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Società e religione: la fede in tempi di pandemia
Società e religione di Alex De Boni
La fede in tempi di pandemia
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La pandemia che ha colpito il Mondo ha drasticamente segnato e modificato i nostri stili di vita, siamo passati da una piena e personale libertà di scelta all’essere condizionati quasi a 360 gradi da fattori esterni. La società sta lentamente adattandosi ad un nuovo modello di vita, consapevoli, chi più chi meno, che quello che avevamo prima probabilmente non tornerà più. In questi anni anche il concetto della fede è cambiato molto, probabilmente visto più come un aspetto di privata intimità che come condivisione nelle cerimonie religiose. A parlarci di questo è il parroco di Lentiai Don Luca Martorel che analizza come la Chiesa abbia dovuto fronteggiare la distanza dai propri fedeli.
Pandemia: cosa ha significato per Lei il distacco quotidiano dai fedeli? È stata una grande sofferenza. La fede (almeno per i cristiani, ma non solo) si esprime non solo personalmente, ma anche in forma comunitaria. Chiesa significa assemblea. La fede non è un fatto privato o intimistico, anche se oggi molti la preferiscono così perché più comoda: in fondo si deve render conto solo a se stessi. Dalla scelta di fede infatti deriva il comportamento morale che determina le relazioni. Quindi ha a che fare con gli altri. L’idea che si possa essere cristiani senza bisogno della comunità credente è completamente disorientata. Ritiene che il covid abbia allontanato le persone dalla fede o viceversa? Non c’è più religione! Per dirlo con una battuta. Ma non è proprio così. Le conseguenze di questa epidemia stanno lasciando strascichi preoccupanti e hanno ampliato il divario tra credenti e indifferenti. Dalla mia parziale lettura della situazione, ho notato che coloro che avevano già prima un cammino spirituale serio, hanno confermato e rafforzato la loro fede. Qualcun altro è stato toccato dalle domande profonde su sé e sul senso della vita, su Dio e la sua operosità e ha deciso di intraprendere un percorso di ricerca spirituale o di ritornare alla fede “attiva” dopo anni di sospensione. Altri hanno approfittato della situazione e con educata indifferenza hanno chiuso quasi definitivamente con la fede. L’epidemia ha inferto il colpo di grazia alle scelte di comodo, le mezze scelte, a quei cristiani di nome e non di fatto. Denota un aumento di un fenomeno che sembra sempre più presente, ossia odio sociale derivante da tutte le restrizioni che le persone hanno subito? Secondo me non c’è più odio, ma più pigrizia, svogliatezza, indifferenza e una pericolosa noia sociale che può portare alla violenza. Ma la causa non sono le restrizioni. È evidente che, come dice papa Francesco, questa non è solo un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca.
Società e religione
E come tutti i cambi, fa paura. Senza dubbio la situazione causata dal virus sta cambiando anche la fede e la religiosità di numerose persone. Ovviamente non si può generalizzare, è piuttosto una tendenza. In alcuni casi crolla il senso di appartenenza alla Chiesa, e non l’istituzione con le sue pesanti strutture che già da tempo è in crisi; ma la parrocchia, cioè la comunità cristiana. Cala la necessità della Messa festiva e dei sacramenti. Cresce l’indifferenza religiosa. E questo mi preoccupa perché senza la fede e una prospettiva di senso, si smarrisce la speranza e la vita diventa grigia. Che messaggio si sente di dare a chi ha perso la speranza? Ripartire dalla fraternità. “Abbiamo sperimentato che siamo tutti sulla stessa barca e che nessuno si salva da solo”; lo dice papa Francesco. Per chi è cristiano, fraternità si traduce con comunione. Il credente credibile cerca anzitutto l’alimento necessario per la sua vita nella fedeltà alla Messa e nella quotidiana preghiera. Di conseguenza sente l’esigenza di appartenere a una comunità cristiana; la comunione in parrocchia non è un’esigenza aziendale, ma il solco indispensabile per la speranza. Comunione non è confusione, ma è garanzia di una identità di fede salda e radicata, capace e disposta a dialogare con tutti. Se guarda al futuro, da religioso, cosa vede? Penso che molta gente oggi abbia una grande fame di speranza; che sia disorientata, forse anche delusa dalla Chiesa, ma sostanzialmente buona e alla ricerca sincera di risposte vere. La diaspora dei cristiani di tradizione, quelli che si vedono solo la notte di Natale e a qualche funerale, o quelli che si presentano in parrocchia solo per la prestazione religiosa del battesimo, ci permette ora di parlare chiaro, senza paura di offendere questo o di indispettire quello. Le parrocchie sono anche “ospedale da campo” come usa dire papa Francesco, e devono continuare ad esserlo per curare le ferite e le miserie umane con la medicina della misericordia. Però la misericordia non ha un effetto placebo. Prima di curare una ferita la si deve disinfettare, e brucia. Anche la verità, che per i credenti è l’esigente parola di Gesù, brucia. Verità e misericordia. Forse, col tentativo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte o di salvar capra e cavoli, abbiamo contribuito a confondere la verità con l’individualismo e la misericordia con la compiacenza. Per esempio, abbiamo smesso di dire ai cristiani che perdere Messa la domenica è peccato mortale, abbiamo ammesso chiunque ai sacramenti, anche senza catechesi. Abbiamo, di fatto, accettato come buone scelte di vita non conformi al Vangelo… perché ora il mondo va così! Alla evangelica ricerca di essere Chiesa accogliente (inclusiva come si usa dire adesso) è spesso prevalso il timore dell’accusa di intolleranza e discriminazione; all’evangelico invito a scelte radicali fedeli al Vangelo e al battesimo è prevalso un subdolo e pericoloso silenzio consenziente. Penso che le nostre comunità cristiane, oggi ridotte ai minimi termini, abbiano l’opportunità di tornare a parlare di Dio e di dire una parola schietta e credibile sulla vita e sul mondo.