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Un tesoro d'inestimabile valore!

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VIAGGIO NEL MONDO DELLE SPEZIE

di Sabrina Tocchio

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Un tempo, le spezie, preziose e rare come l’oro, venivano custodite gelosamente ed erano considerate un tesoro di inestimabile valore.

Non è un caso che numerose spezie fossero ritenute afrodisiache. Associate a terre lontane ed esotiche, esse colorano la letteratura della Bibbia e de Le mille e una notte, ammiccando a piaceri sensuali. È per questo che nel XVII secolo i Puritani, convinti che infiammassero le passioni, ne bandirono l’uso e che “speziato” ha assunto un significato emotivo, oltre a quello letterale, di qualcosa che aggiunge una nota interessante, mentre “piccante” è diventato sinonimo di “audace“.

L’uso delle spezie è precedente alla storia registrata per iscritto. Gli archeologi hanno scoperto che sesamo e carvi erano usati in civiltà antichissime, che i Cinesi conoscevano la soia e la cassia già nel 3000-2500 a.C., e che gli antichi Egizi utilizzavano le spezie per l’imbalsamazione. La cannella e la cassia erano presenti ancor prima del 1000 a.C. nell’olio santo con cui Mosè aveva unto l’Arca dell’Alleanza. Non si conosce la provenienza di queste due spezie, ma sembra che lo storico greco Erodoto le citò in un racconto fiabesco proprio in Arabia, solo che in realtà nessuna delle due cresceva lì, tuttavia erano proprio gli Arabi a controllare l’antica via delle spezie. E proprio i mercati arabi si arricchirono grazie all’insaziabile appetito di sapori esotici e piccanti dei voluttuosi Romani. Plinio il Vecchio, nel 70 a.C. stimò che per le spezie si spendeva una tale quantità di oro pari a 100 sesterzi l’anno e recitava che a così caro prezzo venivano pagate la loro lussuria e le loro donne.

Coriandolo, chiodi di garofano, senape, anice e cassia erano spezie note e usate dai Romani nella loro cucina molto raffinata. Attraverso le campagne militari, introdussero in Europa più di 400 spezie ed erbe, molte delle quali andarono perse nell’Alto Medioevo, per essere poi riscoperte ai tempi delle Crociate.

È opinione comune che fra gli usi tradizionali delle spezie, il principale fosse la funzione di camuffamento del cibo non più freschissimo. Questo del resto non si può negare nel Medioevo, ma non corrisponde a realtà per quanto riguarda l’epoca Romana, in cui l’uso degli aromi non era diverso da quello odierno. Il De re coquinaria (l’arte culinaria) di Apicius, famoso cuoco del primo secolo, lo dimostra ampiamente.

L’osservazione di Plinio sull’incidenza economica riguardo al consumo di spezie da parte dei Romani, venne confermata da uno storico che ipotizzò addirittura la decadenza economica dell’Impero Romano, proprio per la smodata passione dell’aristocrazia verso le costose spezie protrattasi per un periodo di circa quattro secoli!

Il libro di Apicius ci fornisce una prova lampante dell’amore dei Romani per il buon vivere: il 90 per cento delle ricette in esso contenute richiedono infatti l’utilizzo di spezie importate, in modo particolare il pepe, usato molto spesso sia per pietanze dolci che salate. Apicius, per esempio, cuoceva i funghi in una salsa di vino e coriandolo, stufava il pollo con le mandorle e lo zenzero e cuoceva la trippa in salsa di cannella e noce moscata!

All’epoca dei Romani e durante il Medioevo ad ogni spezia venivano attribuite delle proprietà salutari oltre che per il loro sapore. Le spezie piccanti erano considerate degli stimolatori per l’appetito e dei digestivi; con zenzero, pepe, cumino, timo e semi di sedano si preparavano dei sali alle spezie che secondo Apicius regolavano l’intestino e prevenivano ogni tipo di malattia.

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