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Racconti d’arte: un Clown non fa carnevale

Racconti d'arte di Daniela Zangrando*

Un CLOWN non fa CARNEVALE?

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Per questo pezzo ero partita con le migliori intenzioni: quelle di raccontarvi il carnevale attraverso l’arte. Anzi, attraverso un’opera d’arte contemporanea. La vedete nelle immagini. Ci sono dei clown, parecchi clown. Paiono perfetti per una sfilata in maschera, pronti a salire su un carro e attraversare le vie tra lanci di coriandoli e stelle filanti. Fanno parte di “Vocabulary of Solitude”, opera di Ugo Rondinone, artista di origini svizzere che vive a New York e che possiamo considerare tra i più rappresentativi della sua generazione. Quando penso al carnevale, non posso far a meno di tornare all’infanzia. A quella foto che mi ritrae bambina, mano nella mano con lo “Smotazin”, una maschera lugubre, per me spaventosa. Ricordo la mia espressione impaurita, e la lingua infernale, troppo lunga e troppo rossa, della maschera. Il mio braccio teso, che voleva sfuggire alla stretta. Penso anche alle feste chiassose e spensierate, organizzate a casa, con tanto di frittelle, castagnole, e danze. Ai carnevali universitari veneziani, al sempre rinnovato stupore per l’eleganza di maschere e abiti e ai volti sfatti di trucchi slavati e alcol, che attraversavano le calli di notte tra gli schiamazzi. Alle maschere popolari, piene dell’energia in potenza del travestimento, del mostrarsi non per chi si è ma per chi si vuol essere, almeno una volta l’anno. Guardo i clown di Rondinone e mi impegno per fare un collegamento, ma non ci vedo nulla di tutto questo. Non posso dirvi che ci sia la festa, l’eccesso, e neanche la voglia di trasgredire. Mi sforzo di pensare ancora alla mia idea di maschera e mi viene in mente Leoncavallo. Avrete sentito tutti almeno una volta nella vita la famosissima aria “Ridi, Pagliaccio” – che in realtà si intitola “Vesti la giubba” – e ne ricorderete bene l’amarezza. Non si può dire che Canio sia un clown allegro. È un attore che, appena scoperto il tradimento della moglie, si trova a dover recitare la sua parte di pagliaccio, mentre, “preso dal delirio”, non sa più quel che dice e quel che fa. D’altro canto, prima di tutto è un attore, e non gli resta altro da fare che indossare la giubba, infarinarsi la faccia, e andare in scena, vestendo il pianto con le risate e i singhiozzi con le smorfie. “Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto! Ridi del duol, che t’avvelena il cor!” – e intanto la gente applaude e si diverte. Butto di nuovo un’occhiata ai clown dell’opera, ma non leggo in loro nemmeno questa tensione drammatica, questo dolore. Forse non li sto osservando bene? Cosa mi sfugge? Se Ugo Rondinone insiste sul fatto che l’opera d’arte non vada per forza interpretata, ma solo descritta, sto davvero sbagliando rotta. Guardiamola insieme. Si tratta di quarantacinque clown di proporzioni umane, ventitré donne e ventidue uomini di etnie diverse. Stanno seduti, o stesi. Come ogni clown che si rispetti, hanno una bombetta nera in testa, naso rossissimo, e sono agghindati con ampi collari e costumi colorati. Sembrano vivi, eppure nessuno si muove. Stanno in silenzio. Vi verrà da camminare tra di loro in punta di piedi, per evitare che le scarpe facciano rumore sul pavimento.

Proverete a chinarvi, per incrociare il loro sguardo, ma lo troverete rivolto a terra. Vi aspetterete che da un attimo all’altro qualcuno di loro si alzi e inizi a far qualche mossa buffa, ma non succede nulla. Niente di niente. Stanno lì e basta. Ognuno di loro porta il nome di un’azione quotidiana, che fa parte della lista di azioni che l’artista ha stilato a partire da quelle che compie nell’arco di una giornata. Essere, respirare, dormire, sognare, svegliarsi, alzarsi, sedersi, ascoltare, guardare, pensare, stare, camminare, pisciare, fare la doccia, vestirsi, bere, scoreggiare, cagare, leggere, ridere, cucinare, odorare, assaggiare, mangiare, pulire, scrivere, sognare ad occhi aperti, ricordare, piangere, fare un pisolino, toccare, sentire, lamentarsi, divertirsi, fluttuare, amare, sperare, desiderare, cantare, danzare, cadere, maledire, sbadigliare, spogliarsi, stendersi. Quarantacinque azioni. Un vocabolario quasi, della solitudine, come ci dice il titolo. Ma non è una solitudine che rivela il peso di un isolamento, una tristezza. È solo la condizione del singolo, e non ha alcuna enfasi, né connotazione negativa. I clown, semplicemente, sono. Con le loro azioni raccontano un uomo nelle sue ventiquattro ore. Tengono gli occhi socchiusi. Forse meditano? Senza alcuna pretesa di divertire, di far ridere, stanno concentrati su quel che succede dentro di loro nel momento in cui stanno seduti, immobili, in silenzio. E noi, con loro, senza impastarci nel turbinio delle nostre passioni, ci permettiamo per un attimo di guardarci da fuori.

*Daniela Zangrando è Direttrice del Museo d'Arte Contemporanea Burel di Belluno

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