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Considerazioni al chiaro di luna
di Franco Zadra
S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo...
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Sarà molto facile, mi auguro, leggere questo articolo a cose fatte, in quel dopo elezioni che per ragioni cronologiche mi è ora precluso, almeno, molto più facile di scriverlo. Ho scelto di farlo alla vigilia del 25 settembre (stavo per scrivere dicembre) per una ragione precisa. Ho voluto assaporare fino in fondo quell’attesa di un esito, da alcuni agognato e da altri temuto, che una volta palesato avrebbe del tutto sciolto, al momento della sigaretta, intendo, quella tensione ideale che dà slancio all’impegno politico, ma che è comunemente fraintesa, perché si fugge sempre dal fare i conti con la realtà delle proprie motivazioni nel praticarlo. Titolare con la prima strofa di quella burla irriverente del poeta senese Cecco Angiolieri, è un tentativo di ammiccare con simpatia a quella schiera di candidati, grandi e piccoli, noti o meno noti, che in questa campagna elettorale lampo, ne hanno dette e fatte di tutti i colori, e che una volta proclamato il vincitore, saranno costretti a riportare il discorso sul piano banale della quotidianità, magari, riuscendo a fare, lo auguro a tutti, come Cecco, dell’autoironia; in quanto, dopo aver propagandato per i loro elettori un desiderio di cambio radicale, di bruciare il mondo appunto, dovranno accontentarsi di mettersi al servizio dello Stato, o meglio, del Popolo, comunque eletti, oppure (Dio non voglia), come il nostro Cecco, sedurre qualche giovane popolana, quando non si è al verde. La campagna elettorale è finita, ma il giorno non è ancora incominciato. È questo il momento che vorrei congelato in un’istantanea. Un momento, una foto, che ha la possibilità di mostrarci il volto più prossimo al reale di chi incarna l’impegno politico, per poter distinguere e alla fine scegliere meglio (ormai la prossima volta) tra chi pensa alla politica come una battaglia per la conquista del potere, perciò scende in campo, affronta l’agone politico, sconfigge l’avversario, e chi invece la pensa come servizio, i compromessi li fa solo in vista di un bene comune più largo possibile, e accetta anche ruoli da mediano, ma soprattutto, di subire ingiustizie piuttosto di infliggerle. Il cambiamento, la novità in politica, dovrebbe vestire i panni della stupenda definizione coniata dal più maturo Magistero sociale della Chiesa, altrimenti, chiunque vinca, sarà sempre la stessa storia, per una sorta di compulsione, una condanna a ripetere che sottomette indistintamente destra, centro, e sinistra, quando la motivazione di fondo è, in parole povere, la conquista del potere. È stato papa Achille Ratti, Pio XI, a dare quella definizione parlando ai dirigenti della Federazione Universitaria Cattolica, il 18 dicembre 1927, ripresa di continuo dai successivi pontefici, fino a Francesco, per esempio, nel Discorso in occasione dell'Udienza agli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti in Italia e in Albania, il 7 giugno 2013, ma che ogni politico, credente o meno, dovrebbe aver incorniciata sopra il letto: «La politica è la forma più alta di carità». In esteso, Pio XI affermò: «E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutte le società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore». E, sbaragliando ogni fraintendimento, ogni luogo comune sulla politica, intesa come “sporca” e dalla quale tenersi alla larga, pronunciò quel “comandamento nuovo” al quale dovrebbero attenersi almeno i cristiani, ma in fondo, se propriamente uomini (o donne), tutti quei politici e amministratori, che siano leader o figure di secondo piano, ma alla fine ogni cittadino che si assume la briga di recarsi al seggio per mettere una X, che invece e inesorabilmente cadono, una volta eletti, finita la campagna elettorale, appiattiti in un muto greggismo devoto, assuefatti al potere, stipendiati sicuramente e bene accomodati sulle loro poltrone, comode se della maggioranza, meno se della minoranza, se non in un rancoroso desiderio di rivalsa, tuttavia stipendiati, avendo perso di vista il Popolo: «Tutti i cristiani sono obbligati a impegnarsi politicamente. La politica è la forma più alta di carità, seconda sola alla carità religiosa verso Dio». Ora però occorrerebbe dire che cosa si intenda per “carità”, ma questo sarà un prossimo articolo.
Analisi del voto
di Cesare Scotoni
AL DI LA’ DEGLI SLOGANS, ALLARME TRENTINO
Il 25 settembre si è votato per quelle tanto sospirate Elezioni Politiche Anticipate che dovrebbero dare al Paese un Governo Politico sufficientemente forte perché ci si allontani dal baratro. Baratro in cui si entrò con la rinuncia di Mattarella a mandare l’Italia al voto nel luglio 2019, inseguendo il progetto renziano di un polo moderato da costruirsi sulla scadenza del mandato presidenziale. A febbraio 2022 era pronto il “trappolone”. Per istinto più che per cultura Salvini intuì che un PD incapace, dopo oltre 20 tentativi di una convergenza, di proporre per la Presidenza il nome di Draghi ad una Lega trepidante ed al contempo un Berlusconi pronto a sottoscrivere una candidatura Casini erano il preludio ad una Lega definitivamente divisa tra Governisti e Salviniani. Quindi Salvini, in quel cruciale venerdì, ripiegò tempestivamente su di un Mattarella Bis. Per sopravvivere politicamente al ritorno incombente della Prima Repubblica. E forse fu un bene. Grazie alla legge Rosato, legge elettorale inventata dal PD renziano per dare stabilità a quell’assetto che si progettava per dopo il passaggio di Casini a Presidente della Repubblica, queste elezioni regalano al Paese una netta ed autosufficiente maggioranza di Centro Destra, in cui una buona parte del Centro è stata nel frattempo fagocitata da Fratelli d’Italia ed è solo in parte bilanciato da una Lega prigioniera di slogans già traditi. Con di fronte un PD che, indicando i Nuovi Diritti, ha trascurato la tutela di quelli che avrebbero dovuti essere il Campo di una nuova progettualità. Un M5S, sempre di più Lega Sud, nel frattempo stabilizza quella rendita di posizione in attesa di distanziarsi dalle troppe recenti giravolte e dalle beghe intestine. Il buon Calenda, scimmiottando il Liberismo de Noartri che fu cifra del secondo Governo Berlusconi, ha permesso a Renzi di riprendere intanto il cammino verso Tajani. Il duo Meloni – Salvini il ritorno alla Prima Repubblica non lo vuole e non lo ha mai voluto e comunque rappresenta una maggioranza attrezzata come certo non lo sono stati i Governi Conte e tanto meno il Governo Tecnico che ha spinto l’Italia fuori dal Mediterraneo nell’interesse di nuovi assetti nell’Alleanza Atlantica. Per cui la solidità di un Governo destinato ad affrontare dei “marosi continentali” ed un riassetto globale dei Mercati non corre rischi per il prossimo difficile triennio. Cosa ci si deve quindi aspettare in Trentino, dove una giunta povera di individualità, ha puntato a sua volta su una scommessa neocentrista ispirata a quel “Progetto Abete” di Grandi e Tretter, già allora nato morto? Mancano poco più di un anno ed una finanziaria alle Elezioni Amministrative Regionali ed il “PATT allargato”, le Civiche Assessorili e la Lega da soli non raggiungono il peso di Fratelli d’Italia. D’altronde Il Campo Quasi Largo a sinistra, mostra alla corsa per il Senato la sua debolezza, dove sono i voti che mancano al Centro Destra e non i voti che arrivano a quello schieramento “semilargo” ad eleggere Patton su Trento. Un’accozzaglia che vada dal “Calenda Renzi”, al “Patt allargato”, alla “Lega di Fugatti” sarebbe oggi sotto il 22% e, malgrado le comparsate “Ianeselli – Fugatti” o “Bozzarelli – Bisesti” in un’alleanza con il PD la Lega sarebbe comunque di troppo. Lo dicono i numeri usciti dalle urne il 25 settembre. Per cui il quadro nazionale diviene un vincolo anche per quel Trentino dove la “Specialità” non può disgiungersi dal voler interpretare l’Autonomia nei fatti e non nelle formule. L’incremento dell’Astensione del 9% è stato l’ultimo avviso. Ecco quindi che gli spazi si fanno stretti, a partire dalla scommessa sul “Candidato Governatore” che dovrà per forza giocarsi entro marzo. Perché gli assetti centrali non vorranno accettare “perturbazioni” periferiche. La palla ora è al Centro e da lì si dovrà muovere per portarla sotto porta. Ricordando che il Trentino ha letto in F.d.I. quell’approccio moderato senza il quale non vi avrebbe riversato il suo consenso.
Testimonianza diretta
di Emanuele Paccher
NOSTRO SERVIZIO ESCLUSIVO
La mia visita in USA a Chico Forti
Sono le 7:04 del 19 agosto 2022, ed è da un po’ che non riesco a prendere sonno. La sveglia è fissata per le 8:00, ma l’ansia e l’agitazione mi impediscono di dormire ancora. Tra poche ore farò visita a Chico Forti, e la mia testa è invasa da mille pensieri: sarà innocente? Sarà colpevole? Come mi ci rapporto? Non ho mai avuto occasione di rapportarmi con un carcerato, non ho idea di cosa possa provare un uomo che per 23 anni viene privato della libertà personale, il bene più prezioso al mondo. Esco a far colazione, poi per distrarmi leggo un po’. Si fanno le 9:00, orario di partenza. Destinazione: consolato italiano a Miami. Il console mi illustra l’intero stabile, scambiamo qualche convenevole e poi si parte. Sono le 10:15. Poco prima delle 11 raggiungiamo il carcere. L’edificio è enorme, circondato ovunque da molto filo spinato. È incredibile come ogni cosa attorno ora sembri più grigia. Fatta la registrazione, alle 11:04 muoviamo i primi passi dentro l’edificio. Primo step: i controlli di sicurezza. Un uomo di colore, sui 35 anni, ci spoglia di ogni avere. Occhiali, orologi, scarpe. Tutto viene esaminato minuziosamente. All’interno è proibito portare denaro, telefoni, apparecchi elettronici. Superati i controlli, entriamo da un portone sulla nostra sinistra. Qui inizia un piccolo labirinto di porte. Ben presto giungiamo in un largo atrio, in cui Chico Forti, assieme al suo cane, ci accoglie calorosamente. Me lo immaginavo diverso, Chico. È un uomo alto, sul metro e ottantacinque, in ottima forma. Dimostra qualche anno in meno rispetto ai suoi 63 anni. Ha un viso forte, segnato un po’ dal tempo, ma che trasmette vitalità e cordialità. Ha una cicatrice non troppo visibile sul suo braccio sinistro. Il labbro superiore ha, sulla destra, una piccola cicatrice o comunque
una piccola protuberanza. È un uomo senza dubbio di bell’aspetto. Dal suo viso non traspare alcun sentimento di dolore, al contrario. Porta una maglia blu, con sotto una canottiera. Ha dei lunghi pantaloni grigio/blu chiari. Sembra tutto un po’ usurato. Solo le scarpe sembrano nuove. Ha una stretta di mano potente. I suoi occhi marrone chiaro sono sempre fissi verso l’interlocutore, ti penetrano. Non distoglie mai lo sguardo. Probabilmente è lo sguardo di chi ne ha passate davvero tante in vita, e, deciso a non piegarsi al fato avverso, ha sviluppato una forza interiore fuori dal comune. Dà subito del tu a tutti. Anche Chico Forti con Roberto Paccher e il nostro collaboratore Emanele Paccher a Bocelli e al Papa, mi confiderà. L’accento inizialmente tradisce una certa influenza anglo-americana. Sarà la forza dell’abitudine, visto che in carcere non c’è nessun altro italiano. Tuttavia, ben presto torna a parlare un italiano perfetto. Non è facile cancellare tanti anni di vita. La stanza delle visite è ampia. Il soffitto è alto poco più di tre metri, forse tre metri e mezzo. Un piccolo orologio è fissato sopra la porta d’ingresso dei visitatori. Ci sono 3 bancate piuttosto grandi. In totale ci sono 29 sedie. Il muro è bianco, ma è intervallato da dei bellissimi disegni
Testimonianza diretta
fatti dagli stessi carcerati. Uno è in fase di completamento, un uomo sui 40 anni lo sta colorando, mentre il disegno è di Chico. La passione per l’arte, sia grafica che poetica, gli è nata in carcere. Nella stanza ci sono poche persone. Un paio di carcerati, amici di Chico, e qualche guardia. L’ambiente mi ricorda un po’ una mensa scolastica, con quell’atmosfera difficile da decifrare, ma tutto sommato gradevole. Iniziamo a parlare. L’ansia di stamattina è già un ricordo del passato. Entriamo subito in confidenza. Chico mi racconta che dorme in una camerata composta da 52 persone, e che nel carcere ce ne sono pure di più grandi. Anzi, la sua è tra le più piccole. In totale ci sono circa 1800 carcerati. Un detenuto ha il record di permanenza: 56 anni. È entrato in carcere a 16 anni, e da allora non ha più visto la luce del sole. La giornata di Chico è piena di attività, da un po’ di tempo è coinvolto in un progetto di addestramento cani che gli dà grandi soddisfazioni. Da lui i cuccioli rimangono 6 mesi, poi passano ad un livello di addestramento superiore. Mi confida che utilizza una tecnica tutta sua. La maggior parte della gente addestra i cani incutendo timore o cercando di ricompensarli con dei biscottini o altri dolci, mentre lui no: cerca di addestrarli dando loro solo delle carezze in cambio. È un lavoro più difficile ma, mi dice, il risultato finale può essere decisamente migliore. Con il cane che ha ora è difficile dargli torto: tra i due c’è grandissima sintonia e affetto, lo si percepisce subito. Ci sediamo e continuiamo a conversare. A Chico piace parlare, e a me piace ascoltarlo. Alle domande sulla sua vita in carcere risponde in modo un po’ evasivo, ha voglia di parlare di cose che gli danno speranza. Si parla tanto del futuro. Ha un grande senso dell’umorismo. È un po’ esagerato nelle narrazioni, gli piace dare una piccola dose di epicità alle cose. Ciò che sorprendono sono il suo ottimismo e la sua grandissima forza di volontà. Non lo vedo mai triste. Sorridiamo e ridiamo di frequente. Solo in un’occasione traspare della nostalgia, ed è quando parliamo del suo Trentino. Di questo gli mancano tante cose: la gente, i laghi, le montagne, la cucina, specialmente i canederli. In carcere il cibo è scadente. La frutta e la verdura sono praticamente assenti. La carenza di vitamine è soppesata, in piccola parte, con dei succhi. Nella stanza c’è un discreto via vai di gente. Chico mi presenta molti internati e molte guardie. Hanno tutte rispetto per lui, si vede che è riuscito a conquistare, almeno un po’, i loro cuori. Nella conversazione si parla tanto anche del passato, della sua vita pre – carceraria. E la mente va allora all’esperienza da Telemike, con la vincita di una puntata, a cui è seguita un’amicizia con Mike Bongiorno. Poi le tante esperienze da agonista nel mondo del windsurf e della barca a vela; i giri del mondo: Giappone, Australia, Sudafrica, Polinesia; i primi passi da regista; le tante avventure. Ad un’avventura in particolare è davvero legato: è l’attraversata del mare che porta sino ad Alcatraz, 3 km per la sola andata, fatta per conquistare il giovane cuore di un’amata di tanti anni fa. Ha vissuto una vita intensa, con anche tante esperienze estreme, come il salto tra due aerei in volo effettuato in costume da bagno. Chico è stato un vulcano. E lo è ancora: ha moltissimi progetti per il futuro. Nel cassetto dei sogni c’è la pubblicazione di un libro. Il più grande sogno, ovviamente, è il ritorno in patria. Si fanno subito le 12. Nella stanza c’è un piccolo “punto vendita”, e Chico ci tiene ad offrirmi uno spuntino. Io d’altronde non potrei pagare, i soldi ho dovuto lasciarli all’esterno. Prende qualche succo, degli snack, una ciotola di frutta. In totale sono 18$. Non proprio una cifra irrisoria, visto che Chico vive con poche centinaia di dollari, e che il lavoro in carcere, qui in America, è pagato irrisoriamente. Un suo amico, ad esempio, si
L'esterno del carcere
mantiene compiendo piccole attività di servizio, vendendo cibo e bevande. Il tutto per soli 50$ al mese. Gli piace parlare, raccontare, discutere. Anche perché gli incontri non sono proprio all’ordine del giorno, e le rare visite sono le poche finestre dirette sul mondo esterno. Posso poi immaginare che trovare un proprio concittadino trentino, che conosce i suoi luoghi di origine, di felicità, non sia una cosa da poco. Nonostante non possa godere di alcun permesso premio, e nonostante le poche comunicazioni dirette verso il mondo al di fuori delle solite mura, è informatissimo sul mondo esterno. Conosce per filo e per segno la politica italiana e la politica americana. Sa perfettamente che Miami non è più quella di 25 anni fa. Ha un’intelligenza e una capacità di captare le cose decisamente fuori dall’ordinario. Nel discorso è naturale che si parli anche del processo che l’ha visto coinvolto. Nei giorni successivi alla sua accusa ufficiale aveva la possibilità di scappare. Chico ha deciso di restare, convinto della sua assoluzione. L’ombra, pesantissima, è quella di un processo sbagliato, voluto da alcune persone che volevano farlo fuori dalla vita civile. La tesi, vera o falsa che sia, ha delle argomentazioni a suo favore: su tutte vi è anche la dichiarazione di una donna della giuria, che dopo 20 anni ha dichiarato a “Le Iene” che l’intero processo è stato una farsa. In un attimo si fanno le 14:30, orario di uscita. Un saluto, un abbraccio caloroso, ed è ora di andare. Imbocco la porta da cui sono entrato, e avverto già nostalgia. Sono state ore intense, di grandissima umanità. Perché io non so se Chico sia innocente o se sia colpevole - dentro di me ho una mia idea, e ognuno di voi avrà la sua - ma a prescindere da questo è innegabile che davanti a me avevo un essere umano con cui ho condiviso momenti di grande umanità. C’è stato, tra noi due, un grandissimo rispetto, una grande intesa che raramente ho provato con altre persone. Una stupenda canzone dice: “Se non son gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. In America sembrano esserselo dimenticato, forse non ascoltano De André. Negli USA la pena non ha una funzione rieducativa, ma solo retributiva, punitiva. Si perde qualsiasi aggancio ai principi di umanità della pena per far spazio al solo istinto di vendetta. Se questa è la miglior democrazia del mondo non c’è molto da stare allegri. A ciò aggiungo una considerazione: ammesso e non concesso che Chico sia colpevole, 23 anni di carcere duro non sono stati sufficienti? Quanti ne servono ancora? 23 anni di privazioni, di impossibilità o quasi di comunicare col resto del mondo, di impossibilità di fare due passi lungo il mare durante il tramonto, di impossibilità di salutare i propri cari. È da anni, per esempio, che non rivede sua madre, oggi 94enne. Davvero non si riesce ad allontanarsi da una concezione della pena come vendetta? Chi sbaglia (e ripeto: ammesso e non concesso che Chico abbia sbagliato) è sacrosanto che venga punito. Ma la pena non è solo vendetta. È anche rieducazione in ottica di un reinserimento nella società. Un ergastolo senza la possibilità di respirare mai più l’aria aperta ha ben poco senso. È vero, c’è stato un omicidio. Un uomo è stato privato della sua vita. È una tragedia, come avviene ogni volta che una vita viene spezzata. Ma ad una tragedia bisogna rispondere con un’altra tragedia? È un sistema distorto e disumano quello che ragiona solo così. A ciò si aggiunga un’altra informazione, importantissima: Chico se tornasse in Italia sconterebbe comunque la pena in carcere. Potrebbe però godere di un sistema giudiziario più umano, e soprattutto della vicinanza della sua famiglia. Negargli questa possibilità, forse anche questo diritto potremmo dire, è un atto di pura crudeltà, di cui non se ne comprendono le ragioni. Insomma, un ritorno in Italia di Chico Forti è un atto dovuto, giusto, umano.