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Lewis Hamilton, il “re nero” della Formula 1
Il personaggio delle “Quattroruote”
di Alessandro Caldera
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LEWIS HAMILTON
Il “Re nero” della Formula 1
Nonostante la nostra società continui a decantare questo incredibile progresso, possiamo dire che alcune situazioni appaiono immutate dall’era dei tempi. Una di queste problematiche, rappresentativa più dell’ignoranza e della malvagità dell’uomo che di una sua reale crescita, riguarda il fenomeno del razzismo. Una vera e propria piaga, che si è palesata con maggior vigore durante la “Seconda guerra mondiale”, ove si teorizzò la superiorità della razza ariana, e successivamente in Sudafrica con l’Apartheid, aberrante politica segregazionista che portò ad una condizione di vita atroce per le persone di colore, costantemente sottoposte al giogo dei “bianchi”. Queste situazioni, ad oggi, non esistono più in modo così esasperato ed estremizzato e ciò anche grazie a movimenti di condanna concreta e virtuale, come ad esempio “Black Lives Matter”. Proprio grazie a quest’ultimo si può introdurre il protagonista di oggi, grande sostenitore della causa e pilota più vittorioso di sempre, noto con l’epiteto di “Re nero” ma per tutti, più semplicemente, Lewis Hamilton. Il campione britannico vanta origini inglesi dal lato materno, mentre da quello paterno va ricordato come il nonno fosse originario di Grenada, nel mar dei Caraibi, e si fosse trasferito nel Regno Unito solamente nel 1954. La famiglia di Lewis non era particolarmente facoltosa, ragione per la quale il padre Anthony, successivamente manager di F1, dovette svolgere diversi lavori, anche contemporaneamente, per consentire al figlio di approcciarsi a questo sport tanto bello, quanto dispendioso a livello economico. Questi sforzi da parte di padre e figlio verranno ripagati nel ’97, quando Ron Dennis, storico team principal Mclaren, mise sotto contratto il ragazzo, vedendo in lui il futuro dominatore della F1. Il dirigente britannico non si sbagliava affatto, Hamilton infatti ottenne diverse vittorie già nelle categorie minori, su tutte ricordiamo la conquista del campionato GP2, che gli consentirà il passaggio nella “classe regina”, ufficializzato il 24 novembre 2006. La stagione successiva vide quindi il talento anglo-caraibico alla guida della monoposto di Woking, in qualità di secondo pilota, affiancato dall’eterno Fernando Alonso, reduce ai tempi dalla conquista dei mondiali 2005 e 2006 con la Renault, con cui aveva recentemente divorziato in favore del progetto della casa inglese. Dal punto di vista della qualità di guida espressa e dei risultati ottenuti, la prima stagione di Lewis fu quasi perfetta. Quello che mancò, per poter conferire la lode, fu la conquista del titolo iridato, perso per un errore in Cina e per una gestione errata al via
Il personaggio delle “Quattroruote”
della corsa nell’ultima tappa in Brasile, dove a trionfare per la gioia dei ferraristi fu Kimi Raikkonen, divenuto poi grazie a quel successo campione del mondo. Parlando in termini puramente aritmetici ciò che separò Hamilton dal titolo all’esordio (il trionfo lo avrebbe consacrato a pilota più precoce) fu un punto. La vendetta dell’inglese non tardò però ad arrivare, su quella stessa pista, la stagione successiva, il karma si accanì con la Ferrari “scippando” Felipe Massa, pilota del Cavallino, del titolo che andò a Lewis, uscito vincitore proprio con una lunghezza di margine. A rendere però numericamente immortale Hamilton, fu l’avvento della cosiddetta “Hybrid era” che comportò un abbandono del precedente V8 aspirato, in favore dell’innovativo V6 turbo-ibrido. Questo considerevole cambiamento a livello tecnico, che si manifestò nel 2014, fu di un anno successivo rispetto alla decisione del pilota britannico che, dopo tante lusinghe e un lauto stipendio, aveva ceduto al corteggiamento di Mercedes. I numeri con la casa di Brackley, dove ha sede il reparto corse, sono a dir poco impietosi con circa 80 successi in 160 Gp, statistica imbarazzante che dimostra la superiorità della casa tedesca rispetto ai rivali. Proprio questa mancanza reale di concorrenza ha contribuito negli ultimi anni ad allontanare parzialmente gli spettatori dalla F1 e a sminuire le gesta del pilota britannico, impostosi nel 2014 e 2015 e poi successivamente dal 2017 al 2020. Solamente la Red Bull e Verstappen hanno separato Hamilton dal raggiungimento dell’ottavo titolo, traguardo che gli avrebbe consentito di scalzare il “Kaiser”, Michael Schumacher, con cui si trova al momento ad ex-aequo per numero di titoli iridati. Comunque in attesa di quello che il rivoluzionario 2022 ci racconterà, Lewis ha dimostrato una velocità non indifferente sul giro secco, demolendo addirittura il proprio mito Ayrton Senna, e soprattutto una concretezza e una lucidità in gara che gli hanno permesso di sfondare il muro delle 100 vittorie in carriera. Hamilton è quindi un uomo cruciale nella storia di questo sport, colui che partendo dal nulla ha costruito “un impero”, dando voce e riscattando tanti anni di soprusi per le persone di colore.
Ieri avvenne
di Maurizio Panizza
LA PELLAGRA IN TRENTINO, LA MALATTIA DEI POVERI
L’impegno del dott. de Probizer e la sua definitiva scomparsa ai primi del ‘900
Segnalata ancora agli inizi del 1700 in Spagna come “male della rosa”, la pellagra era una grave malattia che all’interno dell’Impero Austro-Ungarico colpiva verso la fine dell’Ottocento in particolare le popolazioni rurali del Tirolo meridionale, l’attuale Trentino. Le zone più colpite in assoluto erano le Valli di Terragnolo e di Vallarsa, ma anche la Valle di Gresta, Folgaria e la Valsugana. Le cause erano da ricondursi all’estrema miseria di alcune classi contadine costrette a una dieta poverissima basata essenzialmente solo su prodotti di farina di mais (polenta, mosa, pane giallo) senza apporti nutrizionali di altro genere. “Miseria e polenta fanno pellagra”, era il detto che girava agli inizi del Novecento, anche se per lungo tempo non fu possibile comprenderne la vera origine. In effetti, il problema di fondo era proprio la povertà favorita anche dai balzelli sui generi alimentari di prima necessità, come ad esempio la farina bianca, che ne riducevano sensibilmente l’acquisto e il consumo. Per molti anni fu dunque difficile individuarne le cause, al punto tale che la malattia non veniva riconosciuta dal Governo Austriaco, né inserita nei programmi di insegnamento medico universitario. In tal senso si arrivò addirittura al punto che i primi anni in cui si manifestò, molti funzionari sanitari consideravano le segnalazioni di questa misteriosa malattia come una “italienische Gaunerei”, cioè una truffa tutta italiana al fine di ottenere sovvenzioni economiche. Ma non era affatto così. Grazie all’impegno del medico roveretano Guido de Probizer, nel primo decennio del ‘900 si iniziò ad applicare allo studio scientifico della malattia pure l’indagine demografica sull’incidenza territoriale del fenomeno, coinvolgendo i comuni, i medici condotti, i parroci. Il primo grande merito di de Probizer fu dunque quello di convincere le autorità pubbliche che si trattava di un problema serio su vasta scala, non solo sanitario ma anche sociale. Da quella statistica che interessava il Tirolo di lingua italiana uscì finalmente un quadro reale della diffusione della malattia. Il distretto politico di Borgo, ad esempio, nel 1904 contava ben 1516 ammalati, con un rapporto di 1:36 sul totale della popolazione. I sintomi della pellagra, molto variabili da caso a caso (difficoltà ulteriore per diagnosticare la malattia), facevano capo a tre distinte patologie: dermatite, diarrea, demenza. In genere per primi si manifestavano i disturbi alla pelle che si presentavano come una
Ieri avvenne
dermatosi eritematosa con croste che in particolare andava a colpire le parti scoperte del corpo, cioè il viso, la nuca, il collo, il dorso delle mani e dei piedi. Seguivano i sintomi intestinali, caratterizzati da dolori addominali e da diarrea. Infine comparivano disturbi neuro-psichici, cioè paresi, tremori, convulsioni e perdita di memoria, stati confusionali e crisi maniacali. L’andamento era grave, cronico e irreversibile. Per dare un’idea del fenomeno, basti pensare che nel quinquennio fra il 1889 e il 1894 furono ricoverati nel manicomio di Pergine ben 214 pazzi pellagrosi, che da soli costituivano il 20% di tutti i ricoverati presso l’Istituto. Finalmente, grazie alla determinazione del dott. de Probizer sia in campo medico che in quello politico e amministrativo, nel 1904 - quando erano quasi 5000 i pellagrosi del Trentino meridionale - si arrivò alla firma da parte dell’imperatore Francesco Giuseppe della legge contro la pellagra. Essa consisteva in numerosi provvedimenti fra cui l’erezione e il mantenimento di appositi ospedali (pellagrosari); l’avviamento delle cosiddette “cucine economiche” dove, a poco prezzo, veniva offerto del cibo sano e diversificato, da cui però erano esclusi polenta e vino; la costruzione di panifici comunali o circondariali per calmierare il prezzo del pane; l’istruzione della popolazione sulla malattia e sul modo di combatterla oltre a premi e incentivi per coloro che seminavano frumento al posto del mais o acquistavano una mucca da latte. Furono pure decisi sostanziosi interventi in favore dell’edilizia e dell’igiene scolastica, nonché per l’acqua potabile e le reti idriche. L’anno successivo, dopo lavori portati avanti in maniera rapidissima, fu inaugurato il primo ospedale dedicato in assoluto alla cura della pellagra. Come localizzazione fu scelta la città di Rovereto, distretto in cui la malattia, più che altrove, era presente in maniera preoccupante, e il luogo per costruire il pellagrosario fu un terreno agricolo di 35.000 metri quadri posto su di una collina in posizione soleggiata (l’attuale Viale dei Colli). Scriverà in proposito il giornale “L’eco del Baldo” del 3 giugno 1905: “Intervenne il Principe Vescovo Monsignor Celestino Endrici che impartì la solenne benedizione al nuovo superbo pellagrosario di Rovereto e consacrò la Cappella dell’Istituto dedicata a San Sebastiano”. Con la presa d’atto che la pellagra poteva essere debellata con una più sana alimentazione e con la scoperta di farmaci per contrastarla, nel corso degli anni successivi i nuovi casi si ridussero notevolmente e nell’arco di un decennio scomparvero quasi del tutto. Nel 1914 di quella “misteriosa” patologia rimaneva ormai solo un brutto ricordo e la guerra che di lì a poco avrebbe travolto il Sud Tirolo e tutta l’Europa avrebbe cancellato ben presto pure quello.
Estratto dal libro “Diario Familiare” di Maurizio Panizza, Curcu Genovese-Athesia Editore, Bolzano 2018.