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MERCATO | Turnover

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PLAYER STRANERI: CHI VIENE E CHI VA

Il post pandemia crea una girandola di brand in uscita dall’Italia, bilanciati da altri che arrivano. Con Milano al centro. Ma non sempre aperture e chiusure riflettono i risultati aziendali A.L.

Il 2022, che doveva essere l’anno di vero assestamento post Covid, si sta purtroppo rivelando un anno ancora complicato, a causa dell’inflazione e dei rincari. Nonostante questo, l’Italia rimane un mercato importante per i brand che decidono di investire in Europa. E c’è sempre un turnover di insegne che vengono e vanno. Sempre con Milano come prima tappa. Prima della pausa estiva ci eravamo lasciati con l’annuncio di Gorillas, che da “unicorno” super promettente del fast delivery, si è trasformato presto in promessa non mantenuta. Ha detto addio al nostro mercato insieme ad altri, come il Belgio, e sta riducendo le attività anche in Olanda. Ma non ha chiuso i battenti. Nei centri urbani la domanda c’è. Il quick commerce deve trovare un equilibrio tra costi e ricavi. Sul fronte arrivi, invece, si è fatta notare a giugno El&N, quella che si fa chiamare la caffetteria più instagrammabile al mondo, che ha aperto in piazza Liberty a Milano, di fronte all’Apple Store. Ci abbiamo fatto una rapida visita a fine agosto. Bella la location, da oliare il servizio. Ma se ne riparlerà. Torniamo alle catene vere e proprie. Ecco tre casi che spiccano su tutti.

Domino’s Pizza lascia dopo sette anni

Sempre in piena estate, ecco la notizia relativa a Domino’s Pizza, brand americano che dice addio all’Italia dopo sette anni. Tecnicamente, il Tribunale di Milano ha dichiarato il fallimento di ePizza srl, la società che controllava il franchising nel nostro Paese. Domino’s era arrivato nel 2015. A inizio 2020, l’allora amministratore delegato italiano Alessandro Lazzaroni (oggi alla guida di Crazy Pizza) lanciava addirittura un piano per 880 aperture entro il 2030, metà a gestione diretta, metà in franchising. In verità, i ristoranti sono sempre rimasti gli stessi, circa una trentina, oggi chiusi. La pandemia, inutile dirlo, ha dato una mazzata micidiale al business. Domino’s ha sempre puntato moltissimo sul delivery, più che sul servizio al tavolo. Il delivery è cresciuto tanto, ma anche la concorrenza, perché ormai non c’è pizzeria che non si appoggi a uno dei tanti servizi di recapito a casa del cibo. Qualche testata generalista, come motivo della crisi di Domino’s, ha tirato in ballo la pretesa azzardata di sfidare il nostro mercato su un piatto così tipico e sulla sfida troppo ardua di solleticare il palato di casa nostra con la pizza americana, larga, bassa, con ananas e “pepperoni”. Però è una lettura superficiale. Certo non è un prodotto facile da distribuire, ma in realtà l’italianità della pizza è un concetto locale. Tanti americani pensano che sia nata lì. È un piatto che si mangia in tutto il mondo, aggiustato e adattato secondo i gusti locali. Da noi ci sono quella napoletana, quella romana, quella del “nord” (friabile, senza cornicione), quella al trancio e così via. Nulla vieterebbe che, nelle grandi città, si ritagliasse una fetta di mercato anche quella americana, alla Domino’s appunto. Di solito, quando un’impresa chiude, ci sono certo problemi contingenti (la pandemia, il cambiamento delle abitudini dei consumatori), ma c’è sempre un difetto del management, o del business plan, in questo caso di chi sviluppava il marchio. Tanto è vero che Domino’s Pizza arretra da noi, ma altrove si sta espandendo. Nel sud est asiatico ha da poco annunciato la creazione di un maxi master franchisee per Malesia, Singapore e Cambogia, con l’ambizione di creare altri

600 ristoranti nel lungo termine. Mentre, sul fronte finanziario, sta tamponando la crisi. I risultati più recenti, quelli relativi al secondo trimestre 2022, mostrano una crescita delle vendite retail dell’1,5% a livello globale e un lieve arretramento (-2,9%) negli Stati Uniti.

Abercrombie ci riprova al “Centro” con il formato “Getaway”

Sempre dagli Stati Uniti arriva un altro brand di cui si sta parlando in questo periodo: Abercrombie & Fitch. Nel 2019 aveva chiuso i battenti il maxi store milanese di corso Matteotti. Un negozio inaugurato dieci anni prima, che per un po’ di tempo aveva “collezionato” lunghe code di adolescenti, il sabato e la domenica pomeriggio, ansiosi di mettere le mani sui vestiti griffati con l’alce. Anche in questo caso, tra pandemia, avanzata dell’e-Commerce e cambiamento nei gusti dei giovani, i motivi della crisi da elencare sono tanti. Adesso il brand ci riprova, ma in una veste nuova. Intanto, cambia la location: non più il centro città, ma un grande centro commerciale, Il Centro di Arese. Soprattutto, cambia l’idea di negozio. Milano, insieme a uno store di Los Angeles, è il primo esempio al mondo del nuovo formato “Getaway”, annunciato ad agosto. Una rimodulazione che riguarda sia l’estetica sia le funzionalità presenti in negozio, improntate all’omnicanalità. “I nostri nuovi negozi riflettono l’estetica del nostro marchio e la funzionalità omnicanale” ha dichiarato Carey Krug, SVP e responsabile marketing dei marchi Abercrombie. “I giovani clienti millennial e zillennial di Abercrombie visitano i nostri negozi per esaudire esigenze diverse: scoprire nuovi prodotti e tendenze, ritirare gli ordini online, connettersi con gli amici virtualmente o di persona, o anche solo godersi l’esperienza del marchio”. Nei negozi c’è abbondanza di uso del legno, camerini sono illuminazione personalizzabile ed elementi di design, un bancone accoglienza che richiama il check-in di un albergo, solo per citare alcuni elementi. Basterà? Abercrombie ha in programma l’apertura di altri punti vendita di questo genere, per tutto il 2023. Eppure, sul fronte finanziario, i numeri non sono facili. L’ultimo trimestre fiscale, chiuso a luglio 2022, ha deluso il mercato. Rispetto allo stesso trimestre del 2021, i ricavi sono scesi del 7% a 805 milioni di dollari, il risultato è stato in rosso per 15 milioni, contro un utile di 109 milioni precedente. Da segnalare, però, che sul fronte vendite è stato il brand Hollister a fare peggio, -15%, mentre invece Abercrombie è cresciuta del 7%. A giugno, l’azienda aveva prospettato un piano a lungo termine con ricavi a 4,3 miliardi di dollari a chiusura del bilancio 2026. Ma sono stime che probabilmente andranno riviste al ribasso.

Rituals, beauty da 1.000 negozi e un miliardo di ricavi

Prima dell’estate, al centro commerciale Carosello di Carugate, ha fatto il suo esordio in Italia con un negozio monomarca Rituals, brand olandese fondato ad Amsterdam nel 2000 da Ryamond Cloosterman, che mescola prodotti di bellezza e cura del corpo a una linea “casa”. L’esordio italiano si è subito moltiplicato nel canale travel, perché dopo Carugate sono arrivate le aperture in Stazione Centrale, a Milano, e all’Oriocenter di Orio al Serio. E pochi giorni fa, a inizio settembre, è arrivata la quarta opening in grande stile, nel pieno di corso Buenos Aires, a Milano. L’Italia era un tassello mancante per il marchio (come negozi, perché i prodotti sono venduti in 39 hotel, tra cui Melia e Novotel Hotels, 12 Shop-In-Shop nei principali aeroporti, nella catena di grandi magazzini Coin e nelle profumerie Douglas e Sephora). Rituals, con l’ultima apertura milanese, festeggia i 1.000 negozi, 100 Paesi e mostra risultati economici sorprendenti. Il bilancio 2021 si era chiuso con l’obiettivo, raggiunto, di superare il miliardo di euro di ricavi, cui ha corrisposto un utile netto di 123 milioni. Cloosterman, che ancora oggi tiene le redini dell’impresa, ha obiettivi ancora più grandi. Nel corso di un’intervista ha affermato che adesso la crescita più decisa avverrà in Asia e con questa strategia le vendite potrebbero anche triplicare in un periodo compreso fra 5 e 10 anni. Le previsioni lasciano il tempo che trovano. Ma di sicuro Rituals, impegnata anche in un percorso di sostenibilità e già certificata B Corp, ha iniziato a penetrare il mercato italiano con l’intenzione di restarci a lungo. Almeno la partenza non dovrebbe essere quella di un “meteora”.

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