PSYCHO VERTICAL - Andy Kirkpatrick

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R A M P I C A N T I

Andy Kirkpatrick

P s y c h o V e rt i c a l

EDIZIONI VERSANTE SUD


Titolo originale: Psycho Vertical Pubblicato da Arrow Books, London 2009 Copyright © Andy Kirkpatrick, 2008 Disegni © Andy Kirkpatrick 2011 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati 1a edizione Ottobre 2011 www.versantesud.it ISBN 978-88-96634-37-0


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R A M P I C A N T I

Andy Kirkpatrick

PSYCHO VERTICAL La vita è troppo breve per divertirsi Traduzione di Valeria De Mattei

EDIZIONI VERSANTE SUD



Alle persone che, con pazienza, mi hanno aiutato a trovare le parole che mi erano quasi sfuggite



Ringraziamenti Grazie a Mandy, per avermi aperto molte porte e avermi aiutato a scoprire chi potevo essere – e per essere la mia critica più severa. E per avermi dato Ella ed Ewen, regali che mi ci vorrà una vita per scartare. A mia mamma, la persona più forte che abbia mai incontrato. È una vergogna che non si scrivano libri sulle persone che scalano delle vere montagne tutti i giorni. Alla fine ho capito quello che intendevi parlando del mondo come della mia ostrica. A mio papà Pete, che mi ha trasmesso la sete d’avventura necessaria per incominciare – una delle persone più grandi che abbia mai conosciuto. Più invecchio e più capisco. A mio fratello Robin (sei un vero eroe, non l’imbranato che ti ho fatto sembrare). Voglio solo dire che mi dispiace di averti spinto in acqua quella volta (e anche per tutte le altre cose…come l’acquario). A mia sorella Joanne, che ha scalato la sua personale montagna per diventare quel genere di insegnante che ogni bambino merita, e a un altro insegnante, Mr Peterson della Villa Junior School, che si è sforzato di vedere oltre i miei errori di ortografia. A Karen Drake per avermi fatto smettere di scrivere e per avermi ricordato che vivere le avventure è più importante che scrivere libri che le raccontano. A Tony Whittome, Marni Jackson, Jim Perrin e Andrew e Sharisse Kyle al Mount Engadine Lodge e a tutti quelli del Banff Centre per avermi dato le opportunità e l’incoraggiamento necessari per scrivere questo libro. E a Bill Gates per Word, senza il quale non sarei mai stato in grado di metter giù neanche una parola. Grazie a Duane Raleigh e a Alison Osius della rivista Climbing, che mi hanno fatto credere di essere uno scrittore e addirittura mi pagano per quello che scrivo, senza dimenticare tutti quei poveri editor che dopo ci lavorano e che si mettono le mani nei capelli per i miei “eny” e “becouse” sfuggiti al correttore automatico. A Dick Turnbull per avermi dato un lavoro senza però favorirmi in alcun modo e per avermi insegnato prima di tutto a soffrire. Devo, inoltre, ringraziare per il loro supporto Berghaus, Black Diamond, British Mountaineering Council, Buffalo, Lyon Equipment, Petzl, PHD, Mount Everest Foundation, La Sportiva e Patagonia, senza i

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quali non avrei mai potuto permettermi di partire o di rimpiazzare le migliaia di sterline di materiale che ho perso o consumato nel corso degli anni. Voglio inoltre menzionare Chris Watts e Siobhan Sheridan di Firs Ascent per essersi sempre prodigati per aiutarmi e per farmi sentire come un eroe sponsorizzato. Infine, ai miei compagni d’arrampicata: se chiedete loro a bruciapelo qualcosa sul loro ruolo in questo libro, mi aspetto che vi diranno che ogni caduta era almeno lunga la metà e ogni esperienza quasi mortale non era nulla che valesse la pena raccontare. Non credete loro, negano tutti che le cose siano sempre peggiori. Ma in fondo è sempre più divertente di quello che sembra… vero?

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Prologo Ero seduto da solo nella piccola stanza bianca e la mia attenzione si spostava dalla neve che si accumulava sul davanzale ai due fogli del test sulla scrivania davanti a me. Inquieto, tormentavo la matita, masticandone l’estremità finché le mie labbra non furono ricoperte di briciole di vernice rossa. In bocca avevo un sapore di legno bagnato. Il vento faceva sbatacchiare il tetto di lamiera dell’edificio. Il suono dell’aria che si insinuava nelle fessure delle porte e negli spifferi dei davanzali diventava sempre più forte e si portava via anche la mia concentrazione. Il tempo stava finendo. Anche se questo era un esame che avevo scelto, non mi sentivo meglio che agli altri. Mi sentivo piccolo, svantaggiato e stupido. Il primo foglio era stato facile, ma il secondo aveva trasformato il mio cervello in un ammasso lento e vischioso come se i numeri si muovessero dal loro posto, persi sulla pagina. Anche se nella stanza faceva freddo, mi sentivo febbricitante a causa della familiare sensazione di panico che pensavo che non avrei più provato. Era come essere tornato in quella scuola che avevo tanto odiato. Stava riaffiorando la vecchia sensazione di malessere mentre mi sforzavo di tirare fuori dalla nebbia qualche risposta. Non ne venne fuori nessuna. Spinti alla deriva dalla tempesta, avanziamo nella neve alta finché non raggiungiamo la riva del lago e la sua superficie ghiacciata sotto una coltre invernale. Il mio compagno studia la nostra posizione e mi urla che non manca molto. Il pilastro soprastante diventa visibile per un momento, quando le nubi si scostano dalla sua vetta. Abbiamo lasciato la macchina al buio, svegliati presto dal vento che la sferzava su quella deserta strada d’alta montagna. Intontiti dal lungo viaggio verso nord, ci eravamo vestiti sui sedili, lottando come Houdini per infilarci gli scarponi e le salopettes in quello spazio sacrificato – nessuno dei due realmente desideroso di avventurarsi fuori se non proprio all’ultimo. Partire così presto si è rivelato utile per la lunga marcia di avvicinamento attraverso i cumuli di neve spazzati dal vento. Con un po’ di fortuna questo ci permetterà di avere abbastanza tempo per salire la via. Controlliamo di nuovo i nostri riferimenti per evitare la

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placca a rischio valanga sulla sinistra del lago e diamo un’altra rapida occhiata alla parete quando le nuvole si diradano. È ripida, coperta di brina, e presenta appigli di ghiaccio come quelli che troveresti sulle pareti di un freezer. E anche un equivalente grado di sicurezza. Le condizioni sono ben lontane dall’essere perfette, ma questa è l’arrampicata invernale in Scozia. Qui devi salire le vie nelle condizioni in cui le trovi, non in quelle in cui ti piacerebbe trovarle. Come ha fatto notare un climber sloveno di passaggio da queste parti, in Scozia “sciamo sull’erba e facciamo vie di ghiaccio sulla roccia”, ma, almeno per oggi, la roccia sembra abbastanza invernale. Mettendo via la cartina e indossando gli occhialoni protettivi optiamo per la scelta più facile e ci avviamo lungo l’instabile riva del lago. Girai il foglio e mi misi a guardare la neve che formava uno strato sul davanzale. Mi rimanevano ancora pochi minuti prima che l’esaminatore tornasse, ma sapevo per esperienza che mi sarebbe servito ben altro che il tempo per trovare quelle risposte. Gli insegnanti dicevano sempre che ero pigro, avevo scarsa capacità di concentrazione o ero lento nell’apprendimento, così mi ritrovai addosso l’etichetta di disturbato. Le scuole che frequentai erano piene di “ragazzi con problemi” e io ero solo uno di più. Mi ricordo, dagli studi di biologia, che il cervello ha due lati. Al tempo fu una specie di rivelazione. Sembrava che questo spiegasse perché a volte mi sentivo lento e stupido, uno di quei bambini bollati dalla scuola come “da correggere”, mentre altre volte mi sentivo brillante e intelligente, capace di disegnare o risolvere problemi che gli altri non erano in grado di fare. Per la maggior parte del tempo cercavo di seppellire il lato più cupo, concentrandomi sulle cose in cui ero bravo, ma a scuola non era facile. La via sembra difficile. Quella che è una classica su roccia in estate, ora, con una copertura di ghiaccio, è una delle salite più difficili della falesia. Visualizzo le mosse con cui concatenerò quelle fessure arrotondate orizzontali e quelle venature verticali, scavando attraverso lo spesso strato di ghiaccio in cerca di punti nascosti dove piantare e agganciare le lame delle mie picozze. Desideravo questa via da molto tempo, accumulando nella

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mia mente ogni brandello di informazione che riuscissi a trovare. Sebbene non riesca a fare lo spelling dei nomi delle vie, potrei elencare tutti coloro che le hanno tentate, cos’altro hanno fatto e perché hanno fallito. Mentre salgo mi ritornano in mente le scoraggianti parole di un climber che era stato respinto due volte da questa via: “Non ce la farai mai, c’è un allungo veramente ampio e tu sei troppo basso.” Mentre colpisco con la picozza la torba fredda e dura che emerge a placche, chiudo gli occhi e visualizzo la via come un puzzle, i pezzi sparpagliati nella neve. Individuo il primo tassello e comincio a salire. L’esaminatore aprì la porta e mi chiese di fermarmi. Guardai fuori dalla finestra sentendomi stanco e vuoto. A scuola, il mio peggior incubo erano sempre state le tabelline. L’insegnante cominciava da un angolo della classe e procedeva facendo alzare in piedi ogni bambino di fianco al proprio banco e facendogli dire il numero successivo. Man mano che il mio momento si avvicinava, il sangue defluiva dal mio volto e il cuore mi batteva sempre più forte. Mi sentivo svuotato e malato. La metà oscura catturava ogni mio pensiero mentre cercavo disperatamente di calcolare una risposta. Alla fine, reggendomi su gambe molli, mi alzavo e parlavo. E puntualmente sbagliavo. Gli altri bambini ridevano e io mi sedevo ringraziando che quel calvario fosse terminato. Totalmente immerso nell’arrampicata, il mio cervello è iperattivo e pieno di energie, lavora al massimo delle sue potenzialità e la sua memoria limitata è sollevata da tutti quei passaggi confusi che deve affrontare nel mondo normale. Qui tutto è reale. Niente numeri. Niente parole. Gli unici calcoli sono fisici, le sole domande come andare avanti e non cadere. L’arrampicata invernale è per il dieci per cento fisica e per il novanta per cento mentale. Se sei bravo con i rompicapo, probabilmente sarai bravo in questo tipo di arrampicata. Semplicemente, è un rompicapo di ghiaccio in cui i tuoi attrezzi e i tuoi ramponi liberano ed estraggono i pezzi che servono – e, come per un rompicapo, le mosse sono semplici. È solo trovarle che è difficile.

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L’esaminatore prese i fogli e mi chiese di andare nel suo ufficio mentre lui li correggeva. Vedendomi pensieroso, si mise a chiacchierare del tempo mentre camminavamo nell’antico edificio vittoriano. Non era il fatto di lasciare la scuola con un profitto basso che importava a me o a chiunque altro: era il fatto di lasciarla con la convinzione, creata dalla società, che queste cose fossero davvero importanti. A sedici anni pensavo di esser stato giudicato per la vita. L’unica dote che sapevo di possedere era la mia creatività. Questa abilità inizialmente si era manifestata nel disegno e nella pittura ma, come con tutto quello che riesce facile, non mi rendevo conto che essa rappresentava effettivamente una mia capacità. Per me era difficile farmi prendere sul serio dalla gente quando si accorgeva che non riuscivo a ricordarmi la mia data di nascita o i mesi dell’anno. Avevo sempre paura di venir scoperto, e che la gente mi avrebbe liquidato come ritardato o stupido. Lentamente, crescendo, ho trovato il modo di aggirare questi problemi cercando di evitare qualsiasi contatto con parole o numeri. Me ne andai di casa, mi trasferii in un appartamento vicino alla zona universitaria e cominciai lentamente a mischiarmi con gente che riusciva a fare le cose nel modo giusto, gente che non avevo mai incontrato. Fu come conoscere persone di un’altra cultura, e scoprire comunque che non eravamo poi così diversi – e che per certi versi io avevo capacità che loro non possedevano, e che persino mi invidiavano. Gradualmente imparai che dovevo associare parole astratte e numeri a delle immagini di riferimento e che questo poteva bypassare la parte lenta del mio cervello. La mia parte sveglia cercava allora di ricordare tutti e dodici i mesi dell’anno e di metterli in ordine, cosa che normalmente non ero in grado di fare. Fu solo a quel punto che le mie nuove conoscenze mi fecero capire che questa, come tutte le altre cose che una volta mi sembravano importanti, non voleva dire proprio niente. Una notte, a una festa, qualcuno mi disse che il funzionamento lineare del mio cervello era forse un sintomo di dislessia, e magari potevo sottopormi a dei test mirati per identificare cosa c’era che non andava nel mio cervello – e questo è il motivo per cui mi ritrovai a fare quel test finale chiedendomi se, a diciannove anni, avesse ancora importanza.

Vado dove altri climber hanno fallito. Due fessure orizzontali

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distanziate e sfasate, separate da uno spazio troppo ampio per essere affrontato con la picozza. Mi chino sugli attrezzi e cerco di risolvere il problema. Piantando la picozza nella fessura all’altezza del torace, mi ci isso tastandone la parte superiore, allungando il braccio, con un rampone che raspa vicino allo spuntone di roccia e l’altro agganciato intorno a un diedro. Mi sento come se fossi sul punto di fare una verticale. Alla cieca gratto via la brina spessa e resistente con l’altra picozza, cercando un appiglio sicuro per la lama. Non c’è niente. Penso di tornare indietro, di mollare, ma non sono sicuro di poterlo fare. Mi immagino i dadi piazzati nelle misere fessure di ghiaccio sottostanti e mi sento obbligato a muovermi mentre raspo alla cieca in cerca di un appiglio. Aggrappandomi con le braccia, sono costretto a tentare di puntare oltre lo spigolo arrotondato con i denti della mia lama che slittano e scivolano via finché non li affondo saldamente e mi affido all’appiglio, muovendo l’altra picozza in fuori e intanto tirandomi lentamente su con il corpo sospeso su agganci precari. Cerco di non agitarmi troppo. Prendo un respiro profondo e cerco il pezzo del puzzle successivo. Il primo foglio del test comprendeva un centinaio di cubi confusi, con quattro opzioni di come avrebbero potuto sembrare aperti. L’altro foglio era ricoperto di parole e numeri. Le scatole erano facili e mi ero chiesto se questo mi fosse stato dato per sbaglio. Poi ero passato all’altro foglio e la luce si era spenta del tutto. Sentendomi un idiota, ben consapevole di non aver fatto bene nel secondo foglio, mi sedetti e guardai l’esaminatore segnare le risposte, spuntandole man mano. Raggiungendo un tratto sicuro – sicuro in confronto a quello affrontato per arrivarci – oltrepasso un diedro sospeso sacrificando la protezione per la velocità. Spunto su una stretta cengia, un’ampia via di fuga verso una salita più facile sulla sinistra. Esito. Sopra, il muro appare compatto e ripido. Sarebbe così facile evitare quello che ci aspetta lì. Le scuse plausibili non mancano. Il buio. La tempesta. Guardo giù verso il mio compagno, Dick, e penso a quanto sarebbe disonesto mollare ora. So che lui non si pone il problema finché io continuo ad andare avanti. Con un dado piazzato ai miei piedi mi

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muovo come facendo del boulder sulla cengia, finché non posso fare diversamente. Riesco a vedere dove sono diretto: attraverso la parete fino a una cengia su uno spigolo. Spazzando via la brina mentre avanzo, cerco di non pensare al fatto che raschiare il ghiaccio mi stanca, finché non trovo un buon appiglio su uno spigolo arrotondato, le punte dei ramponi in equilibrio su appoggi fangosi che sembrano teste di pollo schiacciate. Coordinando gli attrezzi guardo il mio compagno, molto più in basso, mentre cerca di rimanere in equilibrio nel vento, la sua giacca rossa che sventola, appena visibile attraverso la neve che turbina spinta dal vento. Le due corde si inarcano fornendo così una sicurezza discutibile, ma la più grande rimane lì. Dovrei avere una gran paura e molti dubbi, ma tutto quello che vedo sono solo possibilità. L’insegnante alzò gli occhi dalle correzioni e si tolse gli occhiali. «Notevole. Il tuo punteggio nel grafico è novantanove su cento. Ho avuto solo un’altra persona con un punteggio così alto. Era un rettore. E per l’altro test…temo che sia solo sedici su cento.» La gioia che stava crescendo dentro di me era stata brutalmente stroncata: il secondo test era molto più importante per la vita reale. Essere in grado di distinguere quali cubi sembravano aperti mi avrebbe al più trovato un lavoro in una fabbrica di scatole di cartone. «Tu sei un classico dislessico» mi disse. «Un lato del tuo cervello non lavora come dovrebbe, così l’altra metà compensa.» Mi spiegò i sintomi della dislessia, e finalmente tutti i tasselli andarono al loro posto. Un passaggio laterale mi fa arrivare sotto una piccola cengia. Trattenendo il respiro su un appiglio quasi inesistente colpisco un ciuffo d’erba con la lama. Questa fa presa con un colpo sordo e poco profondo. Mentre il tempo scorre, inverto i piedi alla cieca e appendo all’esterno una picozza, spostando di traverso l’altra per raggiungerla. Sento i dadi muoversi. Si sfileranno quando tirerò? Il mio cervello fa qualche rapido calcolo e dice di no. Lo faccio. Non si muovono. Ci sono. Mi isso sullo spigolo. Sono così totalmente consapevole di tutto ciò che mi circonda: i fiocchi di neve sulla mia faccia, la striscia di sudore che mi cola tra le scapole, un ciuffo ritorto di erica che spunta dalla neve, il vento, l’oscurità, il freddo. Il mio

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corpo è caldo, il mio cervello in fibrillazione come se aspirassi la neve sempre più veloce. I prossimi dieci metri non sono protetti. Se cado muoio, ma non è il momento di drammatizzare: sono dove ho sempre voluto essere. Penso a quanto è strano che la mia mente sia stata in grado di portarmi fin qui mentre ancora non riesce a fare molte altre cose. Ora so che tutto ha un suo equilibrio, ma qui sulla montagna certi dettagli non hanno più importanza. Qui non c’è bisogno di parole. Una volta messi insieme tutti i pezzi, riesco a vedere il quadro. Cosa importa saperne il nome? Agganciando tutte e due le picozze su una scaglia mi isso sul bordo e mi dirigo nell’oscurità. Il dottore mi accompagnò alla porta e mi diede una busta marrone con i miei risultati. «Andrew, con un punteggio del novantanove percento dovresti trovare qualcosa di stimolante che implichi la risoluzione di problemi tridimensionali, qualcosa di creativo, dove tu possa volgere queste caratteristiche a tuo vantaggio.» Gli strinsi la mano e lo ringraziai, poi camminai fino a casa nella neve, chiedendomi dove mi avrebbe portato questo strano dono.

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