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Sono 180 grammi, lascio? Vino di lillà Giovanni Papalato
Fasi di preparazione della Gubana (photo © blog.giallozafferano.it).
Il procedimento era un geloso segreto che si tramandavano le donne delle Valli. Per aversi armonia di valori ed eccellenza di risultato, il peso ottimale della Gubana è di 850 grammi” (fonte: www.gubana.it).
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Gubana goriziana
Su iniziativa dell’Accademia Italiana della Cucina, il 20 maggio 2013, nella sala Bianca del Comune di Gorizia, si è svolta la cerimonia di fi rma dell’atto di deposito della ricetta della Gubana goriziana, presenti il sindaco ETTORE ROMOLI, il notaio SAVERIO ANGELILLI, il rappresentante della delegazione di Gorizia dell’Accademia Italiana della Cucina ALESSANDRO CULOT, il consultore e componente del Centro Studi regionale dell’Accademia Italiana della Cucina e curatore della ricerca culturale sulla gubana goriziana ROBERTO ZOTTAR e il consigliere regionale RODOLFO ZIBERNA.
Come riferisce lo stesso Roberto Zottar (Civiltà della Tavola, ottobre 2013 pp. 32-33), il dolce pasquale tipico della città di Gorizia, la gubana goriziana, si caratterizza per una delicata pasta sfoglia ripiena di frutta secca, zucchero, canditi, miele, spezie, aromi, burro e uova: a seconda della famiglia assume inoltre un gusto particolare determinato dal dosaggio segreto degli ingredienti (dosi e modi diversi nella confezione della pasta sfoglia e, soprattutto, nel ripieno), che viene tramandato di generazione in generazione. A renderla differente, inoltre, basta una diversa grana di macinatura delle mandorle e delle noci o un piccolo particolare come la macerazione dell’uvetta: rum, Marsala per un sapore più forte, o solo vino bianco o Picolit per un sapore più delicato. La stessa uvetta può essere a volte una combinazione di uva passa sultanina o di zibibbo o uva malaga.
Le ricette sono facilmente databili a seconda delle unità di misura degli ingredienti, perché, fi no al 1870, anno in cui il governo austroungarico adottò il sistema metrico decimale, si usavano libbre, lotti, funt o once per misurare frazioni di chilogrammi e boccali per misurare i liquidi. Si può osservare inoltre che nelle vecchie ricette goriziane è documentato il nome presniz, mentre quelle più recenti si caratterizzano per la presenza del nome gubana.
L’involucro, che certamente in origine era una pasta frolla azzima o anche più povera, come la pasta tirada dello strucolo, si è nobilitato e trasformato nel tempo divenendo una pasta sfoglia ricca. Anche qui le ricette non indicano una pura sfoglia con panetto e pastello di soli burro e farina, ma prevedono l’aggiunta, nel pastello, di rossi d’uovo, vino bianco o succo di limone e, talvolta, anche di una manciata di zucchero per dare più gusto alla pasta stessa.
La gubana goriziana è sempre stata un dolce aristocratico-borghese e una conferma giunge anche dal fatto che i ricettari contadini non ne riportano traccia, mentre sono ricchi di ricette di putizze. Essa rappresenta la sintesi di diverse culture, come emerge in modo evidente dalla descrizione degli ingredienti proposta, a metà del 1800, da VINCENZO ZANDONATI, speziale poeta di Aquileia: mandorle di Bari, noci della Carnia, pignoli della Grecia, cedrini, uva sultanina, zibibbi, vaniglia, cannella della regina, fi or di garofano, pimento, zucchero in polvere, farina di fi oretto e strùssis (forme ovoidali) di burro tolmino.
Riguardo al nome, il Cossar la defi nisce gubana pasquale, detta volgarmente Presniz alla goriziana; nel 1795, in un ricettario di una farmacia istriana, si trova una ricetta di gubana alla goriziana. KATHARINA PRATO, nell’edizione del 1892 del suo importante manuale di cucina, ne riporta la ricetta come strucolo alla goriziana (presniz) ma con pasta frolla anziché sfoglia.
Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma
Nota
1. V. ROSSITTI in: Prodotti tipici friulani: la Gubana; ANGELO SIGNORELLI, Gubana. Delizia delle Valli, Genova, Edicolors, 1999.
Il torrone, un dolce regionale per tutti i gusti e tutte le stagioni
Da Caltanissetta a Catania, da Tonara a Bagnara Calabra salendo verso Benevento fi no ad arrivare a Cremona: sono solo alcune delle città italiane riconosciute come eccellenze per la produzione di torrone. Viaggiando per lo Stivale si possono degustare tante varianti, ma gli ingredienti di base restano sempre albume, miele, mandorle o nocciole, che vengono poi declinati, addolciti, arricchiti da specialità locali differenti. Si parte dal Piemonte, dove il torrone viene fatto con la pregiata nocciola gentile delle Langhe; in Lombardia, a Cremona, il torrone è parte della tradizione cittadina tanto da esserne un simbolo; in Toscana si trova il torrone di Lamporecchio, morbido, con le nocciole; in Campania abbiamo il torrone di Benevento alla nocciola. Più si procede verso sud più il torrone diventa un vero e proprio dolce di pasticceria: sempre in Campania, ad Avellino, si può gustare il pantorrone, fatto di torrone e Pan di Spagna imbevuto al liquore. La Sicilia è il regno dei torroncini, morbidi, fatti con pistacchi e mandorle; poi la Sardegna, dove si prepara un torrone caratterizzato dal sapore particolare del miele locale, cotto a fuoco diretto con pani morbidi che al taglio fanno la “goccia”. Il torrone viene utilizzato anche nelle ricette salate, come ad esempio il Risotto con brodo di torrone, un must della cucina moderna cremonese. Tanti i miti che lo riguardano: il più datato narra che nell’antica Grecia un dolce a base di noci e miele veniva dato agli atleti che si preparavano per le Olimpiadi. Un dolce a base di albume, mandorle e miele si ritrova anche ai tempi dell’antica Roma nei testi Tito Livio. La sua tradizione più recente, invece, risale al 1441, anno in cui convolarono a nozze Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, che offrirono agli invitati un dolce che voleva essere un omaggio alla grande torre della città di Cremona. Esistono mille modi per poter utilizzare il torrone in cucina, attraverso semplici ricette che danno un sapore unico alle pietanze, dai primi che ai dolci. Info: www.festadeltorrone.com
Grace, Jeff Buckley
VINO DI LILLÀ
di Giovanni Papalato
Se JAMES SHELTON, negli anni Cinquanta, quando scrisse “Lilac Wine”, si riferiva ad una bevanda distillata dai fi ori di lillà molto popolare negli Stati Uniti, a noi Europei viene più facile pensare a certi vini della Provenza, che hanno nel loro bouquet anche il profumo di questo fi ore. Questa regione nel Sud-Est della Francia, estremamente interessante dal punto di vista enogastronomico, benefi cia del clima mediterraneo, combinando temperature alte e secche con il mistral e la brezza marina, fornendo condizioni molto favorevoli alla coltivazione della vite. Con la fondazione di Massilia (oggi Marsiglia) da parte dei Greci ha inizio questa coltura, poi continuata dai Romani. Il risultato di questo avvicendamento e le diverse contese di cui è stato oggetto questo territorio nel corso dei secoli ne hanno infl uenzato viticoltura e comparto enologico. Infl uenza anche da parte nostra, introducendo qualità diverse di viti da coltivare soprattutto nel XIX secolo, quando la Provenza era sotto il regno di Sardegna.
Famosa per i rosati, esistono anche vini bianchi e rossi da frutti di vitigni italiani oltre che francesi, a bacca nera Braquet (il nostro Brachetto), Cabernet Sauvignon, Calitor, Folle Noir, Syrah, Carignan tra gli altri, mentre a bacca bianca Chardonnay, Sauvignon Blanc, Grenache Blanc, Ugni Blanc (Trebbiano Toscano) e il Rolle (Vermentino). Tutti vengono classifi cati per qualità a salire da “Vin de Table” a “Vin de Pays”, poi “Vins Délimités de Qualité Supérieure” per fi nire con “Appellation d’Origine Contrôlée”. A quest’ultima categoria appartengono sette zone: Coteaux d’Aixen-Provence et Les Baux-de-Provence, Coteaux Varois, Côtes de Provence, Palette, Bandol, Bellet e Cassis.
Se ebbe modo di ritrovare il profumo di lillà nei vini assaggiati durante le tappe in Francia, quando suonò a
Correggio (RE), nel luglio del 1995, Jeff Buckley, nel caldo umido dell’estate in Pianura Padana, bevve sul palco (del resto come noi sotto) il Lambrusco. Fu un concerto indimenticabile per il sottoscritto e per chiunque fosse presente, incarnazione di immaginario ed emozioni suscitate da ascolti ossessivi del suo disco di debutto “Grace”.
Celebrato da BOWIE, REED, PAGE e DYLAN, in grado di coinvolgere generazioni differenti di ascoltatori, Jeff Buckley riesce ad essere sé stesso senza dipendere dalla ingombrante fi gura paterna. Artisticamente parlando, ovviamente, perché il padre, TIM BUCKLEY, morì di overdose quando Jeff aveva solo otto anni. Un legame, nell’assenza, molto forte, che lo porterà ad esibirsi in pubblico per la prima volta in una celebrazione collettiva del genitore nel ventennale della sua scomparsa.
“Grace” è un disco che unisce la sua grande voce e la straordinaria capacità interpretativa alla scrittura del suo chitarrista GARY LUCAS, oltre a quella di altri autori. Lilac Wine, insieme ad altri due brani, è una cover, mentre i restanti dieci pezzi sono inediti.
Buckley è stato un eccezionale chanteur, degno erede dei suoi idoli, tra tutti EDITH PIAF, totalmente fuori dal In alto: a sinistra, il tipico paesaggio provenzale con campi di lavanda e vigneti (photo © Richard Semik – stock.adobe.com). A destra, “Grace”, il primo album in studio del cantautore e chitarrista Jeff Buckley, pubblicato negli Stati Uniti il 23 agosto 1994 dall’etichetta Columbia Records.