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R A M P I C A N T I

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Stefano Ardito

Giorni della Grande Pietra

EDIZIONI VERSANTE SUD EDIZIONI VERSANTE SUD


2010 Š VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l‘edizione italiana tutti i diritti riservati 1a edizione Settembre 2010 www.versantesud.it ISBN 978-88-96634-11-0


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R A M P I C A N T I

Stefano Ardito

GIORNI DELLA GRANDE PIETRA L’alpinismo sul Gran Sasso e dintorni

EDIZIONI VERSANTE SUD



A Tiziano Cantalamessa e Cristiano Delisi. Amici, compagni di cordata, maestri.



Introduzione dell’Autore Quali sono i confini dell’alpinismo italiano? Se si fa l’elenco dei massicci, dei ghiacciai e delle cime dove i nostri connazionali, negli anni, hanno lasciato un segno importante, è fin troppo facile dire che non esistono, o che sono semplicemente quelli del mondo. Tra le tante “montagne degli italiani” sparse ai quattro angoli della Terra figurano il K2 e il Gasherbrum IV in Karakorum, il Monte Kenya e il Ruwenzori in Africa, il Cerro Torre e le vette di padre De Agostini in Patagonia. Parte essenziale dell’elenco, com’è ovvio, sono centinaia di magnifiche vette delle Alpi. Se i confini sono fisici, quelli della geografia descritta dagli atlanti, l’elenco delle nostre montagne (meglio: dei monti che l’Italia mette a disposizione del mondo) è altrettanto vasto e vario. Tra il Monviso e le Alpi Giulie, che si alzano alle opposte estremità dell’arco alpino, c’è spazio per massicci dal respiro himalayano come il Monte Bianco e il Monte Rosa, per giganti di roccia come il Piz Badile e la Civetta, per miti dell’alpinismo e del turismo mondiale come le Tre Cime di Lavaredo e il Cervino. Allargando appena lo sguardo appaiono la Marmolada e il Gran Paradiso, l’Argentera e l’Adamello, le rocce delle Torri del Vajolet e dell’Agner, i ghiacciai del Bernina e dell’Ortles. Questa abbondanza, ovviamente, distoglie molti dal volgere lo sguardo verso sud. Abituati a tante magnificenze alpine, gli abitanti del Trentino, della Valtellina e della Carnia sorridono se un geografo fa loro notare che le regioni più montuose d’Italia sono la Liguria e la Calabria. Un po’ di fama, alle montagne dell’Appennino, arriva da motivi diversi. Sono celebri nel mondo le lave del Vesuvio che hanno distrutto Pompei e quelle dell’Etna che hanno attraversato Catania. Sono famose le cave delle Alpi Apuane, che hanno

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rifornito generazioni di scultori. Chi s’interessa alla natura sa che nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise e sui massicci vicini vivono orsi, lupi, cervi e camosci. Gli “sportivi” da televisore e poltrona sanno di Alberto Tomba. I meno giovani ricordano anche Zeno Colò. D’inverno, la neve che ammanta anche i rilievi più modesti rende l’Appennino simile alle Alpi. D’estate, se si bada alla forma delle montagne, alle pareti di roccia o ai ghiacciai (uno solo, minuscolo e sull’orlo dell’estinzione) la catena che si allunga per mille chilometri tra Reggio Calabria e Savona ha ben poco a che vedere con la sua sorella maggiore del Nord. Pure, a chi le sa cercare, anche la spina dorsale della Penisola sa offrire emozioni di grande, e a volte di selvaggia montagna. Anche il più sommario degli elenchi include i canyon della Majella e del Pollino, le creste dei Sibillini, le pareti delle Alpi Apuane che ispirano da più di un secolo gli alpinisti di Liguria e Toscana. Non c’è dubbio, però, che il massiccio più bello dell’Appennino sia il Gran Sasso, che separa gli altopiani dell’Abruzzo aquilano dalle colline di Teramo. Una montagna di contrasti, che si affaccia sulla valle del Mavone e l’Adriatico con pareti che superano i mille metri di altezza, e che custodisce in luoghi meno visibili muraglie di calcare straordinariamente solido. Un massiccio dove gli ingredienti di tutte le montagne del mondo – roccia e neve, altopiani e boschi, spazi d’avventura e tradizioni – sono miscelati in maniera diversa che nelle altre aree montuose della Terra. Questo libro, però, non è una guida turistica, né un trattato di geografia. Come i due che lo hanno preceduto in questa collana (Dolomiti. Giorni verticali dedicato alle Dolomiti, Giorni di granito e di ghiaccio sul Monte Bianco), racconta la storia dell’uomo alpinista attraverso una serie di giornate e ascensioni importanti. Come i precedenti, non vorrebbe essere letto solo dagli appassionati delle crode, ma raccontare

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a tutti, in maniera coinvolgente, pagine vere e vissute di storia dell’uomo tra neve e roccia, che s’intrecciano spesso alla “grande storia” dei popoli, della cultura e della scienza. Qualche lettore, specie se residente nel Nord, si stupirà nello scoprire che la storia dell’esplorazione del Gran Sasso è più antica di quella dei massicci alpini. Invece è proprio così, perché l’avventura dell’uomo sul massiccio è inizia nell’ormai remoto 1573. Il merito è di Francesco De Marchi, ingegnere militare bolognese, che si lascia incuriosire dal “Corno Monte”, ne raggiunge la cima “per certe vene di sassi, cosa horrenda d’andarvi”, e prende carta e penna per lasciarne una puntigliosa descrizione. L’elenco degli uomini arrivati da lontano che si sono entusiasmati davanti alla grande montagna d’Abruzzo prosegue con Douglas Freshfield, alpinista ed esploratore britannico, che nel 1875 scrive che il Corno Grande “produce un’impressione di gran lunga più profonda di ogni singola montagna della Savoia”. Con Gaudenzio e Corradino Sella, rampolli della più illustre famiglia di alpinisti italiani, che nel 1880 compiono la prima invernale della vetta più alta, e annotano che “la salita del Gran Sasso d’Italia nell’inverno è una delle gite più piacevoli che si possano proporre”. Con Fosco Maraini, orientalista e alpinista fiorentino, che nel 1933 paragona Campo Imperatore al Tibet, e ritrova sul Corno Grande “la pietra, i colori, la vegetazione stessa delle Dolomiti”. Un posto d’onore tra i nordici che si sono innamorati del Gran Sasso spetta ad Aldo Bonacossa, conte, industriale della seta e formidabile collezionista di cime, che negli anni tra le due guerre raggiunge con gli sci il Corno Grande (“una scivolata bellissima, quanto mai veloce, … che supera nettamente il Nuvolau di Cortina”) e le altre vette del massiccio, e vince con il romano Enrico Jannetta due delle tre creste del Corno Piccolo. Per superare in maniera

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integrale la terza, quella che sale dalla Sella dei Due Corni, il conte porta sul Gran Sasso un alpinista famoso come Giusto Gervasutti, che sulla Punta dei Due supera un celebre passaggio di sesto grado. Sono eredi di questi pionieri arrivati dal Nord gli alpinisti, gli escursionisti e gli sciatori-alpinisti che arrivano ogni anno al Gran Sasso dalle tre Venezie, dalla Germania e dall’Austria, dal resto d’Italia e da molti altri paesi d’Europa. La storia dell’alpinismo sul massiccio, però, è stata scritta in buona parte da uomini e donne nati e residenti in Abruzzo, nel Lazio, nelle Marche e in Umbria. Questo libro, com’è ovvio, racconta soprattutto i loro exploit. Sfogliando questo catalogo di personaggi si scoprono uomini d’avventura sorprendenti come Orazio Delfico, il giovane gentiluomo teramano che nel 1794 salì sul Corno Grande carico di strumenti di scienza per emulare le imprese di Alexander von Humboldt e di Horace-Bénédict de Saussure. Come Giovanni Acitelli, il montanaro di Assergi che seppe uscire dallo scomodo ruolo di “guida cosiddetta” per diventare la prima vera guida alpina d’Abruzzo. E come Enrico Jannetta, tranquillo impiegato romano, che divenne un coraggioso ufficiale degli Alpini nel corso della Grande Guerra, e in tempo di pace superò la più grande parete dell’Appennino. Hanno compiuto salite di rilievo i “sucaini” romani degli anni Cinquanta, vincitori di molte belle vie di sesto grado in estate e delle più grandi pareti del massiccio d’inverno, e protagonisti di belle pagine di esplorazione dolomitica. Gli arrembanti alpinisti di Ascoli Piceno, a loro agio anche sulle pareti più friabili. I taciturni alpinisti de L’Aquila, da Mario Cambi, perito in una delle più violente bufere mai registrate sul Gran Sasso, fino ad Andrea Bafile e a Domenico “Mimì” Alessandri. Tra i team di alpinisti che hanno fatto la storia del Gran

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Sasso, il posto d’onore spetta agli Aquilotti, il gruppo di Pietracamela che Ernesto Sivitilli fonda nel 1925, con quattordici anni di anticipo sugli Scoiattoli di Cortina e ben ventuno sui Ragni di Lecco. I suoi componenti, Bruno Marsilii e Antonio Giancola su tutti, salgono negli anni Trenta pareti gigantesche e repulsive come la Nord del Camicia, e raggiungono il sesto grado sulla solida roccia dei due Corni. Oggi, in un mondo sempre più globalizzato, è normale che alpinisti che si sono formati sul Gran Sasso, e che continuano a frequentarlo con passione, lascino la loro firma sulle Dolomiti e sul Monte Bianco, e poi anche in Himalaya, in Patagonia o sulle Ande. Anche sulla grande montagna abruzzese sono arrivate l’arrampicata moderna su roccia, la ricerca delle cascate di ghiaccio, le ascensioni solitarie, i concatenamenti di vie. Qualcuno, nei rifugi e sui sentieri delle Alpi, continua a rivolgere a romani e terroni in genere le vecchie battute sulla “parete Nord di Monte Mario”. Invece l’alpinismo del Gran Sasso, a lungo in ritardo rispetto a quello del resto d’Italia, ha raggiunto finalmente la pari dignità. In questo faticoso sdoganamento, nel dopoguerra, hanno avuto un ruolo fondamentale due personaggi. Il primo è Luigi Mario, l’enfant-prodige dell’alpinismo romano anni Sessanta, che è diventato prima guida alpina e gestore del rifugio Franchetti, poi monaco Zen in un monastero giapponese e poi in Umbria, infine responsabile nazionale dei corsi per guida alpina. È stato lui a far conoscere il Gran Sasso a molti professionisti della montagna di oggi. È stato lui, inserendo nei programmi dei corsi anche lo Yoga, la respirazione e il Tai chi, ad aiutare ad aprire gli occhi sul mondo molti figli delle nostre valli alpine. L’altro uomo (ma all’epoca era un ragazzo) che ha cambiato il rapporto tra il Gran Sasso e le Alpi è Pierluigi

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Bini, il fuoriclasse dell’arrampicata anni Settanta. In cinque anni ad altissimo livello, Bini ha tracciato sul massiccio di casa delle vie di grande difficoltà e di straordinaria eleganza, e ha compiuto sulle più belle pareti delle Dolomiti – Cima Scotoni, Piz Ciavàzes, Sud della Marmolada, Croz dell’Altissimo – le prime ascensioni solitarie di molti itinerari famosi. Alcuni hanno letto di lui sulle riviste, altri se lo sono visti sfrecciare davanti in parete. Molti di loro erano accademici, guide alpine, istruttori del CAI o di altri club alpini europei. Tutti, sulle grandi vie di sesto grado e oltre dei Monti Pallidi, sono rimasti a bocca aperta di fronte alla tuta sdrucita, alle vecchie scarpe da tennis Superga, alla parlata romanesca, e soprattutto alla velocità e all’eleganza di Pierluigi, che si accompagnavano a una straordinaria modestia. Quando il ragazzo prodigio era già sparito verso l’alto, invece di un altro semidio della roccia, appariva un sessantacinquenne piccolissimo e magro, scosso da un tremito violento, con l’accento siciliano e un vecchio casco da motociclista sul capo. “Buongiorno, gente de pianura!”, salutava Vito Plumari prima di seguire verso l’alto la corda di Bini, tesa come quella di un violino. Sono passati trent’anni, ma l’amicizia tra Pierluigi e il Vecchiaccio resta una delle pagine più belle della storia della “Grande Pietra” d’Abruzzo. Stefano Ardito

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Luglio 1977, giugno 1978

Nel Segno del Vecchiaccio Per gli arrampicatori di oggi, la Seconda Spalla del Corno Piccolo è quasi una grande falesia. Alta duecento metri, formata da placche e fessure di calcare straordinariamente solido, ospita una trentina tra vie e varianti. Sugli itinerari della sua parete Sud ovest, assolata e vicinissima al sentiero Ventricini, si formano spesso degli ingorghi. In qualche passaggio, basta una spaccata a destra o a sinistra per spostarsi da una via a quella accanto. Evitata per un canale a sinistra, nel 1923, da Aldo Bonacossa ed Enrico Jannetta, primi salitori di quella che allora si chiamava “cresta delle Spalle”, vinta per un canale-camino sinuoso nel 1930 da cinque Aquilotti di Pietracamela, la Seconda Spalla si è affermata nel secondo dopoguerra come uno dei terreni di arrampicata più belli del Gran Sasso. Dopo qualche itinerario aperto da cordate romane, altre vie sono state tracciate dalla nuova generazione degli Aquilotti, con in testa la guida alpina Enrico De Luca. Qualche placca ripida e levigata, sul confine dell’impossibile se affrontata con gli scarponi rigidi ai piedi, è stata vinta in quegli anni piantando delle file di chiodi a pressione, da percorrere in artificiale con le staffe. In pochi anni, però, anche sulle Spalle l’arrampicata libera fa un grande balzo in avanti. In una bella giornata di luglio del 1977, tre alpinisti molto diversi da loro per look, esperienza ed età sostano alla base dei chiodi a pressione della Via Aquilotti ’72, che in cinque anni è diventata una delle più ripetute del Gran Sasso. Fino a questo punto, a parte gli ultimi venti metri, sono arrivati per un itinerario autonomo, salendo per diedri, grandi scaglie,

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fessure superficiali e placche. Un’arrampicata magnifica, con difficoltà tra il quarto e il quinto grado, destinata a diventare una delle grandi classiche del massiccio. In alto però le cose diventano decisamente più dure. Le fessure finiscono, la parete si raddrizza, la cresta sommitale della Spalla, che dista poche decine di metri, sembra all’improvviso lontana. Verso destra, invitanti, scintillano nel sole i chiodi a pressione piantati cinque anni prima dagli Aquilotti. Fino a quel punto Pierluigi, Massimo e Vito hanno impiegato pochissimo. Continuando un po’ in libera e un po’ in artificiale lungo i chiodi sarebbero fuori in mezz’ora. Pierluigi Bini, però, preferisce una soluzione più elegante. Lasciata la sosta, inizia a salire verso sinistra in quel deserto di roccia levigata e compatta. Le vecchie e consunte Superga che ha ai piedi aderiscono alle minime svasature della roccia, ma per le mani ci sono solo dei buchi svasati. Con un raffinato gioco di equilibrio, l’alpinista si alza per uno, due, dieci metri sulla placca. Massimo Marcheggiani lo assicura con calma, ma è preoccupato. Sa bene che il capocordata è un fuoriclasse, ma la placca non consente di piazzare ancoraggi, e la corda fila libera e inquietante verso l’alto. Un volo di Bini da dieci o quindici metri di altezza sarebbe un grave rischio per lui, e darebbe un colpo tremendo agli ancoraggi della sosta. In alto, a qualche metro da lui, Pierluigi vede bene l’unica presa netta della placca. Lì vicino, forse, sarebbe anche possibile piantare un chiodo. Ma quei metri mancanti, con la corda che pende libera verso il basso, pesano anche per un campione come lui. Il vento diventa più violento ogni minuto che passa. Si ferma, riprende fiato, cerca di concentrarsi per salire, poi rinuncia. “Occhio Massimo, scendo arrampicando!” grida al compagno di cordata. La discesa, su una roccia come quella, è molto più difficile della salita, ma Bini è un arrampicatore straordinario. Dieci

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minuti più tardi, con un’ultima spaccata, torna dai suoi compagni di cordata. Il tempo di riprendere fiato, poi riparte a passo di carica lungo i chiodi a pressione della Aquilotti ’72. Mezz’ora dopo, i tre alpinisti sono sulla cresta orizzontale della Spalla. Il vento, qui, non dà fastidio più di tanto. “Chiunque lo abbia visto arrampicare porta il ricordo indelebile di uno stile inconfondibile, di una leggerezza e di una velocità eccezionali”. Con queste parole, nella loro guida del Gran Sasso pubblicata da CAI e TCI nel 1992, Luca Grazzini e Paolo Abbate presentano Pierluigi Bini, l’uomo (o il ragazzo) che ha cambiato in una manciata di anni il volto dell’alpinismo sul massiccio. Pierluigi e i molti giovani arrampicatori che seguono il suo esempio, sulla stampa specializzata, sono stati spesso presentati come “alpinisti di borgata”, di estrazione proletaria. Una definizione vera solo in parte, e che rischia di dare un’immagine sbagliata. Nella storia di Bini non ci sono né le borgate disperate e remote di cui scriveva Pier Paolo Pasolini, né quelle della Roma di oggi, popolate in gran parte da extracomunitari che pendolano ogni mattina verso il centro. Nato a Torre Maura, nella periferia sud-orientale dell’Urbe, Pierluigi viene da una famiglia relativamente agiata (il padre ha una piccola fabbrica di mobili), che vuole farlo studiare e lo fa iscrivere al liceo. Il suo mondo, però, ha ben poco a che vedere con quello degli alpinisti romani del tempo, in buona parte studenti dell’Università La Sapienza e impegnati politicamente a sinistra. Come dimostreranno molte delle sue vie nuove al Gran Sasso – le Placche di Manitù, le Placche del Totem, il Diedro di Mefisto – le letture preferite da Bini sono i fumetti che hanno per protagonista Tex Willer. Nella storia di “Piero”, come lo chiamano gli amici, hanno però un ruolo importante due libri.

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Il primo è l’enciclopedia dei Fratelli Fabbri, scovata in uno scaffale di casa e aperta alla voce “Alpinismo” nel 1974, quando Pierluigi ha quindici anni. L’indomani, preso dall’entusiasmo, Bini tenta di imitare i personaggi che ha visto nel volume. Insieme all’amico Raffaele Bernardi, muove i suoi primi passi di arrampicata su un ponteggio di tubi Innocenti. Negli anni successivi, dopo aver letto Settimo Grado di Reinhold Messner, con i suoi capitoli dedicati all’allenamento, Pierluigi costruirà la sua palestra di arrampicata privata scavando delle tacche su un muro di sostegno della Via Casilina, non lontano dallo svincolo con il Raccordo Anulare. Grazie a quel libro (e poi a Un alpinismo di ricerca di Alessandro Gogna, che avrò il piacere di prestargli e mi verrà reso mesi dopo, e consumato dall’uso) Bini si avvicina ai grandi problemi delle Alpi, e al momento di transizione che l’alpinismo sta traversando in quegli anni. Le grandi imprese, le invernali faticose, le staffe esistono ancora. Ma il futuro – anzi, il presente – è fatto di velocità, di eleganza, dell’etica severa del grande alpinista altoatesino. Le prime nozioni tecniche, sull’arrampicata e sull’uso della corda, arrivano a Piero tra i quindici e i sedici anni, quando frequenta insieme a due amici un corso di introduzione all’alpinismo organizzato dall’ESCAI, il gruppo giovanile della sezione di Roma del CAI. Al termine di quella esperienza Pierluigi inizia a frequentare le tradizionali falesie del Monte Morra e di Guadagnolo, la cava abbandonata di Ciampino con le sue fessure sfuggenti, poi il Gran Sasso e le Dolomiti. Rys’ Zaremba, che abbiamo incontrato qualche capitolo fa, è stato istruttore di Piero nel corso, gli presta Settimo Grado e gli consiglia di lasciare a casa gli scarponi rigidi. Meglio scalare con ai piedi un paio di Superga, le scarpe da tennis con la suola ruvida. In un difficile pomeriggio, Piero

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riesce ad annunciare a suo padre che ha deciso di abbandonare la scuola, e di dedicarsi a tempo pieno alla roccia. Riceve un sonoro ceffone, poi la famiglia accetterà la sua scelta. Alto e magro, leggero e fortissimo, sorridente e concentrato, Pierluigi diventa sempre più bravo, e crea uno stile di allenamento tutto suo. Sulle pareti del Morra, che percorre in salita e in discesa e quasi sempre slegato, arriva a superare migliaia di metri di arrampicata (il record è quattromila!) in un giorno. Lo stesso, qualche anno più tardi, inizia a fare sulle Spalle del Corno Piccolo al Gran Sasso, e sulle rocce del Piz Ciavàzes, la più vicina alla strada tra le grandi pareti del Sella. Sulle Dolomiti, nella seconda metà degli anni Settanta, Pierluigi stupisce gli alpinisti classici, che arrampicano ancora in scarponi, superandoli in velocità con ai piedi le sue Superga sdrucite. Nel 1976, insieme ad Alberto Campanile, in un paio di settimane sale quaranta vie in Dolomiti. Tra decine di vie percorse da Bini sui Monti Pallidi spiccano le prime solitarie di itinerari mitici come la Via dei Fachiri alla Cima Scotoni, la Aste al Crozzòn di Brenta, la Detassis al Croz dell’Altissimo e la Gogna alla parete Sud della Marmolada. Exploit che ne fanno un protagonista assoluto, un solo passo indietro rispetto ai mostri sacri del momento come l’austriaco Heinz Mariacher e il feltrino Maurizio Zanolla, alias Manolo. Nel mondo alpinistico romano, pure tradizionalmente aperto alle novità, lo “stil novo” di Bini provoca reazioni diverse. “La cosa più impressionante era la grazia con la quale evitava e superava noi alpinisti classici vecchioscarpùn impegnati sulla stessa via: sentivi un fruscio e ti accorgevi di Piero quando era ormai dieci metri più in alto” ha scritto nel 2009 Fabrizio Antonioli su Alp. “Era imbarazzante insegnare ai corsi del CAI la regola dei tre arti fissi sulla roccia per vederla spudoratamente smentire

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nella pratica. Di arti fissi Piero non ne usava nessuno, si “librava” sorridendo, immerso in un altro universo. Il mondo alpinistico romano si divideva in quelli che lo ammiravano e quelli che lo vedevano prima o poi morto spiaccicato da qualche parte”. Tranquillo, non competitivo, sorridente, Pierluigi in quegli anni si lega con chiunque glielo chieda. Ed è così che conosce i due compagni di cordata di quella giornata sulle Spalle. In una giornata al Morra, dov’è arrivato da solo, incontra Massimo Marcheggiani, un giovane dei Castelli Romani che ha otto anni più di lui, e che si sta avvicinando in quegli anni all’arrampicata. Negli anni a venire Massimo diventerà uno degli alpinisti più attivi ed esperti dell’Italia centrale. L’incontro con Piero, invece, per lui è un bagno di umiltà. “Quando conobbi Pierluigi avevo ai piedi i miei scarponi da montagna mentre lui aveva un paio di leggerissime Superga. Con quelle scarpe riusciva a fare delle cose per me inimmaginabili, aveva non una ma cinque marce in più” ha scritto Massimo. “La conseguenza ovvia fu che io, da capocordata, accettai con piacere di fare da secondo avendo lui davanti. Con quella esperienza mi sono alleggerito non solo nell’abbigliamento, ma anche concettualmente, abbandonando una tradizione alpinistica pesante e superata” . Vito Plumari, bidello in pensione, entra nella vita di Pierluigi a Guadagnolo, una falesia dei Monti Prenestini dove gli appigli sono più levigati di quello che non sembri dal basso. Bini ha scelto quelle rocce a cento metri dal paese e dall’auto per dimostrare a suo padre che arrampicare non è pericoloso. Attacca una via a caso, assicurato da Raffaele Bernardi, ma presto si trova a malpartito. Teme di volare, e sa che in quel caso arriverebbe il divieto assoluto di scalare. In quel momento, tra i cespugli che chiudono in alto la parete, appare un tizio magro sulla

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sessantina, con capelli e baffi bianchi, che parla con accento siciliano e ha in testa un casco da motociclista con sopra scritto “El Caiman”. “Gente de pianura, serve una mano?” chiede Vito Plumari, prima di indicare a Pierluigi gli appigli che gli permettono di uscire dalla via. Tra i due, negli anni che seguono, nasce un rapporto singolare. Piero, che non ha ancora la patente, raggiunge le falesie laziali e il Gran Sasso sulla Opel Manta azzurra (detta La Celestina) o sulla Moto Guzzi di Vito, e in cambio lo porta ad arrampicare da secondo. Vito, nonostante un alluce amputato durante la ritirata di Russia e il morbo di Parkinson che lo fa tremare sempre di più, impara a passare da secondo e a gran velocità dappertutto, sconvolgendo gli alpinisti che se lo vedono passare davanti di gran carriera su vie come lo Spigolo Giallo della Cima Piccola. Forse utilitaristico all’inizio, e certamente singolare, il rapporto tra Pierluigi Bini e “il Vecchiaccio” diventa negli anni un’amicizia profonda. Nel 1996, la morte improvvisa di Vito sarà sconvolgente come quella di un padre o di un fratello. “Ma dove si compra? Vorrei anch’io avere un compagno di cordata così” chiede Manolo a Pierluigi una sera sulle Dolomiti. “È morto, ma in realtà è come se fosse sempre con me” racconta Bini a Michela Mazzali in un’intervista del 1999. “Quando siamo in parete ci ritroviamo a parlare come lui, a ripetere i suoi gesti e le sue battute”. Nel corso degli anni, intorno a Pierluigi si forma un gruppo di alpinisti che include all’inizio Angelo Monti, Giampaolo Picone e Beppe Aldinio. Negli anni a venire, la covata dei “ragazzi di Bini” includerà altri personaggi importanti come Luca Grazzini, Paolo Abbate, Marco Forcatura, Maurizio Tacchi, i due “Vermi” ovvero Roberto e Giuseppe Barberi. In quella giornata di luglio del 1977, invece, Piero raggiunge i Prati di Tivo insieme a Massimo Marcheggiani e il Vecchiaccio. I tre salgono in seggiovia all’Arapietra,

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continuano ai piedi del Corno Piccolo, superano le scalette del sentiero Ventricini e raggiungono la Forcella del Belvedere, ai piedi della Seconda Spalla. Uno sguardo verso l’alto convince Bini che, in questa zona, ci sono molte linee ancora da salire. “Saliamo dove vuoi, tanto sei tu ad andare da primo!” sorride Massimo quando l’amico gli indica la prima fessura della via. Pierluigi attacca per una scaglia non difficile, prosegue per un’altra fessura e poi per un diedro elegante. Poi delle rocce di quinto grado lo portano alla rampa percorsa dalla Aquilotti ’72 e alla sosta ai piedi dei chiodi a pressione. Prosegue in libera e senza protezioni sulla placca, vede l’appiglio che forse gli consentirebbe di uscire, non ha il coraggio necessario a raggiungerlo, scende. È la scena che abbiamo raccontato all’inizio. Nei primi giorni dell’estate successiva, con l’amico Raffaele Bernardi, Pierluigi torna alla sosta alla base della placca, riparte senza pensarci troppo, la sale di slancio e senza piazzare nemmeno una protezione. In questo modo, e in mezz’ora, completa in bellezza la sua via con un tiro che intimidisce anche oggi – nonostante un fittone piantato successivamente a metà – molti dei ripetitori. Nelle settimane e nei mesi successivi, Pierluigi Bini torna più volte sulle Spalle. A volte combina in velocità molte vie (fino a una dozzina, tra salite e discese), in altri momenti punta a dei nuovi itinerari. Il traverso sprotetto delle Placche di Manitù, i passaggi in aderenza delle Placche del Totem che nessuno ripeterà per dieci anni spingono verso l’alto il limite delle difficoltà superate al Gran Sasso. Tra tutte, Pierluigi ama ricordare le fessure della Via Stefano Tribioli, protette da un paio di chiodini malsicuri. Per queste vie, come Reinhold Messner per le sue, Bini parla al massimo di quinto grado. Invece si tratta di sesto o sesto superiore, superato con pochissime protezioni.

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Nel 1979, dopo cinque anni vissuti al massimo, Pierluigi Bini lascia l’alpinismo a tempo pieno. Fino ad allora non ha fatto che prepararsi fisicamente, scalare, studiare nuovi itinerari da aprire. “Ho iniziato il bisogno di sperimentare altro” racconta in un’intervista. Per qualche anno lavora nel mobilificio di famiglia, poi diventa commerciante di automobili. Da “dilettante”, come dice sorridendo agli amici, continua ad arrampicare nei weekend, tornando sulle sue vie del Gran Sasso e aprendone altre sulle più grandi pareti dell’Appennino centrale, dalla Rupe della Tagliata sui Simbruini alle Gole di Celano e alle muraglie inesplorate della Majella. Chi lo incontra scopre un uomo tranquillo, sempre innamorato della roccia, che conserva nel cuore il ricordo del suo amico Vecchiaccio. La via sulla Seconda Spalla, oltre che allo stile e alla capacità arrampicatoria di Bini, è un monumento a una straordinaria amicizia.

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