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INTRODUZIONE

di Maurizio Oviglia

Un manuale sul clean climbing, ce n’era proprio bisogno? No, certamente, se si considera questo stile di scalata semplicemente una variante del free climbing, ovvero un’arrampicata libera con protezioni non a espansione e non in loco, ma mobili. Può divenire invece un lavoro interessante e finanche inedito se si considera l’arrampicata tradizionale che si avvale come protezione solo di nut e friend come una vera disciplina a sé. Una sorta di arrampicata sportiva (ma che sportiva non è, in quanto conserva una buona dose di rischio e impegno mentale ad esso connesso) su monotiri o vie brevi, ma su protezioni mobili da piazzare a cura dell’arrampicatore nel corso della sua salita.

Possiamo affermare che dalla nascita del free climbing (di cui il clean climbing è appunto una variante), l’evoluzione di questo stile non sia avvenuto in modo univoco nei vari paesi. Anche prendendo in considerazione solo l’Europa, troviamo paesi come l’Inghilterra, l’Irlanda o la Norvegia, dove il clean climbing si è affermato e imposto come stile di scalata dominante. Invero, più che una scelta, è stata una necessità, dato che il continuo piantare ed estrarre i chiodi su pareti brevi avrebbe portato al veloce deterioramento della roccia e delle vie. Ma vi sono altri paesi, come quelli che si affacciano sul Mediterraneo, che agli inizi degli anni ottanta hanno invece quasi totalmente abbandonato il free climbing in favore dell’arrampicata sportiva. In questi paesi il free climbing non è del tutto scomparso ma è stato piuttosto relegato in spazi più ristretti, generalmente in montagna, dove è sopravvissuta (per fortuna) anche l’arrampicata tradizionale o alpinistica come ci è stata tramandata dai pionieri delle Alpi. Va tuttavia rimarcato come quest’ultima sia molto diversa dal clean climbing, in quanto fa uso anche di chiodi e di ogni genere di protezione che possa aiutare a “passare”, anche sacrificando la libera in favore dell’artificiale.

Infine vi sono altre regioni, come parte della Repubblica Ceca e della Germania (la Sassonia), che hanno conosciuto uno sviluppo ibrido, senza dubbio legato al tipo di roccia di cui potevano disporre. Qui troviamo non solo regole etiche differenti, ma anche materiali (i nodi di fettuccia) che potremmo definire “endemici” ovvero utilizzati solo in questa regione. Anche se sulle vie della Sassonia e della Boemia troviamo alcuni anelli resinati posti a grande distanza, moltissime vie sono da proteggere interamente con i nodi di cordino e fettuccia e... cosa c’è di più clean di un semplice nodo?

Il solco tra questi diversi modi di intendere l’arrampicata ha continuato ad approfondirsi sino agli albori del nuovo millennio, poi c’è stata un’apprezzabile inversione di tendenza che ha riportato in auge prima il bouldering e poi la crack climbing (clean climbing lungo le fessure facilmente proteggibili a friend).

Ciò è ovviamente avvenuto nei paesi Mediterranei, dove questi stili erano stati quasi completamente abbandonati in favore dell’arrampicata sportiva protetta preventivamente a chiodi a espansione. Il free climbing “anni 2000”, volendo coniare un nuovo termine, differisce però sostanzialmente da quello “anni ’80”. Innanzitutto predilige monotiri o vie di due o tre tiri (in America anche dette short climb), quando il free climbing comprendeva e comprende tutt’ora nel suo raggio di interesse anche big wall (El Capitan, per esempio). La seconda differenza sostanziale è nell’utilizzo quasi esclusivo di friend e, in alcuni casi, dei nut per la protezione, lasciando i chiodi e il martello a casa. Una ulteriore caratteristica di distinzione, per ora relegata solo ai paesi Mediterranei, è quella di ammettere nel clean climbing la chiodatura a spit delle sole soste (pratica non accettata in Gran Bretagna). Comunque sia, il clean climbing ha subìto un rinnovamento ed è divenuto negli ultimi anni una sorta di scalata sportiva su monotiri, ma con il valore aggiunto del doversi piazzare le protezioni da sé. Parallelamente anche la crack climbing, dove proteggersi è spesso più facile, ha conosciuto nuovo vigore e nuovi adepti, desiderosi di imparare le tecniche di progressione (oltre che quelle di protezione). Anche l’Inghilterra ha così smesso di essere “la Cenerentola” tra le destinazioni scelte dagli scalatori per le loro vacanze; al contrario, molti arrampicatori si sono interessati alle vie inglesi, imparando a conoscere e apprezzare il particolare sistema di valutazione in uso in Gran Bretagna. Anche in altri paesi, come il Portogallo, la Francia e la Svizzera, sono infine nate delle falesie ispirate al clean climbing inglese: falesie che solo pochi anni prima sarebbero state chiodate a spit. Tutti questi eventi, certamente più apprezzabili nell’area mediterranea piuttosto che nel nord dell’Europa, ci hanno convinto della necessità di cristallizzare in un manuale quella che per noi è l’esperienza maturata in questi anni in un’attività che è divenuta una vera e nuova passione da vivere in alternanza (e non in antitesi) con l’arrampicata sportiva. Siamo fermamente convinti che i free climber degli anni ottanta non abbiano bisogno di questo manuale, avendo imparato ogni cosa a suo tempo. Tuttavia il clean climbing si propone oggi ai giovani non come un retaggio del passato, ma come uno stile “nuovo” (anche se nuovo non è affatto), con il suo fascino, le sue tecniche e le sue consuetudini etiche. E le sue destinazioni di elezione, che abbiamo voluto raccogliere alla fine del libro, in modo che esso sia anche una guida per mettere in pratica sul campo quanto imparato. Il nostro lavoro è quindi indirizzato soprattutto ai neofiti di questo stile, a quanti non trovano (più) nell’arrampicata sportiva sufficiente stimolo o siano desiderosi di provare qualcosa di diverso. Infine anche a coloro che, attirati dalle big wall americane o semplicemente dalle famose vie inglesi, vogliano apprendere i rudimenti necessari per poterle affrontare in sicurezza e con maggiori probabilità di successo. Maurizio Oviglia (CAI, Istruttore Nazionale di Arrampicata Libera)

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