo alle erbe che incontra la bouillabaisse, un po’ di nord Europa nella tartare di sgombro con barbabietola, crescione, mela, terrina di aragosta, o nel luccioperca con patate, asparagi e salsa di gamberetti. La scelta della materia prima non conosce confini, visto che qui si trovano sia il maiale iberico che il formaggio transalpino Epoisses. E per dessert una classicissima tarte tatin. Rogier van Dam sa come prendere alla gola i suoi ospiti puntando sul piacere di stare a tavola, in un mix di sensazioni forti al palato e di leggerezza interpretativa. Se poi volete aggiungere una curiosità al vostro pasto si può scegliere di accompagnare i piatti con un vino bianco italiano. Che è il vino di casa e arriva direttamente dalle Marche. Rogier van Dam, infatti, si fa imbottigliare con il marchio Lastage un piacevole Verdicchio di Jesi che si trova solo al suo ristorante.

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dal mondo

Pan brioche, pollo o champagne?

Segmentazioni

d’alta quota

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di Alessia Castelletti Cosa bevono e mangiano i consumatori in volo? Le scelte, distratte o ponderate, di chi viaggia in First Class hanno qualitativamente più appeal di chi necessariamente sceglie di volare in Economy? Una testimonianza diretta sui comportamenti e le attitudini mette in luce aspetti inediti, e in certi casi divertenti, dei comportamenti di consumo “a bordo”, oltre

che monitorare impulsi e motivazioni spesso sottovalutate. E, alla fine del viaggio, che c’è di meglio che regalarsi un grande breakfast a Pershing Square, a New York? Qui, dove le “classi” si confondono e la clientela ritorna ad essere “trasversale”, davanti a uova, bacon e spremuta d’arancia. Chi ha la fortuna di viaggiare, e di viaggiare frequentemente, si imbatte in tante situazioni diverse: alcune divertenti, altre meno. Ma l’aspetto più interessante è quello dell’incontro, l’incontro con le persone. Con quanta gente ci si imbatte in giro per il mondo, soprattutto negli aeroporti. I viaggiatori da aeroporto, quella massa multiforme che affolla gli spazi delle partenze, degli arrivi, gente di tutti i tipi, di

tutte le provenienze, e non solo geografiche. Durante un recente viaggio mi è piaciuto suddividere questa moltitudine nel tentativo di collocarla mentalmente in alcune categorie, pensando alle loro vite, oltre che ai loro viaggi. Pensando perché viaggiano, da cosa sono animati durante i loro viaggi e come si comportano. I comportamenti umani hanno sempre rivestito un ruolo importante nella mia immaginazione, i comportamenti che si concretizzano nelle azioni: nel caso dell’aeroporto, le pratiche di check-in, quelle di imbarco e tutto quello che è legato al nutrirsi in viaggio. La categoria più affascinate, il viaggiatore di First Class: non lo incontri né prima, né dopo, ma soprattutto non lo incontri durante il volo, a meno che non si abbia la fortuna di viaggiare nella stessa classe di viaggio. Non lo incontri perché si materializza direttamente a bordo dell’aereo: fa il check in nella sua lounge dedicata, aspetta in un ambiente ovattato ed estremamente elegante dove tutti parlano a bassa voce e viene avvisato di recarsi a bordo da qualcuno che è lì per quello, e lo chiama per nome. Si materializza in un’area dell’aereo dove tutti gli altri non transitano perché - soprattutto nei vecchi Jumbo, ormai appannaggio solo delle grandi compagnie di bandiera che investirono nel bestione quando era ancora in produzione - è un’area interdetta al passaggio casuale, fuori dai percorsi che debbono fare gli altri viaggiatori per prendere posto nelle loro classi. Il viaggiatore di First viaggia in coppia: una coppia di signori di mezza età, molto abituati a girare il mondo: lui in abito impeccabile, lei sobria, estremamente chic, non indossa abiti riconoscibilmente griffati e soprattutto non usa borse di plastica, spacciata per pelle, con evidenti Artù n°54

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loghi, perché non ha bisogno di dimostrare il proprio status. In genere, non mangia nulla durante il volo. Accetta una flute di champagne con qualche nocciolina ma evita di nutrirsi del pasto, seppur curato, che gli viene offerto perché arriva a destinazione in condizioni fresche e riposate e, il più delle volte, ha già una prenotazione in un bel ristorante a destinazione. Sono i vecchi ricchi, quelli destinati a scomparire a meno che il mondo non inizi ad andare in una direzione diversa ma, per fortuna, ancora ce ne sono. Fa bene al cuore incontrarli seppur per errore, un istante, e poter pensare che ce ne siano ancora. Il viaggiatore di Business è quella categoria che, banalmente, viaggia, o quantomeno viaggiava, per lavoro. Nasceva così questa “classe” nella notte dei tempi, nell’immaginazione degli ingegneri e dei designer che studiavano gli spazi a bordo. Oggi il viaggiatore di Business non viaggia solo per lavoro, ma è colui il quale si regala comunque un viaggio umanamente accettabile per un lasso di tempo che altrimenti vedrebbe le povere membra sacrificarsi negli spazi angusti della altrettanto povera Economy. Lo incontri, transiti nella sua area per recarti nella parte “dietro” e lo osservi perché pensi che in fondo questo mondo lussuoso è diviso da una tenda ermetica, ma pur sempre tenda, che lo protegge dalla massa. Il viaggiatore di Business che non viaggia per lavoro è, spesso, ostentativo del proprio status: borsette di plastica logate in maniera evidente conferiscono sicurezza alle signore, golf di cashmere o alpaca e pantaloni di velluto ai signori. Anch’essi attendono il proprio volo nelle loro lounge, ma si nutrono di tutto quello che le gratuities del caso offrono. Una volta a bordo, anche loro chiamati per nome dagli assistenti di volo dedicati, accettano e bevono

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compiaciuti la loro flute di champagne mentre tutti gli altri ancora cercano di prendere posto e soprattutto accettano la seconda flute, dedicando un finto tempo distratto alla scelta del loro pasto sul menu che prevede almeno due alternative. È quello che assolutamente sceglie il piatto più simbolico del pasto ricco, ma che poi, con altrettanta finta distrazione, non termina il pasto. Salmone affumicato della migliore selezione scozzese su pan brioche appena scongelato nel microonde, una main course classica di carne o pesce anch’essa scongelata, dessert sotto forma di mousse con decorazioni in similplastica commestibile come ultima portata serviti in piatti di fine porcellana in una mise en place al limite della sfida contro ogni legge fisica. Terminato il pasto, si sdraia con la sua copertina trapuntata e guarda un film dal suo monitor mentre sorseggia un caffè o un tè. Non toglie le scarpe o per lo meno lo fa senza dare nell’occhio e soprattutto si ricompone per recarsi alla toilette. Biscottini e cioccolatini allietano il volo durante la sua intera durata. Il vino è diventato un Sauvi-


gnon blanc per le signore, un Merlot in purezza per i signori, oppure uno Scotch whisky: la stappatura della bottiglia dotata di un elegante tappo a vite viene eseguita con estrema classe dall’assistente di volo che deposita poi la bottiglia sul tavolo allestito magicamente come un coniglio saltato fuori dal cilindro che, in questo caso, è il bracciolo della poltrona. Arriva a destinazione in condizioni perfette e si reca da chi lo aspetta al ristorante di grido prenotato tramite il servizio Amex Platinum. La terza categoria è rappresentata dal mondo. C’è di tutto. Ma la gran parte è formata da quelli che si mettono in coda all’imbarco anche se sanno perfettamente che non si debba correre all’arrembaggio del proprio posto perché è stato già assegnato. Ma lo fa lo stesso. Non vuole perdere neppure un centimetro del suo angusto spazio e questo accade se arriva a sedersi dopo l’altro viaggiatore che ha il posto assegnato accanto. Non potrebbe più sistemare le proprie scarpe, che toglie immediatamente, nelle povere cappelliere che in una frazione di secondo si riempiranno di qualsiasi genere dei famosi “personal belongings” da non dimenticare dopo l’atterraggio. Questo viaggiatore, indossa abiti orrendamente comodi per sopravvivere alle lunghe ore nello spazio della propria poltroncina e arriva a destinazione completamente sfatto. Le signore vestite di tute di ciniglia, anche quando l’età, la comune decenza e il buon senso impedirebbero l’uso di tali capi di abbigliamento in qualsiasi altra occasione. I signori indossano qualsiasi cosa, ma mai e poi mai un abito. Cuscino, copertina e auricolari e aspettano impazienti l’arrivo del loro pasto. Alla domanda “pasta o pollo?” rispondono sorpresi e si dicono felici che anche loro abbiano due alternative: in fondo non è poi così diverso qui dietro dalla business! Il loro vassoietto che racchiude tutte le portate è tristissimo, ma loro terminano tutto il pasto e guardano desiderosi il finto panino di gomma ancora sigillato dentro la bustina di plastica del vassoietto del loro vicino. Non rifiutano nulla di tutto quello che gli viene offerto, ma fingono di non desiderare vino e altri alcolici quando costituiscono degli extra da saldare al momento. Arrivano a desti-

nazione talmente stanchi e sazi che, sbrigate le pratiche di sbarco e recupero bagaglio, prendono possesso della stanza in albergo e… la prima sera si dorme! Salvo poi svegliarsi prima dell’alba il mattino dopo e recarsi a fare una vera grande bella colazione americana. Collocatemi dove preferite tra queste tre categorie ma di sicuro, all’indomani si va da Pershing Square (sotto il ponte, come amano chiamarlo i newyorkesi) per una colazione davvero in stile autentico. Un po’ di coda, a volte più di un po’, e poi ci si accomoda in uno dei tavoli del locale sotto il ponte della ferrovia della stazione centrale, sulla 42ma strada, all’incrocio con Park Avenue. Le proposte sono invitanti, sono molto americane, ma siamo a New York City! Il personale è multietnico, ripeto, siamo a NYC! Strano ma vero, le tips sono già incluse nel conto, aspetto non poco trascurabile in una città dove non sai mai cosa vai a spendere perché ti presentano sempre i conti da maggiorare. Appena ci si siede arriva il classico bicchierone di “fresh squizzed orange juice”, ottenuto dalle arance consegnate ogni mattina fresche dalla vicina Florida, e poi si perlustra il menu. Fantastico. Uova in mille modi (a base di sano antibiotico americano, grosse, di una taglia smisurata), il bacon vero, quello croccante, non secco e senza nodi, le patate arrosto. Piatti di frutta fresca e yogurt, ovviamente è bandito quello low fat, ma soprattutto torte da mille calorie al boccone che fanno tanto bene all’umore. Poi ti volti e vedi di nuovo tutte le categorie: il viaggiatore di First che ha consumato una colazione light a base di caffè americano e qualche toast di pane nero con burro e marmellata, il viaggiatore di Business che ha ordinato un piatto più sostanzioso e quello di Economy che ha fatto il pieno di tutto. Questo racconto non aveva l’audacia né la pretesa di incapsulare l’umanità entro confini dettati dal vil denaro, ma voleva solo dipingere e dare seguito a delle riflessioni libere e un po’ romanzate su uno dei tanti viaggi appena conclusi negli States. Evviva la multiformità dell’umanità! Artù n°54

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libri

Veronelli, Oldani, Ferrari. ARTE al San Domenico

Titolo: Passione Pura Autore: Fabrizio Ferrari Editore: CMCE Anno: 2012 Pagine: 200 Prezzo: 70,00 €

Titolo: Luigi Veronelli Autori: Gian Artura Rota e Nichi Stefi Editore: Giunti e Slow Food Anno: 2012 Pagine: 320 Prezzo: 16,50 €

Titolo: San Domenico di Imola Concetto Pozzati Autore: Maria Paola Poponi Editore: Maretti Collana: Effusioni di gusto Anno: 2012 Pagine: 184 Prezzo: 35,00 €

Titolo: Il giusto e il gusto Autore: Davide Oldani Editore: Feltrinelli Anno: 2012 Pagine: 124 Prezzo: 11,50 €

Regole di cucina Fabrizio Ferrari è chef talentuoso, che meriterebbe più attenzione da parte della critica. Non che non ne riceva, per carità, ma viene sempre messo in quella sorta di seconda linea che sembra non meritare la celebrità che spetta ai “soliti” altri. Forse è meglio così, visto che il percorso di Fabrizio è assolutamente personale, caratterizzato, senza scolastiche alle quali attingere o da cui farsi condizionare. La sua cucina “modulare” è ricca di attrattiva e ben lo dimostra il suo volume, prefatto da Defendente Mauro Febbrari, l’endocrinologo gourmet che tanto ha dato e fatto per rendere salutistica e salutare l’offerta gastronomica di molti chef. Il libro dello chef bergamasco (una stella Michelin al Roof Garden del San Marco, l’hotel della città orobica) segue criteri scientifici e apre un mondo inaspettato per quanti vogliano “entrare” nella sua filosofia culinaria.

In memoria del grande scrittore “La vita è troppo corta per bere vini cattivi” è il paradigmatico sottotitolo di questo libro, pubblicato a otto anni dalla morte di Gino Veronelli e presentato a Bergamo durante la prima edizione di Gourmarte. Aneddoti, citazioni, testimonianze si intrecciano alle riflessioni degli autori, entrambi per vari motivi (familiari, amicali, di condivisione di fatiche e passioni professionali) vicini al grande Veronelli. Un volume che aiuta a comprendere appieno il personaggio e ne offre un ritratto molto articolato, sottolineandone le profonde conoscenze, l’amore appassionato per la qualità, il coraggio nel difendere le proprie idee, ad ogni costo. Bravi Rota e Stefi, che hanno magistralmente raccontato una vita molto intensa.

I piatti del San Domenico secondo Pozzati La collana di Maretti Editore, diretta da Maria Paola Poponi, è uscita con un altro titolo, dedicato al San Domenico di Imola, il celebre ristorante di Gianluigi Morini, patron di indiscussa genialità. Il volume fonde pittura e cucina insieme, con l’obiettivo di sensibilizzare il lettore ad un percorso multidisciplinare: ecco quindi svilupparsi un percorso testuale e iconografico in cui si alternano ricette, foto di piatti e espressioni artistiche di Concetto Pozzati, uno dei maggiori rappresentanti della Pop Art italiana. Il risultato è sorprendente e capace di valorizzare ai massimi livelli la professionalità di Valentino Marcattilii (lo chef del San Domenico) e le geniali creazioni di Pozzati, di intensità eccezionale e di inediti cromatismi.

Oldani, storie di umiltà e successo Il libro costa come il menù di mezzogiorno del suo ristorante, il D’O’ di Cornaredo, diventato in pochi anni il punto di riferimento della clientela “gourmet ma con giudizio”, composta da tanti appassionati di alta cucina che vogliono godere e, allo stesso tempo, salvaguardare il portafoglio. Il talento di Davide è arcinoto: discepolo di Gualtiero Marchesi e Alain Ducasse, lo chef di Cornaredo (anzi, di San Pietro all’Olmo), è diventato a sua volta maestro: di buon senso, di stile, di gusto. Con grande umiltà (dote che non appartiene alla totalità degli chef), Davide racconta la storia della sua vita, tappa dopo tappa. Partenze, ripartenze, arrivi e ripartenze: perché, come ha più volte detto il suo Maestro, non si finisce mai di imparare.

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Gusto ⦁ Tendenze ⦁ Mercati

Carte dei vini più snelle: è vera rivoluzione? Alfonso Iaccarino e la cucina delle radici Comunicare e fare business con l’iPad

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La nostra rivista è sfogliabile anche online www.edifis.it


secondo Artù

Formule che resistono Langhe, Redarca, Correggio TRATTORIA ALLE LANGHE Corso Como 6 20154 Milano 02 6554279 www.trattoriaallelanghe.com

Il “nuovo corso” di questa storica trattoria milanese, tradizionale ma anche modaiola, sembra essere appena cominciato: il cambiamento si sente nell’aria, da mille particolari (compresi alcuni misunderstanding fra cucina e sala). Non ci venivamo da tempo e pare che, dopo vent’anni e passa, abbia da poco mutato gestione (così almeno ci viene detto ad una nostra richiesta). La prima novità che notiamo è che la cucina fa “orario continuato” dalle 12 alle 23.30, offrendo la possibilità di pranzare anche in orari insoliti, come durante il pomeriggio, in cui funziona un menu veloce da cui poter scegliere fra nove portate. La seconda è che la Trattoria Alle Langhe non ha alcun giorno di chiusura settimanale, in una logica no-stop decisamente moderna e in linea con le nuove tendenze di consumo. All’ingresso, siamo in tre, veniamo ricevuti da un inappuntabile direttore che, con stile ed eleganza, ci conduce al tavolo, in una delle due sale un po’ datate (dicono che sia imminente una ristrutturazione), comunque di indubbio fascino. La clientela sembra essere, dai comportamenti e dalle comande, abituale e fedele, a conferma della qualità dell’offerta. Cerco in menu piatti di ispirazione piemontese (o langarola) visto che il locale si ispira alle Langhe, comunque presenti con le tradizionali flagship della cucina regionale: agnolotti, tajarin, risotto al Barolo, bagna cauda, vitello tonnato ecc. Nell’attesa ci portano delle polpettine, che ricordano vagamente, all’aspetto, dei mondeghili: buone, morbide, fatte al momento e non riscaldate al microonde. Leggendo il lungo elenco di piatti in menu (troppi, senza dubbio) la mia scelta si appunta su un piatto che pare essere una sorta di “bandiera” del locale, come mi conferma (caldeggiandolo) il volonteroso cameriere

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dall’accento romano che serve il mio tavolo: ordino dunque i tajarin “al brucio”, attratto da questa definizione certo non ortodossa per un locale di impronta langarola. Ma mi ricredo all’assaggio: i tagliolini sono freschissimi (la pasta è fatta a mano. Buona e non “attaccata”), conditi con burro chiarificato e ripassati poi velocemente in padella con una salsa leggera al pomodoro fresco. Buoni e diversi dal solito. Al mio tavolo un altro commensale ordina due assaggi di risotto, al Barolo e alla milanese, in ossequio alla “doppia linea” di cucina del locale che è, in effetti, lombardopiemontese. Il terzo esagera e, data la stagione, chiede tajarin con il tartufo bianco d’Alba (come da definizione in menu). La grattata è abbondante, il tartufo molto profumato e il prezzo compatibile e coerente: 40 euro per una supergrattata sono accettabili, dati anche i prezzi di mercato (fra i 2.500 e i 4.000 euro al kg, che raggiungono anche una cifra doppia, come da Peck in via Spadari!!). Anche chi ha scelto i risotti non resta deluso: il Carnaroli è cotto al punto giusto, lo zafferano seppur non in pistilli è “aiutato” nel suo sapore dalla perfetta mantecatura del riso, mentre quello al Barolo stupisce per il suo equilibrio e l’assenza di “vinosità” nel gusto. I dolci, tradizionali e da credenza, sono dignitosi e perlopiù caserecci, frutto di un cuoco pasticcere che mostra dimestichezza con la materia. Un capitolo a sé meriterebbero le insalate (al primo piano funziona appunto un’insalateria) ma non abbiamo elementi per esprimere opinioni. Sui se-

condi piatti è storia collaudata, che nasce da esperienza di cucina: costata di manzo corretta per cottura e tenerezza, costoletta alla milanese (preferibile alla cotoletta primavera ormai desueta, ma molto apprezzata visto che agli altri tavoli è molto richiesta!), tenera, al giusto punto di rosa, perfetta e non biscottata, puré di patate di buona fattura, verdure cotte al vapore che sanno di verdura fresca e non di pagliericcio scongelato. I prezzi in menu sono rispettosi di un corretto ricarico, ma si possono ancora limare alcune situazioni: in ogni caso un pasto di due portate non supera mai i 35 euro, che a Milano è una cifra rara per un ristorante di livello. Ci vorrebbero però tre innovazioni: il vino al calice (questo sembra essere il regno delle mezze bottiglie, ma la richiesta a bicchiere è in aumento), la presenza in carta di etichette di vini “liberi dai solfiti”, la proposta di un pane di qualità superiore, proposto in tre/quattro tipologie.

Per essere in una fase di “transizione”, con una nuova gestione appena subentrata, ci pare che la Trattoria Alle Langhe mostri una buona solidità e rispetti una cucina di tradizione dignitosa e corretta. Certo, chi cerca i “voli pindarici” deve avere pazienza ed aspettare. Con l’occhio attento a quanto accadrà nei prossimi mesi, a pochi metri, con l’apertura di Eataly: le intenzioni di Farinetti rivelano che saranno sei i ristoranti che apriranno all’interno della megastruttura, con una segmentazione di offerta (chef superstar, trattoria autentica, pizza e quant’altro) che metterà a dura prova i concorrenti e potrebbe ribaltare lo scenario competitivo. Vedremo cosa accadrà. Anche se, di questi tempi, ci pare più giusto restare con i piedi per terra, senza rischiare di entrare nel “mare magnum” della creatività a tutti i costi. Non a caso, la storia della ristorazione ci insegna quanto sia preferibile una corretta cucina di tradizione ad una strampalata cucina innovativa. Questa la concediamo solo ai geni e ai fuoriclasse!

LEGENDA Cervello incoronato = Memorabile, coerente, ineccepibile per qualità, serietà e ragionevolezza dell’offerta Tre corone = Cucina eccellente, perfetta esposizione delle voci in menù, ambiente e servizio all’altezza Due corone = Ottimo per qualità dell’offerta Una corona = Cucina corretta e affidabile Corona nera = C’è ancora molto da fare Tre cervelli = Il massimo della ragionevolezza Due cervelli = Molto ragionevole Un cervello = Abbastanza ragionevole Cervello nero = Scarsamente ragionevole



secondo Artù

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Artù n°54

OSTERIA DI REDARCA

controllo quotidiano e diretto su ogni fase di lavorazione e servizio; il secondo: la materia prima è di rara freschezza e qualità, valori difficilmente riscontrabili in altri esercizi similari, magari molto più blasonati e celebri, ma nei quali può capitare di abbinare al caffè il cornetto del giorno prima, che ahimé non era stato È nascosta fra gli ulivi ed i lecci delle venduto. Qui, grazie al cielo, questo non colline dietro Lerici, questa trattoria che accade, anzi, semmai, per la vostra gioia, trasmette serenità e gioia. D’estate si vi diranno: “se aspetta un paio di minuti, pranza all’aperto in un fresco spiazzo stiamo per sfornare i croissant”. Ed è circondato dagli alberi e con un ruscello l’apoteosi del gusto, grazie alla professio“frusciante” al lato. E quassù la tempe- nalità di Roberto Privitera, chef patissier, ratura è sempre di 4 o 5 gradi meno e di Silvana e Giuseppe Guerrisi che, che in riva al mare. D’inverno i tavoli con la figlia Loredana, coccolano il cliente sono al primo e al secondo piano di e lo accontentano nelle “dolci” tentazioni. quello che era un antico mulino. La La Pasticceria Correggio è il regno delle nota è, ovviamente, sul pesce anche torte di frutta fresca, dei dolci al cucchiaio, se non manca qualche piatto di terra della pasticceria mignon di eccellente della tradizione ligure: ci sono ottimi fattura, ma anche della cioccolateria articrudi di pesce, una tartare di tonno di gianale e della migliore pralineria. Nulla rara fragranza, ottimi muscoli “pieni” e arriva da fuori: tutto è concepito e poi ravioli, baccalà, polpo con patate, realizzato nel laboratorio di pasticceria scampi e gamberi alla griglia; ma anche che, con ritmo incessante, sforna pasticcini un ottimo culatello della vicina Parma, della tradizione italiana e, in stagione, le verdure ripiene alla ligure, il coniglio panettoni memorabili, tortelli e chiacchiere con le olive. Superba la cantina, curata carnevalesche. Una nota sull’offerta “sapersonalmente da Paolo Lupi, che pur lata”: la proposta di aperitivi, alcolici e offrendo un’ampia selezione nazionale non, si abbina ad appetizer e amouse privilegia i vini locali. Ragionevole il bouche non convenzionali, fatti al momento prezzo, intorno ai €40,00, compreso il e mai banali. Così come nella pausa vino. (Guido Bernardi) pranzo, magari all’interno del dehors riscaldato, si possono gustare toast, sanCORREGGIO PASTICCERIA dwich, panini e tramezzini di ottima qualità. Il servizio, efficiente e preciso, è Via Correggio 14 comunque familiare, data l’impronta del 20149 Milano locale, che punta deciso sull’empatia fra 02 4690887 gestori e clientela: un rapporto fatto di attenzioni che rasentano la complicità. Località Redarca Fraz. La Serra 19032 Lerici (Sp) 0187 966140

Da questo numero Artù si occupa anche di pasticcerie, cominciando da questo indirizzo milanese che merita la citazione per due motivi. Il primo: la gestione è assolutamente familiare, a garanzia di un



NON È ARDESIA E NEMMENO PIETRA, MA

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