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SERGIO VANELLO
H.P. LOVECRAFT
E ALTRI RACCONTI BREVI
Howard e Sergio, qui e ora
di Paolo Di Orazio
In tutta onestà vorrei davvero essere un autore come Howard Phillips Lovecraft, al netto di come ne viene dipinta la persona (nei giorni in cui scrivo queste righe sta esplodendo il “caso Gaiman”). O diventarlo come figura letteraria. Non solo peccaminosa vanità, ma per come potrei rendere metafora della mia vita ciò che creo.
Gli universi, le creature pancosmiche dei racconti, la diffusione delle sue raccolte si moltiplicano, si reiterano nei decenni editoriali, si riproducono e si espandono dal big bang della sua meritata popolarità. Lovecraft ha fatto della letteratura firmata di proprio pugno una creazione onnidirezionale proprio come le gigantesche realtà fittizie concepite dalla sua mente immensa, abitata da un vero e proprio potere esoterico. Similmente a Mary Shelley, che ha fatto del romanzo Frankenstein la metafora della propria sfortunata vita fra lutti e amore, Lovecraft-uomo è il Grande Antico, il Cthulhu-di-se-stesso, una tradizione-culto che abita il buio di ogni moderna fiction e della costante proteiforme evoluzione della materia horror tutta. Il fumetto del terrore, per come lo conosciamo, è una delle estensioni di questo suo incontenibile potere di semina fantastica. Proprio perché dai congegni narrativi che animano ogni singolo racconto in prosa di Howard deriva – ma è una mia personale suggestione non comprovata da teorie o studi riconosciuti, che io sappia – la grammatica delle pubblicazioni horror da edicola pre e post Comics Code Authority (quindi, dagli anni ’40 in poi, con «The Beyond – Weird, spooky, supernatural stories», della Ace comics; «Tales from the crypt», della EC comics; «Creepy», della mitica Warren e una vastità di altre pubblicazioni incluse le altrettante testate italiane a partire da «Satanik» della Editoriale Corno fino agli splendidi e numerosi omaggi della Edizioni NPE a oggi realizzati con puntuali passione e libertà stilistiche) per quasi novant’anni mondiali di vignette, didascalie, matite e chine per mano di artisti di ogni caratura. Su Lovecraft uomo e scrittore è stato detto tutto, forse, ma trovo necessario ribadire quanto io trovi legato ai comics un tale nume della letteratura, a prescindere dalle riduzioni in linea chiara e scura e da quanto possa essere intriso della sua stessa visione i nostri giudizio e percezione sugli omaggi che per decenni gli sono stati offerti. Pertanto, tornare su Lovecraft a fumetti, ovvero una nuova personale interpretazione come quella che vi apprestate a scoprire a firma Sergio Vanello, è per me – lettore di fumetti horror da mezzo secolo – sempre una grande occasione di ascoltare la sua voce attraverso la mano e il pensiero artistico di un autore vivente. Proprio come questo best of da un artista che non ho avuto la fortuna di conoscere prima.
Quindi incontrerete, nell’ordine, riduzioni di Dagon, Celephaïs, Dall’altrove, La città senza nome, Hypnos, Nella cripta, Il colore venuto dallo spazio, I sogni nella casa stregata. Otto racconti veloci e densi che, messi assieme, costituiscono un compact dal sapore pulp delle pubblicazioni vintage che ho nominato sopra, fatto di ritmo narrativo, atmosfere soffocanti e quel necessario appeal psichedelico che dona al lavoro di Vanello il fascino di “storie senza età”, epurate da mode, cliché e stilemi che vorticano da qualche tempo nel conformismo pressoché generalizzato del pianeta Graphic Novel
Ci vuole coraggio per esplorare l’ignoto, e questo libro a fumetti lo fa senza timore, col grande merito di scardinare i freddi schematismi della narrazione convenzionale. E solo con Lovecraft questo azzardo vale la scommessa.
Col primo episodio Dagon, il segno duro e tagliente di Vanello, assieme alla parte testuale rarefatta e sussurrata descrivono la dimensione della solitudine, il peso atomico di ogni personaggio che abbiamo incontrato leggendo i racconti di HPL.
Alchimia che prende il volo col secondo Celephaïs, dove il tema del sogno lovecraftiano fotografa le indescrivibili strutture dell’attività onirica nella nostra mente, grazie a particolari (s)composizioni della tavola e salti e tagli di inquadratura.
E arriviamo al complesso Dall’Aldilà – From Beyond il cui concetto di fondo anticipa di novant’anni alcune teorie definite complottiste sulla coesistenza di più dimensioni non percepibili coi nostri scarsi cinque sensi imprigionati in una (presunta unica) realtà uguale e corrispondente per tutti. Grazie al cielo, Vanello salta a pie’ pari la pur affascinante versione cinematografica del 1986 (regia di Stuart Gordon) dove l’erotismo si mescola alla fantascienza à la Cronenberg. In questo rapido racconto, Vanello suggerisce (perlomeno a me) una interessante interpretazione della schizofrenia. Il tutto, con una soluzione stilistica veloce,
volutamente scarna come una sequenza di frame psichici dove il tema di base, l’idea, governa sullo svolgimento tecnico e riempie tutto. Il bello è che, per come Vanello narra questo beyond, non occorre una massa infinita di tavole, non una didascalia o pacchi di vignette in più. Con questo brevissimo episodio, Vanello espone una possibilità di interpretazione del reale: la vicenda a fumetti è solo un pretesto, una molecola nel Dna dell’universo. Così come Lovecraft stesso, nel suo pessimismo cosmico – nemmeno tanto distante da quello leopardiano – definiva l’essere umano una particella insignificante nella grande, pur impercettibile macchina dell’Infinito.
La città senza nome è il viaggio desertico verso quel non luogo e quel non tempo in cui l’uomo può trovare i segni della gigantesca oscurità che attende la sua anima. E anche qui, Vanello usa la sua rapida sintesi narrativa ed è come se il colore venuto dagli inferi servisse a farci sentire quel vento caldo che attrae il protagonista verso l’altrimenti insondabile comprensione di una delle nostre dimensioni (im)possibili. Sarà bizzarra la mia sensazione, ma nelle prime vignette sento qualcosa del Buzzati narratore.
Il tema del viaggio prosegue con quello ritornante del subconscio con Hypnos, ancora a colori e una narrazione a “scatti” proprio come si articolano i nostri voli onirici, sul cardine dell’interrogativo più antico del mondo: cosa sono i sogni? (se lo chiedono anche gli Iron Maiden nel brano Infinite Dreams).
Non c’è da stupirsi dell’apparente brevità delle storie realizzate da Sergio Vanello. È la formula del fumetto che ha fatto la storia (per tornare alle storiche testate accennate all’inizio). Ricordo un episodio della leggendaria serie «Horror Pocket» (Gino Sansoni). Il volume n. 13, Nero di sera apocalisse si spera, contiene il racconto La cripta di ben due tavole, spudoratamente tratto da Nella cripta, sesto titolo di questo libro, e neanche attribuito a Lovecraft (motivo per cui ne ometto l’autore); il suo pregio è appunto nella brevità, nella sintesi, dote che non manca a Vanello per descrivere un incubo di morte (forse) vivente ma camuffata di nero. Giusto per ribadire che all’horror non servono montagne di pagine.
Lovecraft è tra i fondamentali mattoni genetici che compiono il salto quantico di mezzo secolo e spingono la fantascienza fra gli artigli dell’horror nel Cronenberg dei primi anni Settanta a partire da Crimes of the Future, nell’Alien di Ridley Scott (1979), nel Tetsuo di Shin’ya Tsukamoto (1989) e, definitivamente La Cosa di John Carpenter (1983), per citare i titoli più popolari. Il colore venuto dallo spazio è tutto questo, un racconto che in più passa (in un pugno di tavole) da un genere all’altro forse riuscendo ad attraversare persino il fantastico, percorso che Vanello ci fa compiere senza perdere la malsana atmosfera e il sentore di maligno che alberga nel racconto orginale. E che ritroviamo in quella natura che è “la Chiesa di Satana”, citata nel film Antichrist di Lars von Trier (2009). Anche se qui il vulnus è un meteorite e non uno spirito paradivino con zoccoli, dieci corna e sette teste.
Arriviamo dunque all’ultimo capitolo di questo libro, I sogni nella casa stregata dove troviamo i più oscuri archetipi di Lovecraft e il suo amore indagatorio per gli arcani meccanismi del cosmo – ovvero del Creato. Vanello trasporta nella sua riduzione tutto il senso di questa summa , la desolazione urbana, i topi nel muro, il labile confine tra stregoneria e scienza; il sogno, lo studio “forsennato e pazzo” per tornare all’istinto speculativo sui misteri della vita analogo a quello del nostro Giacomo Leopardi. E addirittura scoviamo un piccolo omaggio a Poe, nascosto anche nel racconto originale (di cui lascio al Vostro piacere la scoperta), dettaglio che onora le mie teorie sui semi interpretativi disseminati nella perfetta storia dell’orrore.
Ancora una volta, tutti gli elementi necessari alla riduzione si raccordano come un caleidoscopio concettuale illustrativo, tessere visuali di un incubo morbido il cui nido, come si evince dal titolo, è l’horror loci per eccellenza, le pareti domestiche intrise di maligno e trapassato remoto; quel tempo e quel luogo abitato, come sempre, da entità naturalmente inclementi nei riguardi del genere umano.
Per concludere, mi è piaciuto molto l’intento di Vanello nel recuperare la formula del racconto breve, la scatola magica, il formato che più si addice al racconto del terrore come tradizione fumettistica americana ha istituito. Il segno duro, i colori e la sua visione di illustratore che mescola narrazione sequenziale e frame autoconclusivi; la mescolanza tra didascalie e balloon che apportano alle immagini un senso di ovattata sospensione dell’incredulità tipico, appunto, della materia onirica chiamata in ca(u)sa a più riprese dalla fantasia dell’immenso Howard.
In tutta onestà, vorrei davvero essere un autore come Howard Phillips Lovecraft, al netto di come ne viene dipinta la persona (nei giorni in cui scrivo queste righe muore David Lynch – non c’entra molto, se non per la materia sogno che in questo libro ricorre). O diventarlo. Magari finisco in un libro disegnato da Sergio Vanello.
Introduzione di Sergio Vanello
Scrittore e creatore di mondi in cui il mistero risiede nel visibile, H.P. Lovecraft s’inserisce in un filone culturale nel quale il tema dell’orrore – in senso cosmico-esistenziale – è centrale. Un orrore che, nella sua trasposizione grafica, è necessario rappresentare simbolicamente: impossibile tradurre HPL attraverso una minuziosa e letterale riproduzione di ogni suo detto e contraddetto. È necessario estrapolare l’essenziale e suggerire più che descrivere. La provocazione è tutta insita nella possibilità di universalizzare il suo contenuto e renderlo parte di un orrore/paura totalizzante, in grado di intercettare nella sua pienezza la potenza evocatica e salvifica del suo narrare.
HPL è la malattia e la cura: il veleno che guarisce.
Sono convinto che una parte della sua sensibilità fosse surrealista (il Surrealismo di André Breton): l’inconscio come fonte di provocazione e apparente non-senso; in buona sostanza, la volontà di raccontare attraverso allusioni e immancabili velature, leggere come i sogni o pesanti come il velluto.
Questa alternanza democratica di forme chiuse/aperte, pesanti/leggere, fluttuanti e statiche, mi ha permesso di creare tavole diverse tra di loro, grazie all’uso del colore alternato al bianco e nero; la diversa tipologia di carta per evidenti diversi risultati; il micro e il macro; insomma: la sperimentazione grafica, di segno e di struttura della tavola. E questo risultato è solo ed esclusivamente merito di Lovecraft: il rigore, la sua sobrietà nell’uso dei mezzi espressivi, rendono infatti manipolabile e fluttuante il gioco narrativo: le sue frasi sono una sorta di ingranaggio mobile e già di per sé figurativo/pittorico.
Grazie al solitario di Providence e a Edizioni NPE che, nella figura del suo editor Stefano Romanini, mi permette ormai da diversi anni di lavorare con una notevole dose di libertà creativa (oltre ovviamente ai suoi preziosi suggerimenti e alle correzioni del caso), fondamentale per la buona resa del mio lavoro.
Questo atteggiamento ha un nome: intelligenza… Grazie!
DAGON
Scrivo questo con una notevole tensione mentale, non posso più sopportare la tortura; e mi getterò da questa finestra della soffitta nella squallida strada sottostante.
Fu in uno dei punti più aperti e meno frequentati dell’ampio Pacifico che il piroscafo di cui ero sovrintendente cadde vittima di un incrociatore tedesco.
Capirete presto perché devo avere l’oblio o la morte.
Ma dopo cinque giorni dalla nostra cattura riuscii a fuggire.
Per innumerevoli giorni, vagai senza meta.
Quando alla fine mi svegliai, fu per scoprirmi mezzo risucchiato in una distesa viscida di fango nero e infernale.
Mentre dormivo, la situazione mutò.
Ero più inorridito che stupito; perché c’era nell’aria e nel terreno putrefatto qualcosa che mi raggelava nel profondo.
Il sole splendeva da un cielo che mi sembrava quasi nero.
Mentre strisciavo verso la barca arenata, mi resi conto che non potevo percepire il più debole rumore dell’oceano in tempesta, per quanto potessi tendere le orecchie. Né c’erano uccelli marini che predassero le cose morte.
Con il trascorrere del tempo, il terreno perse parte della sua viscosità.
Dopo alcuni giorni partii per un viaggio via terra alla ricerca del mare scomparso.
La quarta sera raggiunsi la base del tumulo; troppo stanco per salire, dormii all’ombra della collina.
Non so perché i miei sogni fossero così selvaggi quella notte.
Il mio orrore fu grande quando raggiunsi la sommità del tumulo e guardai dall’altra parte in un’incommensurabile fossa o canyon, una sorta di scalata di Satana attraverso i regni inconsueti dell’oscurità.
Spinto da un impulso che non posso analizzare con precisione, scesi con difficoltà dalle rocce e mi fermai sul pendio sottostante, più dolce.
All’improvviso la mia attenzione fu catturata da un oggetto vasto e singolare sul pendio opposto, che si innalzava ripido un centinaio di metri davanti a me.
Sulla superficie potevo leggere iscrizioni e intravedere rozze sculture.
Poi all’improvviso
l’ho visto: simile a Polifemo e ripugnante, si precipitò come uno stupendo mostro di incubi verso il monolite.
Della mia frenetica ascesa lungo il pendio e la scogliera, e del delirante viaggio di ritorno alla barca arenata, ricordo poco.
Tuttavia, è stato l'intaglio pittorico a tenermi incantato di più.
Quando sono uscito dall'ombra ero in un ospedale di San Francisco.
Una volta andai da un celebre etnologo e lo divertii con domande particolari riguardo all’antica leggenda filistea di Dagon, il dio-pesce…
Dio,
quela mano! la finestra! la finestra!
Sogno un giorno in cui potranno sollevarsi al di sopra dei marosi, per trascinare con i loro artigli nauseabondi i resti di un’umanità debole ed esausta dalla guerra, un giorno in cui la terra affonderà e l’oscuro fondale oceanico risalirà in mezzo al pandemonio universale.
La fine è vicina. Sento un rumore alla porta, come di un immenso corpo scivoloso che vi si appoggia. Non mi troverà…
FINE
CELEPHAÏS
Non gli importava il comportamento delle persone intorno a lui, ma preferiva sognare e scrivere dei suoi sogni.
in sogno ho visto la cità nela vale.
Quanto più si ritirava dal mondo che lo circondava, tanto più meravigliosi diventavano i suoi sogni.
Cerco solo la beleza.
Quando la verità e l’esperienza non riescono a rivelarla, la cerco nela fantasia e nel’ilusione e la trovo proprio sula soglia di casa, tra i ricordi nebulosi dei raconti e dei sogni del’infanzia…
Alcuni di noi si svegliano di notte con in testa fantasmi…
Kuranes riapparve all’improvviso nel suo vecchio mondo d’infanzia.
Il villaggio sembrava molto antico, corroso ai margini come la luna che aveva cominciato a calare.
Poi era stato trascinato lungo un sentiero che dalla strada del villaggio portava verso le scogliere del canale, ed era arrivato alla fine di tutto…
Un abiso dove tuto il vilagio e il mondo intero precipitano al'improviso nel vuoto senza eco del mondo…
L’infinito, dove perfino il cielo davanti a noi era vuoto e non illuminato dalla luna che si sgretolava e dalle stelle scrutanti.
Poi sembrò che uno squarcio si aprisse nell’oscurità davanti a lui, e vide la città della valle.
Kuranes si era svegliato nel momento stesso in cui aveva visto la città.
iL PRECiPiZiO E L’ABisO!
Celephaïs!
Tre notti dopo Kuranes ritornò nella Valle di Ooth-Nargai e nella splendida città di Celephaïs, nel tempio turchese di Nath-Horthath, dove i sacerdoti gli dissero che a Ooth-Nargai non esiste il tempo, ma solo la giovinezza perpetua.
Ora più che mai, Kuranes desiderava salpare su una galea verso luoghi lontani di cui aveva sentito tante strane storie.
Insieme al capitano della nave Athib, Kuranes raggiunse una nave nel porto. I due salparono verso l’ondulato Mare Cereneriano che conduce al cielo.
Per diversi giorni scivolarono ondulando sull'acqua…
Finalmente siamo giunti al’orizonte, dove il mare incontra il cielo.
Ma non appena apparve la più alta delle torri scolpite della città, si udì un suono da qualche parte nello spazio, e Kuranes si svegliò nella sua soffitta londinese.
Qui la nave non si fermava affatto, ma fluttuava tranquilla nell’oscurità del cielo tra nubi cupe, tinte di grigio.
Per molti mesi Kuranes cercò invano la meravigliosa città di Celephaïs.
Hasheesh lo aiutò moltissimo e una volta lo mandò in una parte dello spazio dove la forma non esiste.
Poi, un giorno d’estate, fu cacciato dalla sua soffitta e vagò senza meta per le strade, scivolando su un ponte fino a un luogo dove le case diventavano sempre più sottili.
E fu lì che giunse il suo compimento, e incontrò il corteo di cavalieri venuti da Celephaïs per portarlo lì per sempre.
Siamo stati inviati in tuo onore, poiché tu hai creato Ooth-Nargai nei tuoi sogni, motivo per cui ora sarai nominato il suo dio principale per sempre.
Diedero a Kuranes un cavallo e lo misero a capo del corteo, e tutti cavalcarono maestosamente attraverso le colline del Surrey.
Giunsero, infine, al villaggio che Kuranes aveva visto da vivo nella sua infanzia, ma che aveva visitato – dormiente o morente –anche nei suoi sogni.
I cavalieri percorrevano rumorosamente la strada e svoltarono nel sentiero che terminava nell’Abisso del Sogno.
L'abisso era ora un caos ribollente di splendore rosato e ceruleo, e voci invisibili cantavano esultanti mentre il gruppo cavalleresco si tuffava oltre il bordo e fluttuava con grazia oltre nuvole scintillanti e lampi argentati.
I vapori luminosi si dispersero per rivelare uno splendore maggiore: quello della città di Celephaïs.
E da allora in poi Kuranes regnò su Ooth-Nargai e su tutte le vicine regioni del sogno, e tenne la sua corte sia a Celephaïs che nel Serannian formato da nuvole. Egli regna ancora lì, e ci regnerà felice. Per sempre…
Altri volumi della stessa collana pubblicati da Edizioni NPE:
London after midnight – isbn: 978-88-36272-81-5
Hyde – isbn: 978-88-36272-63-1
Freaks – isbn: 978-88-36271-79-5
L’uomo lupo – isbn: 978-88-36270-84-2
Hidden in the woods – isbn: 978-88-36270-52-1
Nosferatu – isbn: 978-88-94818-37-6
Un chien andalou – isbn: 978-88-36270-17-0
Incubi – isbn: 978-88-94818-73-4
I luoghi di Lovecraft – isbn: 978-88-94818-41-3
H.P. Lovecraft: I gatti di Ulthar e altri racconti – isbn: 978-88-94818-99-4
H.P. Lovecraft – La tomba – isbn: 978-88-94818-83-3
H.P. Lovecraft – La musica di Erich Zann e altri racconti – isbn: 978-88-94818-42-0
Vampiri: dove trovarli – isbn: 978-88-94818-94-9
John Polidori – Il Vampiro – isbn: 978-88-94818-81-9