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Ieri avvenne: Cà Tasson
Ieri avvenne di Davide Pegoraro
Cà Tasson
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Nel pieno di una guerra, non si possono trovare parole capaci di descriverla veramente. Si devono però cercare, anche se pochi ne sono capaci, le parole per ricondurre i più verso la dimensione che ogni uomo può auspicare: la Pace. Questa deve necessariamente nascere dal sentimento della pietà; per i compagni morti o feriti sul campo di battaglia, per quelli con i quali si condivide ogni giorno il supplizio che il fronte impone, in un immenso Golgota che travolge tutto e tutti. L’umanità è un sentimento che non si presta facilmente ad estensioni oltre la propria trincea. L’avversario è per antonomasia l’espressione delle paure, dell’odio, della ferocia. Il cameratismo (il sentimento di fratellanza, solidarietà e lealtà nei confronti dei propri commilitoni) è l’antitesi di ciò che si prova per il nemico. Eppure, il 18 maggio 1918 fu un giorno del tutto particolare alla “svolta” del Cà Tasson, divenne il giorno in cui i fatti d’arme di primaria importanza che li si svolsero, appariranno ai posteri meno importanti delle parole di un uomo, il dottor Oscar Koref.I fatti avvennero proprio in prossimità di una delle tante curve della strada Cadorna, un tracciato che collegava la pianura con la cima del monte Grappa e che garantiva l’afflusso di uomini e materiali in quota. Il tracciato originale, sfociava presso la Croce dei Lebi e passava appunto anche per il Cà Tasson. La necessità di difendere il settore fece collocare agli italiani, al bordo della camionabile, delle mitragliatrici protette da un muretto a secco. L’intento degli austroungarici era ovviamente quello di sopraffarle e per evitare che questi potessero farlo con facilità, il comando italiano aveva fatto fortificare un piccolo acrocoro roccioso ad una trentina di metri dalle armi automatiche. Il nemico con prontezza aveva creato un caposaldo dal lato opposto della roccia e così le due posizioni venivano a trovarsi a soli quattro metri di distanza in linea d’aria l’una dall’altra: “i quattro metri della discordia”. La pericolosità di questa situazione (non solo da un punto di vista tattico, ma anche per il rischio sempre possibile di contatti non autorizzati col nemico), fece decidere per un’operazione speciale condotta con i reparti d’assalto al fine di distruggere la posizione degli imperiali. Durante le fasi di osservazione della linea avversaria, ci si accorse casualmente del fatto che alle ore 11 del mattino un individuo vestito di bianco transitava per la trincea di avvicinamento al caposaldo austriaco. La deduzione fu immediata: si trattava di un cuoco in tenuta e questo induceva a pensare che a pochi metri dall’avamposto ci potesse essere la mensa degli ufficiali a comando del nucleo austroungarico. L’azione che ne seguì fu violenta e repentina ed in men che non si dica, gli arditi del capitano Ettore Viola, brillantemente guidati dall’aspirante ufficiale Ermes Aurelio Rosa, si lanciarono oltre i reticolati del caposaldo (passandoci sopra dopo aver gettato ramaglie di abete) e giunti nel bel mezzo del pasto dei nemici, catturarono l’intero presidio e si affrettarono
a far ritorno nelle proprie linee. Nelle parole del dottor Koref, già sottotenente medico del 69° Imperiale e regio esercito austroungarico, scritte da Praga nell’immediato dopoguerra, al padre di Vittorio Biolato (promessa del ciclismo e morto in quell’azione per la quale gli fu concessa la medaglia d’argento al Valor Militare) , tutto il senso di quel che un uomo poteva provare in quei momenti: “ Illustrissimo Signore, un pietoso dovere desidero compiere con questa mia, un dovere di cameratismo, che, quantunque già lungamente rimandato, io riguardo pur sempre, anche dopo così lungo tempo, come a me delegato e come sacro, nella speranza che le comunicazioni che seguono non debbano inasprire il Suo dolore, un po’ quietato dal corso degli anni. Si tratta della morte di Suo figlio, intorno alla quale Ella certo è soltanto in grado di presumere che accadde in prossimità delle nostre linee, cioè delle linee austro-ungheresi. Ma io, come testimonio oculare, posso darLe precisi ragguagli della eroica per lui e per la sua famiglia sempre gloriosa condotta dell’eroe Suo figliuolo. Io credo di non riaccendere l’antico e certo già un po’ temprato Suo dolore: al contrario di lenirlo con la precisa descrizione del fatto. L’incertezza in cui Ella finora era costretta a vivere per mia colpa desidero distruggerla, per poter anche in tal modo reagire confortevolmente contro il duro destino. Il conforto completo, se un tale conforto è mai in questi casi possibile, potrà il tempo arrecarlo: l’ombra che avviluppa ogni cosa lenirà anche a Lei il peso del Suo dolore, in modo da lasciare soltanto più il ricordo e la memoria del caro scomparso. In un giorno di maggio del 1918, improvvisamente davanti alle nostre posizioni apparve un gruppo d’assalto italiano, e, davanti a tutti Suo figlio, e colse i nostri completamente sorpresi. Dopo che l’assalto era brillantemente riuscito e lo scopo probabilmente anche altrove pienamente raggiunto, gli italiani si disposero ad operare il ritorno. Tuttavia Suo figlio, per cogliere anche i segni ed i trofei della vittoria, saltò risolutamente sopra un vicino posto di mitragliatrici, abbatté due ungheresi là accorsi, si impadronì dell’arma, cercando soltanto allora di ricongiungersi al suo gruppo già distanziato. Ma impedito dalla pesantezza del bottino, non poté affrettare abbastanza la corsa ed il piombo mortale lo raggiunse, attraversandogli a mezzo il cuore e, silenziosamente, come colpito dal fulmine, cadde l’eroe, spirando, senza tormento e senza dolore, la grande anima sua. La salma del caduto venne sepolta, con tutti gli onori dovuti ai nemici valorosi, lassù, alle Bocchette di Fondo, ad uno sbocco del Grappa, tra Monte Pertica e Monte Prassolan. Egli dorme in una tomba segnata col suo nome. Sia pace alle sue ceneri! Mentre spero, anche dopo così lungo tempo, di aver fatto un opera buona, mi segno con ossequio”. Oggi un tragitto ricco di suggestioni pittoriche e scultoree, ci accompagna attraverso il teatro di quei lontani eventi. Il Bosco degli Eroi, questo il nome scelto per il percorso, vuole essere un occasione per immergersi nella natura, contemplando queste opere, che ci riportano alla violenza generata dalla guerra e alle enormi perdite in vite e in valori da queste rappresentate, vuoto incolmabile e fonte di sofferenze inconsolabili. Chissà se fu proprio l’autore della lettera ad uccidere il giovane ardito, non lo sapremo mai; ma ciò che sappiamo è che il suo gesto ci mostra senz’altro il rimorso provato da chi ha dovuto combattere una guerra terribile.