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Javier Zanetti, il campione
Il calcio in controluce
di Alessandro Caldera
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JAVIER ZANETTI, il campione
Tante cose sono cambiate da quel 26 ottobre 1863, l’umanità è stata travolta da due tragici conflitti mondiali, è stato riconosciuto il suffragio universale e nella nostra incantevole penisola, la monarchia è stata soppiantata dalla Repubblica. La domanda però sorge ora spontanea:“ Cosa successe quel fatidico giorno?”. Quelle ventiquattrore, sconosciute a molti, sono state convenzionalmente scelte come il momento in cui lo sport più praticato nel mondo, il calcio, è venuto ufficialmente “alla luce”. Nel tempo questa disciplina ha subito molteplici accorgimenti e modifiche, come ad esempio il fuorigioco, piuttosto che la più recente e roboante introduzione del Var. La crescita del calcio è andata di pari passo, purtroppo, con una sempre più costante immissione di denaro, aspetto che ha portato alla scomparsa di quelle figure di riferimento, denominate “bandiere”, e alla proliferazione di quei soggetti prezzolati che con un parallelismo storico-militare, potremmo etichettare come mercenari. Il racconto di oggi, però, è incentrato su un individuo della vecchia guardia, esempio di attaccamento alla maglia e di rettitudine: Javier Adelmar Zanetti. Nato a Buenos Aires, anche se con evidenti origini italiane, deve il suo secondo nome ad un medico che, a poche ore dalla nascita, lo salvò dai gravi problemi di respirazione che lo affliggevano. Curioso è il fatto che proprio la resistenza, la corsa travolgente e la tenuta fisica saranno gli elementi che lo caratterizzeranno nella sua carriera, al punto da essere ribattezzato “El tractor”. La storia calcistica di Zanetti ha inizio logicamente nel suo paese natale, l’Argentina, in un momento storico particolare, denominato la “guerra sporca”, nel quale si cercò di debellare le nicchie di resistenza rappresentate dai marxisti o peronisti. Tale fenomeno ebbe il suo culmine tra il ’76 e il ’79, quasi in concomitanza del primo successo mondiale della Albiceleste, guidata da Menotti, ottenuto in Olanda nel ‘78 e proprio a discapito degli “Orange”. Saranno le mirabolanti gesta di quella leggendaria formazione ad impressionare Javier, rimasto folgorato dalla figura del capitano Daniel Passarella, che militerà poi nel nostro campionato, e dallo straordinario bomber Mario Kempes. Con queste premesse Zanetti si avvicinò ufficialmente al mondo del calcio, facendo parte inizialmente della Disneyland, una squadra di fortuna fondata da alcuni genitori nel quartiere di Dock Sud, nel partido di Avellaneda dal quale lui stesso proveniva. Arriviamo però al 1982, l’anno nel quale l’Independiente gli offrì una prima vera opportunità. In realtà si potrebbe dire che l’argentino fu sedotto ed abbandonato, perché dopo aver militato per sette anni a livello giovanile in questa compagine, fu scartato perché ritenuto troppo gracile. Questo rifiuto, se così vogliamo definirlo, lo segnò, al punto tale di decidere di lasciare per un anno il calcio ed aiutare la famiglia nel lavoro in cantiere, esperienza che lo avrebbe poi rafforzato a livello fisico. Il destino di Zanetti era però deciso, lui e il pallone non potevano lasciarsi così; ecco quindi che si delineò l’opportunità del Talleres, squadra nella quale giocava il fratello Sergio, noto con il famoso epiteto di “Pupi”, affibbiato poi perennemente ad Javier. Con quest’ultima registrò anche la prima presenza tra i professionisti, esordendo ufficialmente il 22 agosto 1992 in un match di seconda divisione. Le buone prestazioni ottenute con la squadra di Cordoba gli consentiranno poi di ottenere il passaggio al Banfield, militante in massima serie, al quale si aggiungerà poi la chiamata della nazionale, allenata dal mito, già precedentemente citato, di Passarella.
Javier Zanetti (da Wikipedia)
Il calcio in controluce
Quello che accadde dopo il Banfiled, è invece noto ai più: nell’agosto del 1995 il neo presidente dell’Inter Massimo Moratti acquistò, su consiglio del ex bomber nerazzurro Angelillo, il cartellino di Zanetti, la cui presentazione venne però oscurata dalla figura ingombrante di Rambert, l’aereoplanino, ritenuto il colpo effettivo del presidente. La realtà però è che quel giorno tutti si sbagliavano, colui che doveva essere la star si rivelò con il tempo un grande flop, mentre il ragazzo sbarbato, passato in secondo piano, segnò inevitabilmente la storia del club. Già, Javier legò il proprio nome alla formazione meneghina per quasi un ventennio, divenendo ufficialmente capitano in seguito al ritiro di Bergomi e all’infortunio di Ronaldo. In quasi due decenni l’argentino ha potuto assistere a stagioni sottotono e a insuperabili traguardi, su tutti il Triplete, ottenuti dalla formazione neroazzurra, una famiglia della quale fa e farà sempre parte. In suo onore, il 4 maggio 2015 l’Inter ha ufficialmente ritirato la maglia numero 4. «Ho sognato di chiudere la mia carriera all'Inter, la mia casa, ed è un orgoglio poterlo fare».
Javier Zanetti e Cristiano Ronaldo (da Wikipedia)
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A tutta musica
di Gabriele Biancardi
VAI DI PUNTINA
GRAFFIA MA NON DISEGNA
C’era un tempo in cui si stava davanti alla radio con le dita appoggiate su “Rec” e “Play”, attendendo il momento che la canzone richiesta passasse. Nella telefonata intercorsa con il dj, si pregava di “non parlarci su”. Per legge questo non era possibile, per via di diritti d’autore e altre sottigliezze legali. Ammetto di aver frodato questa legge nove volte su dieci. Mi dispiaceva rovinare una canzone con il mio vocione. Mi illudevo che a registrare il brano fosse sempre qualcuno che avendo i soldi contati non poteva comprarsi il disco, 33 o 45 giri che fosse. Poi arrivarono i compact disc. Un oggettino di metallo che prometteva cose inenarrabili, il vinile cominciò a perdere colpi, il cd era pratico, lo potevi mettere in auto e occupava molto meno spazio. Poi arrivò la catastrofe (per i musicisti). La rete! Si cominciò con lo scaricare a frodo, fino alle piattaforme odierne che ti permette di avere, a pochi soldi, tutta la musica che vuoi. Certo, da un punto di vista prettamente personale questa possibilità è fantastica. Ma senza sembrare il solito nostalgico, credo che stiano per tornare qualche scheggia del più o meno recente passato. Oggi sul tuo smartphone, o qualunque apparecchio apposito puoi avere 10.000 canzoni scaricate, ma pensaci, quante di queste le conosci veramente? Quante parole sentite in musica ti hanno lasciato emozioni e pensieri? Il vinile, il 33 giri, quello grande, sta tornando ed è pure incazzato. Il mio budget adolescenziale mi permetteva due album al mese. Certo facendo radio già da giovanissimo, ero privilegiato, ascoltavo e poi decidevo. Ma comunque la scelta era ponderata e lenta. Ma quando arrivavi a casa con sottobraccio due nuovi album, grandi, magari curati nei dettagli all’interno, testi, foto, chi suonava cosa, i ringraziamenti... metterli sul giradischi con la delicatezza di un trapianto di cuore. Mano ferma per appoggiare la puntina, evitare accuratamente anche il più piccolo rimbalzo, che ti avrebbe portato indietro nella classifica degli ascoltatori professionisti. Ecco. Il vinile ha questa magia. Ti ferma il tempo. Per ascoltare un disco devi proprio trovarlo questo benedetto tempo. Oggi la tecnologia ci promette di fare tutto più in fretta e meglio per avere tanta libertà. Ma onestamente, trovate di avere più tempo di prima?? il vinile poi, se vogliamo entrare nel tecnicismo, ha una fedeltà che nessun supporto digitale può eguagliare. Ricordo un professionista che si spingeva ancora più in là. Per chi è in possesso di un orecchio assoluto, si accorge di una differenza dal primo ascolto in poi. Oggi i dischi li trovi nei mercatini, spesso rovinati dal tempo e dal poco amore di chi li possedeva. Io ho rubato tutti quelli di mio fratello, sono abbastanza felice. Ma un negozio di vinili? Roba da intenditori e li trovi solo nelle grandi città. Ecco perché quando ho letto che Daniele Lott ha aperto a Rovereto “Velvet”, negozio di vinili, mi sono quasi commosso. Tra l’altro un sacco di artisti hanno deciso di riportare su questo vetusto materiale, i loro nuovi lavori. Non ultimi i The Bastard sons of Dioniso. Non voglio assolutamente demonizzare l’attuale. La rete ci permette di conoscere musica proveniente da ogni parte del mondo. Ma non credo che una cosa possa escludere l’altra. Adoro collegarmi con radio brasiliane o americane per trovare qualcosa di nuovo. Ma allo stesso tempo, mi piace ogni tanto, accendere a casa il mio impianto. Ascoltare con calma qualche disco, magari prima chiudo fuori dal soggiorno i miei gatti, ho paura che lo possano prendere per un gioco tutto quel “girare”. E ascolto, non posseggo l’orecchio assoluto, anzi, uno è andato quasi a quel paese, ma il tempo che ci impiego per scegliere e tutto il rito che ne consegue, mi permette di gustare il piacere dell’attesa. Quando la musica riempie la stanza e allora il tuo umore segue le note che ti avvolgono. Funziona. Provate.
Tra Storia, Poesia e Letteratura
di Silvana Poli
CAROLINA INVERNIZIO, casalinga di Voghera
Carolina Invernizio fu la più importante scrittrice di romanzi di appendice italiana. Nata a Voghera nel 1851 era figlia di un funzionario del regno di Sardegna. Quando nel 1865 la capitale del nuovo regno d’Italia venne trasferita a Firenze, la famiglia Invernizio si trasferì nel capoluogo toscano. Carolina e le sorelle frequentarono la scuola per diventare maestre. Carolina amava scrivere e, appena ne ebbe la possibilità, pubblicò un racconto sul giornale della scuola dal titolo Amore e morte per il quale corse il rischio di essere espulsa. Già in quell’inizio infatti emergeva la sua passione per tragedie e forti sentimenti, per ambientazioni fosche e intrighi inverosimili. Quando nel 1881 Carolina conobbe Marcello Quinterno, un affascinante ufficiale dei carabinieri s’innamorò e fu ricambiata. Il fidanzamento fu di breve durata e si concluse con le nozze. Ebbero una sola figlia: Marcella, amata e coccolata dai genitori e dalle zie. La Invernizio era madre attenta, moglie fedele e donna pia. Sono pochi, nella sua vita, gli eventi degni di nota: il più importante è la partecipazione del marito alla guerra coloniale che portò il Regio Esercito a cercare conquistare terre nel continente africano. Al ritorno dall’Africa Marcello, reduce di guerra, ottenne il privilegio di dirigere il Regio Panificio Militare di Torino e così la famiglia dovette lasciare Firenze per trasferirsi nuovamente in Piemonte. Da quel momento in poi la Invernizio visse tra Torino e Cuneo, dove morì nel 1916. Quando fu aperto il suo testamento, che aveva redatto ancora nel 1903, vennero lette le sue ultime volontà. La scrittrice disponeva che il suo corpo fosse sepolto, non prima di giorni quattro dal decesso, perché era terrorizzata dall’idea di essere sepolta viva e di risvegliarsi sotto terra. La cosa non deve stupire perché la paura della morte apparente era molto comune in quell’epoca. A leggere la biografia di questa donna non sembra che meriti di essere ricordata, ma se andiamo a leggere quello che scriveva, cambiamo idea. Innanzitutto la Invernizio ha scritto più di 130 romanzi: molti sono stati tradotti in altre lingue e alcuni sono diventati film di successo. Quanto la sua vita è stata lineare, tanto le vicende che lei narrava erano intricate. Omicidi e rapimenti, furti e intrighi, tradimenti e sparizioni, sono gli ingredienti di tutte le sue storie. La protagonista è sempre una donna virtuosa, piena di buone intenzioni, meritevole di affetto e di amore, che però si trova coinvolta, suo malgrado in sordide storie. Le ambientazioni hanno tinte fosche mentre i personaggi appartengono a due categorie: i buoni e i cattivi. Il mondo fantastico della Invernizio è manicheo, senza mezze misure: non c’è spazio per le sfumature e per le incertezze. Può capitare però che, a volte, per debolezza, qualcuno dei buoni venga indotto a compiere azioni malvage. Solitamente, in quel caso, alla fine dei conti la verità è destinata a venire a galla, il malvagio viene punito e il bene trionfa. Non si può negare una certa ripetitività nella struttura delle trame nelle opere della Invernizio e per questo è stata molto criticata dal mondo letterario. A dire il vero la Invernizio è stata una delle scrittrici più criticate. In un’epoca in cui i diritti delle donne erano quasi un’utopia, non era ammissibile che una donna si permettesse di scrivere e di diventare famosa. Per questo le sono stati attribuiti diversi appellativi denigratori come “la Carolina di servizio” per sottolineare il fatto che le sue storie erano destinate solo alla servitù o la celebre definizione è “la casalinga di Voghera”. Antonio Gramsci la definì “l’onesta gallina della letteratura popolare”. La Invernizio, dal canto suo, non si lasciava impressionare dagli attacchi dei critici perché, diceva, mentre loro mi criticano, le loro mogli, le loro sorelle e le loro figlie acquistano i miei libri. E infatti il pubblico amava le sue opere e, chissà, forse si sentiva rassicurato proprio dalla prevedibilità delle sue trame che presentavano un mondo in cui, nonostante il male, tutto si sistemava nelle ultime pagine del romanzo. Carolina amava scrivere per ore e ore e preferiva le ore della sera perché
Carolina Invernizio
Tra Storia, Poesia e Letteratura
in quelle ore le era più facile narrare storie che avevano l’ombra e il buio come sfondo. Quando si metteva alla scrivania la penna scorreva veloce e lei si lasciava trascinare dalle ali della sua fervida fantasia. I suoi romanzi sono collocati in precisi contesti storici: per far questo la Invernizio si documenta e rende verosimili i personaggi che mette in campo. Ma se per la cornice storica e sociale l’autrice cerca la verosimiglianza, le vicende narrate talvolta sono decisamente improbabili; eppure anche questo appassionava i suoi lettori. La Invernizio dedicava tantissima cura nella scelta del titolo di ogni sua opera perché riteneva che gran parte del successo di un libro dipendesse, in primo luogo, dal titolo. L’orfana del ghetto, La mano della morta, I ladri dell’onore sono solo alcuni dei titoli suggestivi che la Invernizio ha creato. La sua opera più famosa che ha avuto ben quattro trasposizioni cinematografiche s’intitola Il bacio della morta. Anche Pupi Avati, negli anni Settanta, ne ha curato la sceneggiatura. Chi ha cercato di definire il genere letterario a cui appartengono i suoi racconti ha individuato diversi elementi: ci sono elementi del genere poliziesco tra omicidi furti e rapimenti, ci sono le tinte fosche del genere gotico, c’è la protagonista virtuosa e il lieto fine tipici del romanzo rosa. Ma soprattutto c’è la sua passione perché la Invernizio viveva intensamente emozioni e sentimenti assieme ai suoi personaggi. Quando la protagonista viene tradita anche Caterina piange, ma quando nasce una bimba, il suo cuore esulta come per la nascita della sua Marcella; mentre percorre il buio vialetto del cimitero monumentale di Torino, il cuore di Carolina batte all’impazzata in sincronia con quello della fanciulla che sta fuggendo. E quando, finalmente, gli intrighi si sciolgono anche lei può finalmente tirare un sospiro di sollievo. La sua dedizione alla scrittura era tale che, a volte, scriveva più romanzi contemporaneamente e, per non rischiare di intrecciare le due vicende si avvaleva dell’aiuto di sua sorella che teneva la ‘contabilità dei morti’ e lo schema della trama. Carolina Invernizio è sepolta nel cimitero monumentale di Torino: sulla sua tomba è stata posta la scritta Il tuo nome non morirà e, in onore suo, Milano e Cuneo le ha intitolato due vie.
La lapide a Cuneo
La trovatella di Milano, Barbini, Milano (1889)
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