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Artù n°61 - Marzo - Aprile 2014
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Gusto ⦁ Tendenze ⦁ Mercati
Pommery, “stile di vita”. Nostra intervista con Mimma Posca, ad della Maison Vino: dal Piemonte di Sara Icardi ai bianchi di Alto Adige e Campania Gualtiero Marchesi a Milano: “Io sono il mio stile”, contro il conformismo Svizzera: Gourmet festival a St. Moritz e S.Pellegrino Sapori Ticino Ospitalità e territorio binomio vincente: Balzi Retici , Villa Lattanzi e Principe
Marzo Aprile 2014
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EDITORIALE n°61
CARATTERE
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Oggi ci vuole carattere per andare oltre lo stallo. La richiesta forte che emerge nella società e nei mercati è: stile, carattere, unicità. Dei prodotti, ma anche dei comportamenti, quindi delle persone, della loro energia, del loro coraggio, delle loro idee. Se, una volta, parlare genericamente di qualità accontentava tutti, oggi l'attenzione si è spostata violentemente verso altri
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aspetti. Dopo anni di vacche grasse, ormai archiviati, nei quali tutto andava bene (si fa per dire), la concentrazione del mondo produttivo si è finalmente spostata sulla caratterizzazione. Lo stile di un prodotto, che è evidentemente connesso (ma non sottomesso) allo stile e all'impronta di chi quel prodotto lo crea (o lo vende) in prima persona, oggi è la vera discriminante:
un valore fondamentale, che supera tutti gli altri (territorio, servizio, km zero ecc) con i quali in tanti si sono riempiti la bocca per troppo tempo, dando a questi concetti un'importanza esagerata. Il carattere di un vino, per esempio, consiste nella risultante di molti elementi (vigna, cantina, storia, territorio, carisma, varietá tipologiche, tecniche enologiche, canali di vendita
e consumo) che trovano la propria concreta sintesi in una espressione stilistica unica. Diverso da tutti gli altri, fuori dal coro, diverso per valore, immagine, spessore. Insistere su questo tema è la nuova vera sfida del futuro, sia per la ristorazione che per la produzione. Se l'offerta di un locale è priva di connotazione, è condannata a scomparire, o a vivacchiare. Se i piatti assomigliano spudoratamente a quelli di altri ristoranti, perdono senso. La competitività qualitativa, che fa la vera differenza, rischia di appiattirsi, di diventare un valore senza senso: uno pseudo valore che vale sempre meno. Lo stesso discorso vale per il vino. Qualche giorno fa, Angelo Gaja, con la sintesi che lo contraddistingue, ha ribadito che il carattere di un vino deve poter contare sulla triade "suolo-clima-varietà". "Noi produttori non possiamo incidere direttamente sul carattere, ma dobbiamo essere capaci di integrare nel carattere la nostra personalità". Impresa non certo facile, ma decisamente auspicabile. Se al "carattere" di un vino il produttore è capace di aggiungere questo "quid"' il gioco è fatto. "Facendo attenzione però, aggiunge Gaja, che l'impronta del produttore non sia troppo invadente, per evitare il rischio opposto: quello, in virtù di una esuberanza personalistica, di rovinare il carattere autentico di un vino". O di metterlo in secondo piano rispetto al carisma comunicativo del produttore: iperbole autoreferenziale, che allontana l'attenzione dal vino. Il rischio, in effetti, è sempre presente. E gli eccessi di identificazione di un vino con chi lo produce, portano spesso a vedere, prima del carattere di un vino, il carattere di chi lo fa. Alberto P. Schieppati Artù n°61
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Pag. 10 Pag. 11 Pag. 12 Pag. 16 Pag. 22 Pag. 26 Pag. 30 Pag. 34 Pag. 36 Pag. 40 Pag. 44 Pag. 48 Pag. 52 Pag. 56 Pag. 62 Pag. 64 Pag. 70
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In copertina: nella foto, scattata da Alain Cornu, c’è l’interpretazione artistica e materica, al limite del visionario, del perlage di un grande champagne. In questo numero, il vino, fermo o bollicine, trova grande spazio. A cominciare dall’editoriale del direttore, dedicato al carattere e allo stile di un vino: valore fondamentale per affermarsi sui mercati.
Info people Gualtiero Marchesi, “Io sono il mio stile” Burlesque Brianzolo, cuochi in prima fila di A. N. Sake, nuovi orizzonti di degustazione di Giovanna Moldenhauer Caffè a Rimini e buffet d’autore Info brand Cibus di Parma, Food Service in primo piano di Elisa Facchetti Ômina Romana, identità di un vino Focus wine Campania, storie di vitigni e di imprenditori arditi di Alessandra Piubello Consorzio Vini Alto Adige, uniti si migliora di Giovanna Moldenhauer Focus beverage San Biagio, la birra diventa accademica di Stefano Bonini Focus food Gourmet a St. Moritz, chef stupefacenti di R. L. Il Premio Tartufo di Gubbio va a Claudio Di Bernardo di Claudio Zeni S.Pellegrino Sapori Ticino, Lugano e Ascona in pole di Elisa Facchetti Le veneziane di Besuschio di Fiorenza Auriemma Voghiera, l’aglio delicato che mette d’accordo tutti di Antonio Ezio Cascina Bellaria, salame gourmet di Theo Smith Villa Castagnola, il benessere gourmet di Elisa Facchetti Protagonisti wine Pommery, questioni di stile di Alberto Lupetti Lovato: il Made in Italy stravince nel mondo di Alberto P. Schieppati Giovani Enologi, passione e sfide di Alberto P. Schieppati Accueil Il Principe, cuore pulsante di Forte dei Marmi di Gualtiero Spotti Villa Lattanzi, ospitalità marchigiana di Elisa Facchetti Balzi Retici, wine hotel eroico di Alberto P. Schieppati Dal mondo Progetto Björk arriva in Italia di Luisa Contri Franconia tedesca, Baviera da scoprire di Rocco Lettieri Secondo Alberto Grillo da riscoprire. Altri esempi di tipicità di Alberto P. Schieppati Artù n°61
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Gualtiero Marchesi “Io sono il mio stile”
di Alberto P. Schieppati Gualtiero, dunque, è tornato a Milano. Il suo sogno di sempre, quello di riprendere a vivere la sua città da protagonista, si è finalmente avverato. Belli gli anni di Franciacorta, soprattutto i primi, bella la campagna, bello tutto…Ma a Gualtiero mancava il rumore dei tram che sferragliano davanti alla Scala, la fretta terribile di chi corre sempre, la tensione quotidiana di un vivere che riproduce se stesso, con ascetica costanza e atarassico metodo. Gualtiero a Milano: un’emozione incontrarlo per strada, vederlo guardare le facce della gente, sentirlo descrivere le fatiche del cuoco, ascoltarlo mentre -senza alcuna malizia, senza ideologie né pregiudizi - parla dei suoi tanti discepoli diventati
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famosi. Lo incontro una sera piovosa di fine febbraio (la sera della grandinata memorabile), nel giorno di una festa di famiglia (il compleanno della moglie Antonietta) con tutte le generazioni marchesiane sedute intorno al cerchio di fuoco, come avrebbe detto il poeta Mario Tobino. Gualtiero si discosta, mi saluta e mi parla. Per poi tornare dai suoi cari. Al Marchesino, luogo magico, una sorta di “teatro addizionale”, la guida è sempre di Enrico Dandolo, la cucina è nelle solide mani di Riccardo Ferrero e Gianluca Branca, i vini sono suggeriti da Claudio Baggini, sommelier di razza che insieme a Sebastiano Trogu coordina con cura la bella, grande sala con le colonne. Gualtiero, in ottima forma, ottantaquattro anni il 19 marzo, si riconferma ai miei occhi come raro, forse unico, esempio di alta cultura in un mondo che, seppur spesso molto professionale, sta privilegiando in modo eclatante “l’apparire all’essere”, un mondo dominato da presunzione e ricerca ossessiva del guadagno. Gualtiero è profondo, non ama i giudizi sommari e affrettati e, pur essendo poco indulgente verso la spettacolarizzazione dominante, non emette sentenze verso tanti suoi discepoli, pur potendolo. Anzi, ne apprezza l’intraprendenza, anche se il suo pensiero preferisce l’essere all’apparire. “Io sono il mio stile”, ripete Gualtiero e, come illuminato da una luce per pochi, mi parla della necessità di una cucina “del buon senso”, fatta di studi ed esperienza, certo, ma anche di
genio e sapienza capaci di muovere passione, energia vitale, coraggio, linguaggi inediti. Così sono, infatti, i piatti di Gualtiero (“quelli storici, come riso e oro, raviolo aperto, dripping, rombo in crosta, zabaione con spaghetti di riso e altro ancora, stanno per rientrare a pieno titolo nel menù del Marchesino”, mi dice Dandolo). Una cucina, quella di Gualtiero, che ha segnato il grande discrimine fra la banalità di una tradizione ripetitiva e l’arroganza del futuribile ad ogni costo, situandosi al centro di una visione profonda, che coniuga rispetto per la materia ed essenzialità di uno stile capace di restituire gusto e sapori in una logica di pienezza totale: “il palato assoluto”, insomma, è l’equilibrio definitivo verso cui tendere, senza retorica né facili azzardi sperimentalistici. Non a caso, il compianto Ernesto Illy, parlando con (e di) Marchesi, definì la figura del cuoco come una sorta di “chimico dell’intuizione”, espressione che Gualtiero condivise in pieno. Scienza. Precisione. Dettagli. Analisi. E, insieme, genio, estro, rischio. Una sintesi tanto concreta quanto visionaria, con forti legami con l’arte, la musica, la poesia. Pensando alla filosofia della scienza e a Ludovico Geymonat, Gualtiero ci ricorda che cuore e testa non possono essere disgiunti, ma sono profondamente connessi, così come i suoi piatti dimostrano; la logica della cucina marchesiana, infatti, rispecchia profondamente la sua lucidità, fatta di scelte ma anche di stupore e di ricerca di nuove frontiere.
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Burlesque Brianzolo Cuochi in prima fila Geniale e simpatica l'idea di Vivibrianza, l’associazione di chef e imprenditori della ristorazione, appena sorta, che ha voluto coinvolgere il pubblico in una serata di gala, nelle belle sale del Derby Grill del De La Ville della famiglia Nardi, l'hotel quattro stelle famoso per la sua ospitalità e la sua cucina. Molte le presenze illustri: Enrico Bartolini del Devero di Cavenago Brianza, Giancarlo Morelli, il Pomireu di Seregno (Mb), Christian Di Bari, Due Spade di Cernusco sul Naviglio (Mi), Fabio Silva lo chef di casa, Luca Mauri, di A Alice di Monza (Mb), Theo Penati di Pierino di Viganò (Lc). La cena era a sei mani, e prevedeva che ogni chef preparasse quattro creazioni. Le serate, a rotazione, toccheranno poi altre sedi e godranno della presenza Burlesque al De La Ville di Monza: di altri ospiti. coppie in abito anni Trenta, invitate Durante la serata, sono prevalse coead un evento che vuole irridere sim- sione emotiva e professionale, valori paticamente alla crisi, pensando a di unità e collaborazione: tutti gli chef prospettive future più giocose e del gruppo Vivibrianza hanno dimomeno opprimenti. E, alla fine della strato grande spirito di gruppo e caserata, premiata la coppia più bella pacità di fare sistema. Per soddisfare e meglio vestita, che potrà cenare gli ospiti, ma anche per essere i veri protagonisti del cambiamento. (AN) in uno dei ristoranti protagonisti.
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Sake, nuovi orizzonti di degustazione
di Giovanna Moldenhauer Il Congresso di Identità Golose, fra gli eventi in programma, ha rappresentato l’opportunità di conoscere il Sake definito “l’acqua che fa prosperare”. Il seminario di degustazione è stato condotto dall’esperto di cultura enogastronomica giapponese Marco Massarotto dell’Associazione culturale “Le Vie del Sake”. La degustazione si è svolta su una gamma di otto tipologie provenienti dalle migliori cantine situate nelle zone più rinomate per la produzione di riso e la purezza dell’acqua. Il percorso alla scoperta delle inaspettate e molteplici fragranze di questo prodotto così unico e pregiato è stato organizzato da Jetro, Japan External Trade Organization, ente semigovernativo giapponese il cui scopo è quello di promuovere i rapporti economici commerciali tra il paese del Sol Levante e il resto del mondo. La degustazione è stata preceduta da una breve introduzione sul processo di produzione. La prima fase della preparazione consiste nella raffinazione del riso per purificarlo dalle proteine e dalla crusca che ne altererebbero il sapore. In seguito il riso è lavato per eliminare gli ultimi residui di crusca, lasciato in infusione in acqua fino a quando non ha assorbito il 30% del suo peso, quindi cotto a vapore. A questo punto una parte del riso è addizionata da spore di aspergillusoryzae per iniziare un primo processo di fermentazione e ottenere il “koji” ovvero la saccarificazione realizzata dal maestro cantiniere Toji che
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darà il suo stile al Sake. In seguito viene realizzato prima il “shubo”, un impasto tra il riso cotto a vapore, acqua, koji e lieviti di riso selezionati, per avviare la propria fase di fermentazione, e poi il “moromi” in cui acqua, riso cotto a vapore, koji e shubo sono mescolati per avviare la prefermentazione del Sake. Durante le diverse fasi del processo, chiamato fermentazione multipla parallela, il koji trasforma gli amidi del riso in glucosio mentre i lieviti trasformano gli zuccheri in alcol. Terminate tutte le fermentazioni il prodotto viene pressato, filtrato, pastorizzato e infine imbottigliato. Le diverse tipologie di Sake sono classificate dal governo giapponese in base alla raffinatura del riso. Il primo degustato durante il seminario era un “Junmai Ginjo” di Akita Seishu all’estremo nord del Giappone, un Sake dal gusto asciutto, elegante con una piacevole nota finale. Seguiva un “Ginjo” di Haneda Shuzo di Kyoto. Per questo prodotto il particolare riso di Kyoto viene sbiancato riducendone la massa di più del 40%. Dai particolari profumi di anice, liquirizia. Il terzo era un “Tokubetsu Junmai” di Suisen Shuzo. Questa tipologia di Sake si distingue per l’acqua ricca di sali minerali, una minore acidità, un aroma di melone. La seguente bevanda della stessa tipologia è realizzata da Munemasa Shuzo nell’ultima isola a sud del Giappone. Il riso della zona dona un aroma delicato, un naso di anice e biscotto, un gusto meno acido. Nel nostro percorso di scoperta abbiamo poi degustato un “Superior Daiginjo” di Hakuryu Sake Brewing a
nord di Tokyo, ottenuto da un riso in cui il processo di sbiancatura l’ha ridotto del 50%: profumi di violetta, di melone, note speziate nel retrogusto. La sesta tipologia era un “Junmai Daiginjo” di Shimizu Seizaburo, sulla costa est a sud di Tokyo, ottenuto con una speciale tecnica di produzione. Il “moromi” viene infatti raccolto in un canovaccio e il Sake lentamente rilasciato nella tradizionale botte tobin. Questo processo conferisce profumi di pesca bianca e violetta. Gli abbinamenti suggeriti da Marco Massarotto con questo Sake sono inconsueti dato che può essere servito tra l’altro con ostriche oppure con pomodoro e mozzarella. La penultima tipologia era un “Junmai Daiginjo Special” di Masuda Sake Company sulla costa ovest del Giappone. Aveva un naso elegante di frutta cotta, un gusto dolce, delicato con retrogusto di buccia d’arancia e una buona persistenza. Il nostro relatore ha proposto, anche per questa tipologia, accostamenti con foie gras, jamon serrano oppure, con nostra sorpresa, spaghetti cacio e pepe. Concludeva il seminario un “Junmai Umeshu” di Nakashima Sake Brewing proveniente da una regione montana vicino a Tokyo. Ottenuto dalle susine rosse giapponesi Nankoubai assemblate a Sake aveva nel bicchiere un lieve colore rosato, un profumo di mandorla, albicocca, un sapore dolce e asprigno nel contempo, con un leggero retrogusto di susina. Le diverse tipologie dalla gradazione alcolica tra 17,2% e 11% sono state servite per lo più a temperatura ambiente. Il seminario ha dato l’occasione di degustare diverse tipologie di Sake svelando al tempo stesso quanto nella produzione sia importante la varietà del riso, la purezza dell’acqua senza trascurare l’arte del maestro cantiniere Toji.
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Caffè a Rimini e buffet d’autore Il mondo del caffè in scena a Rimini Dal 10 al 12 giugno 2014 Rimini Fiera ospiterà per la prima volta insieme World of Coffee e World Barista Championship. 30mila gli operatori attesi, oltre 200 i marchi in esposizione, 20mila i metri quadrati di superficie espositiva, 50 le nazioni partecipanti: questi i numeri dell'evento più importante in Europa dedicato al caffè, organizzato dalla Speciality Coffee Association of Europe (SCAE), quest’anno in collaborazione con Rimini Fiera. Tre i momenti salienti della manifestazione: una sezione espositiva dedicata alla produzione del caffè; la sezione formativa animata da incontri, seminari e momenti di aggiornamento rivolti ai principali player del settore; la terza sezione sarà dedicata, invece, alle competizioni
mondiali. Nei tre giorni dell’appuntamento riminese anche World Barista Championship, oltre al World Brewers Cup ed al World Coffee Roasting Championship (per info: www.worldcoffeeevents.org). Infine, un fittissimo programma di appuntamenti fuori salone.
Le Strade della Mozzarella Da non perdere l'evento a Paestum, dal 12 al 14 maggio, al Savoy Beach Hotel: Le Strade della Mozzarella, il congresso dedicato alla Mozzarella di Bufala Campana, organizzato dalla BG Consulting in collaborazione con il Consorzio della Mozzarella di Bufala Campana. 30 chef italiani e alcuni ospiti da Francia e Spagna interverranno alla manifestazione con preziosi contributi, il tutto arricchito da tre “atelier” nei quali chef ed artigiani in-
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importanza del lavoro svolto dal Consorzio nei confronti dell'alta gastronomia: "Le Strade della Mozzarella spiega Antonio Lucisano, direttore del Consorzio - nel corso degli anni ci ha consentito di approfondire il nostro rapporto con i grandi chef che, in questo modo, diventano raffinati interpreti di uno dei prodotti più conosciuti e apprezzati del Made in Italy". (Foto Gianni Costabile)
Nuova linea da Bormioli teragiranno con il pubblico. I tre “atelier” saranno dedicati a: Pizza e Lievitati, Pasta Muzzarella e Pummarola, Mozzarella e Made in Italy, in cui protagonisti saranno gli artigiani della vera pizza napoletana, come Gino Sorbillo, Salvatore e Francesco Salvo, Gianfranco Iervolino, Franco Pepe, Ciro Salvo. Spiegheranno poi i segreti della pizza fritta Maria Cacialli e Ciro Oliva e Gabriele Bonci condurrà il pubblico alla scoperta dei segreti delle lunghe lievitazioni, con l'intervento di Giuseppe Giordano. Spazio agli interventi di Alfonso Pepe sulla realizzazione del suo panettone, di Agostino Iacobucci che racconterà i segreti del suo babà, di Salvatore La Ragione che illustrerà l’utilizzo dei panificati nell’alta ristorazione: "La formula degli atelier ci sembra una buona risposta all’esigenza di un pubblico altamente specializzato come il nostro, per approfondire tutto il lavoro che questi bravissimi artigiani pongono nella loro quotidiana ricerca della qualità (...)” spiegano Albert Sapere e Barbara Guerra, ideatori del congresso giunto alla sua settima edizione. Da sottolineare la grande
Stile, qualità, creatività. Bormioli Rocco ha sviluppato nel corso degli anni capacità tecniche di realizzazione sorprendenti nella lavorazione del vetro affermandosi per gli alti contenuti estetici, nonchè per la brillante capacità di creare soluzioni per ogni esigenza. Tanto da diventare partner di numerose aziende nel settore tablaware, grazie anche al certificato di qualità Uni-Iso 9001 Vision 2000 e dalla certificazione etica SA8000 che attualmente rappresentano i massimi riconoscimenti internazionali per la qualità aziendale. I calici e i bicchieri della collezione Luigi Bormioli sono in Vetro Sonoro Superiore Soffiato, prodotti caratterizzati da un vetro assolutamente trasparente e resistente. Ampia l'offerta per il mercato horeca, con soluzioni sempre innovative, decorative e di sicura qualità. Come la linea Buffet, declinata tra AmuseBouche e Single Serving. La tradizione della cucina italiana viene esaltata grazie a questa originale collezione di mini-contenitori in vetro soffiato a bocca di elevata qualità per l'allestimento di eleganti buffet. I mini contenitori con manico garantiscono un servizio igienico. Buffet, Bormioli Rocco
Arborea presenta l’alta qualità del latte Arborea non è solo un comune della provincia di Oristano, in Sardegna, ma è sinonimo di alta qualità nella lavorazione del latte, nonchè principale polo del comporto lattiero-vaccino sardo. La Cooperativa Assegnatari Associati Arborea 3A nasce nel 1956 e raccoglie oggi una media di 495 mila litri di latte prodotto in allevamenti specializzati che contano circa 50.000 capi bovini di razza Frisona e Borwn Swiss, per poi gestire e presidiare tutte le fasi della filiera produttiva. In questo modo si ottengono alti standard qualitativi che assicurano ai consumatori un prodotto raccolto, lavorato e distribuito con i massimi controlli nel rispetto della normativa che ha consentito di ottenere Certificazioni di qualità, di Gestione Ambientale e di Rintracciabilità di Filiera. "Arborea opera da sempre con la piena consapevolezza della responsabilità sociale che deriva dalle
attività di produzione e commercializzazione di prodotti alimentari spiega Francesco Casula, direttore generale Arborea -. Questo ci ha reso leader in Sardegna, ma anche in quarto produttore di latte alimentare nazionale (...)". Vasta la produzione di prodotti a marchio Arborea, anche per chi soffre di intolleranza al lattosio. "Nei prossimi anni - conclude Francesco Casula -, vogliamo inoltre consolidare la nostra posizione sia nel mercato regionale che in quello nazionale, puntando soprattutto sull'innovazione di prodotto. Per questo siamo impegnati in una costante attività di ricerca e sviluppo orientata al mercato dei cosiddetti 'latti speciali' (...)".
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Cibus di Parma Food Service in primo piano
di Elisa Facchetti
diglione 3 con attività di show cooking e presentazione di prodotti attraverso diDal 5 all'8 maggio Parma ospiterà mostrazioni e ricettazione pensate per il la 17° edizione di Cibus, il Salone canale del fuori casa: 180 mq per assiInternazionale dell'Alimentazione, curare all'iniziativa un'adeguata visibilità grande vetrina dedicata al mondo e la visita di professionisti del canale del food e del retail. Out Of Home. L'idea del progetto nasce dalle riflessioni elaborate dalla scorsa Se i numeri della precedente edizione edizione in cui l'argomento del "fuori hanno suscitato grande entusiasmo - casa" ha rivelato interessanti spunti di oltre 63.000 visitatori qualificati, 13.000 approfondimento per rispondere, come esteri di cui 1300 top buyers esteri pro- sottolinea anche Pierluigi Spagoni, Revenienti da 90 paesi - l'edizione attesa sponsabile Marketing di Fiere di Parma, per il 2014 promette un successo ancora alle crescenti esigenze del mercato. L'inimaggiore, a conferma dell'importante vi- ziativa legata al Food Service, in sinergia sibilità che la mostra è in grado di offrire a livello internazionale, grazie all'organizzazione di tavole rotonde su temi di attualità in ambito food e retail. "Siamo riusciti a proporre a produttori e distributori un'edizione di Cibus rinnovata e sempre più confacente alle esigenze dei mercati - spiega Elda Ghiretti, Cibus Brand Manager -, ottenendo un'ottima risposta, tanto che abbiamo già occupato tutti i 130 mila mq lordi di superficie disponibile e abbiamo numerosi espositori in lista d'attesa". Ma non solo. L'edizione 2014 punterà i riflettori sull'importante evento Food Service Educational Sessions, a cui sarà dedicata parte delll'area del pa-
alle inziative dedicate anche al duty free, vede la collaborazione del Gruppo Edifis - rappresentata dalle riviste Artù, Retail & Food e Ristorando - al fine di identificare nuovi canali di vendita che possano essere di interesse per le aziende di marca, come il travel retail e appunto il duty free. In dettaglio, l'area Educational Sessions sarà esclusivamente dedicata ai professionisti della ristorazione, di cui Alma - La scuola Internazionale di Cucina Italiana è technical parter con Electrolux come hardware partner, evento animato da attività di show cooking e di presentazione di prodotti volto al canale del fuori casa. Le sessioni, rivolte a ristoratori indipendenti, professionisti della ristorazione, catene di ristorazione professionale e colletiva, coinvolgono alcune aziende di settore di primaria importanza: Surgital, prima azienda italiana di pasta fresca surgelata, sughi surgelati in pellet e piatti pronti surgelati; Oleificio Zucchi; Famiglia Dallagiovanna che produce farine e miscele per ogni settore dell'Arte Bianca; Elena, marchio di Lactalis-Parmalat leader nel segmento panna, dessert, basi per gelato, latte, caseari; Fabbri 1905 con proposte ad hoc per pasticceria e gelateria artigianale, il mondo del fuori casa e il largo consumo, nonchè leader indiscusso degli sciroppi. Infine anche l'importante partecipazione di Pasta Rummo, unica certifcata per la tenuta in cottura (Bureau Veritas N. 385/003), nonchè approvata dalla Federazione Italiana Cuochi grazie all'esclusivo Metodo a Lenta Lavorazione®.
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Ômina Romana Identità di un vino
Interprete di un antico territorio Ômina Romana innalza le caratteristiche di una terra, il Lazio, con passione e idee innovative, proponendo nuove varietà di vino. Un vigneto a conduzione familiare, fondato nel 2004, trova ampio respiro nei Colli Albani, vicino a Velletri, al fine di creare vini di qualità secondo la filosofia di Ômina Romana: orientarsi verso un mercato lontano dalla produzione di massa, una produzione caratterizzata da acini piccoli nella dimensione, ma molto ricchi di aromi.
Grazie ad una coltivazione in armonia con la natura e alle più moderne innovazioni scientifiche, Ômina Romana dà vita ad undici varietà di uve rosse e a sette varietà di uve bianche che vengono trasformate in un vino elegante ed esclusivo, di altissima qualità. Numerosi i vitigni impiantati, da quelli tipici della tradizione vitivinicola del Lazio come il Bellone fra i bianchi e il Cesanese fra i rossi, a quelli di respiro internazionale come Viognier e Chardonnay tra le tipologie a bacca bianca, Merlot, Syrah, Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc fra quelle a Qualità, passione attenzione ai dettagli bacca rossa. Insieme alla famiglia in perfetta armonia con la natura. Börner lavorano in Ômina Romana Questa è Ômina Romana, azienda vi- l’enologo di fama internazionale Clautivinicola nata nel 2004 per iniziativa dio Gori e l’agronoma Paula Pacheco. della famiglia Börner, situata sui Colli Tutti i prodotti Ômina Romana possono Albani a circa 40 km da Roma. Con i essere acquistati online sul sito suoi 80 ettari e la particolare collo- www.ominaromana.com o in una secazione geografica, Ômina Romana lezione di ristoranti esclusivi in Gerriporta ai più alti livelli qualitativi le mania, Austria, Italia, Svizzera, UK, tradizioni e le eccezionali caratteristi- USA e Asia. che del territorio laziale che la ospita. www.ominaromana.com/it/
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Mezze Maniche Rigate con porcini e verza PREPARAZIONE
INGREDIENTI
18 minuti per la preparazione + 12 minuti per la cottura
per 4 persone
Tagliate la verza a listarelle, fatela bollire per 5’ e tenetela da parte. In una casseruola rosolate nell‘olio lo scalogno tritato, aggiungete i funghi tagliati a lamelle e cuocete per 2’. Aggiungete il brodo, la verza e fate cuocere 6’. Unite il basilico, la salvia e il prezzemolo tritati e aggiustate di sale e di pepe. Rosolate in padella per 4/5minuti il prosciutto crudo tagliato a listarelle fino a renderlo croccante. Cuocete le Mezze Maniche Rigate in abbondante acqua salata, scolate al dente e condite con la salsa ai funghi e verza. Guarnite con il prosciutto croccante e una spolverata di Parmigiano Reggiano prima di servire.
350 g di mezze maniche rigate Barilla Selezione Oro Chef 200 g di funghi porcini freschi 150 g di verza 80 g di prosciutto crudo 40 g di Parmigiano Reggiano 2 dl di brodo vegetale 2 cucchiai di olio extravergine di oliva 1 scalogno basilico q.b. salvia q.b. prezzemolo q.b. sale e pepe q.b.
Mezze Maniche Rigate con porcini e verza PREPARAZIONE
INGREDIENTI
18 minuti per la preparazione + 12 minuti per la cottura
per 4 persone
Tagliate la verza a listarelle, fatela bollire per 5’ e tenetela da parte. In una casseruola rosolate nell‘olio lo scalogno tritato, aggiungete i funghi tagliati a lamelle e cuocete per 2’. Aggiungete il brodo, la verza e fate cuocere 6’. Unite il basilico, la salvia e il prezzemolo tritati e aggiustate di sale e di pepe. Rosolate in padella per 4/5 minuti il prosciutto crudo tagliato a listarelle fino a renderlo croccante. Cuocete le Mezze Maniche Rigate in abbondante acqua salata, scolate al dente e condite con la salsa ai funghi e verza. Guarnite con il prosciutto croccante e una spolverata di Parmigiano Reggiano prima di servire.
350 g di mezze maniche rigate Barilla Selezione Oro Chef 200 g di funghi porcini freschi 150 g di verza 80 g di prosciutto crudo 40 g di Parmigiano Reggiano 2 dl di brodo vegetale 2 cucchiai di olio extravergine di oliva 1 scalogno basilico q.b. salvia q.b. prezzemolo q.b. sale e pepe q.b.
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Campania storie di vitigni E di imprenditori arditi 16
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di Alessandra Piubello Una settimana dedicata a degustazioni, visite aziendali e approfondimenti, con laboratori e retrospettive, sui vini bianchi campani. “Campania Stories I vini bianchi” ha tratteggiato in sette giorni un profilo del complesso universo enologico campano. Un’ottantina di aziende locali ci hanno accompagnato nel percorso formativo organizzato dai bravissimi Diana Cataldo e Massimo Iannaccone dell’agenzia di comunicazione Miriade & Partners.
buone occasioni per analizzare alcuni vini, in particolare il Pallagrello, la Falanghina, il Greco, il Fiano.
Pallagrello bianco Questo vitigno è stato considerato a lungo come sinonimo di Coda di Volpe bianca, con il quale condivide una complessa vicenda ampelografica. In realtà, le due varietà sono molto diverse. Attualmente è presente, in modo diffuso, nella sola provincia di Caserta e prevalentemente nei comuni di Caiazzo, Castel Campagnano, Castel di Sasso e zone limitrofe, dove dà origine a produzioni Un viaggio alla scoperta della Campania enologiche di spiccata tipicità e crescente Felix in bianco, partito dalla Costa interesse. Il Pallagrello bianco è un vino d’Amalfi per concludersi in Irpinia. Un grasso, alcolico. Sul piano aromatico quadro difficile da delineare, conside- non è eccessivamente provvisto di terpeni rando che è assai complicato tracciare e note floreali, piuttosto sentori di mela, un profilo univoco (e meno male) di un ananas e vaniglia che lo avvicinano allo territorio che dal nord, Roccamonfina, Chardonnay. Risulta caratterizzato da al sud, al confine con la Basilicata, si note di frutta esotica, albicocca e miele estende per trecento chilometri. I seminari ben evidenti. Per i suoi caratteri complessivi tenuti da Paolo Cristofaro, Gianpaolo il Pallagrello bianco è idoneo anche alla Gravina, Mauro Erro e gli andamenti produzione di vini in barrique. In particodelle annate 2011 e 2012, fornite dal- lare, in degustazione, abbiamo apprezzato l’enologo Gennaro Reale, si sono rivelati il Pallagrello dell’azienda Terre del Principe
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si traduce in produzioni enologiche di grande pregio. Infatti, la Falanghina è il vitigno prevalente nella base ampelografica di alcuni dei più apprezzati vini bianchi Doc della Campania, come il Campi Flegrei, il Falerno del Massico, il Capri, il Sorrento, il Costa d’Amalfì, e poi, nel Sannio, Guardiola, Sant’Agata dei Goti, Sannio, Solopaca e Taburno, e la tipologia bianco della Doc Galluccio. Si contano due varietà di Falanghina. Quella originaria dei Campi Flegrei e quella cosiddetta di “tipo beneventano”, a parte numerosi cloni. Due varietà ben diverse, sia a livello di indagine ampelografica, sia genetica. A cominciare dalla forma del grappolo: cilindrico, quello dei Campi Flegrei, conico-piramidale il beneventano. L’acino è arrotondato nel primo caso ed ellittico nel secondo, l’acidità del mosto è bassa per l’uva napoletana ed elevata per quella del Sannio. Le due diverse direttrici ebbero due padri che la recuperarono negli anni Ottanta: da una parte Leonardo Mustilli dell’azienda Mustilli di Sant’Agata dei Goti di Benevento e dall’altra Gennaro Martuscello dell’azienda Grotta del Sole di Castelcampagnano, provincia di Caserta, sia il Fontanavigna 2012 (solo acciaio), equilibrato e piacevole, sia Le Serole 2011 (barrique di rovere francese), più complesso, intenso e persistente. Peppe Mancini e Manuela Piancastelli, estimatori di Pallagrello da decenni, si dedicano alla loro azienda, Terre del Principe per l’appunto, dal 2003, decidendo anche di avvalersi della consulenza del professor Luigi Moio. I loro Pallagrello sono un paradigma. Falanghina La Falanghina, un vitigno citato sempre al femminile, sembra essere nata con la viticoltura campana, se si ritiene fondata l’etimologia del suo nome che Murolo pensa di poter derivare dal termine “phalangae”, il palo di legno intorno al quale cresceva la vite, che rappresenta la linea di demarcazione tra viticoltura greca e latina. La prima citazione si deve a Nicola Columella Onorati che, nel 1804, l’inserisce tra “lle uve buone a mangiare”. La storia secolare di questa varietà oggi
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di Quarto a Napoli. In Campania la Falanghina è il vitigno che fa più fatturato da ormai quindici anni. Il vero boom fu negli anni Novanta, ma allora si trattava di una Falanghina generica a basso prezzo. Un successo di vendite che non si accompagnò con quello della critica enologica italiana (diversamente da quella estera). Attualmente i 1.500 ettari, (di cui due terzi nel beneventano), sono appannaggio di circa duecento aziende. Le sue caratteristiche principali sono la trasversalità e versatilità: naso dolce e delicato, fruttato (tropicale, mela annurca, melograno) con sfumature vegetali (felce) e floreali (tuberosa), struttura beverina che ben si presta ad essere spumantizzata e anche a produrre vini passiti. Dotata di un’acidità sostenuta, normalmente affina in acciaio ma ben si integra anche con il legno. La Falanghina dei Campi Flegrei è più minerale e spinge meno sull’acidità, esprimendosi più sulle note sapide e saline. In degustazione, particolarmente interessante, per l’area Campi Flegrei, il Cruna Delago 2011 dell’azienda La Sibilla di Bacoli. Un vino sapido, una salinità
che ci rimanda al mare, minerale (i terreni sono di origine vulcanica con presenza di ceneri e lapilli; le vigne hanno una sessantina d’anni) e fruttato (pesca noce) e con nuance di erbe aromatiche (timo). Anche la Falanghina 2011 di Contrada Salandra di Pozzuoli (vigne fra i trenta e quarant’anni su terreni ricchi di sabbia, limo, argilla) mostra un piacevole equilibrio centrato su note sapide e mediterranee, coniugando carattere e bevibilità. Nell’areale del Sannio invece, spicca Fattoria La Rivolta (certificata biologica) di Torrecuso, nel beneventano, con la sua Falanghina del Sannio Taburno 2012, fresca e citrica, dalla beva scorrevole, percorsa da un’acidità vibrante e gradevole. Anche Fontanavecchia di Torrecuso, annata sempre 2012, si conferma, con una prova significativa: netta, ficcante, immediata nella sua essenziale linearità, da bere spensieratamente. Greco “Color giallo paglierino lucido; bouquet folto, continuo, soave; sapore secco senza asperità, nutrito e tuttavia nervoso,
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stoffa delicata ed elegante; con la spigola in bianco ci ha fatto l’amore”. Così, nel 1980, scrive del Greco Veronelli, il più autorevole tra i giornalisti di enogastronomia. Sembra che l’origine del vitigno Greco sia da ricercare nel gruppo delle Aminee, viti greche lodate anche da Virgilio, forse introdotte dalla Tessaglia e coltivate nell’Ager Falernus e alle falde del Vesuvio. Ferrante (1927) ricorda come, dopo due millenni d’intensa coltivazione, il Greco sia diventato raro sulle pendici del Vesuvio e sui colli di Sorrento e si sia diffuso soprattutto in Irpinia, più precisamente a Tufo e nei paesi limitrofi. E proprio nell’avellinese il Greco ha rinnovato, a partire dal ‘900, i successi enologici dell’antichità. Dagli anni Ottanta in poi, sia in Italia che all’estero, ne viene evidenziato il carattere, la complessità e l’originalità. Non si può confondere con nessun altro perché è ricco di tannino come fosse un rosso. È il più rosso dei bianchi. È un vitigno agronomicamente difficile da gestire, a causa del grappolo compatto, della facilità al marciume, della sensibilità crittogamica, della buccia sottile; anche in cantina non è semplice: per l’acidità elevata, per la ricchezza polifenolica che rischia di far ossidare. Esistono due scuole di pensiero per la sua vinificazione: una prevede di lavorare in riduzione di ossigeno per preservare gli aromi, l’altra si occupa di preossidare il mosto per renderlo più stabile nel tempo. Nella pratica convivono interpretazioni con intensità fruttate ed altre nelle quali il registro sulfureo e minerale si impone sulle note del frutto. Il vitigno esprime struttura, acidità elevata, sapidità e mineralità, ma anche un carattere rude, selvatico, poco raffinato. Generalmente non è un vino longevo, ma a tavola è estremamente versatile. Riconosciuto con la Docg nel 2003 (nel 1970 la Doc), attualmente viene prodotto in otto comuni, su 800 ettari, per un totale di cinque milioni e mezzo di bottiglie. I suoli sono di matrice argilloso-calcarea di origine vulcanica, ad altitudine compresa fra i trecento e i seicento metri. Campania Stories ci ha proposto una trentina di assaggi, fra 2012 e 2011, e un’interessante retrospettiva delle annate 2008 e 2003. Ci concentriamo sulla batteria del 2012,
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la più numerosa, e segnaliamo alcune cantine che ci hanno colpito. In primis il fuoriclasse Benito Ferrara di Tufo, con il Vigna Cicogna 2012. Vino avvolgente sul tema portante della mineralità, quella di roccia bagnata dal mare. Accenti erbacei e agrumati con tocchi speziati di pepe bianco e muschio, si esprime scattante ed energico, con una salinità che arricchisce il gusto e ne prolunga l’intensità. Altro campione il Greco 2012 dell’azienda Pietracupa di Monfredane (Av): Sabino Loffredo è riuscito a darci un’interpretazione che si impone per originalità, finezza, eleganza. Qualche cenno sulfureo, una carica salina e minerale che si esprime a lungo, integra. Da seguire nell’evoluzione in bottiglia. Di Prisco, di Fontanarosa (Av), Greco 2012: naso ancora in evoluzione, con vene sulfuree e agrumate, al bicchiere abbisogna di tempo, in bocca non è immediato, resta un po’ sulle sue, poi si rivela con equilibrio, unendo carattere e struttura. Per l’annata 2011, da segnalare il Greco Terrantica Etichetta Bianca de I Favati, di Cesinali (Av) ampio e persistente e il Greco Scipio 2011 delle Cantine Di Marzo di Tufo, sulfureo e teso. Fiano I pareri e le teorie riportati circa la sua provenienza, le caratteristiche ampelografiche e le aree di coltivazione, sono spesso discordi; ma tutti, nessuno escluso, “pone in dubbio che il vitigno Fiano, per i rilevanti pregi del suo vino ha origini che si perdono nella notte dei tempi” (Vitagliano 1989) e tutti concordano con Fraio (1876) che indica nell’utilizzo del Fiano “il miglior modo per avere un vino dilicato e ricco di aroma non comune, anzi se di queste uve io tengo gran conto è appunto per l’aroma che comunicano al vino”. E proprio questo, il “dilicato e ricco di aroma” è l’elemento che ha decretato il successo del Fiano non solo in Italia, ma nel mondo. Il Fiano ha trovato la sua piena valorizzazione in Irpinia, dove dà origine al vino Fiano di Avellino (già Doc dal 1978, dal 2003 Docg). Le uve devono essere Fiano per almeno l’85%; possono concorrere, fino ad un massimo del 15%, uve Greco, Coda di Volpe e Trebbiano. Ad onor di cronaca va
detto che se non fosse stato per l’azienda Mastroberardino e il comprensorio di Lapio ad Avellino, il Fiano avrebbe rischiato di scomparire. La complessità e l’armonia di questo vino trovano riscontro nei puntigliosi studi condotti da Moio (2002) sull’aroma del Fiano: “I principali descrittori sono i seguenti: mela, banana, tiglio, rosa, menta, nocciola, mandorla e miele. Con l’invecchiamento aumentano la complessità aromatica e le citazioni di finocchietto, menta, tiglio, ginestra, pera, nocciola, mandorla, acacia, miele. L’aromagramma del Fiano è risultato caratterizzato da trentanove picchi odorosi che sono in perfetta armonia tra loro”. Evitiamo dunque di cadere nella classica letteratura metropolitana che associa questo vino alla sola nocciola tostata. E, già che ci siamo, anche con la diceria propagata che il nome derivi dalla caratteristica, propria di quest’uva dal dolce profumo, di attirare sciami di api nelle vigne. L’area di produzione comprende 26 comuni, tutti in Irpinia. I terreni sono caratterizzati dalla presenza di argilla (anche il 50% della terra fina) con scarsa presenza di scheletro siliceo-calcareo, anche se spesso frammista a limo o sabbia. Questa ricchezza d’argilla costituisce un fattore molto positivo per la viticoltura poiché contrasta i periodi di siccità estiva con una maturazione più regolare dell’uva ed un suo buon contenuto di acidità fissa. Il clima della zona è influenzato dalla sua orografia collinare e dalla presenza di numerosi boschi che attenuano i picchi di temperatura soprattutto durante l’estate. Ciononostante gli inverni sono rigidi con numerose precipitazioni nevose e nel periodo lugliosettembre si verificano escursioni termiche
giornaliere molto accentuate. Una caratteristica del Fiano è la sua capacità di invecchiamento, dote riscontrata negli assaggi di Campania Stories, con le annate 2008 e 2003. Il tempo lo rende più complesso, dandogli note iodate e tostate. Nell’annata 2012 e 2011 sono emersi alcuni nomi, anche se la degustazione dei 33 campioni in assaggio, ha evidenziato un panorama di alto livello con caratteristiche di piacevolezza comuni. In particolare, per il 2012, l’azienda Colli di Lapio di Lapio, punta di diamante di quest’area vocata, non ha tradito le aspettative, confermandosi interprete eccellente. Il suo Fiano dalla florealità spiccata, ha una beva scorrevole: sapido, agrumato, teso, esalta la sua giovinezza fondendo note di erbe e mineralità per offrirsi cristallino e lineare. Ciro Picariello di Summonte, presenta un vino dal naso timido, che si concede lentamente, mentre in bocca mostra tutta la sua freschezza acida, chiudendo con una lunga scia sapida. Pietracupa ha notevole stoffa gustativa e come sempre non deluderà, va atteso ancora un po’. Terre di Dora dell’azienda Terredora di Montefusco, equilibrato e armonico, unisce sapidità ed eleganza. Piacevoli assaggi anche quelli di Villa Raiano di San Michele di Serino con Alimata, fine e netto; Contrada Michele di Candida con Selvecorte, rotondo e appagante. Per il 2011 belle prove per Rocca del Principe, espressivo e gustoso; per I Favati con Pietramara Etichetta bianca, sontuoso ed elegante; per Salvatore Molettieri con il suo Apianum, scontroso all’apparenza, dimostra poi una profondità generosa; per Villa Diamante con Vigna della Congregazione, avvolgente e piacevole. Artù n°61
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Consorzio Vini Alto Adige Uniti si migliora
Qui sopra: il vigneto di M체ller Thurgau Feldmarschall von Fenner poco prima della vendemmia.
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I produttori, ossia le cantine sociali, le tenute e i vignaioli indipendenti, sono per la quasi totalità raggruppati in un’unica associazione con l’impegno di migliorare costantemente la qualità, unendo know-how, competenze, collaborando tra loro e sfruttando, in questo modo, le risorse comuni. Il presidente Anton Zublasing che abbiamo incontrato di recente ha confermato: “Il Consorzio, nato nel 2007 con lo scopo di valorizzare e proteggere i vini a denominazione controllata della zona, segue tutte le operazioni di marketing, gli eventi sul territorio altoatesino, nazionale e internazionale, dedicando alcuni momenti alla stampa specializzata”. Due incontri svolti negli ultimi mesi sono di particolare interesse. Il primo dei due è stata la rassegna, rivolta ad appassionati e operatori, di tutti i vini altoatesini che si sono aggiudicati premi da parte delle guide enolodi Giovanna Moldenhauer giche 2014. L’evento si è tenuto presso il Parkhotel Laurin nel centro storico di Il territorio altoatesino dedicato alla Bolzano. È stato un affascinante percorso viticoltura, esteso dai piedi dei massicci sensoriale nel mondo dei Pinot, siano alpini alle valli, è interpretato con com- essi Bianco Grigio o Nero, del Gewürztrapetenza dai suoi vignaioli che sanno miner e del Sauvignon, della Schiava e come evidenziare al meglio le peculiarità del Lagrein senza dimenticare il Moscato delle 20 diverse varietà alloctone e au- Giallo, il Müller Thurgau, il Sylvaner e toctone che si trovano nella provincia. tutti gli altri vitigni che l’Alto Adige ospita.
Un evento che ha dimostrato come sia ampia ed eccellente la proposta che viene dal suo territorio. Il direttore marketing del Consorzio Werner Waldboth, presente alla manifestazione, ha dichiarato: “Anche quest’anno la lista dei nostri vini premiati è lunga considerato che 104 etichette hanno ricevuto un totale di 137 riconoscimenti ai massimi livelli. Due terzi dei vini sono bianchi, in particolare il Gewürztraminer seguito dal Pinot Bianco e Sauvignon. Tra i rossi spicca in particolare una varietà autoctona, il Lagrein, poi il Pinot Nero e, ciò che ci fa particolarmente piacere, la Schiava varietà autoctona altoatesina”. Due vini, in particolare, hanno ottenuto quattro riconoscimenti dalle diverse guide: il Terlano Pinot Bianco riserva Vorberg 2010 della cantina omonima e il Müller Thurgau Feldmarschall von Fenner 2011 di Tiefenbrunner. La riserva Vorberg proviene dalla zona omonima tra i 500 e 900 metri s. l. m. dove il terreno, con quarzo porfido e un’alta percentuale di sabbia leggera, dona al vino un’impronta territoriale unica e una straordinaria longevità. L’impianto del Müller Thurgau, invece situato a più di 1.000 metri di quota, gode del microclima particolare dell’altopiano di Favogna sopra Magrè. Artù n°61
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Questo vino dallo spettro olfattivo variegato e intenso ha in bocca struttura, acidità e una mineralità molto tipica. Tra le etichette presenti era emozionante lo Spumante Riserva Brut Hausmannhof 2004 di Haderburg da 100% Chardonnay, con passaggio in barrique e affinamento su lieviti per più di 90 mesi. Sono arrivate conferme con tre premi per il Riesling Windbichel 2011 Unterortl di Martin Aurich in Val Venosta, frutto della selezione di un vigneto a 750 metri s. l. m., il Pinot Nero Riserva Trattmann 2010 di Girlan fra le più belle espressioni altoatesine del vitigno, il Lagrein Riserva Abtei Muri 2010 della Cantina Convento Muri le cui uve provengono da vigneti con alcuni ceppi del 1933 nella zona vocata di Gries, sobborgo di Bolzano. Il secondo appuntamento del Consorzio ha portato nelle sale del ristorante stellato di Carlo Cracco a Milano una degustazione in abbinamento ad alcune proposte gastronomiche dello chef. È stato possibile valutare con la presentazione dei vini da parte di protagonisti altoatesini cinque bollicine metodo classico di montagna,
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altrettanti Sauvignon e Gewürztraminer. Josef Reiterer, presidente Associazione Produttori Spumante Alto Adige, ha dichiarato: “Noi facciamo i nostri vini come i cugini dello Champagne, utilizzando per le basi Pinot Bianco, Chardonnay, Pinot Nero. Grazie al clima della nostra provincia e ai terreni su cui sono allevate le vigne riusciamo a ottenere mineralità, corpo, eleganza con risultati di grande soddisfazione”. Le uve dedicate alla spumantizzazione si trovano dai 500 sino a 1.000 metri s.l.m, e questo consente loro di sviluppare un’ottima acidità che garantisce, anche dopo la rifermentazione in bottiglia, una bella freschezza. Fra le etichette di metodo classico abbiamo scelto la Cuvée Marianna extra brut di Arunda, con un bouquet particolare e complesso dato dal passaggio in barrique dello chardonnay e da 48 mesi sui lieviti, e il Comitissa Gold Brut Gran Riserva 2002 di Lorenz Martini ottenuto da uve Pinot Bianco e Chardonnay, che ha riposato 10 anni prima della sboccatura nel gennaio del 2013. Il vino era equilibrato
nel suo spettro olfattivo, degustativo. La varietà Sauvignon, che rappresenta il 7% dell’intero parco vitato altoatesino, acquista interessanti profumi erbacei e fruttati. Ignaz Niedrist, titolare dell’omonima cantina, ha sostenuto durante l’evento: “Nei nostri vigneti abbiamo due differenti tipi di terreno in cui il vitigno si esprime con grandi risultati. Alcuni suoli porfirici sono più acidi, altri sono invece più calcarei. Le caratteristiche di quest’uva sono quelle di un’ottima persistenza, ampiezza dei profumi, leggera aromaticità, e soprattutto grande capacità di abbinamento a tavola”. L’assaggio, in particolare del suo Sauvignon 2012, ci ha colpito per raffinatezza, equilibrio, carattere, persistenza. Tra le altre etichette il Quarz 2010 di Terlano era proposto nel formato magnum. Il vino aveva una profondità olfattiva, un assaggio armonico, pieno, con l’inconfondibile impronta sapida data dal territorio. Il terzo vitigno protagonista della manifestazione rappresenta ben l'11% della superficie vitata. Willi Stürz, direttore tecnico della Cantina Tra-
min, ha introdotto la selezione dei Gewürztraminer: “Questa varietà si può dire che è fra le più antiche che abbiamo in Alto Adige. Vitigno molto potente, ha una peculiarità davvero unica, poiché con la sua maturazione negli anni si accompagnano freschezza e mineralità al punto che più è maturo più è fresco”. Per sottolineare queste caratteristiche il Crescendo 2012 di Ritterhof dagli esplosivi profumi si contrapponeva alle note di raffinata concentrazione delle selezioni Kastelaz di Elena Walch e Nussbaumer di Tramin, entrambi del millesimo 2009. Gli altri due Gewürztraminer presenti all’evento erano una vendemmia tardiva e un passito Canthus 2010 di Colterenzio. Vino concentrato, intenso, era fresco, vivace, elegante. Perfetto in accompagnamento all’assaggio di "cioccolato bruciato e prezzemolo" di Carlo Cracco per concludere, nel migliore Qui sotto: i 15 vini della degustazione al ristorante stellato di Carlo Cracco. dei modi, una bella degustazione.
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San Biagio, la birra diventa accademica
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di Stefano Bonini L’Accademia San Biagio nasce nel contesto dell’Antico Monastero di San Biagio, un ex complesso monastico risalente al 1333 e immerso nell’incontaminato Parco del Monte Subasio. Il progetto dell’Accademia prende forma all’interno di Move Group, società fondata nel 2008 dall’attività di Assisi Resort, un gruppo con tre strutture ricettive di proprietà ubicate nello splendido scenario del parco del Monte Subasio. In questo luogo un po' speciale, si è sviluppato un nuovo modo di fare ospitalità che ha affiancato alla ricettività turistica le produzioni agroalimentari biologiche d’eccellenza. Oggi il cuore dell’Accademia è un’azienda agricola e biologica di 150 ettari, a cui si affianca l’attività relativa alla selezione e distribuzione di eccellenze agroalimentari in tutto il territorio italiano, con oltre 200 referenze f&b e 100 selezionatissimi produttori di tutta la Penisola. Tutti ligi al “Vademecum del produttore eccellente”, un di-
sciplinare che prevede una serie di impegni morali ed etici più che produttivi, con il quale l’Accademia stabilisce alcune regole: quella del giusto prezzo, del giusto tempo, della sostenibilità, del fatto a mano, dell’innovazione e tradizione, dell’etica e della morale. Il loro rispetto contribuisce a creare un grande prodotto e un accordo soddisfacente tra produttore e selezionatore/distributore. Le eccellenze che portano il marchio dell’Accademia sono prima di tutto i “salumi del Subasio”, prodotti solo con suini neri del Subasio allevati biologicamente. Poi i formaggi, in particolare di fossa (un’antica tradizione che non è solo di Talamello o Sogliano al Rubicone, ma anche umbra e toscana), oltre ai pecorini in foglia e cenere. A questi si aggiungono le selezioni di conserve, la pasta, i legumi e i cereali, le gelatine, l’olio extravergine di oliva e i vini naturali, i dolci tipici, il miele, le salse, la frutta sciroppata … ma soprattutto la birra, vera e propria punta di diamante delle produzioni dell’Accademia. La visita al birrificio San Biagio è già di per sé un’esperienza mistica. L’ex
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monastero oggi è una realtà commerciale “diffusa”, ma la magnifica e placida campagna umbra in cui è immerso offrono il contesto ideale per un progetto alquanto speciale. Qui anche il mastro birraio ha qualcosa di diverso, quasi zen. Giovanni Ridolfi sembra infatti uomo di altri tempi e altri costumi. Con una rassicurante barba più bianca che grigia, con pacatezza ed esperienza (ha lavorato per diversi anni alla Heineken), gestisce tutta la produzione del birrificio affiancato da un paio di giovani e fidati collaboratori.
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La storia della birra in questo luogo si incrocia con quella di Benedetto, il monaco tanto amato dalla tradizione trappista belga, che sosteneva la produzione della birra come risorsa della terra. Oggi è ancora così. “Perché – come ci dice Cesare Capedri, amministratore delegato del gruppo – qui la birra trasmette ancora i valori di chi la produce e valorizza il territorio in cui nasce. La Birra San Biagio è un perfetto esempio di valori locali e filiera corta. Grande attenzione viene posta infatti nella scelta
delle materie prime: malti d’orzo autoprodotti, luppoli nazionali, lieviti di alta qualità e la locale acqua di Nocera Umbra, con le sue proprietà terapeutiche”. Non filtrata e non pastorizzata, la San Biagio è una birra che si rifà alla tradizione brassicola: dopo la prima fermentazione nei tini, la birra viene imbottigliata e fatta rifermentare. “Realizziamo cinque birre – continua a raccontarci Cesare Capedri – per una produzione complessiva di circa 250mila bottiglie (distribuite da Partesa in quasi tutta Italia) e un fatturato di 1,3-1,4 milioni di euro. Grandi soddisfazioni arrivano anche dal mercato internazionale rispetto al quale è curioso notare come sia la Germania, patria della birra, il paese che sta regalando le maggiori soddisfazioni”. Trasversali e ideali per ogni abbinamento, le birre San Biagio hanno nella Monasta il prodotto di punta (è anche la birra più venduta): è una doppio malto, ambrata… di evidente ispirazione trappista. Second best della produzione in termini di vendite è la Verbum, una weizen, una birra di frumento chiara, fresca e leggera. Ci sono poi la Gaudens, una pils, forse il prodotto più “facile” e commerciale di tutti, adatta ad ogni abbinamento; la Ambar invece è una dunkel che ha vinto la medaglia d’oro ai “Mondiali della Birra” nel 2011, spicca per l’aroma intenso in cui vengono esaltate le note del caffè, del cioccolato e del caramello … è un’eccellente compagna per dolci al cioccolato. Infine c’è l’Aurum, una strong ale doppio malto, ideale accompagnamento per secondi di carne, salumi e formaggi stagionati. Ma non è finita qui perché all’orizzonte ci sono altre due birre: una saison ambrata e una saison chiara ad alta fermentazione che saranno distribuite solamente nel canale GDO. Ma la birra sarà anche il cuore e l’anima di altri progetti legati al Monastero, con percorsi tematici ed esperienziali che uniranno la birra e il benessere! Ogni birra un’esperienza, un percorso di gusto e sensi che riconduce al territorio e alla storia di quest’angolo speciale di Umbria … spesso dimenticato! Artù n°61
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Gourmet a St. Moritz Chef stupefacenti 30
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Il St. Moritz Gourmet Festival, apertosi al Kempinski Des Bains con un memorabile Grand Opening, si è concluso con il BMW Gourmet Finale, nell’elegante e calda tenda VIP sul lago ghiacciato di St. Moritz. La settimana del festival in Alta Engadina, ha deliziato circa 4.000 gourmet da tutto il mondo, continuando la sua storia di successo. E confermando anche il valore della pattuglia tedesca di chef pluristellati, da Christian Scharrer ad Andree Köthe, a Tim Raue. Oltre a Yoshihiro Takahashi, tristellato di Tokyo. Andree Köthe, Tim Raue e Christian Scharrer dalla Germania, Mauro Colagreco (italiano) e Yoann Conte dalla Francia, Yoshihiro Takahashi dal Giappone, Moshik Roth dai Paesi Bassi e Wolfgang Puck, austriaco, dagli Stati Uniti, per un totale di 17 stelle Michelin, sono stati gli chef ospiti che hanno portato il mondo della montagna ad una vera ebollizione di cucine. Una ricetta davvero originale quella che da 21 anni viene elaborata tra il freddo e la neve di St. Moritz. E la neve qui, quest’anno, ne ha
messa tanta, da far chiudere il Passo del Maloja per 36 ore. Cosa che non avviene spesso. In nessun altro luogo al mondo è possibile sperimentare una tale varietà di eventi eccezionali con livelli alti di master chef, sintetizzando il motivo per cui gli organizzatori, ancora una volta, hanno ottenuto un grande successo: una miscela di eventi di alto livello in grado di richiamare ogni anno molte persone che sono anche gli affezionati che non vogliono mancare. L’arte culinaria degli otto ospiti maestri ha giocato un ruolo fondamentale. Il nativo austriaco Wolfgang Puck ha dimostrato in modo impressionante la sua unicità di cucina moderna dove opera, in California. Yoshihiro Takahashi, tristellato Michelin di Tokyo, ha offerto esperienze multisensoriali con la sua moderna interpretazione della cucina Kaiseki e Tim Raue, bistellato Michelin da Berlino, ha deliziato con la sua eccezionale filosofia culinaria "East meets West". Allo stesso modo, un altro chef tedesco, Christian Scharrer, due stelle Michelin, Koch des Jahres 2011, da Travemünde, ha dato ai suoi ospiti la sua spettacolare armonia di gusto e di presentazione, in linea con la nuova cucina creativa tedesca. Andree Köthe, lo chef tedesco di Nurberg, pure lui due stelle Michelin, cuoco dell’anno 2012, ha offerto agli ospiti il suo magico incantesimo di cucina accattivante di spezie e piatti di verdure. L’italiano Mauro Colagreco, origini abruzzesi, ha rotto i confini tra terra e mare con il suo unico “nuovo stile naturale”. Il francese Yoann Conte si è ispirato direttamente Artù n°61
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dalla natura per la sua “arte della cucina” e, infine, Moshik Roth, dai Paesi Bassi, ha utilizzato tutte le sue tecniche di preparazione di cucina molecolare. Tutto è cominciato lunedì 27 gennaio con il Grand Opening, estremamente glamour, al Kempinski Grand Hotel Des Bains St. Moritz, offrendo le prime esperienze delle “isole gastronomiche”. Una location esemplare, con una perfetta organizzazione (al Kempinski il marketing è sempre stato uno dei punti di forza, grazie alla professionalità della tedesca Betina Welter) che ha offerto agli ospiti un ottimo esempio di come si fanno i vernissage di alto profilo. Gli ospiti sono stati viziati dal danese chef stellato Palle Enevoldsen, insieme al maestro chef locale Kurt Rössli dell’ Hotel Waldhaus di Sils-Maria, Engadina. Champagne pregiati, vini e liquori di qualità, hanno accompagnato le delizie culinarie e la festa al Kempinski è continuata
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con la band di musica dal vivo di Tom Marks & Friends creando un’allegra atmosfera, beneaugurante per i 400 ospiti. Nei giorni successivi, il programma ha offerto piacevoli momenti, potendo assaporare una cucina internazionale nelle sale degli eleganti ristoranti degli otto hotel partner del festival e senza dover viaggiare attraverso l’Europa o anche per gli USA o Kyoto. Al Gourmet Safari BMW, l’organizzazione del Gourmet festival ha poi condotto gli ospiti in un memorabile tour alla scoperta delle offerte degli chef ospiti, assaporando le creazioni direttamente nelle cucine del
Badrutt Palace Hotel. All’elegante Fascination Champagne, tenutosi al Suvretta House, con elegante accompagnamento di pianoforte, lo chef Moshik Roth, due stelle Michelin ad Amsterdam, si è ispirato ad una cena gourmet accompagnando il tutto con champagne millesimati di Laurent-Perrier. Presso l’Hotel Waldhaus a Sils-Maria, l’esperto di vini Jan Martel ha portato gli ospiti in un paradiso di vini durante l’evento World Class Wines, accompagnati da prelibatezze cucinarie di Kurt Rössli Waldhaus. Durante il Wine & Cheese Celebration, nella magnifica cantina dell’Hotel Steffani, il Maître Anthony, miglior affinatore di formaggio al mondo, ha personalmente servito gli ospiti con formaggi esclusivi e vini di degno abbinamento. Ad un’altezza di 2.486 m (con neve alta almeno due metri) Reto Mathis nel suo Ristorante a Corviglia ha servito Caviale & Seafood Blizzards. Da non dimenticare l’evento del Cioccolato Cult al Badrutt Palace Hotel, con le più belle creazioni di cioccolato di qualità dello chef pâtissier Stefan Gerber. E ancora, Sepp Fässler, il cioccolatiere della rinomata e tradizionale Confiserie Sprüngli, ha creato davanti agli ospiti la “Truffes du Jour” rivelando le sorprendenti composizioni ideate con Sprüngli Grand Cru di cioccolato. Infine, con una serata davvero impegnativa per gli spalatori di neve, si è tenuto il Grande BMW Gourmet Finale nell’elegante tenda VIP sul lago ghiacciato di St. Moritz. Tutti gli otto chef ospiti, insieme con gli chef locali del Festival degli
hotels partner, hanno preparato un eccezionale menu finale che è stato accompagnato da champagne e vini pregiati. In questo scenario da favola, c’è stata la proclamazione ufficiale di Marcel Lukas Flatscher, vincitore del concorso Giovani Talenti dell’Engadina. Forti di questo nuova edizione, l’annuncio che per il 2015 il St. Moritz Gourmet Festival sarà una “British Special Edition” con i migliori chef provenienti dalla Gran Bretagna dal 26 al 30 Gennaio. Tutte le informazioni dettagliate si possono trovare nel sito: www.stmoritz-gourmetfestival.ch R.L.
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Il Premio Tartufo di GUBBIO va a Claudio Di Bernardo
di Claudio Zeni È l’executive chef Claudio Di Bernardo, del ristorante “La Dolce vita” del Grand Hotel di Rimini (albergo 5 stelle lusso), storico albergo prediletto da Federico Fellini, il vincitore della quinta edizione del concorso gastronomico “Premio Tartufo di Gubbio”, che si è disputato nella città umbra.
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Il cuoco 47enne, abruzzese d’origini ma romagnolo d’adozione, ha proposto un menu (antipasto, primo e secondo) che valorizza i luoghi della sua vita, mare e montagna, deliziando la giuria presieduta da Bruno Gambacorta (Eat Parade Rai Due), composta oltre che dal nostro direttore Alberto Schieppati, da Roberto Vitali, Laura Colaicovo, Giancarlo Colombo, Antonio Castello, Ridolfi, Salvatore Marchese, con “Cremoso di zucca con cappuccino di latte e baccalà al tartufo bianco di Gubbio”; “Risotto cremoso al parmigiano reggiano, piccione e tartufo bianco di Gubbio” e “Il mare e la terra: rombo, porcini e tartufo bianco di Gubbio”. Da notare anche l’ottimo abbinamento cibo-vino che ha caratterizzato questa edizione del concorso di Gubbio grazie alla Cantina storica Torrevilla 1907 Oltrepò Pavese, che ha individuato come vino in abbinamento a tutto pasto il Cruasé Millesimato 2010, un rosato derivato al cento per cento da uve di Pinot Nero, di cui come si sa - l’Oltrepò Pavese è il primo produttore in Italia. Nella cerimonia finale sono stati assegnati anche il premio per il piatto che ha totalizzato il punteggio più alto, andato allo chef Fabrizio Barbero (Hotel Naskira dello Chalet Il Capricorno, Sauze D’Oulx, provincia di Torino) con la “Fonduta di Casa Savoia e tartufo bianco di Gubbio” e il premio speciale della stampa umbra, che è stato assegnato alle sperimentazioni del giovane chef Giacomo Ramacci
Nella foto in basso, da sinistra: Bruno Gambacorta, Roberto Bertini, Giancarlo Colombo, Claudio Di Bernando con il suo secondo e Claudio Zeni.
I magnifici sette chef con al centro Giancarlo Colombo della Cantina Storica Torrevilla 1907. del ristorante “Taverna del Lupo” di Gubbio. Oltre ai tre cuochi premiati, hanno partecipato alla gara altri quattro chef: gli eugubini Paolo Pascolini de “La Cia” (vincitore nel 2012) e Marco Urbanelli del Park Hotel Ai Cappuccini, insieme agli chef “ospiti” Giuseppe Di Iorio del ristorante “Aroma” di Palazzo Manfredi a Roma e Simone Bertaccini del ristorante "Santa Elisabetta" del Grand Hotel Brunelleschi di Firenze. Per quanto concerne il premio “Hanno onorato l’Umbria” edizione 2013, abbinato al concorso gastronomico “Tartufo di Gubbio”, esso è stato conferito a Carlo Falcinelli, manager del Gruppo Colussi, con la motivazione: "Folignate di origini e assisano di adozione, ha contribuito in maniera determinante
alla crescita di una delle principali realtà imprenditoriali umbre del settore alimentare". Soddisfazione per il successo dell’iniziativa per l’assessore al Turismo della Provincia di Perugia, Roberto Bertini: "Il tartufo bianco di Gubbio e umbro in generale, mostrano ogni anno di più l’importanza per i nostri territori di prendere il turista per la gola, di valorizzare l’ambiente naturale, le nostre città e il lavoro delle imprese del settore". Da sottolineare, infine, l’impegno delle organizzatrici dell’evento, Lucia Monacelli e Serena D’Ubaldo (E20comunicazione), nonché il sostegno dato all’iniziativa da Maria Carmela Colaiacovo del Park Hotel Ai Cappuccini e del commendator Rodolfo Mencarelli (Taverna del Lupo e Mencarelli Group).
Le magnifiche sette berrette bianche Fabrizio Barbero, chef del ristorante Naskira, cuore "gourmand" dello Chalet Il Capricorno di Sauze d'Oulx (To) è l’alfiere dell'HACM, Accademia dell’Alta Cucina di Montagna recentemente costituitasi allo scopo di favorire una accoglienza di qualità e la valorizzazione di cultura, tradizione alpina. Il capricorno è un hotel di charme, a 1800 metri di quota, sulle piste da sci della Via Lattea, dove la cucina "povera" di montagna è spunto per rivisitazioni che nobilitano le eccellenze gastronomiche piemontesi e valligiane. Simone Bertaccini è lo chef del Santa Elisabetta, il ristorante gourmet dell’Hotel Brunelleschi di Firenze, uno degli indirizzi gastronomici più interessanti sulla città del giglio. Situato in una sala intima con solo sette tavoli al primo piano della torre bizantina facente parte dell’hotel, alla location invidiabile aggiunge un’atmosfera ricercata e la piacevole cucina dello chef. L’Hotel Brunelleschi, recentemente rinnovato in uno stile
classico contemporaneo estremamente elegante, fa parte degli Esercizi Storici Fiorentini. Giuseppe Di Iorio, straordinario interprete della cucina italiana, è lo chef ristorante "Aroma" aperto sulla magnifica terrazza di Palazzo Manfredi, raro gioiello di eleganza e ospitalità che offre allo sguardo dei visitatori una vista unica sulla storia dell’umanità e di Roma. Le finestre e l’ampia terrazza panoramica dell’attico dell'Hotel 5 stelle si affacciano sul Colosseo, sui Fori Imperiali e sulla Domus Aurea. Aroma è stato riconosciuto dall’Accademia Americana con il premio 5 Star Diamond Award. Claudio di Bernardo è lo chef del ristorante “La Dolce Vita” del Grand Hotel Rimini, lo storico albergo e monumento nazionale, dimora prediletta del grande Federico Fellini e parte del gruppo Select Hotels Collection. Secondo una filosofia che considera il gusto e il buon cibo come un importante valore aggiunto al soggiorno in
albergo, il Grand Hotel Rimini offre ai suoi ospiti un esclusivo servizio di ristorazione, in grado di accontentare i palati più esigenti. Le varie sale del Ristorante "La Dolce Vita" sono decorate in stile Liberty. e abbellite da sontuosi lampadari veneziani. Giacomo Ramacci è il giovane chef della Taverna del Lupo di Gubbio, affiliata alla catena dei ristoranti del "Piatto del Buon Ricordo" e alla "Chaine des Rotisseurs". Il ristorante nel 1998 ha vinto il prestigioso premio "5 Stars Diamonds Award" e da oltre trent’anni è considerato uno dei migliori ristoranti dell'Umbria. Lo chef propone piatti ispirati dalla tradizione della cucina locale, di cui protagonista è il tartufo, accanto alla pasta fatta in casa e ad altre prelibatezze umbre. È possibile visitare la cantina dove invecchiano vini di annata. Marco Urbanelli è lo chef del Park Hotel ai Cappuccini di Gubbio, un ex monastero del XVII secolo sapientemente restaurato, che unisce, in una
felice ed equilibrata combinazione, antichi ambienti e nuovi comfort. Qui, lo chef ha avuto il merito di recuperare le ricette tradizionali ponendo grande attenzione nella scelta delle materie prime, aggiungendo un pizzico di fantasia e di talento, dando vita, così, a piatti deliziosi da gustare in compagnia di amici e delle persone più care, per un incantevole desinare in abbinamento all’ampia selezione di vini della cantina. Paolo Pascolini è lo chef del ristorante La Cia di Gubbio, immerso nel verde della montagna, a due passi dalla Basilica del patrono Sant'Ubaldo e nel cuore dell'Albero di Natale più grande del mondo, che ogni anno dal 7 dicembre al 10 gennaio accende il Natale eugubino. Dalle ampie vetrate del ristorante, affacciate sul panorama dei tetti in coppi rossi della città, si gode una fantastica vista della vallata e delle colline che le fanno da cornice, in un ambiente ricco di fascino, intimo ed accogliente, degno della serenità e della bellezza del luogo.
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di Elisa Facchetti Sta partendo alla grande l’ottava edizione di S.Pellegrino Sapori Ticino, l'atteso appuntamento con il meglio dell'enogastronomia svizzera e di tutta Europa. Da otto anni a questa parte, la manifestazione di respiro internazionale anima il meglio dell'ospitalità elvetica e richiama l’attenzione sulle eccellenze dell’offerta enogastronomica ticinese. In questo senso, è prezioso il contributo degli Chef di location prestigiose (gli hotel di Swiss Deluxe Hotels), interpreti di una cucina che richiama la clientela gourmet internazionale. Dobbiamo dare atto, come sempre, all'ideatore dell'evento, Dany Stauffacher, di avere saputo concretizzare un grande progetto: invitare e coinvolgere Chef internazionali e italiani in un'unica grande manifestazione con un fitto programma di eventi e serate, il tutto all'insegna della convivialità e, soprattutto, della rappresentazione della grande cucina. Ogni anno un tema diverso ha permesso di cogliere diverse sfaccettature dell'alta gastronomia, grazie al contributo di bravissimi Chef, cuore pulsante dell'evento. Dopo il successo delle precedenti edizioni, S.Pellegrino Sapori Ticino torna, per così dire, a casa: l'ottava edizione vedrà come palcoscenico la Svizzera, un tête-à-tête tra il meglio dell’enogastronomia ticinese e l’esclusività dell’hospitality Svizzera. “Sono fiero di presentare l’edizione 2014 della manifestazione S.Pellegrino Sapori Ticino che avrà come ospiti gli Swiss Deluxe Hotels, 38 dei migliori alberghi al mondo - afferma Dany Stauffacher -. Eccellenza dunque che si somma alle edizioni precedenti per un totale di 70
In alto lo chef Edgard Bovier del Lausanne Palace & Spa e il suo piatto “animelle in casseruola con piselli e fave, spugnole ripiene”. A lato l'ideatore dell'evento S.Pellegrino Sapori Ticino Dany Stauffacher. Nella pagina accanto: il castello di Morcote con le vigne. Artù n°61
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stelle Michelin e oltre 900 punti Gault&Millau in otto anni di attività. È bello vedere come gli enti turistici, da Mendrisiotto Turismo alla città di Lugano, da Maggiore Turismo a Bellinzona Turismo e fino a Ticino Turismo, ci sostengano e siano sensibili al tema dell’enogastronomia che, dopo il territorio, è il fattore più importante nella scelta di una meta di vacanza da parte di un turista e di conseguenza nella promozione turistica di una regione”. Dal 6 aprile all'11 maggio otto Chef di altrettanti hotel 5 stelle lusso del brand Swiss Deluxe Hotels (www.swissdeluxehotels.com), saranno invitati come prestigiosi ospiti per cucinare cene gourmet presso le cucine guidate dai principali esponenti ticinesi dell’alta gastronomia. A conferma del grande successo i numeri dell'entourage: 38 tra i migliori alberghi svizzeri, di cui 10 in attività da oltre 130 anni (come il Four Seasons Hotel des Bergues di Ginevra aperto addirittura dal 1834), 4.500 camere, 800.000 pernottamenti annui, 5.500 collaboratori e 153 ristoranti al loro interno, numeri che confermano l’eccellenza raggiunta da questo gruppo e la costante tendenza dei migliori alberghi di fregiarsi del nome di chef di alto livello, per far rivivere agli ospiti delle serate lo stesso spirito gourmet che
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anima i migliori hotel 5 stelle svizzeri fin dall’epoca della loro apertura. Dopo le due conferenze stampa di apertura dell'evento, seguite da due serate di gala al Widder Hotel di Zurigo il 17 marzo e al Lausanne Palace & Spa di Losanna il 19 marzo, il 6 aprile finalmente inizieranno le serate ticinesi della manifestazione, secondo un ricco programma di appuntamenti nelle varie città, e finiranno l’11 maggio (il programma completo al sito www.sanpellegrinosaporiticino.com). Ad aprire le danze una serata di gala iniziale dedicata agli Chef ticinesi: il padrone di casa René Nagy del Ristorante La Perla di Lugano il 6 aprile ospiterà Antonio Fallini, Egidio Iadonisi, Dario Ranza, Andrea Bertarini, Frank Oerthle, Alessandro Fumagalli e Salvatore Frequente. Esprimere il desiderio di raccontare il meglio dell'enogastronomia di qualità attraverso la migliore tradizione alberghiera elvetica, questo è lo spirito di S.Pellegrino Sapori Ticino, a cui si aggiungono le accattivanti interpretazioni contemporanee degli chef ospiti. 14 stelle Michelin e oltre 300 punti Gault&Millau durante tutta la manifestazione. Numeri vincenti a cui è d'obbligo dare un volto: Pierre Crépaud del LeCrans Hotel & Spa (Le Montblanc, Crans-Montana - 16 punti Gault&Millau) ospite di Andrea Bertarini presso il Conca Bella di Vacallo il 7 aprile; Roland Schmid del Grand Hotel Quellenhof & Spa Suites (Äbtestube, Bad Ragaz 17 punti Gault&Millau e 1 stella Michelin) ospite di Dario Ranza presso la Villa Principe Leopoldo di Lugano il 13 aprile; Andrea Migliaccio del Mont Cervin Palace (Capri, Zermatt - 16 punti Gault&Millau, 1 stella Michelin) ospite di Egidio Iadonisi dello Swiss Diamond Hotel di Vico Morcote il 14 aprile; Heiko Nieder del The Dolder Grand (The Restaurant, Zurigo - 18 punti Gault&Millau, 2 stelle Michelin), ospite di Salvatore Frequente presso l’Eden Roc di Ascona il 27 aprile; Sandeep Bhagwat del Mandarin Oriental (Rasoi by Vineet, Genève - 16 punti Gault&Millau, 1 stella Michelin), ospite di Frank Oerthle del Ristorante
Qui sotto il piatto dello chef Gregor Zimmermann “luccioperca arrostito in olio di colza su cotogne marinate e patate blu”.
René Nagy
Frank Oerthle Othmar Schlegel
Antonio Fallini Egidio Ladonisi
Dario Ranza Andrea Bertarini Lorenzo Albrici
Salvatore Frequente
Domenico Ruberto Alessandro Fumagalli
Artè di Lugano il 28 aprile; Edgard Bovier del Lausanne Palace & Spa (La Table d’Edgard, Lausanne – 17 punti Gault&Millau, 1 stella Michelin) ospite di Othmar Schlegel del Castello del Sole di Ascona il 4 maggio; Gregor Zimmermann del Bellevue Palace (La Terrasse, Berna - 16 punti Gault&Millau), lo Chef che accoglie tutti i capi di stato in visita ufficiale, ospitato da Antonio Fallini presso Villa Orselina di Orselina il 5 maggio e Laurent Eperon del Baur au Lac (Pavillon, Zurigo 17 punti Gault&Millau, 1 stella Michelin) ospite di Alessandro Fumagalli del Grand Hotel Eden di Lugano l’8 maggio. Celebri le cene che animeranno queste indimenticabili serate, a cui, come da tradizione, fanno eco due serate lounge il 24 aprile al La Perla Lounge & Bar di Lugano e il 30 aprile, Al Lido di Lugano, un incontro tra la mondanità e il piacere dell'enogastronomia per scoprire i futuri protagonisti della cucina ticinese: è infatti questa l'occasione per degustare finger food preparati dai talentuosi sous-chef delle strutture ticinesi che parteciperanno alla manifestazione come Teo Chiaravalloti della Villa Principe Leopoldo, Cristian Simioni dello Swiss Diamond Hotel, Giorgio Chiodin di Villa Castagnola e Luigi Lanzani
del Grand Hotel Eden. Il calendario degli Qui sopra gli 11 chef eventi di S.Pellegrino Sapori Ticino prosegue di S.Pellegrino Sapori Ticino. il 3 maggio con l'evento “Déjeuner au Château” dove per l’occasione Gaby Gianini aprirà le porte del Castello di Morcote per un pranzo dedicato al pesce preparato da 5 Chef delle Grandes Tables de Suisse come Martin Dalsass (Ristorante Talvo by Dalsass, St. Moritz-Champfèr), Ambrogio Stefanetti (Ristorante Vecchia Osteria, Seseglio), Dario Ranza (Villa Principe Leopoldo, Lugano), Sascha Berther (Restaurant Moospinte, Münchenbuchsee) e Jean-Marc Soldati (Hotel Restaurant Du Cerf, Sonceboz) con Loredana e Federica Bertola e Alfredo Del Gaudio, dello Spaccio Ittico a coordinare la fornitura della materia prima. Per finire, una cena a sorpresa la sera del 9 maggio, dedicata alla cucina dello stellato Michelin Lorenzo Albrici presso la Locanda Orico di Bellinzona, mentre a conclusione della grande kermesse Domenico Ruberto dell’Hotel Splendide Royal di Lugano l’11 maggio aprirà le porte della sua cucina ad Antonio Fallini, Egidio Iadonisi, Dario Ranza, Andrea Bertarini, Frank Oerthle, Alessandro Fumagalli e Salvatore Frequente, per una festa finale a chiusura di S.Pellegrino Sapori Ticino.
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Le veneziane di
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di Fiorenza Auriemma Abbiategrasso fa rima con dolcezza. Infatti, in questo placido borgo alle porte di Milano, dal 1845 si sfornano dolci che lasciano il segno nel cuore oltre che sul palato. La sorgente di tanta bontà è la Pasticceria Besuschio, vera e propria boutique del dolce che affaccia sulla centrale Piazza Marconi, sotto a portici antichi quanto il paese e sorretti da colonne con travi in legno a vista. Sono proprio queste possenti colonne a fare da corona alle vetrine della pasticceria, dell'enoteca a fianco - arredata con i mobili di una vecchia drogheria di famiglia - e della gelateria. Tutto firmato Besuschio, e – per quanto riguarda dolci e gelati - fatto in casa, proprio dietro quelle vetrine. È stato Ambrogio - nella prima metà del Diciannovesimo secolo - a dare il via all'attività che ora è nelle abili mani di Andrea, portabandiera dell’insegna di famiglia. La cui bravura è direttamente proporzionale alla riservatezza. Basti pensare che è conosciuto da tutti nell'ambiente della pasticceria - e anche della gastronomia, visto che diversi chef di spicco si servono da lui, hanno imparato da lui e/o mandano i propri pasticceri a scuola da lui - senza che per questo si atteggi a "star" delle praline, presenzialista dei dessert, icona dei lievitati. Però, chi è del giro sa che quando arriva Natale i suoi panettoni e veneziane sono contesi come pietre preziose. E lo stesso accade nei giorni che precedono la Pasqua. Panettoni, veneziane e colombe Besuschio escono dal forno nel laboratorio annesso al negozio. Il quale ha 70 anni di vita: enorme, con due camere sovrapposte, in mattoni dentro e piastrellato fuori, è sempre acceso, giorno e notte, estate e inverno. Anche quando non accoglie nessun impasto per trasformarlo nei classici "soffici da ricorrenza", o in creazioni Besuschio quali Fior di Gianduia, Pancannella, Crakelé ecc. che si possono gustare nel corso dell'anno. Un forno che è come un fuoco sacro curato da solerti vestali, verrebbe da dire, vedendolo
troneggiare nel centro del laboratorio. "Non lo spegniamo mai per evitare che si possano creare dilatazioni e crepe", spiega più prosaicamente Andrea Besuschio. Il quale ha imparato il mestiere dal padre Attilio, che l'ha tenuto a bottega diversi anni per poi passargli le consegne nel 1991. "Sotto Natale, in questo forno mio padre cuoceva fino a 250 panettoni al giorno", ricorda Andrea mentre accarezza quella grande creatura che dispensa calore e vita. "Noi oggi cominciamo la lavorazione ai primi di novembre, e marciamo a suon di 100 panettoni ogni giorno". Besuschio è sì tradizione, come testimonia il consistente libro – "I Besuschio, pasticceri dal 1845" – che Andrea e la moglie Roberta hanno realizzato pochi mesi fa recuperando cronache, aneddoti, documenti, testimonianze, fotografie ecc. Però, è anche innovazione, ricerca, design applicato alla dolcezza. Basta dare un'occhiata alla teca che custodisce - alla
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giusta temperatura - le versioni monodose da asporto: invitanti, colorate, artistiche, innovative, oltre che buone; o ai tranci di torta che si possono ad esempio consumare in alternativa al panino del mezzogiorno, seduti a uno dei tavolini della pasticceria, dentro d'inverno e sotto ai portici d'estate. E ovviamente alle torte più tradizionali, alla zona della piccola pasticceria, cui si aggiungono le confezioni di biscotti, gelatine, dragée, confetture ecc. Insomma, dire che qui ce n'è per tutti i gusti e tutte le ricorrenze potrebbe suonare banale. Però è pura verità. A tutto questo ben di Dio, da ammirare, degustare, comperare, regalare, si è aggiunto di recente un piccolo e accogliente Bed&Breakfast: due camere - con travi a vista - ricavate al piano superiore dello stesso antico edificio che ospita la pasticceria, la sua famiglia, i laboratori. Due rifugi confortevoli, di design senza essere asettici, curati nei dettagli senza
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apparire finti, dai colori caldi ma non stucchevoli. È facile immaginare quanto possa essere rinfrancante il riposo, in quelle stanze. E quanto sia azzeccato il nome che Andrea e Roberta hanno scelto per questa new entry: Sweet Dream. Perché non possono che essere dolci i sogni di chi fa sosta qua, andando già con il pensiero alla ricca e golosa colazione del mattino successivo. Imbandita ovviamente con le dolcezze di casa Besuschio.
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Voghiera, l’aglio delicato che mette d’accordo tutti 44
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di Antonio Ezio Delicato, aromatico, mai pungente. Aggettivi che, normalmente, non si associano all'aglio. Tuttavia l'Aglio di Voghiera Dop, una produzione di nicchia della provincia di Ferrara che ha raggiunto la tutela comunitaria per via di una chiara specificità gustativa, per particolari caratteristiche agricole e colturali e per un areale di produzione chiaramente identificato, riesce a mettere d'accordo chef e cultori della tipicità, proprio per la sua delicatezza, che lo rende un ingrediente particolarmente versatile. È l’aglio ideale per dare un tocco di gentilezza alle tradizionali e robuste preparazioni della nostra tradizione, come gli intramontabili spaghetti aglio, olio e peperoncino, o la bagna caoda piemontese o la salsa aioli. Vere e proprie bombe che rischiano di compromettere le relazioni sociali, per via dell'inconfondibile afrore nel post consumo: l'Aglio di Voghiera Dop, soddisfa i cultori dell'aglio nelle pietanze, senza diventare troppo aggressivo. “Abbiamo voluto sottolineare questa caratteristica - dichiara Neda Barbieri, presidente del Consorzio che riunisce i produttori che si fregiano della Dop - e dotarci di una nuova immagine, più moderna e in linea con i trend del mercato. Crediamo che la ristorazione possa rappresentare un veicolo promozionale formidabile per il nostro prodotto: non possiamo competere per numeri con l'aglio prodotto in altre zone, dobbiamo mantenere un'elevata politica di qualità e rivolgersi a una platea di consumatori che apprezzano la tipicità e hanno una propensione alla ricerca quando approcciano la tavola”. Coltivato da secoli nella Pianura Padana Ferrarese, fin dall’epoca degli Estensi, signori di Ferrara dall'anno 1288 al 1598, la sua presenza come prodotto rilevante per Voghiera è comprovata sin dal 1928 da documenti contabili legati al commercio di “agli e cipolle” con alcuni paesi europei. “La maturazione - prosegue il presidente - avviene tra i primi di giugno e fine luglio, quando si effettua la
raccolta. Bulbi e steli, tradizionalmente lavorati a mano, sono fatti essiccare per essere poi confezionati nei vari formati. Nel rispetto del disciplinare di produzione Dop, il Consorzio Produttori Aglio di Voghiera garantisce che tutte le fasi della produzione, articolata sui tradizionali metodi di lavorazione, siano realizzate all’interno del distretto produttivo”. Oggi sono 40 i produttori, suddivisi in cinque comuni della provincia ferrarese, che coltivano questo delicato bulbo su una superficie complessiva di 120 ettari. Sotto il profilo tecnico l'Aglio di Voghiera Dop si presenta con un color bianco brillante, luminoso ed uniforme, con un bulbo rotondeggiante, leggermente appiattito nel punto in cui si inserisce l’apparato radicale. È formato da una corona di pochi, grandi, spicchi regolari, uniti e
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Rileggere la tradizione con l’Aglio di Voghiera È uno dei masterpiece della nostra cucina, un piatto che mette d'accordo palati alti e stomaci popolari, elementare da preparare come tutte le cose buone, ma ricco di sfumature. Gli spaghetti aglio, olio e peperoncino, riveduti con l'uso dell'Aglio di Voghiera, non perdono in complessità al palato, ma acquistano una leggerezza che ne fa superare l'attuale diffidenza da parte dei più delicati. Lo chef Pier Luigi Di Diego del ristorante Il Don Giovanni di Ferrara rilegge e reinterpreta la ricetta, usando gli spaghetti alla chitarra, che danno più consistenza sotto i denti, e addolcendo l'approccio al palato con una fonduta di Parmigiano-Reggiano, che accoglie il nido di spaghetti tradizionalmente saltati in padella con aglio e peperoncini freschi. Il risultato è un piatto che gli habituè del ristorante continuano a ordinare dal 1999. Ecco la ricetta: Ingredienti per 4 persone 320 gr spaghetti alla chitarra 6 spicchi di aglio di Voghiera 1 peperoncino rosso fresco 1 peperoncino verde fresco 200 gr di Parmigiano Reggiano 100 cc di crema di latte o panna Prezzemolo fresco Olio e.v.o. q.b. Peperoncino secco q.b. Procedimento In una padella capiente fare un fondo con olio, gli spicchi d’aglio affettati finemente (più digeribili se privati dell’anima), i peperoncini freschi tagliati a forbice e poco peperoncino secco. Accendere il fuoco a fiamma media e all’inizio della doratura togliere dal fuoco. Cuocere in abbondante acqua salata gli spaghetti scolandoli molto al dente e conservare un po’ di acqua di cottura. Nel mentre rimettere la padella sul fuoco questa volta più vivace e, riportato a temperatura il fondo, porvi gli spaghetti e distenderli con l’ausilio di un forchettone. Restare con la padella sul fuoco (medio) fino a quando la pasta inizierà a rilasciare i propri amidi, a quel punto mantecare con circa 80 gr di Parmigiano. Se la pasta dovesse rapprendere eccessivamente, stemperare con un po’ di acqua di cottura. A fiamma spenta aggiungere il prezzemolo fresco appena tritato e olio extravergine a crudo. Per la fonduta In una piccola padella antiaderente stemperare con la frusta il Parmigiano nella crema di latte a fuoco medio, senza far addensare eccessivamente, né raschiare nel caso attacchi al fondo. Presentazione Stendere su un piatto piano uno specchio di fonduta, quindi porvi gli spaghetti a nido. Decorare con foglia di prezzemolo e falda di peperoncino.
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ben compatti tra loro, avvolti da sottili tuniche bianche o striate di rosa, con una tipica curvatura esterna. Per mantenere intatta la delicatezza, gli spicchi si possono lasciare interi o in camicia (con la buccia) mentre per sfruttarne al massimo l’aroma intenso e piccante si possono pestare nel mortaio, schiacciare interi o tritare al coltello. Può inoltre essere spremuto con apposito spremiaglio, grattugiato, diviso in due per togliere l’anima o tagliato a pezzetti non troppo piccoli e poi filtrato. “Crediamo che il nostro aglio - conclude Neda Barbieri - abbia caratteristiche così spiccate da dare un'impronta particolare a un ampio spettro di piatti, si presti alla sperimentazione di nuove pietanze, riesca a dare personalità senza schiacciare gli altri sapori. Caratteristica, quest'ultima, molto apprezzata dagli chef”.
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Cascina Bellaria, salame gourmet di Theo Smith Nel Pavese, tre soci allargano la propria attività primaria di allevatori di suini e introducono nell’azienda agricola la produzione “mirata” di salami, pancette, cotechini, salsicce. Così, la Nuova Cascina Bellaria, a Mezzana Bigli, si configura come indirizzo di riferimento per quanti, ristoratori e privati, cercano un salame “naturale”, decisamente buono, prodotto secondo tradizione e senza l’aiuto della chimica. La ristorazione italiana ha un alleato in più, schierato con decisione dalla parte della qualità, del gusto e, non è un paradosso, della leggerezza. Avete presente il salame, quell’insaccato tanto gustoso quanto “colpevolizzato” da media e nutrizionisti a causa di additivi e conservati chimici assai discutibili (per non dire altro)? Già, nonostante i grandi passi avanti fatti dall’industria alimentare negli ultimi anni, che hanno visto progressivamente diminuire l’utilizzo smodato di agenti chimici, non è così facile trovarne di buoni e, soprattutto, di sicuri sotto il profilo salutistico.
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A produrre una linea di salami, freschi e stagionati, destinati alla ristorazione più professionale e alla sua clientela, ci hanno pensato tre signori dalle ampie vedute: Federico Radice Fossati, Antonio Strada e Michele Michellini ovvero i tre soci di Cascina Bellaria, un luogo, evocativo dell’antico mondo contadino, immerso nella campagna pavese che scivola verso la Lomellina. Loro, come attività principale, gestiscono un allevamento suinicolo di 500 scrofe di razza Goland: i suinetti nati in allevamento sono poi venduti ad altri allevatori/ingrassatori del circuito del Prosciutto di Parma, destinati ad essere inconsapevoli protagonisti di una delle eccellenze del Made in Italy. Ma, lo scorso anno, i tre soci hanno avuto una grande intuizione: dopo avere incontrato sulla propria strada il “maestro” Alessandro Capittini, esperto ed appassionato produttore di salami, vero e proprio “norcino” di esperienza, hanno deciso di fare il grande salto, iniziando su scala artigianale la produzione di salami, pancette e salsicce, destinati a un pubblico gourmet (ma sarebbe il caso di dire gourmand) in cerca di gusto, sapore, autenticità. Cascina Bellaria è situata nel territorio di Mezzana Bigli, a poche centinaia di metri dal ponte della Gerola. Provenendo da Sannazzaro de’ Burgundi, appena prima del ponte, si svolta a destra e, dopo 1 km, si trova la cascina sulla sinistra. Il cavallo di battaglia di Cascina Bellaria è sicuramente il Salame Bellaria. Di puro suino, prodotto con tutte le parti del maiale, rappresenta il tipico salame “del contadino”, come
viene chiamato in ossequio a lavorazioni antiche, proprio perché prodotto secondo tecniche tradizionali. “I nostri insaccati, di puro suino, sono preparati con ricette tradizionali e sono privi degli additivi chimici contenuti nei prodotti industriali (acido ascorbico, nitrati…). Utilizziamo solo il minimo necessario per consentire la conservazione che è ottenuta con l’impiego di sale, pepe e minime quantità di salnitro”, ci dice Alessandro Capittini, il norcino. La stagionatura avviene nei tempi e nei modi più naturali, senza l’impiego di destrosio e lattosio (polvere di latte) che accelerano i tempi e modificano il sapore del prodotto.”Per garantire la migliore maturazione e conservazione dei salami utilizziamo solo budello naturale di scrofa, più spesso e grasso di quelli bovino o di quello sintetico” ci dice Antonio Strada con orgoglio. ”Tutti i
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prodotti passano direttamente dall’allevatore al consumatore e ciò è garanzia di sicurezza nella qualità e tracciabilità di un prodotto a km 0” conferma Alessandro Capittini. Il risultato è di primordine: i salami sono effettivamente molto buoni e hanno una marcia in più, soprattutto per via della impercettibile presenza di salnitro, oltre che per la qualità delle carni suine utilizzate, per la loro struttura e tenerezza (derivante anche dal tipo di alimentazione dei maiali stessi). Proporre questi salami ai commensali consente ai professionisti della ristorazione di far provare un’esperienza diversa, che dà valore aggiunto agli antipasti e che contribuisce a far uscire da anonimato e banalità un prodotto - come il salame - troppo spesso irriso o sottovalutato. Ottimi anche i cotechini e gli zamponi che, dopo 3,5 rigorose ore di
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cottura (non un minuto di meno) si sciolgono letteralmente in bocca. Alessandro prepara anche delle pancette molto saporite (ma non troppo salate) e un lonzino dal gusto delicato (si tratta di un salume molto magro ottenuto dal lombo disossato, conciato ed insaccato). Inoltre, a Cascina Bellaria vengono prodotti anche la porchetta e il cosciotto, che “rappresentano un successo garantito, una volta assaggiati”. Non mancano salsicce, salamelle, sanguinacci, piedini di maiale e i saporitissimi cacciatorini. Il punto vendita dei prodotti Bellaria è aperto tutti i giorni: dal lunedi al sabato dalle 7,30 alle 12 e dalle 15,00 alle 19,00, la domenica dalle 7,30 alle 12,00. Annesso al negozio c’è un laboratorio e, a fianco, le celle di stagionatura. Nel punto vendita si trovano anche tutti i tagli di carne suina: braciole, costine, lonza, filetto, carne macinata, provenienti dal vicino allevamento. Cascina Bellaria non ha ancora un proprio sito web, ma ha mail e pagina fecebook: nuovacascinabellaria@alice.it La pagina FB è: https://www.facebook. com/pages/Spaccio-Salame-Bellaria/622485347774648?fref=ts.
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Villa Castagnola Il benessere gourmet 52
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di Elisa Facchetti Classe, eleganza e benessere contraddistinguono l’offerta complessiva del Grand Hotel Villa Castagnola, da sempre apprezzato perché coniuga il fascino d’altri tempi alle comodità di una ospitalità moderna. Con una ristorazione di alto profilo, proposta dallo chef Frank Oerthle, la location svizzera si conferma come meta gourmet di notevole valore. Cornice naturale di grande bellezza, il lago di Lugano regala scorci inaspettati e senza tempo. Un incanto che può essere amplificato per chi ha la possibilità di alloggiare al Grand Hotel Villa Castagnola au Lac, unico 5 stelle Superior della città di Lugano, nonchè membro degli Small Luxury Hotels of the World. Villa Castagnola è pronta ad accogliere chiunque voglia immergersi in un soggiorno di svago e relax, o per chi sosta anche solo per un incontro di affari. Qualunque sia lo scopo del soggiorno, la struttura saprà regalare un’esperienza
d'arte contemporanee e pezzi unici di design provenienti da ogni parte del mondo. Storicità e modernità convivono senza stridere fra loro, ma si completano offrendo la possibilità di contemplare opere di grande valore. Qui si incontrano le tele dei maestri dell'ottocento italiano e dei grandi fiamminghi, mentre nel parco vengono esposte le opere di alcuni dei più rappresentativi sculturi contemporanei, come Nag Arnoldi, artista ticinese noto anche all'estero. L'arte pervade ogni spazio di Villa Castagnola, fil rouge che con piacere se-
unica: dimora di fine '800, originaria residenza di una famiglia russa, Villa Castagnola è da più di trent'anni proprietà della famiglia ticinese dei Garzoni che ha impreziosito gli spazi con opere
guiamo alla scoperta del luogo di eccellenza per l'arte contemporanea a Lugano, ovvero la Galleria Arté, uno dei due ristoranti della villa, unico stellato della città, dove molti artisti in-
Qui sopra: la zuppetta di piselli e limone con capesante crude dello chef Frank Oerthle del ristorante Galleria Arté.
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Qui sotto: il mini hamburger di sesamo con tartara di filetto di fassone piemontese e cipollotto croccante dello chef Christian Bertogna de Le Relais.
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ternazionali amano esporre le proprie opere. A dirigere il ristorante lo chef stellato Frank Oerthle, che con le sue fantasiose realizzazioni propone una cucina "d'avantguarde" con un approccio moderno e creativo, aperto alle suggestioni orientali, sebbene si possa sempre rintracciare un attacamento al territorio del Ticino che offre prodotti tipici di eccellenza, come formaggi, carni, ortaggi e molto altro. Qualche esempio? Zuppetta di broccoletti e latte di cocco con gamberi rossi scottati e flan alle mandorle; medaglioni di rombo, composta di zucca croccante e nuvoletta di meringa nera; per dolce mela brasata e farcita ai datteri, gelato di castagne e salsa di pistacchi. Una vocazione, quella di Villa Castagnola, non solo artistica, ma anche gourmet, conferma del fervore gastronomico che caratterizza il territorio svizzero, una cucina elvetica fortemente influenzata dalla tradizione culinaria dei paesi confinanti come Francia, Germania, Austria e Italia. E italiano è lo chef del secondo ristorante di Villa Castagnola, Le Relais. Christian Bertogna, legato a una cucina più mediterranea, non disdegna però la preparazione di pietanze studiate nei minimi dettagli: appasionato di Belle Arti, ama disegnare su carta la preparazione di ogni piatto, per bilanciare al meglio colore e presentazione. Tra le sue proposte coda di scampo scottata con verdi verdure, infusione alla zucca e zenzero; millefoglie di pane genovese con frutti rossi e sorbetto al basilico; carré di maialino da latte glassato con
mele al caramello e arachidi; gnocchetti di ricotta con prugne al Merlot e refrigerio al rosmarino. Destinazione gourmet di alto livello, Villa Castagnola è anche comfort e accoglienza: oggi offre 78 camere, di cui 28 tra Suites e Junior Suites. Ogni stanza presenta delle peculiarità che la distinguono dalle altre, con un design unico, arredamenti studiati ad hoc, il tutto reso ancora più raffinato ed elegante dalle stoffe preziose artigianali. Per il relax totale di corpo e mente non poteva mancare un Wellness Corner con piscina coperta, area fitness, bio sauna, calidario, bagno turco e solarium, oltre a un grande campo da tennis e un lido privato sul lago.
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Pommery Questione di stile
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Sotto: la maison Pommery a Reims, nella zona delle crayères. Lo stile gotico degli edifici fu voluto da M.me Pommery in onore degli inglesi, suoi migliori clienti. A destra: Jeanne Alexandrine Louise, meglio nota come Madame Pommery: il 18 febbraio 1858, all’età di 39 anni e con due figli, perse il marito e fu costretta a prendere le redini della maison. Nel 1890 era diventata una delle figure più note al mondo grazie ai suoi champagne.
di Alberto Lupetti Esattamente 140 anni fa, Pommery creava il primo champagne brut della storia. Oggi, la maison di Reims festeggia l’anniversario con la consapevolezza di poter onorare al meglio la memoria di M.me Louise. Pommery è a buon diritto tra le Grandes Marques di champagne non solo per ragioni storiche, ma anche e soprattutto perché ha saputo riconquistare lo smalto dei tempi migliori contro tutti e tutto. La maison di Reims, infatti, ha vissuto due cambi di proprietà, il primo nel 1991, quando è passata da Danone a LVMH, il secondo nel 2002, quando è stata acquistata dal gruppo guidato da PaulFrançois Vranken. La vendita comprendeva tutto il prezioso stock di bottiglie conservate in cantina e i non meno preziosi contratti di fornitura delle uve da parte dei vigneron, ma, purtroppo, non la maggior parte degli splendidi vigneti di proprietà. La nuova proprietà, però, non si è persa d’animo e mentre si preoccupava di ricostruire il patrimonio viticolo, ha esaltato, responsabilizzandolo al massimo livello, lo chef de cave Thierry Gasco, in maison da oltre venti anni e “chef” dal 1992. Questo brillante enologo non ama le luci della ribalta, ma è lui il vero custode dello spirito Pommery. Cresciuto a fianco del suo predecessore - quel principe Alain de Polignac pronipote di M.me Pommery e storico chef de cave della maison - ne ha appreso tutti i segreti ma, soprattutto, lo stile degli champagne Pommery, uno stile fatto di freschezza ed eleganza, leggerezza e finezza, morbidezza Artù n°61
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Lo chef de cave Thierry Gasco: è lui il garante dello stile Pommery dopo 140 anni dalla sua definizione.
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ma anche vivacità. Oggi Pommery ha compiuto un piccolo miracolo: in poco più di un decennio la proprietà ha ricostruito il patrimonio viticolo, portandolo quasi a 300 ettari, mentre Gasco ha non solo mantenuto inalterati l’identità e lo stile degli champagne Pommery, ma ne ha perfino incrementato la qualità, anche grazie all’introduzione di nuove etichette come l’Apanage Rosé, il raro e prezioso Clos
Pompadour e, infine, il Brut Apanage Prestige. Lanciato lo scorso anno, quest’ultimo è un non millesimato di fascia alta che Gasco ha plasmato assemblando tre annate di Grand Cru Millésime (2004, 2005 in prevalenza, e 2006). Si tratta, insomma, di un assemblaggio di assemblaggi millesimati ed è stato tirato per la prima volta nel 2007 in 20.000 bottiglie.
Poi c’è la nuova annata (2002) della cuvée de prestige, quella Louise creata nel 1979 proprio da Alain de Polignac per rendere omaggio a M.me Pommery. Per farlo, selezionò le migliori parcelle tra i vigneti di proprietà ad Avize e Cramant per lo Chardonnay e ad Aÿ per il Pinot Noir e ancora oggi la Cuvée Louise è prodotta con queste uve (quindi è Grand Cru) ed è figlia di un’accurata selezione dei grappoli con quelli di Avize che danno vivacità e finezza, Cramant rotondità e corpo, Aÿ ampiezza. Per avere un esempio delle cure riservate a queste uve, basti sapere che la vendemmia è affidata a soli 500 vendemmiatori specializzati (dei 1.200 che lavorano per Pommery) che operano sotto l’occhio attento di Thierry Gasco e, dopo la spremitura, lo chef de cave utilizza solo 1.800 dei 2.050 litri di mosto, quindi soltanto il cœur de cuvée. Dopo l’assemblaggio, la Cuvée Louise matura tra gli 8 e i 10 anni nelle cantine sotterranee prima del rémuage manuale, mentre il dosaggio finale sotto gli 8 grammi/litro rappresenta il più contenuto di tutti i Pommery blanc. Questioni di stile Ecco, il dosaggio… Nel 1874, Pommery, sotto l’abile guida di M.me Louise, sviluppava il primo champagne brut vintage della storia, il Pommery Nature, pertanto la maison di Reims ha inventato questo tipo di champagne come lo conosciamo oggi e vi ha fondato sopra il proprio stile. E quest’anno ricorre il 140° anniversario di questa importantissima novità nel mondo dello champagne… All’epoca, M.me Louise disse al suo chef de cave: “abbiamo bisogno di un vino che sia il più secco possibile, ma, al tempo stesso, anche morbido, vellutato e armonico. Soprattutto, di questo vino sarà necessario curare la finezza perché sia sempre godibile…”. Ricordo che, salvo rare eccezioni, gli champagne all’epoca erano molto dolci e l’elevato dosaggio era anche necessario per compensare l’elevata
spigolosità dei vini. Infatti, la malolattica non veniva svolta (non si conoscerà fino agli anni ’60 del XX secolo), il livello di acidità dei vini era molto più alto, le maturazioni sui lieviti molto più brevi, quindi una maggiore quantità di zucchero nella liqueur rendeva gli champagne non solo più godibili, ma anche più pronti. Pertanto, quella di Pommery fu una vera e propria rivoluzione che interessò tutta la Champagne, ma, a leggere con attenzione quelle parole, scopriamo che non solo nacque il primo brut millésime della storia, ma soprattutto furono definite con precisione le caratteristiche dello stile Pommery come lo conosciamo e lo apprezziamo ancora oggi. E oggi grandi champagne come il Artù n°61
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L’intervista Mimma Posca: Champagne, stile di vita Il concetto di "lusso accessibile", di cui molti parlano, è però messo in pratica e promosso da pochi. Mi sembra che Vranken Pommery sia invece molto attenta a questo concetto. Mi può spiegare in che modo Pommery pensa alla diffusione dei consumi di Champagne, anche presso l'universo giovanile? Vranken-Pommery, attraverso il suo progetto “Le Club Pommery”, è stata pioniera nello sdoganare i consumi di Champagne nel day time e nelle occasioni di consumo informali, come aperitivi, light-lunch, happy hour, spuntini veloci, oltre ai momenti canonici delle feste e del classico lounge dopocena. Questo ha comportato l’attenzione alla somministrazione al calice, al taglio del mini-formato, con una visione pretà-porter fruibile per chi non vuole rinunciare a piccoli piaceri. Dunque, un prodotto esclusivo, capace di caratterizzare momenti importanti della vita di ognuno, ma senza risultare agli occhi dei consumatori un prodotto inaccessibile.... Lo champagne porta con sé l’unicità di trasformare qualsiasi momento sia ludico, gastronomico e conviviale, in esperienza sensoriale, perché contiene nel proprio dna il potere seducente della gioia, che lo ha reso mito prima che vino di eccellenza. Nessuna bevanda al mondo reca con sé un potere evocativo così forte. Perché non diffondere questi valori? Come vivete il vostro rapporto con la ristorazione? E il vostro rapporto con i grandi chef come per esempio Davide Oldani? Il consumo di champagne riesce a trasformare in esperienza sensoriale un momento gastronomico. Lo champagne nasce come vino, il vino è un alimento,
quale sede migliore per un incontro vino-cucina? Lo Chef del Ristorante è come lo Chef de Cave, entrambi promotori di esperienze ed educatori del palato dei consumatori…una missione non semplice. Vranken-Pommery Monopole ha ottimi rapporti con i maggiori chef a livello nazionale ed internazionale, le grandi tavole sono le migliori ambasciatrici dei valori della Maison: non a caso come la recente acquisizione del mitico Ristorante LUCAS CARTON, celebre tristellato a Parigi, in Piazza Madeleine. Cosa pensa della diversificazione in atto nel mondo dei consumi? I consumi sono lo specchio dell’economia, il termometro di nuovi costumi ed abitudini che emergono dai nuovi scenari. È molto singolare la storia dello Champagne e della Maison Pommery in particolare: è da 180 anni che il brand resiste agli effetti del tempo e dell’altalenarsi di mode e stili. Segno evidente che è proprio nella differenziazione che risiede la fortuna di molte case storiche, che riescono a mantenere le loro relazioni con il consumatore finale coniugando la tradizione con l’innovazione.
Brut Apanage Prestige e la Cuvée Louise non solo perpetrano una storia fatta di eccellenza, ma onorano nel migliore dei modi questa tradizione giunta al prestigioso traguardo dei 140 anni. Brut Apanage Prestige 50% Pinot Noir, 50% Chardonnay; dég. I trim. 2013, dosage 9 g/l Il naso è certamente molto bello in quanto propone gradevoli e delicate
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Le bollicine francesi "fanno sempre la differenza" e sono le protagoniste dei momenti di festa. Pommery è percepito sempre più come simbolo di raffinatezza ed esclusività, ma in una logica di forte messaggio culturale, edonistico e socializzante, prima ancora che di mero strumento di strategia commerciale. È così? E perché per Pommery è così importante il momento di festa? In occasione di uno dei tanti meeting internazionali, il nostro Presidente Paul François Vranken, rivolto al pubblico disse che “lo champagne è uno stile di vita”. Sembra una frase banale, ma racchiude un significato incredibilmente vero. Chi beve champagne rivolge attenzione ai dettagli, alla conoscenza, alla cultura del bien vivre, alla ricercatezza. Non è poca cosa… Che cosa manca ancora, in Italia, a una vera diffusione di una cultura dei consumi di alta qualità? La crisi ha un po' appiattito i consumi di eccellenza, relegandoli a un ruolo subalterno rispetto ad altre tipologie di prodotto più "facili" ed economicamente più accessibili ma anche con livelli qualitativi bassi... Quando finirà questo periodo di minimalismo? Per chi opera nel segmento del
note fruttate dolci che ricordano il mandarino e donano freschezza, ma non mancano spunti di frutta secca e una sottile mineralità di fondo. La bocca apre con una gustosa rotondità di materia e una bollicina finissima che riporta in evidenza la nota di mandarino. Quindi, i ritorni dolci fruttati e l’ottima freschezza, complice l’equilibrio e l’integrazione dello stesso vino nel complesso, lasciano la bocca non solo davvero e decisa-
lusso, quali possono essere le chiavi per accedere ad atre categorie di consumatori? In Italia esiste una profonda e consapevole cultura enoica nazionale, che ha lasciato un accesso limitato ai vini esteri a pochi estimatori. Fino agli anni novanta lo champagne era considerato un prodotto di lusso e relegato ai consumi fuori casa del dopo cena. Pochi ristoratori ne hanno coltivato il culto gastronomico e per molti consumatori era solo un status symbol da esibire; solo nel decennio scorso, ovvero dal 2000 al 2007, l’importazione ed il consumo di champagne hanno conosciuto i massimi picchi di sviluppo, con i contorni di un vero e proprio trend. Questa fortunata tendenza si è inceppata dal 2008 a causa della congiuntura economica che ha semplicemente “spostato” i consumi verso budget più ridotti. In questa fase tuttavia si sono aperti nuovi stili, lo champagne ha fatto il proprio ingresso nel day time e nella proposta a calice, affiancandolo alle selezioni di altre tipologie del comparto spumanti charmat e classici del panorama vinicolo italiano. Oggi il consumatore italiano è più attento alla spesa ma è anche più consapevole ed evoluto nei gusti e se trova in commercio un prodotto di qualità, facilmente reperibile ma accessibile, non vi rinuncia. Inoltre non dimentichiamo che l’Italia accoglie un importante numero di viaggiatori stranieri, richiamati dall’alta gastronomia e dall’ospitalità di lusso, settore esclusivo dove il consumo di champagne è particolarmente fertile, ed il nostro Brand, con la sua vocazione internazionale, ne è ben consapevole….
tra loro note di frutta bianca, mineralità, spunti di erbe aromatiche e sottili tostature a fare quasi da legante. L’attacco in bocca è rotondo, anzi addirittura grasso, e ancora molto elegante, pure sul fronte della bollicina. Ritornano il frutto e le erbe, queste in maniera piuttosto preponderante e a dare una sensazione amaricante… Un’opportuna attesa nel bicchiere, però, riporta alla bella materia fresca e rotonda, fruttata e minerale, di finissima persistenza. Un 2002 molto interessante, che interpreta l’annata in perfetta coerenza con lo stile della maison. www.vrankenpommery.it
La vinothèque di Pommery, nelle splendide cantine sotterranee, dove sono conservati i vecchi millesimati della maison. Tra questi, la bottiglia (in basso a destra) di Pommery Nature 1874, il primo brut vintage della storia.
APS
mente piacevole, ma pure molto pulita. In conclusione, uno champagne molto ben fatto che piacerà - parecchio - a tutti. 89/100 Cuvée Louise 33% Pinot Noir, 67% Chardonnay; deg. III trim. 2013, dosage 8 g/l Bel naso, che denota certamente un’abbondanza di materia, ma questa è espressa con finezza, con molta eleganza. Nel dettaglio, ci sono ben fuse Artù n°61
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Lovato: il Made in Italy stravince nel mondo Fasi alterne hanno vissuto i settore dei prodotti a base di carne, degli ortofrutticoli freschi e dell'olio di oliva, per i quali si rende necessaria una incisiva azione promozionale.
di Alberto P. Schieppati Il Made in Italy brilla in tutto il mondo: gli ultimi dati statistici rivelano che le nostre esportazioni registrano una costante crescita sia nei paesi tradizionalmente legati al prodotto italiano, sia sui nuovi mercati come Cina, India o Brasile. Quali sono le eccellenze della nostra produzione più amate e richieste all'estero? Di seguito l’intervista esclusiva con Roberto Lovato, presidente ICE- Agenzia. Lungo tutto il periodo di crisi economica degli ultimi anni il settore agroalimentare ha continuato ad espandersi sui mercati esteri, e si può dire, anzi, che la domanda internazionale abbia più che compensato il calo dei consumi interni determinando comunque una complessiva crescita produttiva del settore. Da questo punto di vista si può dire che i mercati trainanti del nostro export agroalimentare sono ancora quelli tradizionali dell'Europa e del Nord America, cui si aggiunge una robusta ripartenza dei mercati dell'Estremo Oriente, Giappone e Sud Korea, dopo alcuni anni di stagnazione. Tra i
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prodotti più richiesti dai mercati internazionali sicuramente primeggia il vino che in questo periodo di crisi ha continuato a mantenere una media annua in valore di incremento dell'export superiore a quella del settore in generale. Da osservare, da questo punto di vista, che non vi è stato sostanzialmente per il vino un incremento in termini di quantità, il che sta a significare che il vino italiano avviato ai mercati esteri ha gradualmente aumentato il proprio valore unitario, incrementando la redditività per le imprese produttrici. Si tratta di un recupero di valore che allinea il vino italiano ai livelli dei principali produttori mondiali, colmando un gap che fino a qualche anno fa penalizzava l'immagine e l'economia del settore. Ma non c'è solo vino: anche formaggi, pasta, prodotti dolciari e da forno, pasta e conserve vegetali continuano a manifestare una tendenza positiva sui mercati esteri, confermando il gradimento per l'alta qualità della tradizione produttiva italiana. Fra i prodotti non autoctoni spicca la brillante e continua crescita del caffè, a testimonianza del crescente gradimento dell'espresso italiano a livello mondiale.
Qual è il ruolo specifico svolto dall’ICEAgenzia nell'opera di promozione e valorizzazione dei nostri migliori prodotti agroalimentari? L'azione specifica dell'ICE- Agenzia in campo promozionale si esplica sul versante delle aziende italiane in una attività di informazione e assistenza delle imprese nel loro approccio ai mercati internazionali. È necessaria infatti un'opera preliminare di informazione in merito alle condizioni (normative, commerciali, di segmentazione, etc.) del mercato di destinazione, al fine di evitare sorprese e una successiva attività di sostegno nel rapporto con la struttura distributiva locale, nella partecipazione alle iniziative promozionali di carattere commerciale, nella scelta del più adeguato canale di vendita. Sul versante invece del mercato di destinazione, l'attività dell'ICE-Agenzia si concretizza nel costante dialogo con la struttura distributiva al fine di accreditare le produzioni italiane in termini di qualità dei prodotti e di affidabilità dei fornitori. Il costante aggiornamento relativo alle normative locali è un altro settore strategico al fine di trasmettere alle strutture produttive italiane le informazioni in merito alle necessità di adeguamento per adattarsi alle esigenze dei mercati internazionali. L'ICE-Agenzia, tramite la sua sede centrale e la sua rete di uffici esteri, è in grado di svolgere puntualmente questo servizio a vantaggio del mondo economico italiano e del settore agroalimentare in particolare. Quale risulta essere l'atteggiamento più diffuso nell'universo dei consumatori stranieri verso il prodotto italiano? L'atteggiamento dei consumatori di tutto il mondo nei confronti dei prodotti italiani è sempre di estrema curiosità ed interesse. La tradizione alimentare italiana è riuscita a crearsi una positiva
mento di prodotti alimentari di eccellenza. Così non è per altre realtà, quali i mercati del nord Europa, gli Stati Uniti, la Cina, dove, anche in virtù di una organizzazione logistica efficiente è possibile avere la consegna dei prodotti in tempi strettissimi, gli acquisti on-line stanno assumendo un ruolo sempre più significativo. L'e-commerce rappresenta un'opportunità soprattutto per aziende di piccole dimensioni proChe ruolo gioca la ristorazione italiana duttrici di specialità alimentari di elevata nel mondo nella promozione del pro- qualità che difficilmente trovano spazio dotto agroalimentare nazionale? È nei canali distributivi tradizionali. Conancora da considerare un importante siderata la varietà produttiva dei territori italiani, l'e-commerce rappresenta una traino del Made in Italy? La ristorazione gioca un ruolo fonda- grande opportunità anche per i consumentale nella diffusione del Made in matori che hanno la possibilità di riforItaly agroalimentare nel mondo; si può nirsi direttamente nei territori di origine dire che non esista al mondo una di prodotti che rispecchiano pienamente città capitale che non abbia un risto- le caratteristiche produttive ed organorante italiano. La proporzione numerica lettiche della tradizione. rispetto ai nostri concorrenti francesi è approssimativamente di 5 a 1. Si Dalla sua posizione privilegiata di ospuò quindi senz'altro dire che la risto- servatore dei mercati internazionali, razione italiana sia un elemento trai- come vede la percezione del mercato nante della diffusione del Made in dei consumatori stranieri nei confronti Italy agroalimentare all'estero. In parti- dei prodotti certificati "bio" che in colare, nei nuovi grandi mercati quali Italia rappresentano una sorta di Giappone, Cina e India, circa l'80% "croce e delizia" (o di "voglio ma dei prodotti alimentari importati sono non posso") per i consumatori? destinati al canale della ristorazione A livello internazionale si registrano che rende familiari ai consumatori in- crescente attenzione e richiesta di progredienti e ricette, stimolandoli ad uti- dotti biologici; si tratta indubbiamente lizzare gli stessi prodotti nella prepara- di una tendenza indotta dalla ricerca zione degli stessi piatti in ambiente di uno stile di vita più vicino alla natura, tramite anche la ricerca di alidomestico.
immagine di semplicità e genuinità, con le quali si riescono ad ottenere elaborazioni di livello qualitativo straordinario. Un'altra caratteristica che appassiona è la varietà dell'offerta: in pratica ogni territorio italiano è in grado di offrire elaborazioni diverse ed originali partendo dagli stessi (o quasi) elementi di base. Il resto lo fanno la passione e l'inesauribile fantasia dei cuochi italiani.
menti ottenuti senza l'ausilio di prodotti chimici di sintesi, che tutelano quindi sia l'ambiente che la salute dei consumatori. Quest'ultimo aspetto è diventato in alcuni casi determinante in alcuni mercati dove si sono registrati casi di scandali a causa dell'immissione in commercio di prodotti adulterati o avariati che hanno provocato intossicazioni quando non addirittura decessi di consumatori. La percezione del prodotto "bio" si sviluppa quindi sul binario rappresentato dalla tutela della salute e dell'ambiente; ciò ha rappresentato un indubbio stimolo anche per il segmento della "produzione tradizionale" verso una drastica riduzione della chimica e alla sintesi di mezzi tecnici a tossicità limitata. Il prodotto biologico resta pur sempre comunque delimitato, anche sui mercati esteri, in un segmento di mercato ben definito, riservato ad una clientela particolarmente sensibile alle tematiche salutistiche e comunque disponibile a pagare un differenziale di prezzo che può essere mediamente stimato superiore del 15-20%. Da questo punto di vista va detto comunque che la legislazione italiana in merito alla produzione alimentare è fra le più rigorose al mondo e che anche questo è un fattore di garanzia di successo del Made in Italy alimentare.
Pensa che l'e-commerce del prodotto agroalimentare italiano possa essere uno sbocco per il futuro? Il settore dell'ecommerce non è a mio parere ancora adeguatamente valorizzato nella realtà italiana, probabilmente per una perdurante diffidenza da parte dei consumatori nei confronti di uno strumento non ancora percepito come potenziale fonte di riforniArtù n°61
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Intervista raccolta da Alberto P. Schieppati
sue passioni, il suo impegno, le sue aspirazioni.
“Scienziati del vino” o “wine maker di tendenza”? In che ruolo si identificano i giovani enologi? In che modo tendono ad essere testimoni di una tipicità? E come vedono il futuro del comparto vitivinicolo quanti hanno appena iniziato l’attività? Abbiamo voluto porre qualche domande ad alcuni professionisti del futuro… La prima intervista di Artù è a Sara Icardi, giovanissima enologa presso l’azienda di famiglia, che ha sede a Castiglione Tinella (Cn).
Ci parli della sua sfida professionale, dei motivi che l’hanno spinta a scegliere questa professione… Quando mi trovai, dopo gli studi superiori, a dover scegliere il tipo di strada da intraprendere, la mia decisione non fu immediata. Provenendo da una famiglia in cui, sia dalla parte di mio padre che di mia madre, il vino è sempre stato prodotto e commercializzato, forse la scelta poteva sembrare banale e scontata; toccando con mano le problematiche di questo settore (crisi, maschilismo, competizione), si può dire che abbia proprio voluto mettermi alla prova. Chiuso gli occhi, incrociato le dita e via per una strada in salita. “C’è chi dice che la vista alla fine sia meravigliosa” pensavo, ed eccomi laureata in Viticoltura ed Enologia, dopo alcuni anni. Un’emozione unica: come buttarsi da un trampolino altissimo. Pura adrenalina. Ovviamente un diploma di laurea non ti trasforma in un enologo e quindi mi sono sempre impegnata a lavorare in diverse aziende tra cui naturalmente quelle famigliari. Quest’ultime sono state le realtà più stimolanti, essendo i miei genitori pieni di spirito di iniziativa e alla ricerca incessante di armonia in tutte le sue forme: in vigna, nel vino, nella vita. Questo è quello che aspiro a trasmettere un giorno, appena avrò la possibilità di intraprendere un progetto
Il vino è un prodotto complesso che, dalla vigna alla cantina, ha sempre più bisogno di vedere tutelate le proprie caratteristiche, a cominciare dal vitigno, dal territorio, dal microclima, dalla resa per ettaro, per arrivare fino alle pratiche di laboratorio, all’affinamento, all’imbottigliamento e raggiungere poi il mercato dei consumatori che ne decreteranno l’eventuale gradimento e l’auspicato successo… Ma qual è oggi il ruolo dell’enologo nel trasmettere questi valori al consumatore? Fino a che punto sono in grado di contribuire a creare un prodotto memorabile, caratterizzato e, soprattutto, con una marcia in più rispetto a prodotti concorrenti? Artù inizia il suo viaggio con Sara Icardi, figlia d’arte, vera e propria “enologa del futuro”, che racconta in esclusiva le
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tutto mio. Per ora lascio equilibrio”… e, come più volte affermato che gavetta in vigna e can- da Steiner, nel buonsenso. tina e studio mi preparino al fatidico giorno. Nella logica del “buonsenso”, che spazio occupa la ricerca enologica? Quali aspetti di un vino le preme E con quali tecniche? trasferire al consumatore? Unici- Direi: sì alla ricerca, sì alla sperimentatà? Territorio? Tipicità? zione di nuove tecniche (viticole e enoUn gran vino per me deve essere qual- logiche), si all’impiego di botti, barrique, cosa di unico, deve esprimere le sue tonneau, anfore, vasche in cemento o origini, la sua terra, nuda e cruda, for- in vetro come contenitori per l’affinagiato dalla variabilità delle annate, dal- mento. Fare vino non equivale ad abl’attività del vitigno scelto, dalle decisioni bandonare le moderne conoscenze e viticolo-enologiche, un po’ imprevedibile a catapultarsi indietro di cent’anni o ma allo stesso tempo irripetibile. Vivo più, bensì produrre un prodotto salubre, in un mondo in cui si sta perdendo la utilizzando, perché no, metodiche ecotipicità, in cui tutto è omologato riper- compatibili ma con lo spirito di uno cuotendosi anche su un bene che per che non si sentirà mai “arrivato”, ma primo dovrebbe esprimere una certa continuamente alla ricerca di qualcosa singolarità ma che ora sta rischiando di ancora più soddisfacente. Per predi essere paragonato ad una bibita servare i caratteri d’origine di un vino, qualsiasi, l’una vale l’altra. a mio parere, si dovrebbe avere innanzitutto un’idea di “tecniche enologiche” Dunque, la priorità consiste nel pro- e non di “tecniche di correzione”. durre un vino che sappia trasmettere Bisogna quindi partire da una materia un carattere proprio, ma che esprima prima il più possibile sana, evitando, o anche - lei dice - “imprevedibilità”. meglio abbandonando, l’uso di prodotti Che cosa intende per “imprevedibile”? di sintesi nella conduzione del vigneto. La mia idea di vino non deve essere A questo fine si dovrebbe attuare ed travisata. Per imprevedibile non applicare un’agricoltura di tipo sosteniintendo dire che il vino debba bile; “biodinamica”, “biologica”, “coessere abbandonato al suo smocolturale” o in un altro modo ancora, destino, anche perché altrimenti ma il fine deve essere lo stesso: salvasi rischierebbe di fare l’errore di guardare il nostro ambiente, utilizzando molti colleghi che, nascondendosi dietro più la prevenzione come sistema di dil’etichetta “biologico”, “naturale” o “bio- fesa e di cura del terreno e delle coltidinamico”, pensano di essersi messi a vazioni. Parlando in modo pratico: limiposto con la coscienza. Io personal- tando l’utilizzo di macchinari pesanti, mente appoggio la “biodinamica”, o inerbendo i filari, utilizzando prodotti di meglio, l’Agricoltura Antroposofica, ma difesa non invasivi, cercando quindi di penso che ci sia bisogno di trovare un stimolare la vitalità del suolo e quindi giusto compromesso tra il concetto di delle piante che dagli anni ’70 ha visto naturalezza e scienza, quale appunto i viticoltori come delle madri apprensive una risorsa, quest’ultima, giustamente che al primo accenno di starnuto ti conquistata. Tutto sta nel “senso di somministravano l’antibiotico.
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Questo in vigna. E in cantina? Questo discorso è applicabile anche in cantina. Bisogna sfatare l’equazione per cui l’utilizzo di mille additivi o di lieviti selezioneti, forse anche OGM, equivale produrre un grande vino. Una fermentazione con lieviti indigeni presenti su uve naturalmente sane permette di ottenere un vino sincero e davvero irripetibile. Io stessa ho seguito, monitorato, le fermentazioni alcoliche dei vini “biodinamici” della cantina di famiglia e posso assicurare che il risultato ottenuto è entusiasmante. Il vino ha carattere e personalità non standardizzati dalla tecnologia ma unicizzati dall’espressione pura del “terroir”. In una spiccata logica di marketing, il produttore vitivinicolo spesso privilegia un vino che “deve piacere” ai consumatori e agli enoappasionati, prima ancora che un vino “rispettoso delle proprie caratteristiche varietali”. Qual è la sua posizione in merito? Produco “un vino che deve piacere” o “un vino rispettoso delle proprie caratteristiche varietali”? me lo chiedo spesso anch’io…Penso non siano cose antitetiche, credo invece che un vino dal carattere pronunciato (questo non implica i tanti difetti che oggi si riscontrano nel mondo “bio”) possa a maggior ragione essere gradito dal mercato perché, oltre che buono, sano. Viviamo in un periodo in cui l’apertura al libero scambio a livello ormai globale, la rivoluzione informatica e la conseguente espansione delle comunicazioni hanno indotto la creazione di un “villaggio globale”, un mondo unico in cui si è costretti a produrre prodotti standardizzati per poter essere apprezzati da un numero sempre mag-
giore di persone, per soddisfare mediamente tutti i gusti. Però questo vale per le grandi produzioni. Per l’industria. Parliamo, ancora, di naturalità e salutismo. Secondo lei è solo moda? Nell’esperienza quotidiana ho potuto constatare che vi è una curiosità sempre maggiore verso prodotti più tipici, particolari, più salubri, di nicchia, probabilmente nata dopo le tante emergenze alimentari che hanno tristemente dimostrato come la rincorsa all’industrializzazione dei processi agricoli, questo sì è un ossimoro, porti a delle terribili ripercussioni sull’ambiente e sulla salute stessa dei consumatori
(mucca pazza, influenza aviaria, metanolo, aviaria, mozzarelle blu ecc.). Tornando al vino, sono convinta che vi sarà sempre più spazio per prodotti buoni e naturali. Il vino che presenta tali qualità dovrà derivare da delle uve sane e senza contaminazioni di carattere chimico-industriale, il più possibile integro in modo da evitare l’insorgere di ossidazioni deleterie per i suoi caratteri organolettici e scevro anche da pericolose riduzioni che conferiscono sgraditi sentori animaleschi.
al consumatore purtroppo non è più sufficiente l’autocertificazione, almeno, ora non basta più. Ora il consumatore, dopo i già citati allarmismi alimentari, ha (giustamente) l’atteggiamento di S. Tommaso dove “se non vedo, non credo” e quindi molto utili possono essere le etichette “biologico” e\o “biodinamico” utilizzate solo su alimenti che sono stati prodotti seguendo determinati protocolli e che hanno superato i dovuti controlli sanitari.
struttura, caratteristiche particolarmente piacevoli. Ovviamente il sentore “boisé” non deve essere coprente o comunque prevalere ma deve armonizzarsi con gli aromi varietali della cultivar in una totale sinergia con le altre caratteristiche indotte dal territorio in cui viene prodotto. Sto iniziando ad apprezzare botti e barrique in legno di acacia che stiamo sperimentando in famiglia. Trovo che rispetto al rovere francese o a quello di slavonia, inducano caratteristiche di pieUna parola sull’affinamento in legno. nezza e “dolcezza” più affini, più in Barrique si o no? armonia all’ambiente della regione Chi garantisce concretamente la na- Un passaggio in legno per l’affina- in cui sono coltivati i nostri vigneti ed turalità di un vino? mento secondo me conferisce al vino, in cui con orgoglio posso affermare Per garantire la naturalità del prodotto soprattutto a quello dotato di grande di trovarmici benissimo anch’io.
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teristiche che si ritrovano nella manciata di stanze che colloca il Principe più Animo sportivo, efficienza e relax: dalle parti del boutique hotel che non questi i punti di forza di un hotel mo- tra quelle del grande e rigoroso albergo. derno e sensibile alle esigenze di Un’impressione che si ricava subito non una clientela altrettanto vivace. Un appena si varca l’ingresso e si ammira altro aspetto da non sottovalutare è il grande open space con bar che acconell’offerta di ristorazione, garantita glie l’ospite in un ambiente luminoso, da Valentino Cassanelli, modenese, immacolato e ricco di complementi d’arcon esperienze internazionali di rilievo. redo dal design moderno; quando poi Ma che può vantare anche tre anni non ci pensa la mostra di turno a nelle cucine di Carlo Cracco. rendere più sorprendente il colpo d’occhio. È questo un unico ambiente confiUn hotel discreto, non sulla strada prin- nante con il ristorante gourmet, che cipale che attraversa la Versilia fronte funge allo stesso tempo da area breakmare, ma un po’ spostato all’interno fast nel corso della mattinata. Le camere sul viale più appartato, circondato da del Principe sono accoglienti e attente ville padronali. Eppure a pochi metri nel mostrare un’eleganza misurata e dal cuore pulsante di Forte dei Marmi, a un tiro di schioppo dalle luccicanti vetrine dei prestigiosi marchi di moda internazionali e vicinissimo alla Capannina. Il che non guasta se il richiamo di uno dei locali storici più in voga della riviera ha per voi un fascinoso irresistibile. Il Principe è semplicemente l’ultimo arrivato tra i grandi hotel della Versilia, ma forse è anche quello più in linea con le esigenze di una clientela ricercata e moderna, bisognosa di quiete così come di comfort; sempre elegante ma con un animo sportivo come vuole il gusto vacanziero che si respira inevitabilmente a pochi metri dalla spiaggia. Tutte caratdi Gualtiero Spotti
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funzionale. I complementi di arredo sono a firma Armani Casa, Maxalto, Flexform e caratterizzano tutte le stanze, dall’Alcova alla Junior Suite, fino al romantico Talamo. Tutte le stanze sono insonorizzate e, cosa non usuale, dotate di piccola cantina con selezione privata di vini cui accedere, oltre a un sound system a firma Bose. Ma non è tutto. Gli spazi comuni dell’hotel sono il valore aggiunto per chi ama trascorrere del tempo all’interno della struttura. Basta fare una visita all’ultimo piano e sostare per qualche minuto allo Sky Lounge per rendersene conto: è il luogo perfetto per un aperitivo o un cocktail (ma anche solo per una sosta durante il giorno) dove gustarsi una vista a trecentosessanta gradi su Forte dei Marmi e abbracciare in un sol colpo un panorama grandioso che si spinge tranquillamente fino alla Liguria. Una terrazza che, oltretutto, diventa vivace e piacevole da vivere nel dopo cena quando dj e manipolatori di suoni si alternano alla consolle e animano la scena. Gli amanti del benessere invece si possono rilassare tra le mura amiche del-
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la Spa Egoista inaugurata lo scorso anno, dove ci si muove tra saune, bagno turco e massaggi o si ozia nella piscina dotata di idromassaggio. Se tutto questo non dovesse bastare c’è da togliersi non poche soddisfazioni anche a tavola, grazie alle intuizioni gourmet del ventinovenne modenese Valentino Cassanelli, il cuoco del ristorante Lux Lucis. Con esperienze internazionali a Londra (Nobu, Mosaico e Locanda Locatelli), prima di approdare a Milano da Carlo Cracco per ben tre anni, e al ristorante Sangal di Venezia, sin dall’estate del 2011 è lui il faro della cucina del Principe. Con risultati rimarchevoli, visto lo stile contemporaneo, personale e attento all’utilizzo di materia prima del territorio, che a volte richiama nell’estetica certi piatti dell’ultima generazione di cuochi del Nord Europa. La sua passione è la carne, ma come si scopre ben presto sfogliando il menu (il ristorante è aperto
sia a pranzo che a cena) non possono mancare i piatti di pesce, visto che ci si trova in Versilia. Nella carta spiccano la triglia croccante con barbabietola e yogurt al rafano, gli gnocchi di ortiche e patate con gamberi rossi e stracciatella, il risotto alla curcuma con birra e lingua di vitello, il lampredotto al parmigiano con marmellata di pomodoro piccante e verde. L’agnello di Zeri (presidio Slow Food) e l’evocativo Neve sulla sabbia, un dolce a base di squaquerone. Anche se non si può tralasciare il piatto Quinoa roots, che mette delicatamente in fila scorzonera, barbabietola e l’ormai immancabile topinambour. Interessante e decisamente unica è anche l’ampia carta dei vini, che è stata costruita partendo dagli uvaggi e non dalla provenienza delle etichette, curata gelosamente dal simpatico sommelier Sokol Ndreko. E per chi non può mancare l’appuntamento con la spiaggia? Niente paura, a partire da quest’anno, e con l’arrivo della bella stagione, il Principe on the beach è ai vicini Bagni Dalmazia, dove sarà attiva anche l’Osteria del mare, con una cucina più tradizionale, ma anche meno impegnativa e sicuramente marinara, perfetta per chi vuole trascorrere la giornata sotto il caldo sole della Versilia. www.principefortedeimarmi.com
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Villa Lattanzi ospitalità marchigiana
storici sull'origine della Villa, certo è il periodo di costruzione, nel 1600, a cui Prima struttura di ospitalità delle fanno riferimento le prime carte catastali, Marche, Villa Lattanzi è oggi un attestate all'anno 1778. Di proprietà dei piccolo gioiello ricettivo a cinque conti Adami e poi Azzolini, passò in stelle, unica nel suo genere in tutto seguito alla chiesa, utilizzata nei secoli il territorio nelle provincie di Fermo successivi dall’Arcidiocesi di Fermo. Ma e Ascoli. L'ambiente raffinato, elegante la bellezza di Villa Lattanzi non poteva ried esclusivo rispecchia appieno la manere celata, ed è così che la famiglia volontà della famiglia Beleggia, noto Beleggia, nome noto per il marchio di nome legato al mondo della gioielleria, gioielleria Brosway, decise qualche anno di proporre agli ospiti un soggiorno fa di procedere alla ristrutturazione dello stabile, trasformandolo in una nuova indimenticabile. struttura ricettiva a cinque stelle, la prima Le colline della fascia litoranea baganata nel territorio fermano e ascolano. Situata dall'Adriatico accolgono un paesaggio in collina, da cui si gode un'ottima vista senza confronti, tra macchia mediterranea, sul mare, Villa Lattanzi conserva il fascino panoramiche sul mare e caratteristici delle dimore d'epoca, ben visbile grazie borghi. Uno di questi, di origine medievale al restauro dell'architetto Aroldo Tofoni, del XII secolo, è Torre di Palme, antico conosciuto con il nome Brenno: diciotto avamposto della città di Palma, meravi- camere dalle tinte pastello, elementi in glioso luogo che accoglie Villa Lattanzi. legno, accessori in materiali naturali, tre Sebbene non esistano molti documenti piani con vista bosco e mare, regalano di Elisa Facchetti
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Rombo selvaggio sul letto di puntini di asparagi e patate.
all’ospite la sensazione di benessere immediato. Le stanze, di cui una destinata ai diversamente abili, si caratterizzano per lo stile classico, sono luminose e confortevoli, dotate dei più moderni comfort. "Quando si recupera una struttura di questo genere - spiega l'architetto non è necessario ricreare l'ambiente del Seicento, ci vuole un po' di fantasia. Non è stato facile perché nei secoli erano stati effettuati dei lavori che avevano reso asimmetrico l'intero stabile. Anche all'interno abbiamo cercato di mantenere qualche dettaglio del passato, per esempio alcuni soffitti, che sono tornati meravigliosi". Al piano terra, oltre alla reception, si trovano il ristorante, la zona bar, la stanza della colazione e uno studio-biblioteca. La hall riprende lo stile dell'epoca,
con alcuni divani e un salottino e sempre al piano terra sono collocati l'american bar, la sala della colazione e il ristorante modulabile, con cucina a vista. "L'architettura, come l'arredamento, è una questione di equilibrio - dice Tofoni -. Ho ripreso in alcuni ambienti i motivi architettonici per ridare le forme dell'epoca, giocando poi sugli angoli che sono stati arrotondati per dare morbidezza". La boiserie è un altro elemento che caratterizza fortemente le diciotto camere presenti nei tre piani di Villa Lattanzi, tutte con colori caldi ricavati da calci naturali e quindi non tossiche. "Devo spendere un ringraziamento per il proprietario Beleggia a questo punto, perché mi ha permesso di dare lo stile che volevo alle camere deluxe: creare un ambiente unico con il bagno (...). In questo modo il bagno è un ambiente più vivo, dove poter appoggiare un libro, appendere un quadro, oppure semplicemente farsi la barba ammirando gli scorci mozzafiato delle finestre". Un'ospitalità raffinata e di charme che diventa ricerca di eccellenza in ogni dettaglio, evidente anche nel ristorante collocato al piano terra, la cui peculiarità è esaltare i sapori autentici regionali utilizzando prodotti freschi tipici del territorio
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Gamberoni reali su letto di cruditée.
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in base alla stagionalità e reperibilità, dove il pesce diventa il re della tavola, accompagnato con un'ampia selezione di bianchi e rossi locali, con una particolare attenzione alle vigne autoctone. A dirigire la cucina lo chef executive Sergio Zarroli, con alla spalle18 anni di esperienza all'Ambassador di San Benedetto del Tronto e tanto lavoro all'estero: "Carne, pesce, verdure. La nostra cucina si basa sulla semplicità proprio per sottolineare i gusti tipici della zona. Mi diverte moltissimo cucinare. Punteremo anche a realizzare un orto con erbe e aromi a Villa Lattanzi, sfruttando la mia esperienza professionale come botanico". Il piatto più famoso? Le cozze alla Gianna, preparate con una ricetta segretissima. Il ristorante risponde a qualsiasi esigenza, può ospitare fino a 200 persone grazie alla possibilità di modulare gli spazi: dal pranzo nuziale a quello aziendale, la sala è sempre personalizzata, e anche per incontri di lavoro la struttura offre sale meeting modulabili per consigli di amministrazione o per riunioni di top management. Aperto anche a coloro che non soggiornano a Villa Lattanzi, il ristorante diventa protagonista di numerosi eventi legati all'enogastronomia. L’ultimo piano della Villa regala invece agli ospiti un angolo di
relax dove dedicarsi alla cura del proprio Risotto mantecato agli scampi benessere. Per l’attività sportiva, gli servito in “barchetta” di limone ospiti possono accedere al parco, chia- e petali di rosa canina. mato Bosco del Cugnolo: oltre a un’antica fontana che si trova nel parco, sul lato nord della Villa sorge una cappella domestica in mattoni a forma di chiesa, con l’interno strutturato a pianta circolare con tre altari racchiusi da altrettante cappelline delimitate da colonne ioniche. Nel retro si sviluppa un parco privato di 35.000 metri quadrati, con alberi secolari, una delle poche macchie mediterranee rimaste, e al suo interno si cela la "Grotta degli Amanti", da sempre oggetto di storie tra realtà e leggenda.
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Balzi Retici, wine hotel eroico Valtellina, l’unica grande vallata italiana che si estende da est a ovest. Un grande e ricco bacino vitivinicolo, ma anche commerciale, terziario, turistico. Un melting pot di imprese, connotate tutte da un senso di appartenenza territoriale e culturale davvero particolare. È nella parte forse meno conosciuta ma decisamente più affascinante, lontana dalle invasioni turistiche della domenica e dalle gite dei milanesi che raggiungono le “seconde case” di Bormio o Santa Caterina Valfurva, che ha recentemente aperto una struttura di ospitalità davvero meritevole, condotta con passione e tenacia da giovani imprenditori. Retici Balzi è quello che oggi potremmo definire “albergo diffuso di montagna”, più che albergo a tema. Protagonista, apparentemente, è il vino, il di Alberto P. Schieppati Inaugurato da pochi mesi, l’albergo a tema di Poggiridenti, vicino a Sondrio, è già meta di una clientela fedele, italiana e internazionale. Tra i motivi di richiamo: la posizione unica, sui terrazzamenti vitati della Valtellina vinicola, la sobria ed efficiente modernità della struttura, la presenza del vino come protagonista della scena. Ma anche l’eccellente prima colazione, una delle migliori di Lombardia. E la stupenda ospitalità di Armando Lanzetti e della sua famiglia: gente del vino, che sa come accogliere gli ospiti. Negli immediati dintorni, mete gourmet da visitare.
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Balzi Retici
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buon vino di Valtellina, qui rappresentato con fior di etichette che danno nome ad altrettante camere e suite. Una sfida, quella del Retici Balzi, messa in evidenza, nella hall di ingresso, dal trompe l’oeuil carducciano che recita così: “E tu pendevi, tralcio da i retici balzi… È bello al sole de l’Alpi mescere il nobil tuo vin cantando!”. Armando Lanzetti, con la moglie Elena Pedrola, è il sensibile interprete di questi versi del grande poeta, al punto da dedicare proprio ai “retici balzi” l’insegna dell’albergo di Poggiridenti, a un pugno di chilometri dal centro di Sondrio. Lo stile dell’offerta dei Retici Balzi è unico e caratterizzato: le undici camere, rispettivamente dedicate a grandi etichette locali, dichiarano da subito l’amore della famiglia Lanzetti (ed in particolare di Armando, sommelier professionista prima ancora che albergatore) per il vino. Non a caso, al piano inferiore della struttura si trova una piccola enoteca, con sala di degustazione professionale (una rarità trovarne una così organizzata dentro a una struttura alberghiera) e una selezione delle migliori etichette di Valtellina, prodotte grazie al lavoro “eroico” in vigne e terrazzamenti di forte dislivello. Delle undici camere, belle e funzionali, tutte con affaccio e vista panoramica mozzafiato sulla vallata, notevole è la junior suite, dedicata al
Fruttaio Ca’ Rizzieri, un vino dell’azienda vinicola Rainoldi, a picco sui vigneti di Grumello, dotata di tutti i comfort, compresa la vasca in camera e il bagno a vista. L’hotel offre agli ospiti una prima colazione memorabile, con dolci artigia-
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Tra il Poggio e Castel Grumello Visto che ai Retici Balzi si beve (bene) ma non si mangia (se non alla prima colazione), Armando ed Elena segnalano agli ospiti, con un fairplay notevole, indirizzi vicinissimi per gustare una ottima cucina valtellinese, di impegno e di gusto. A cinquanta metri dall’albergo, troviamo il ristorante Il Poggio. Qui si è accolti con grande cortesia da Luciano, responsabile di sala vecchio stile, e dai patron, lo chef Gino Gianola e la consorte Simonetta Testini, con il figlio Mauro in affiancamento al padre ai fornelli: un gruppo affiatato e professionale, che esprime solidità e tradizione nelle proprie proposte. L’ottima cucina, infatti, è di impronta classica, ma non disdegna proposte
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creative e insolite. Qui si viene per i chiscioei e per lo tsigeuner alla brace, un piatto di derivazione svizzera, composto da carne di manzo alla brace avvolta in un bastone di legno e lasciata sul fuoco del braciere qualche minuto prima di essere servita. È preparata magistralmente dalla brava Simonetta. Buone le bresaole di manzo, di cervo e di cavallo. Notevole l’offerta di formaggi, fresco di capra, Bitto, casera stagionato nella vinaccia… . Da provare poi gli gnocchetti del Poggio, con patate e mirtilli nell’impasto, sughetto di parmigiano e nocciole tritate, il tutto legato da una discreta, quasi impercettibile, presenza di panna fresca, ancora, crema di zucca con perle di gambero, orzotto bresaola porcini e casera. In menù anche una linea di cucina “mediterranea” che potrà sembrare fuori luogo in questa vallata alpina, ma che risponde al bisogno di diversità che molta clientela del ristorante desidera. Fra le proposte, anche un gran menù di cinque portate (42 euro), denominato “Lascia fare allo chef”: i vini in abbinamento, come ovvio, sono i migliori di Valtellina. A meno di un chilometro, troviamo un’altra meta gourmet di ottimo livello: Castel Grumello, tutelato dal FAI, ma con un punto di ristoro da manuale. Questo è il regno di un personaggio fantastico, Gianni Testini, classe
1957. Cuoco verace, grande comunicatore, anticonformista e preparatissimo sulle materie prime, Gianni non ha peli sulla lingua, grazie anche ad esperienze internazionali che lo hanno decisamente forgiato e convinto che, in cucina, ci vuole qualità ma anche sostanza, struttura, concretezza. Gianni Testini, dopo avere visto il mondo, ha fatto scuola di lungo corso, con gestione diretta di cucine importanti in luoghi famosi: Momus e Charlie Max a Milano, i ristoranti più “in” di Port Raphael e Costa Smeralda, e - ancora a Milano - il Baretto di via Sant’Andrea (ora in via Senato), dove era socio di Vincenzo Zagaria. A Castel Grumello si è accolti da Paolo Miotti, quarantacinque anni di cui venti qui: bravo, professionale, rapido ed efficiente nel consigliare i clienti e raccogliere le comande. La cucina di Gianni è decisamente “fuori dal coro” della tradizione ortodossa
valtellinese: pur partendo da bresaola cervo, slinzega e punta d’anca, i piatti portano verso una succulenza decisa e memorabile. Da provare: involtini di crespelle radicchio, prosciutto, formaggio e tartufo nero di Gubbio, paste fresche dalla sfoglia sottilissima, tagliatelle di segale al sugo di lepre, ravioli freschi con ripieno di fegatini di pollo, costolette di agnello con polenta taragna (eccezionali), ma anche piatti di pesce proposti all’insegna di una freschezza inedita per una vallata alpina... . Insomma, il Gianni di Castel Grumello ha la classica “marcia in più”, una sorta di “unicum” nel panorama decisamente “pizzoccherato” della Valtellina. “Non ho mai voluto lavorare con i turisti, che cercano i soliti piatti... - dice Gianni -. Il posto (a strapiombo sulla valle, in un punto molto panoramico) ha una clientela soprattutto locale che è alla ricerca di piatti alternativi, dai gusti e sapori diversi da quelli di tutti i giorni”. Anche qui, come al Poggio, i vini rappresentano il meglio dell’offerta valtellinese, con felici, importanti escursioni extraterritoriali ed extranazionali.
nali preparati dalla brava Elena e specialità valtellinesi: bitto della Val Gerola, bresaola, salumi ma anche yogurt e succhi di frutta di piccoli produttori molto attenti alla qualità. L’impegno dei Lanzetti nella conduzione dei Balzi è notevole e si percepisce da molti particolari, primo fra tutti l’attenzione verso l’ospite, che nella struttura “deve sentirsi completamente a proprio agio, senza i vincoli tipici dell’offerta alberghiera: orari, spazi, movimenti. Qui ognuno è libero di gestire il proprio tempo come meglio crede”. Il piccolo centro-benessere dell’hotel, anch’esso dedicato ad un vino valtellinese, l’Ortensio Lando (eccellente nebbiolo della giovane azienda
guidata da Luca Faccinelli), contribuisce al relax totale. Vasca idromassaggio per sei persone, sauna finlandese, docce sensoriali, biosauna invitano a lasciarsi andare, a dimenticare gli stress e a godere dell’atmosfera del luogo. Salvo poi, a fine relax, recarsi in enoteca per una degustazione guidata (dallo stesso Armando Lanzetti) di Inferno, Grumello, Sassella. Fascinosi i nomi, e all’altezza delle attese anche il contenuto delle bottiglie: fra le altre, Pietrisco, Corte della Meridiana, Terrazzi Alti, Buon Consiglio, San Lorenzo, Vigneto Fracia, Fruttaio Cà Rizzieri, Ortensio Lando, Carteria, Dirupi, che poi sono i nomi degli spazi delle camere e delle suite. Così qui, nella patria del nebbiolo (di Lombardia, ché il Piemontese lo lasciamo alle mitiche langhe…), da oggi c’è un motivo in più per inoltrarsi. Per degustare, certamente, ma anche per dare al proprio tempo un valore differente.
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Björk arriva in Italia 82
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di Luisa Contri
nella vicina Svizzera, dipenderà invece dall’individuazione di partner finanziari di rilievo. Chi c’è dietro il progetto Björk (che in svedese significa betulla) è presto detto. Ci sono due italiani letteralmente stregati dalla cultura nordica e due svedesi. Sono Giuliana Rosset, l’imprenditrice che ha lanciato e portato al successo il marchio di sportsware Napapijri e che da 5 anni è titolare dell’albergo diffuso Hotel Village di Quart (composto da dieci chalet), di cui la Björk Swedish Brasserie è il ristorante. Nicola Quadri, architetto legato alla cultura scandinava e fine conoscitore delle sue arti applicate, di cui è sempre stato un grande sostenitore e divulgatore nel nostro paese. Agorelius, una sorta di Carlin Petrini nordeuropeo, nelle vesti di consulente e di scouter di specialità agro-alimentari scandinave super premium. Specialità che in buona parte si fregiano del marchio di qualità ideato dallo stesso Agorelius: Husmansbord Gastronordic, forte anche della sua expertise sia produttiva è titolare di un’azienda agricola fondata dai suoi
La Scandinavia è servita con il progetto Björk, che punta a moltiplicarsi anche nel nostro Paese e a chiudere il 2014 con un fatturato di 1 milione di euro. Per ora il progetto si è concretizzato in una Swedish brasserie, attiva da settembre 2012 a Quart, appena fuori Aosta, e in un negozio a Milano. Lo spazio milanese, che propone il meglio della produzione agro-alimentare svedese e articoli di design nordico, il Björk Side store, è stato inaugurato nel capoluogo lombardo nel novembre scorso. Ma già entro l’anno i suoi promotori hanno pianificato l’apertura di una seconda Björk Swedish Brasserie a Milano. L’ulteriore sviluppo del format nel resto d’Italia, ed eventualmente Artù n°61
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Qui sotto la brigata della Björk Swedish Brasserie. Il secondo da sinistra è lo chef italiano Julien Chiudinelli, mentre il primo a destra è lo chef svedese Mattias Sjöblom.
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antenati nel 1648 e ha il pallino del buon cibo - che di gourmand. E Tomas Sjölander, in qualità di fornitore. Sjölander è infatti direttore vendite di Värmland, un’associazione di 19 cooperative di consumo della contea svedese di Värmland, che gestisce nel paese una catena di supermercati, per un fatturato di 470 milioni di euro. Una quinta persona, la food blogger Judy Witts Francini, amica di Rosset, ha avuto un ruolo nella nascita della Björk Swedish brasserie: ha infatti messo in contatto l’imprenditrice con Mattias Sjö, lo chef svedese laureatosi all’Accademia di Grythyttan, la maggior espressione della cucina svedese, che ne ha impostato l’offerta gastronomica, sviluppandola insieme allo chef italiano Julien Chiudinelli, attuale chef operativo del locale. Un’offerta gastronomica che è stata recentemente rinnovata e arricchita, grazie anche alla disponibilità di una più vasta gamma d’ingredienti made in Sweden resa possibile dall’accordo con Konsum Värmland. E la cui svedesità, passateci il termine, è garantita anche dal fatto che in cucina si avvicendano ai fornelli giovani chef in stage, provenienti dall’accademia di Grythyttan.
La carta della brasserie è dunque ora ricca e articolata. Dà infatti la possibilità al cliente di scegliere fra un pasto veloce, da brasserie appunto, e uno completo, da vero e proprio ristorante. I clienti più frettolosi possono scegliere fra quattro piatti unici dal costo contenuto (mediamente 12 euro) da accompagnare, volendo, con birre nordiche (in carta ce ne sono sei) oppure artigianali. Ben più vario il menu ristorante, che prevede otto antipasti, sei piatti principali, dei quali due vegetariani, altrettanti secondi di pesce, quattro piatti di carne e ancora dessert e formaggi. E in più, diversi riquadri, come quello dedicato alle aringhe,
preparate in tanti sfiziosi modi diversi. La carta si completa con cinque menu degustazione: dal più frugale, composto da un antipasto, un piatto principale e un dessert (a 30 euro a persona) al più completo che prevede cinque portate: due antipasti, un piatto principale, un secondo e un dessert (a 45 euro a persona). Ampia è anche la scelta dei vini, per lo più italiani. Non mancano ovviamente diversi tipi di sidro, il classico succo di mirtilli, il Blåbär 100%, e altri succhi. Qualche esempio di piatto? Fra gli antipasti un classico è certamente il gravlax, ossia il salmone marinato. Fra i piatti principali il laxpudding, una millestrati al salmone, pietanza popolare che si può gustare nei chioschi dei mercati di Stoccolma. Fra i secondi invece l’hamburger di salmone, una creazione degli chef del Björk, le kottbullar, le tradizionali polpette svedesi, il kalix fråm Vänern, ossia il caviale di coregone del lago di Vänern, apprezzato dagli intenditori di uova di pesce, i gamberi royal, dei gustosi gamberi di fiume. Fra i dolci un classico del locale è la meringa flambé dal cuore gelato, accompagnata dalla marmellata di cloudberry, la mora artica.
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Franconia tedesca
Baviera da scoprire
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anche per gli appassionati di storia e per chi cerca momenti di benessere per il corpo, la mente e lo spirito. Ma la Franconia si distingue anche per i grandi eventi culturali, capolavori d’architettura e un’ottima cucina, senza dimenticare birre e vini, destinati a una ristorazione che offre tipicità ma anche innovazione. di Rocco Lettieri Una vacanza in Franconia ha sempre tanto da offrire: nel verde della natura fanno capolino città storiche, incantevoli cittadine, borghi suggestivi e località termali, l’ideale non solo per chi ama le vacanze attive, ma
La Franconia è la regione situata nella parte settentrionale della Baviera e molto spesso viene definita la “Germania in miniatura” per la grandissima varietà di ciò che offre ai suoi visitatori: ognuna delle sue 15 regioni turistiche, infatti, ha un fascino unico e inconfondibile. Più della metà della superficie della Franconia è coperta dal verde dei suoi nove parchi naturali, che offrono paesaggi d’incanto. Non si possono non citare, infine, i numerosi musei e l’intensa vita culturale della regione, e, come “ciliegina sulla torta”, l’ottima cucina regionale con le sue specialità, le sue famosissime birre e i suoi eccellenti vini. In Franconia troviamo anche ben quattro siti Patrimonio Mondiale dell’Umanità Unesco: la sfarzosa Residenza di Würzburg, il centro storico di Bamberg, il Limes eretto dai Romani a confine del loro impero e il Teatro d’Opera barocco dei Margravi di Bayreuth. Nel 2013 Bamberg e l’Unesco hanno celebrato i 20 anni da quando il centro storico millenario di questa splendida città, residenza di potenti vescovi e imperatori, veniva incluso nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità, non da ultimo per capolavori quali il Duomo imperiale, il Vecchio Municipio o “Altes Rathaus”, costruito su un’isoletta del fiume, e il “Gartnerviertel”, l’area storica degli orti e dei giardini dalle caratteristiche strutture medievali. L’Opera dei Margravi di Bayreuth, invece, è diventata Patrimonio Mondiale dell’Umanità nel 2012, ed è quindi il sito Unesco più recente della Franconia. L’edificio, uno dei teatri barocchi più belli d’Europa, testimonia ancor oggi la vita e l’opera della margravia Wilhelmine, che fece della città uno dei maggiori centri culturali dei suoi tempi. La varietà della regione della Franconia si rispecchia anche nell’ampio ventaglio Artù n°61
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Birra, oro liquido
delle sue manifestazioni: feste folcloristiche, appuntamenti gastronomici o enoculturali, oppure ancora concerti d’alta classe o tradizionali mercatini di Natale. Da non dimenticare, poi, i festival della letteratura come la Festa dei Poeti di Erlangen, a cui si alternano rievocazioni storiche, spettacoli teatrali e cicli di manifestazioni a tema. In Franconia, naturalmente, le feste non mancano mai, basti pensare alle feste della birra come la “Bergkirchweih” di Erlangen, la “Annafest” di Forchheim, o ai festival più esotici quali il Samba Festival di Coburg e l’Africa Festival di Würzburg. La Franconia offre la massima qualità anche agli appassionati di ciclo-escursionismo con ben tre ciclabili premiate dall’Associazione cicloturistica tedesca (ADFC). Uno dei percorsi più variegati è sicuramente la ciclabile del Meno (“Main-Radweg”, 600 km circa), la prima pista ciclabile tedesca ad aver ottenuto la classificazione delle cinque stelle di qualità dall’ADFC. Anche la “classica”, la Ciclabile del Tauber
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Una birra fresca appena spillata è indiscutibilmente un piacere tutto da gustare. Ma non è tutto, soprattutto se la birra in questione è una vera birra di Franconia. La Franconia e la sua birra, infatti, sono da molti secoli un binomio indissolubile: in questa regione bavarese la tradizione birraria di antica origine si unisce alla maggior densità di birrifici al mondo dando vita ad un’incredibile varietà di tipi di birra, a cui si rende omaggio con grandi feste “spumeggianti” e con itinerari che portano a conoscere più da vicino il mondo della birra e le sue tante piccole e grandi curiosità. “Franconia, patria delle birre”, quindi, è molto più di un semplice modo di dire: ad esempio è anche il titolo di un’iniziativa turistica di alta qualità presentata in una guida di oltre 100 pagine in inglese (“Franconia, Home of the Beer”) e in tedesco (“Franken-Heimat der Biere”), edita dall’Ente di promozione turistica “Tourismusverband Franken e. V.” in collaborazione con l’associazione dei produttori di birra bavaresi per presentare l’ampia gamma di offerte incentrate sulla cultura della birra in Franconia. Qui si trovano circa 300 birrifici: sono sia aziende di lunghissima tradizione birraria, sia birrifici di medie dimensioni, birrifici comunali e birrifici privati con annesso albergo. Questi ultimi hanno perlopiù una produzione limitata, inferiore ai 1.000 ettolitri l’anno, e producono birra venduta esclusivamente nelle loro birrerie. La presenza di tanti birrifici dà origine a quell’incredibile varietà di tipi di birra che caratterizza tutta la regione, non unicamente perché ogni cotta che esce dalla sala di cottura ha un gusto leggermente diverso dalle altre, ma anche perché quasi tutti i birrifici producono anche una loro
birra speciale. I tipi di birra, quindi, sono moltissimi, basti pensare ad esempio alla “Raüchbier”, la birra affumicata, alla “Zwicklbier”, la birra cruda non pastorizzata, alla “Eisbock”, la cosiddetta “birra di ghiaccio” dalla gradazione alcolica superiore alla media, o alla “Kellerbier”, la birra torbida non filtrata. Per i produttori di birra della Franconia la qualità è un criterio fondamentale, che inizia con la qualità degli ingredienti della bevanda: solo acqua pura di sorgente della zona della Rhón, luppolo pregiato dell’area di Spalt e orzo selezionato prodotto nella regione, da cui si ricava un malto eccellente. “Franconia, patria delle birre”, però, è anche il filo conduttore di varie iniziative che, puntando sempre sulla qualità, portano a conoscere
più a fondo le birre di produzione locale. Vi sono, ad esempio, molte piste ciclabili e sentieri escursionistici a tema come le Strade dei birrifici nella zona di Ahorntal, ad Heiligenstadt e ad Aufsess. E non mancano poi i musei della birra e dei birrifici, come il Maisels Bra-
uerei-und Buttnereimuseum di Bayreuth e il Bayerisches Brauereimuseum di Kulmbach, dove si rimane a bocca aperta per la meraviglia, ma non certo a bocca asciutta. Con la guida “Franconia, Home of the Beer”, l’iniziativa si propone di far conoscere il meglio della cultura birraria della regione presentando una selezione dei migliori birrifici con annessa struttura ricettiva e, naturalmente, delle feste della birra più belle. Le feste della birra sono sempre fra gli eventi più amati della Franconia, ma non solo perché è lo spumeggiante “oro liquido” a fare da protagonista. Ci sono feste quali la Bergkirchweih di Erlangen, la Annafest di Forchheim, la Michaeliskirchweih di Fùrth o ancora la Schlappentag di Hof che sono una finestra aperta sulla storia e sulle tradizioni birrarie della regione, ed emozionano sempre sia chi qui è di casa e sia chi è solo in visita. Oltre all’associazione produttori “Private Brauereien Bayern e. V”, fra i promotori dell’iniziativa “Franconia, patria della birra” vi è anche l’azienda dei trasporti extraurbani di Nurnberg (VGN). Il motivo è semplice. Dopo un paio di birre (che qui si chiamano “Seidla” e sono da mezzo litro) è meglio ritornare a casa servendosi dei mezzi pubblici: la rete dei trasporti urbani ed extraurbani della VGN, infatti, consente di raggiungere anche numerose mete in cui scoprire il mondo della birra di Franconia, come i numerosi grandi e piccoli
musei della birra e dei birrifici, o anche le molte “cantine della birra” della regione. L’origine di queste cantine risale ai tempi in cui l’unica possibilità di mantenere fresca la birra consisteva nel conservarla in cantine scavate nella roccia viva, all’ombra dei boschi. I birrai della Franconia, sempre ricchi d’inventiva, iniziarono così a vendere la birra direttamente sul posto, dando inconsapevolmente origine anche a un tipico modo di dire: mentre altrove si va in birreria o nei “giardini della birra”, qui si va in “cantina”. Oltre ad essere un’ottima bevanda, la birra di Franconia è anche un ingrediente immancabile in molti piatti tradizionali, molto apprezzato da moltissimi chef della regione. La guida “Franconia, Home of the Beer” può essere consultata anche in Internet sul sito www.frankenbierland.de (in inglese e tedesco), e può essere richiesta gratuitamente all’ente di promozione turistica Tourismusverband Franken. Dati e informazioni sono disponibili anche come applicazione per iPhone (al momento ancora solo in tedesco): l’app è gratuita e consente di scaricare dall’AppStore tutti i contenuti del sito www.franken-bierland.de con il materiale cartografico dettagliato e le informazioni corrispondenti.
(“Liebliches Taubertal Der Klassiker”), può fregiarsi delle ambitissime cinque stelle dell’ADFC: i suoi circa 100 chilometri di percorso conducono in un viaggio nella storia da Rothenburg ob der Tauber a Wertheim am Main. Fra le preferite dai ciclo-escursionisti, inoltre, vi è anche la ciclabile che conduce dal Meno alla Rhón (“Vom Main zur Rhòn”), un anello di 263 chilometri di lunghezza con partenza e arrivo a Gemùnden am Main passando per Bad Kònigshofen e Bischofsheim, che può vantare quattro stelle dell’ADFC. Fra le ciclovie della Franconia si segnala anche un’altra novità: la ciclabile “Tauber Altmùhl Radweg”. Il suo percorso di 350 chilometri fra Wertheim e Kelheim “rincorre” quattro corsi d’acqua (Meno, Tauber, Altmùhl e MainDonau-Kanal) su un tracciato prevalentemente piano, che fa tappa in località di grande bellezza e interesse storicoculturale quali Bad Mergentheim, Rothenburg ob der Tauber, Herrieden, Gunzenhausen ed Eichstàtt. Rimanendo in tema di due ruote, oltre che ai cicloturisti, la Franconia ha moltissimo da offrire anche agli appassionati di viaggi in moto: tour interessanti e all’insegna della varietà, con attrattive naturalistiche e culturali in abbondanza, tranquilli punti
di sosta e strutture ricettive a misura di mototurista fanno della Franconia una regione ideale anche per i bikers. Qualunque sia il modo scelto per esplorare la Franconia, le occasioni di relax non mancano di certo: a garantirlo sono
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le 17 località termali e di cura della regione “Gesundheitspark Franken”, che applicano concetti innovativi e preziosi tesori naturali ricchi di elementi di grande efficacia terapeutica quali sale, radon e acciaio. Grazie ai modernissimi centri termali, alla grande varietà di saune, all’ampio ventaglio di offerte benessere e a strutture uniche quali il primo lago d’acqua termale in Germania o i laghi d’acqua salata con concentrazione salina pari a quella del Mar Morto, è possibile rigenerare il corpo e lo spirito a regola d’arte. Corpo e spirito si rinfrancano anche con la buona cucina accompagnata da ottimi vini, un campo in cui la Franconia si distingue per un’ampia scelta della massima qualità garantita dal marchio “FrankenWein.Schòner.Land!”. Quest’iniziativa a sostegno del turismo enoculturale di qualità si rivolge agli appassionati di viaggi enogastronomici selezionando strutture ed eventi in base ai criteri qua-
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litativi più rigorosi, ad esempio “Tenute con strutture alberghiere”, “Vini & cantine” e “Feste del vino”. Tutte le informazioni sono raccolte in una guida e nel sito Internet www.franken-weinland.de entrambi aggiornati annualmente e disponibili anche in inglese (purtroppo non in italiano). Grande successo ha ottenuto anche l’iniziativa dedicata alle birre della Franconia (“Franken-Heimat der Biere”), che riunisce offerte e proposte di strutture ricettive, tour, feste e manifestazioni che ruotano intorno al mondo delle famosissime birre della regione. Informazioni a riguardo sono disponibili sul sito www.franken-bierland.de sia in tedesco, sia inglese. Un’ultima novità, infine, riguarda il mondo di Internet: informazioni aggiornate in italiano sono disponibili anche sui siti www.visitfranconia.com e www.frankentourismus.it che presentano la Franconia in tutta la sua straordinaria varietà.
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Grillo da riscoprire Altri esempi di tipicità GRILLO Via Chigollo 6 22070 Capiago Intimiano (Co) 031 460185 Chiuso il martedì www.ristorantegrillo.it
Il luogo, molto bello, immerso nella campagna brianzola intorno a Montorfano (a una manciata di chilometri da Como), evoca paesaggi nordici. Potremmo essere nella brughiera gallese, o nelle campagne del Baden Wurttemberg, o fra le dolci colline di Borgogna. Invece siamo a mezz’ora da Milano e da Lugano, ma anche vicinissimi al lago di Como, con le sue ville e l’offerta di ristorazione (almeno secondo le guide gastronomiche) decisamente scarsina, fatte le solite eccezioni. E per il Grillo eccezion va fatta, diamine. Una coppia di professionisti, innamorati della professione, guida questo ristorante da oltre trent’anni, con grinta, determinazione ma anche sapienza e stile. Patrizia e Antonio Sironi (sala e cucina, con la presenza del figlio Alessandro, di ritorno dagli States, dove faceva il manager alberghiero a Miami) sanno bene come si fa questo mestiere: a cominciare dalla scelta delle materie prime, per arrivare fino a marketing e promozione, la coppia – brianzolo lui, piemontese lei – guida l’impresa con notevole savoir faire. Il menù segue estro e stagioni ed è riccamente costellato di piatti dall’impronta decisa, che si affiancano però a preparazioni più raffinate e “gentili”. Il tutto è connotato da notevole equilibrio, con ingredienti, cotture, sapori destinati a farsi capire dal cliente che, sempre meno, desidera fare fatica quando si siede a tavola. Gusto, soddisfazione, appagamento, leggerezza ma anche sapori, curiosità ma anche semplicità: questi i valori che muovono il cliente della ristorazione, nella stragrande maggioranza. E, quanto a ragionevolezza, le proposte del Grillo sono in assoluta linea con le “nuove” aspettative, di esperienza gustativa in ambiente raffinata e di salva-
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guardia del portafoglio in una corretta logica “prezzo-valore”. Forte di una proposta per il pranzo di mezzogiorno, a prezzi concorrenziali (“piatti dall’orto, dalla terra, dal muilino”, prezzi sotto i venti euro”!), frutto di una riduzione assoluta dei margini oltre che di attenta selezione qualitativa dei prodotti, il Grillo ha un menù decisamente interessante. In carta leggiamo: sformato erbette e carciofi con fondente al parmigiano, agnolotti burro e salvia (da non perdere, replica fedelissima dei migliori di Langa, brava Patrizia che ha portato i sapori della sua terra in questa Brianza così algida), maltagliati al ragù di anatra, risotto carciofi e Silter (il formaggio della Val Camonica, espressione dell’attività casearia di malgari doc), i tagliolini ai missoltitt (gli agoni messi ad essiccare a Bellagio, Lezzeno o Gravedona, sul lago di Como), il ganascino (in carta è scritto “ganassino”, come sostiene Sironi) al nebbiolo, con purea di cipolle di Tropea e polenta, petto d’anatra al fondente Valrhona profumato al coriandolo e cumino. E, ancora i gran bolliti misti o la cassoeula, proposti all’interno di “serate speciali” monotematiche. Il 20 febbraio scorso si è tenuta la cena dedicata ai formaggi, autentica passione dello chef patron, che ha sfoggiato sul carrello autentiche chicche italiane, capaci di “umiliare” i più grandi maitre fromagier d’Oltralpe: la beola della Valsesia, la toma di pecora di razza frambosana alle erbe, il basajo (uno straordinario blu di pecora, erborinato con latte ovviamente di pecora, affinato con le vinacce di passito di Pantelleria) molte altre “chicche”. E giovedì 6 marzo, Antonio ha dedicato ai grandi salumi di Valtellina e di Valchiavenna (mitica la “brisaola”, con la “i”) un'altra serata di cultura di ingredienti, affinatori, selezionatori. Pionieri del gusto, insomma. Al Grillo si vive un’esperienza gourmet fuori dagli schemi, senza l’impronta di certa ristorazione stellata, che punta a stupire in nome del lusso o dell’ostentazione (pur motivata) ma con la sicurezza di godere di materie prime al meglio delle possibilità, di un’ospitalità di
categoria superiore, di una atmosfera rilassante e non impositiva. E di una umanità di altri tempi. A questa “libertà nella scelta” concorre la presenza di una cantina sontuosa, da visitare come un museo ma senza alcuna soggezione, ricca di etichette famose e meno conosciute, memorabili e perfette per gli abbinamenti ai piatti. Una raccomandazione: prima di scegliere, ascoltate Antonio, che la sa lunga in materia. Per la cronaca, Patrizia è patron di un piccolo locale nelle vicinanze, il Creme, nella dependance di Villa Barbavara: una sorta di fascinosa caffetteria o lounge moderna con offerta di tè, pasticceria dolce e salata, ma anche bottega di specialità gourmet, destinate a palati fini e appassionati di buona enocucina. Da gustare fra travi a vista e relax totale.
modissima per chi voglia trovare un luogo dove mangiare molto bene a due minuti dall’autostrada. Nelle tre linde salette, semplici ma di buon gusto, si mangiano piatti della tradizione emiliano-parmigiana, con qualche “fuga” nel pesce. Ottimi, ovviamente, salumi con la torta fritta, anolini e primi in generale, la trippa alla parmigiana ma anche un ottimo salmone marinato e il tonno scottato. I vini sono quelli “frizzanti” del Ducato… Il servizio è familiare, nel vero senso della parola, visto che fatto dai tre membri della famiglia Sibani: padre, madre e figlie. Prezzi onestissimi, sui 30€ con un buon vino (Guido Bernardi).
BUSSÈ Piazza Duomo 31 54027 Pontremoli (Ms) 0187 831371
I SIBANI Via Chiusa Ferranda 4 43036 Fidenza (Pr) 0524 522492
Pontremoli, costruita su una penisola fra due fiumi, è una città deliziosa e poco conosciuta e Bussè ne è un po’ il simbolo culinario. In queste tre salette È una trattoria di campagna ma con che ricordano tanto una taverna meuna “marcia in più” e poi molto ben col- dioevale è passato un po’ tutto il Gotha locata, all’uscita di Fidenza della A1, co- che da Milano, Parma, Bologna, va
LEGENDA Cervello incoronato = Memorabile, coerente, ineccepibile per qualità delle materie prime e ragionevolezza dell’offerta Tre corone = Ottima cucina, perfetta esposizione delle voci in menù, ambiente e servizio all’altezza Due corone = Linea di cucina corretta Una corona = Cucina dignitosa e affidabile Corona nera = C’è ancora molto da fare Tre cervelli = Il massimo della ragionevolezza Due cervelli = Ragionevole Un cervello = Abbastanza ragionevole Cervello nero = Scarsamente ragionevole
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verso la Versilia o la Liguria; ma i tre fratelli Bertocchi non si sono montati la testa, il loro stile e la loro cucina sono quelli di sempre. Come da secoli in Lunigiana si mangiano i testaroli al pesto (la tipica pasta locale fatta cuocendo acqua e farina fra due testi), l’inimitabile torta di erbette, l’arrosto cotto nella terracotta, il polpettone, le verdure ripiene, i peperoni al tegame, i fagioli all’olio, il castagnaccio. In sala c’è Antonietta Bertocchi, dalla lingua tagliente ma simpatica ed efficiente, e il fratello professore che dà una mano con un certo aplomb e segue i vini; in cucina c’è Ida, l’altra sorella, che continua la tradizione di famiglia. Venire qui in una sera d’autunno quando nelle stradine di Pontremoli si sente l’odore dell’olio appena franto o della farina di castagne, può essere un vero piacere (Guido Bernardi).
della tradizione, concetto peraltro molto abusato nella ristorazione italiana contemporanea. Qui, però, c’è passione e dedizione. Lo si capisce già parcheggiando l’auto nella corte, autentica espressione della Milano di ieri, e poi entrando nel locale, molto ampio ed effettivamente dotato di tre antichi camini che ricreano atmosfere antiche e di nostalgica suggestione. Inevitabilmente vengono alla mente le trattorie milanesi di un tempo, quelle con il menù ciclostilato nell’inchiostro blu (prerogativa dei primi toscani arrivati quassù) e le seggiole impagliate, in attesa di un minestrone o di un paglia e fieno panna e prosciutto. Tempi andati, sostituiti spesso – in tanta ristorazione - da preparazioni astruse e astratte, preparate all’insegna di sperimentalismi che vorrebbero scimmiottare i grandi chef, con effetti spesso devastanti. Ai 3 caminetti propone piatti sinceri ed onesti, perlopiù di repertorio tradiAI 3 CAMINETTI zionale, come risotto giallo con ossoVia S. Cannizzaro 6 buco, pappardelle sugo di lepre, pipe 02 48202237 ai 3 caminetti, con sughetto cremoso 20153 Milano di parmigiano, prosciutto, ragù, tagliolini Chiuso il martedì al ragù bianco di fagiano, cinghiale www.ai3caminetti.com con porcini, filetto di manzo alla brace, pluma di maiale iberico (il filetto di spalla di suino), brasato al Barolo, “la” Nella zona di San Siro, sopravvive costoletta alla milanese, il maialino questa vecchia costruzione, soffocata da latte al forno con polenta gialla, ed dalla Milano dei condomini e dalla altre amenità del genere “invernale”, modernità che ha spazzato via il pas- come la cassoeula e i bolliti misti. Non sato. Ma i “3 caminetti” resistono e aspettatevi fantasie creative ma solida non si danno per vinti. In una Milano sostanza e gusti decisi. che cambia in continuazione, innovando In estate la carta indulge a preparazioni e imbellettandosi, pensando a come di pesce, alcune anche connotate da superare la crisi, una famiglia di risto- certa vena creativa. ratori coraggiosi continua sulla strada Allo stile dell’accoglienza e alla qualità dei vini (una vasta cantina propone etichette spesso inedite, con prevalenza per Lombardia e Toscana) provvede Anna, figlia del titolare (in cucina con la moglie), che con passione e cordialità conduce i clienti in un percorso enogastronomico di cui non pentirsi.