Eurocarni 4-2017

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EUROCARNI

Mensile di economia, politica e tecnica delle carni di tutte le specie animali Anno XXXII N. 4 • Aprile 2017

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4/17 Gruppo editoriale Edizioni Pubblicità Italia Srl

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EUROCARNI Mensile di economia, politica e tecnica delle carni di tutte le specie animali

EUROCARNI – PREMIATA SALUMERIA ITALIANA – IL PESCE EURO ANNUARIO CARNE – ANNUARIO DEL PESCE E DELLA PESCA US ANNUARIO DEI FORNITORI DELLA SANITÀ IN ITALIA – EURO GENUINE FOOD

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi

Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.eurocarni-online.com Reg. al Tribunale di Modena n. 798 del 23-10-1985

Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi

Tariffe abbonamenti Annuale (12 numeri): Italia € 65,00 – Estero € 85,00 Sconto librerie: 10% Modalità: effettuare versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910

Comitato di redazione Gianni Mozzoni (Legacoop) – Franco Ferrari – Clara Fossato (UNICEB) – Giuliano Marchesin (Unicarve) – Manrico Murzi – Fortunato Tirelli – François Tomei (Assocarni) Redazione Bruxelles Jean-Luc Meriaux: UECBV, rue de la Loi, 81/A Box 9 B 1040 Bruxelles, Belgio Tel. +32 2 230 4603 – Fax +32 2 230 9400 E-mail: uecbv@scarlet.be Redazione New York Stefano Spadoni 1732 1st Ave #27220 – New York, NY 10128 Tel. +1 212 956-8566 E-mail: Stefanony@stefanospadoni.com Comitato scientifico Prof. Giovanni Ballarini – Prof. Fausto Cantarelli – Prof. Carlo Cantoni – Dr. Alfonso Piscopo Collaboratori scientifici Dr. Marco Cappelli – Dr. Massimo Chiappini – Prof. Eugenio Del Toma – Dr. Emanuele Guidi – Dr. Pierluigi Roncaglia – Prof. Andrea Strata – Prof. Sergio Ventura Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CS5.5. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CS5.1.

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EUROCARNI La prima rivista veramente europea

In questo numero: La carne nel mondo

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Agenda

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Immagini

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Naturalmente carnivoro

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Attualità

Come diventare protagonisti della corretta informazione sulla carne

François Tomei

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La dichiarazione d’origine delle carni trasformate in Francia

Roberto Villa

24

Europa, cibo e trasparenza, la nuova era è iniziata da un pezzo

Sebastiano Corona

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Osservatorio internazionale Il bando della Russia sulle carni suine dall’UE è illegale

Roberto Villa

32

Slalom

Manovra bis e squilibri macro-economici

Cosimo Sorrentino

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La carne in rete

Social meat

Elena Benedetti

38

Aziende

All Natural Pork, zero antibiotici massima sicurezza

Elena Benedetti

40

VION Food Group Waldkraiburg, tecnologia e tanto cuore

Elena Benedetti

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Legislazione

Marketing

Allevato secondo natura: il manzo irlandese racconta una storia di libertà

Benessere animale

Box singoli per vitelli, effetti deleteri sul comportamento

Associazioni

AproZoo, grazie presidente!

Sostenibilità

Elogio e futuro dei ruminanti

Giovanni Ballarini 64

Macellerie d’Italia

Bareato: la carne si fa in famiglia

Gian Omar Bison

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Meat blogger

Come rilanciare la propria macelleria? Ce lo dice Lorenzo Rizzieri

Andrea Laganga

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54 Giulia Mauri

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Nutrizione

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Dimmi cosa mangi e ti dirò che olio scegliere Lo strutto, lasciapassare per il gusto

Sebastiano Corona

84

Prodotti tipici

La pitina della Val Tramontina

Massimiliano Rella

88

Sapori dal mondo

Carne a volontà nella splendida Praga

Nunzia Manicardi

90

Fiere

Meat-Tech 2018: la parola alle aziende

96

Dalle prescrizioni religiose alle opportunità di mercato

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Tecnologie

La pagina scientifica

Le modernissime best practices delle aziende leader del settore russo della carne

100

Lazzari Equipment: Cubixx si conferma regina del mercato

104

Internet of Things e Big data: una miniera di dati utili o un eccesso di informazioni?

106

La certificazione medico-veterinaria: considerazioni sulle ultime disposizioni

Emanuele Guidi

110

Agricoltura ecosostenibile ed ecocompatibile con i droni

Alfonso Piscopo

116

Statistiche

Produzione del pollame ancora in crescita nel 2017

Storia e cultura

Naturalmente carnivorani

Giovanni Ballarini 124

Sarebbero stati i Milanesi ad inventare la cotoletta

Nunzia Manicardi 130

Libri

122

Il piacere della tavola

136

La qualità si fa strada

138

Salumi d’Italia 2017

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In copertina: vaschette di carne porzionata pronte per essere confezionate.

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LA CARNE NEL MONDO

Cina Secondo quanto comunicato dall’AGRICULTURE AND HORTICULTURE DEVELOPMENT BOARD, nel 2016 le importazioni della Cina di carni suine hanno registrato un notevole incremento, raggiungendo 1,6 milioni di tonnellate. Il Paese è diventato così il primo importatore mondiale di carne di maiale. L’Unione Europea resta il principale esportatore, con l’invio dei due terzi del prodotto. Ciò nonostante, nel corso del 2016 la UE ha perso quote di mercato a causa delle maggiori esportazioni di carni suine dagli Stati Uniti e dal Brasile. Con riferimento alle importazioni di sottoprodotti della macellazione da parte della Cina, queste sono aumentate del 72%, per un volume pari a 1,3 milioni di tonnellate. Anche per i sottoprodotti l’UE resta il principale esportatore, detenendo oltre il 50% della quota di mercato, anche se la crescita delle spedizioni dagli USA è significativa (si è triplicata rispetto al 2015, con oltre 424.000 t di prodotto). A differenza della Cina, altri Paesi importatori asiatici di carni suine hanno registrato una crescita relativamente modesta nel 2016. Le importazioni di carne di maiale ad Hong Kong sono aumentate del 35% rispetto al 2015 (343.000 t), la Corea del Sud ha dichiarato una leggera crescita (+3%, corrispondente a 465.000 t) e il Giappone ha registrato un moderato aumento (861.000 t) pari al 9% (in basso, vendita al dettaglio di carne in un mercato cinese; photo © dietdoctor.com; fonte: pork.ahdb.org.uk – 3tre3.it).

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Germania Nuovo record per gli impianti di macellazione tedeschi: secondo quanto dichiarato dal servizio nazionale di statistiche DESTATIS (Statistisches Bundesamt), la produzione di carne lo scorso anno è aumentata dello 0,1% (pari a 4.500 tonnellate), per un totale di 8,25 milioni di tonnellate, superando quindi il precedente record del 2015 di 8.240.000 tonnellate. Nel 2016 sono stati macellati circa 59,3 milioni di suini, con un decremento dello 0,1% (63.400 unità) rispetto all’anno precedente. La macellazione di suini di origine nazionale è diminuita di 447.100 capi (-0,8%), raggiungendo i 54,6 milioni di capi, mentre la macellazione dei suini importati nello stesso periodo è aumentata del 9,0% (383.700 capi), raggiungendo i 4,7 milioni di capi. L’aumento del peso medio della carcassa ha contribuito all’incremento di 1.000 tonnellate rispetto all’anno precedente sulla produzione di carne (in alto, prodotti tipici della cucina tedesca, photo © exclusive-design – Fotolia; fonte: Destatis – 3tre3.it).

Tribunale di Perugia Concordato Preventivo n. 21/2011 Complesso aziendale costituito da beni mobili ed immobili, adibito ad attività di macellazione carni sito in Foligno (PG). Prezzo base € 841.104,00. Il Liquidatore Giudiziale invita a formulare offerte di acquisto in busta chiusa entro e non oltre le ore 11:00 del giorno 7/06/2017. Informazioni c/o Liquidatore Giudiziale, Avv. IVANO BRIGANTI, Perugia via M. Fanti n. 2, (telefono 075 5731505).

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AGENDA

Polesine Parmense (PR) Che del maiale non si butti via niente è cosa nota e sostenuta da un’ormai consolidata tradizione secolare che, specie in Italia, ha contribuito a creare una vera e propria cultura fondata sulla lavorazione del suino e sul culto dei prodotti che da essa si ottengono. È per questo motivo che GAMBERO ROSSO e l’ANTICA CORTE PALLAVICINA dei fratelli Spigaroli sono lieti di presentare la quarta edizione di Salumi da Re, il raduno nazionale di allevatori, norcini e salumieri che dal 1 al 3 aprile celebrerà, presso l’Antica Corte Pallavicina di Polesine Parmense, il mondo della norcineria di qualità di casa nostra. www.salumidare.it

Roma Giovedì 6 aprile a Roma, presso l’Auditorium della sede di via Ribotta del Ministero della Salute, si terrà il IV Convegno nazionale sulla ricerca in sanità pubblica veterinaria. Il titolo dell’evento è “Networking: strumento per una ricerca di eccellenza. Una sanità pubblica veterinaria senza frontiere per affrontare le sfide emergenti”. Interverranno relatori degli Istituti Zooprofilattici Sperimentali (IZS) e dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), che forniranno un aggiornamento sui risultati delle ricerche finalizzate e correnti nei settori di competenza. Inoltre, il giorno precedente, mercoledì 5 aprile, nella stessa sede si terrà la giornata di studio “Il futuro della coesistenza tra uomo e animali”, realizzata in collaborazione con la Società Italiana di Scienze Veterinarie (SISVET). www.izsvenezie.it

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Forlì Si terrà dal 5 al 7 aprile la 50a edizione di FierAvicola, il Salone internazionale avicolo che quest’anno occuperà un’area espositiva di circa 20.000 m2. FierAvicola si conferma la manifestazione leader in Italia e una delle fiere B2B più importanti in Europa per il settore avicolo, vetrina strategica per le relazioni professionali e commerciali internazionali anche in ragione della sua collocazione geografica centrale tra i mercati dell’Est Europa ed il bacino del Mediterraneo. Il comparto avicolo, in Italia, arriva da un 2016 particolarmente difficile sia per quanto riguarda i consumi di carne di pollo, di uova che di redditività per gli allevatori. «Le ultime rilevazioni parlano di timidi segnali di ripresa ma non possiamo dimenticare che nel solo 2016 le quotazioni delle uova hanno dovuto incassare una flessione addirittura del 20% sull’anno precedente, arrivando a un -5% nella media degli ultimi cinque anni» ha dichiarato in proposito GIANLUCA BAGNARA, presidente della Fiera di Forlì. «Fortunatamente il costo delle materie prime destinate all’alimentazione, che copre il 60% del costo di produzione in allevamento, è in frenata e questo mitiga un po’ le perdite economiche che comunque pesano come un macigno sui produttori». In Italia si producono mediamente ogni anno 850.000 tonnellate di uova, pari a un valore di 1,2 miliardi di euro che genera un fatturato sul prodotto finito, quindi confezionato o sgusciato, vicino a 1,5 miliardi di euro. Il numero di ovaiole in produzione nel nostro Paese supera i 42 milioni di unità e sono allevate in 3.400 allevamenti. Nel nostro Paese il consumo pro capite di uova tocca i 12,6 kg, a fronte di 14,2 kg nella UE a 25. Nel corso dei tre giorni di Fieravicola gli operatori potranno partecipare ai numerosi convegni e tavole rotonde in programma e, soprattutto, sviluppare quei contatti commerciali in cui il meeting dell’African Forum rappresenta una delle grandi novità dell’edizione di quest’anno. «Si tratta di un appuntamento al quale hanno già aderito 20 Paesi africani e che abbiamo organizzato per dare seguito al nostro progetto di avicoltura sostenibile, condividendo con le comunità africane che vi aderiranno i concetti alla base dello sviluppo degli agroparchi in Europa». www.fieravicola.com

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Distribuzione e settore avicolo: gli scenari futuri a Fieravicola L’appuntamento è a Fieravicola il 6 aprile (ore 10:00-13:00) quando produttori, mondo della distribuzione e consumatori si troveranno per confrontarsi sul futuro di uno dei settori più innovativi dell’agroalimentare nazionale. L’occasione è la tavola rotonda organizzata in collaborazione con MARK UP per mettere a fuoco le scelte delle famiglie italiane che dimostrano una propensione positiva all’acquisto di carne avicola e uova. Ma il consumo di tali alimenti deriva dalla consapevolezza da parte dei consumatori che questi prodotti rappresentano un alimento essenziale nel quadro di una dieta varia, vista la loro riconosciuta valenza dietetico-salutare, o è questione di prezzo? Le domande a cui MARCO SELMO (buyer Carrefour), MASSIMILIANO LAZZARI e NICOLA BRINA (buyer Coop Italia), EMANUELE MANCINI (buyer Magazzini Gabrielli), FEDERICO LIONELLO (sales & marketing manager del Gruppo Eurovo), RUGGERO MORETTI (presidente comitato uova UNAItalia) e GIAN LUCA BAGNARA, nella sua duplice veste di presidente di Fiera di Forlì e ASSOAVI, si troveranno a rispondere, spazieranno però anche su altri temi. Si parlerà di packaging, di libero servizio all’interno della GDO e si ragionerà insieme sui segmenti di consumo in crescita, con particolare riferimento all’etnico e al premium gourmet. Obiettivo dichiarato: stimolare l’acquisto sensoriale e assecondare l’immaginazione e gli appetiti dello shopper.

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Parma Una fiera innovativa, dal format leggero, che coniuga l’esposizione di nuovi prodotti alimentari italiani all’incontro con i buyer esteri e al perfezionamento delle strategie di mercato del settore grazie a workshop e forum. Questa la formula di Cibus Connect che si terrà a Parma dal 12 al 13 aprile. È prevista la partecipazione di oltre 1.000 aziende alimentari italiane selezionate, di centinaia di buyer da Stati Uniti, Asia, Europa nonché dei protagonisti della distribuzione in Italia. Tra gli espositori anche un gruppo di circa 100 produttori di nicchia in un’area targata Slow Food che ha l’obiettivo di aprire nuovi sbocchi di mercato alle piccole aziende che costituiscono i “giacimenti” dei vari territori. Cibus Connect, organizzata da FIERE DI PARMA e FEDERALIMENTARE, si svolge nella stessa settimana di Vinitaly e, grazie ad un accordo siglato con Veronafiere, porterà a Parma i buyer internazionali che potranno programmare la visita ad entrambi gli appuntamenti. Appuntamenti che si collocano nel quadro progettuale di promozione e scoperta dei territori e delle aziende per i buyer esteri del programma “Discover the Authentic Italian Taste” promosso da ICE Agenzia. www.cibusconnect.it

Eindhoven, NL Si stima che in Europa i consumatori di prodotti alimentari halal siano 50 milioni (fonte dati HOGIAF). Per cogliere opportunità di business e seguire da vicino questo mercato c’è la fiera Halal Expo Europe, quest’anno alla sua seconda edizione. L’appuntamento del 2017 è a Beursgebouw Eindhoven, in Olanda, il 30 aprile e 1o maggio. Saranno un centinaio gli espositori dei settori food, cosmetica e finanza. Sono previsti visitatori da una ventina di Paesi esteri, tra cui Olanda, Turchia, Germania, Malesia, Belgio, Arabia Saudita, USA, Francia, Egitto, Marocco (in alto, classico kebap a base di carne di agnello e verdure; photo © karepa – Fotolia). www.halalexpoeurope.eu

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IMMAGINI

La carne si fa in famiglia: uno slogan al quale non sfuggono i Bareato, macellai e norcini di lunga tradizione a Mira, in provincia di Venezia. Gian Omar Bison ha incontrato per Eurocarni Luca Bareato, che ci racconta la sua storia e il suo lavoro a pagina 72.

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NATURALMENTE CARNIVORO

“Noi amiamo la carne e con orgoglio mangiamo la carne!”: lo staff direzionale della Divisione Beef del Gruppo VION rappresenta al meglio la rubrica “Naturalmente carnivoro” di questo mese. Da sinistra, Stefano Giovanardi, sales manager bovino per il mercato italiano a VION Chiasso, Willi Habres, direttore vendite e trade marketing Beef VION Food Group, Anton Janssen, country manager Italia a VION Chiasso, Rainer Hartmann, sales manager di VION Waldkraiburg, Beate Söder, marketing manager Beef VION Food Group, Matthias Strigl e Klaus Erber, plant manager di VION Waldkraiburg. Abbiamo incontrato questo gruppo di professionisti delle carni a Waldkraiburg, a pochi chilometri da Monaco di Baviera, per scoprire tutte le novità del Gruppo tedesco-olandese e, in particolare, di questo impianto di macellazione e disosso — che si appresta e diventare il più grande macello di bovini di tutta l’Europa — nel quale sono stati investiti oltre 20 milioni di euro. A pagina 48 un servizio di Elena Benedetti. 18

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ATTUALITÀ

Come diventare protagonisti della corretta informazione sulla carne di François Tomei

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ette euro-deputati italiani del Movimento 5 Stelle appartenenti al gruppo parlamentare di Europa della Libertà e della Democrazia Diretta (EFDD), il cui presidente è NIGEL FARAGE del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (sic), lo scorso dicembre hanno presentato un’interrogazione parlamentare al Commissario alla Salute VYTENIS ANDRIUKAITIS per chiedere se, alla luce della classificazione IARC dei salumi come “certamente cancerogeni” e delle carni rosse come “probabilmente

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cancerogeni” e dato che l’Italia, a differenza di molti altri Stati Membri, non identifica la carne rossa/ processata tra i fattori di rischio per il cancro, il piano di comunicazione (di 3,8 milioni di euro) del Ministero dell’Agricoltura italiano sia compatibile con il diritto dell’Unione Europea. Il Commissario alla Salute ha risposto picche. Insomma, non è un problema della Commissione europea se l’Italia ritiene di informare i cittadini italiani su uno dei segmenti più importanti dell’agricoltura: la

zootecnia. Non crediate si tratti di una caratteristica del grillismo quello di prendersela con la carne. Nient’affatto. In tutti i partiti politici di sinistra, di destra, di sopra o di sotto ritroviamo deputati animalisti (nel senso che amano il loro cane e ignorano come sia fatto un allevamento). Peccato che questi signori/e sono coloro che poi legiferano! È iniziata il 15 marzo scorso su RAI 2 la trasmissione “Animali come noi” di GIULIA INNOCENZI, mentre il 27 marzo p.v. ha ripreso su RAI 3

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Il meglio della

C A R N E D I V I T EOLl a Ln d eO se La carne bianca di vitello è un alimento straordinario: ricca di proteine e amminoacidi, facilmente digeribile, povera di grassi e con un alto contenuto di ferro. Cosa volete di più? C’è di più!! La carne di vitello ha anche un gusto raffinato e duttilità nella cottura: questo la rende protagonista della storia gastronomica italiana. Non a caso il vitello è tra le carni più presenti nei Menu dei grandi Chef in Italia. Una cena in primavera con gli amici? Le polpettine di vitello sono perfette: lo street food all’italiana. Trovate la ricetta dello Chef Stefano De Gregorio insieme a tante altre su www.carnedivitello.it. La sicurezza al primo posto. Safety Guard è il sistema di qualità integrato del VanDrie Group che garantisce la sicurezza dell’alimento e il benessere degli animali lungo tutta la filiera produttiva.Safety Guard si occupa anche dell’utilizzo responsabile di antibiotici e della gestione ambientale. www.vandriegroup.com

La carne di vitello con una percentuale di grasso inferiore al 5% ha la seguente composizione media per 100 grammi: 104 kcal, 439 kJ, 22,1 g di proteine e 1,7 g di grassi. (fonte RIVM - NEVO).

“LE POLPETTE” interpretata da Chef Stefano De Gregorio

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Per questi motivi dobbiamo costituire senza indugio una interprofessione, che con la partecipazione finanziaria di tutti, abbia le risorse sufficienti per iniziare un percorso di informazione e promozione costanti, senza aspettare la manna dal cielo che non arriverà più

in prima serata “ Indovina chi viene a cena” di STEFANIA GIANNINI. Come reagire dinanzi a delle trasmissioni che raccontano storie che, benché vere, rappresentano solo una parte minoritaria dell’allevamento e della produzione di carne? Con una contro-narrazione? Non è sufficiente. Bisogna che d’ora in avanti il nostro racconto, che magari non farà notizia e farà fatica a sedimentarsi, sia costante, quotidiano e non si arresti mai. Per fare questo non bastano le risorse dell’associazione “Carni sostenibili”, che pur tuttavia

in questi anni ha prodotto un prezioso materiale scientifico e lo ha disseminato sul web. Occorre che lo sforzo di raccontare un’altra storia sia corale, di tutta la filiera. Per questi motivi dobbiamo costituire senza indugio una interprofessione, che attraverso la partecipazione finanziaria di tutti, abbia le risorse sufficienti per iniziare un percorso di informazione e promozione costanti, senza aspettare la manna dal cielo che non arriverà più. François Tomei

La risposta della Commissione europea all’euro-interrogazione Lo scorso dicembre alcuni euro-parlamentari italiani hanno presentato alla Commissione europea un’interrogazione con richiesta di risposta scritta sul “Piano di comunicazione del governo italiano per favorire il consumo di carne tra i giovani” presentato dal Governo italiano. Gli euro-parlamentari ricordano che gli stili di vita e di consumo stanno cambiando, soprattutto tra i più giovani. Il bilancio dei primi nove mesi dell’anno indica infatti una riduzione degli acquisti di carni (–5,6 %), salumi (–5,2 %), di latte e derivati (–3,6 %). La fascia dei giovani nati tra il 1980 e il 2000 è la più attenta a questa problematica, tanto che il 25 % di loro non mangerebbe carne rossa e il 67 % considererebbe la carne dannosa per la salute. Al convengo dell’Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi, svoltosi a Milano il 22 novembre scorso, il MIPAAF ha presentato un piano di comunicazione di 3,8 milioni di euro per arginare la “contro-informazione” sulla carne che dilagherebbe in rete e che influenzerebbe soprattutto i cosiddetti Millennials. Alla luce delle raccomandazioni del World Cancer Research Fund, tra cui limitare l’assunzione di carni rosse e processate, gli euro-deputati hanno chiesto alla Commissione se tale Piano è compatibile con il perseguimento dei più elevati livelli di tutela della salute e dei consumatori e se intende a proposito chiedere chiarimenti alle autorità italiane. «La Commissione — ha così risposto a suo nome il Commissario Vytenis Andriukaitis (in foto) — sostiene, coordina e completa le azioni degli Stati membri volte a promuovere la buona salute e prevenire le malattie, e in ciò rientrano anche gli orientamenti nutrizionali e le relative attività di comunicazione. La Commissione non valuta tuttavia i piani di comunicazione nazionali. La Commissione caldeggia ogni processo decisionale fondato su dati di fatto, a tutti i livelli, e sostiene gli sforzi degli Stati membri volti a promuovere stili di vita sani e ad affrontare i fattori di rischio, in particolare le iniziative rivolte ai bambini e ai giovani nell’ambito della strategia sugli aspetti sanitari connessi all’alimentazione, al sovrappeso e all’obesità), del piano d’azione sull’obesità infantile e del programma in materia di salute, nonché del gruppo ad alto livello sulla nutrizione e l’attività fisica e della piattaforma d’azione europea per l’alimentazione, l’attività fisica e la salute». La Commissione ha ribadito a più riprese che una dieta equilibrata è importante per mantenere buone condizioni di salute e prevenire molte malattie, tra cui il cancro, come indicato nelle raccomandazioni del Codice europeo contro il cancro fatte proprie dalla Commissione. (UNAItalia)

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La dichiarazione d’origine delle carni trasformate in Francia Tra polemiche e critiche ha preso avvio l’obbligo di indicare l’origine delle carni negli alimenti trasformati che ne contengono più dell’8%. Dopo il 2018 verrà esteso a tutta la UE? di Roberto Villa

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indicazione dell’origine geografica delle carni è divenuta obbligatoria sul territorio francese a partire dall’1 aprile 2015, limitatamente, tuttavia, alle carni fresche. Ora un nuovo provvedimento governativo ha imposto a tutti i produttori di alimenti che contengano almeno l’8% di carne di dichiarare in etichetta l’origine di quella carne, pena l’irrogazione di sanzioni; il medesimo obbligo riguarda anche gli alimenti che contengono più del 50% di latte. Si tratta di un progetto che vede la Francia come Stato pilota per il biennio 2017-2018; qualora gli esiti fossero positivi, l’Unione Europea potrebbe decidere di estenderlo a tutti i Paesi Membri, come già fatto per altre tipologie di alimenti. Se questo progetto è andato incontro alle richieste di numerose associazioni di consumatori d’Oltralpe — e siamo sicuri che anche in Italia riscuoterebbe un discreto successo, non solo tra i consumatori — non sono pochi i soggetti che lo stanno avversando, prima fra tutte l’influentissima Food and Drink Europe, l’associazione che riunisce tutte le industrie manifatturiere alimentari e delle bevande del continente. L’obbligo di scrivere in etichetta dove gli animali dai quali derivano le carni sono nati, sono stati allevati e infine macellati non è gradita in primis alla Association

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Nationale des Industries Alimentaires (ANIA), la quale paventa che si arrivi a definire produit d’origine française solamente ciò che è fabbricato interamente da materie prime prodotte sul territorio francese. Già nel mese di luglio 2016, quando la Commissione europea aveva aval lato la richiesta del decreto francese, il direttore generale di Food and Drink Europe, MELLA FREWEN, aveva dichiarato che «con l’accettazione del progetto pilota della Francia, la Commissione implicitamente accetta che

vi sia una differenza qualitativa tra i prodotti agricoli di origine francese e, per esempio, quelli belgi, tedeschi, italiani, spagnoli, anche se provenienti da pochi chilometri oltre il confine. Ciò ignora platealmente la realtà del mercato, nella quale le catene di approvvigionamento non si fermano ai confini degli Stati, ma sono per la gran parte europee, in modo da garantire una qualità e una disponibilità costanti al miglior prezzo possibile per più di 500 milioni di persone ogni giorno».

Alcuni agricoltori in un supermercato francese sensibilizzano i clienti sul tema dell’origine della carne con lo slogan “Viande de nulle part”, carne di provenienza sconosciuta (photo © Viande de nulle part).

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Tra i timori espressi dagli industriali europei quello prevalente è che venga minato il mercato unico europeo, uno dei pilastri ancora prima dell’istituzione dell’Unione Europea come comunità politicofinanziaria, poiché si indurrebbero i consumatori a privilegiare il prodotto realizzato con materie prime nazionali a discapito di quello che, pur fabbricato da un’industria nazionale, fa uso parziale o totale di materie prime estere. E in una situazione politica in cui in diversi Paesi Membri tornano a soffiare prepotentemente i venti nazionalisti, la presenza in etichetta dell’origine potrebbe essere un ul-

teriore elemento di disgregazione all’interno dell’Unione. I favorevoli al provvedimento sostengono che l’indicazione obbligatoria non abbia di per sé alcuna valenza discriminatoria ma, al contrario, aumenti la possibilità del consumatore di scegliere consapevolmente i propri cibi. Replicano i detrattori che ciò porterà ad un aumento dei costi e conseguentemente dei prezzi, stimati tra il 10% e il 15%, e non è detto che tutti siano disposti ad accollarsi un simile incremento. Le associazioni di consumatori francesi fanno appello alla possibilità, che il Regolamento UE

1169/2011 attribuisce agli Stati, di introdurre norme di etichettatura più stringenti se la maggioranza della popolazione lo richiede e fanno riferimento ad un sondaggio Eurobarometro del 2013 nel quale il 90% dei cittadini si era detto favorevole all’etichettatura dell’origine delle carni e l’84% all’etichettatura di origine dei prodotti lattiero-caseari. Il progetto terminerà il 31 dicembre 2018; successivamente, verrà redatto dal governo francese un rapporto dettagliato per la Commissione europea, la quale valuterà i risultati e l’eventuale estensione a tutti i Paesi Membri. Roberto Villa

Igp al vitellone piemontese, una “griffe” che valorizza l’intera filiera e apre nuovi mercati Cresce l’attesa per il via libera definitivo all’Igp Vitellone piemontese della coscia. Una “griffe” prestigiosa che avvalora il successo del Fassone, sempre più quotato nella ristorazione non solo italiana, dando valore aggiunto ad un comparto strategico della zootecnia regionale. L’argomento è stato al centro dell’affollata assemblea di giovedì 16 febbraio scorso al MIACMercato Ingrosso Agroalimentare Cuneo. In sala gli allevatori cuneesi della razza Piemontese, con i vertici dell’associazione ARAP e i responsabili delle cooperative di produttori Compral Carne e Co & Co (emanazione di Coalvi e Coop San Francesco) che avranno un ruolo di primo piano nella fase esecutiva. Analogo incontro per l’area torinese si è svolto due settimane fa a Carmagnola. «L’iter burocratico del titolo Indicazione Geografica Protetta per il vitellone piemontese della coscia, partito nel 2009, è arrivato all’ultima tappa» a spiegato in apertura Roberto Chialva, presidente ARAP. «Noi come organizzazione del sistema allevatoriale vogliamo essere protagonisti e punto di riferimento dell’intera filiera che interessa anche macellazione e commercializzazione del prodotto». Che cosa succederà adesso? Le prossime mosse sono state illustrate da FRANCO DALMASSO, presidente della Sezione Allevatori della Piemontese. «Apriremo un tavolo in associazione con le cooperative interessate, che rappresentano quasi il 50% della produzione di carne della razza. Dovranno essere affrontate le questioni tecniche e logistiche, come la scelta di un ente terzo per la certificazione. E poi bisognerà valutare le strategie di mercato. Abbiamo in mano un prodotto di eccellenza, che con la griffe dell’Igp può compiere un ulteriore salto di qualità. Ciò vuol dire nuove opportunità sul fronte commerciale e prezzi a più alta remunerazione per gli allevatori. E ci auguriamo tutti che in questo scenario la base produttiva possa espandersi dando spazio anche ai giovani che intendono entrare nel mondo della razza piemontese» (in foto, campione assoluto della Mostra Nazionale Bovini di Razza Piemontese 2016 a Cuneo; fonte: ARA Piemonte).

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LEGISLAZIONE

Europa, cibo e trasparenza, la nuova era è iniziata da un pezzo Sono anni ormai che i produttori devono periodicamente mettere mano alle etichette dei prodotti alimentari per fare modifiche imposte dalla legge. La fine non è però vicina, perché dopo allergeni, tabelle nutrizionali, elenco delle indicazioni obbligatorie, ora si toglie il velo sull’origine delle materie prime. E siamo solo alle prime battute di Sebastiano Corona

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l Regolamento UE 1169/2011, come gli addetti ai lavori ben sanno, è un documento vastissimo che ha riformato completamente la normativa comunitaria in meri-

to alle informazioni al consumatore. Questa norma, entrata in vigore a più riprese, fa da spartiacque tra due concezioni completamente diverse di trasparenza e comunicazione sul cibo.

I primi adempimenti obbligatori li abbiamo visti con l’indicazione degli allergeni in etichetta, ma ne sono seguiti molti altri, ultimo dei quali, a dicembre scorso, quello della ta-

Prosciutto Crudo di Cuneo Dop (photo © langhe.net).

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“Storico via libera all’indicazione di origine obbligatoria per il latte e i prodotti lattiero-caseari che pone finalmente fine all’inganno del falso made in Italy”: queste le parole usate da Coldiretti nel commentare la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale n. 15 del 19 gennaio 2017 del decreto “Indicazione dell’origine in etichetta della materia prima per il latte e i prodotti lattiero-caseari, in attuazione del Regolamento (UE) n. 1169/2011”. bella nutrizionale. Il Regolamento non va però considerato un punto di arrivo, perché contiene una serie di disposizioni — forse nell’immediato meno evidenti —, che nel futuro prossimo modificheranno ulteriormente il già lungo elenco delle informazioni che devono essere garantite al consumatore. In un’ottica di tutela di chi acquista, sono state infatti introdotte norme che avranno conseguenze rilevanti anche sulle economie dei Paesi coinvolti. Tra queste vi è un’altra importante novità, che è quella della indicazione in etichetta della provenienza della materia prima. Una disposizione che entrerà in vigore con tempi ampi e solo relativamente a determinati settori, ma che segna una strada ben precisa. Il percorso è in realtà iniziato da tempo. Era infatti il 2002 quando — a seguito dello scandalo della cosiddetta “mucca pazza” — è stato introdotto l’obbligo di indicare la provenienza della carne bovina. A

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seguire, nel 2003, è stata la volta dell’ortofrutta fresca e poi, nel gennaio 2004, delle uova e del miele. Le ultime, in Italia, prima del Regolamento UE 1169/2011, sono le norme che introducono l’obbligo di comunicare la zona di mungitura o la stalla di provenienza per il latte fresco, il Paese di origine delle carni avicole e poi della passata di pomodoro. Buona parte di queste norme sono state licenziate all’indomani di un’emergenza, ma l’opinione pubblica, sempre più coinvolta da alcune associazioni di categoria e di consumatori, sia in Italia, sia all’estero, è oggi chiaramente schierata per una maggiore trasparenza in etichetta. Trasparenza che prevede, tra le varie cose, il nome del territorio di provenienza della materia prima impiegata, tanto per i prodotti mono-ingrediente, quanto per quelli trasformati. Il consumatore ha giustamente l’esigenza di sapere cosa contiene il proprio piatto e di avere maggiori

elementi di valutazione possibile, per fare una scelta d’acquisto oculata. Ma i produttori agricoli ritengono invece che il mercato sceglierebbe sempre il prodotto locale se solo gli si desse la possibilità di riconoscerlo nello scaffale. Certezza questa che, a nostro parere, non dovrebbe essere data per scontata. Alla luce di queste considerazioni, il legislatore europeo ha introdotto una serie di novità sul tema. L’articolo 26.3 del Regolamento stabilisce che il Paese d’origine o luogo di provenienza di un prodotto trasformato diventano obbligatori qualora l’omissione possa indurre in inganno il consumatore, relativamente alla provenienza del prodotto e quando il Paese d’origine o di provenienza non è lo stesso di quello del suo ingrediente primario. In quest’ultimo caso, deve essere indicato il Paese di provenienza dell’ingrediente primario, abbinato a quello del prodotto finito. Questo passaggio necessita però di un regolamento

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d’esecuzione e di linee guida specifiche che verranno presumibilmente emanate nei prossimi mesi e che contribuiranno a complicare ulteriormente la vita dei produttori, con probabili correzioni delle etichette, le ennesime modifiche degli ultimi tre anni. La questione può infatti apparire chiara, ma in realtà si presta ad una serie di interpretazioni ed equivoci. Inoltre, deve essere risolto il problema dell’impatto delle norme verticali sull’origine. Nei casi in cui l’ingrediente primario sia la carne, andrebbero infatti applicate le disposizioni dettate dai Regg. n. 1760/2000 e n. 1337/2013 in termini di nascita, allevamento e macellazione dell’animale. L’Italia ha chiesto di semplificare tale obbligo con un’unica indicazione di origine dell’ingrediente primario. L’ultima bozza di regolamento consente all’operatore di scegliere liberamente quale delle opzioni di area geografica utilizzare nell’indicazione di origine/provenienza dell’ingrediente primario. La scelta è tra “UE” oppure “non UE” oppure area geografica trasversale a più Stati, per esempio Mediterraneo; Stato (specifico Stato membro o specifico Stato terzo) e livello geografico sub-nazionale (es: Lombardia). In alternativa si potrà fornire l’indicazione che l’origine dell’ingrediente primario è diversa da quella del prodotto alimentare finale. L’orientamento europeo sui prodotti lattiero-caseari è invece decisamente più chiaro ed esaustivo e l’indicazione dell’origine in etichetta è ormai obbligatoria Con un comunicato dell’ottobre scorso, il MIPAAF ha reso noto infatti il via libera allo schema di decreto che introduce l’indicazione obbligatoria dell’origine per i prodotti lattiero-caseari in Italia e che vale quindi per latte, burro, yogurt, mozzarella, formaggi e latticini. Restano fuori solo il latte fresco che, come è noto, è già tracciato e i prodotti DOP e IGP perché già ampiamente previsti nei relativi disciplinari. L’indicazione di origine del latte o del latte usato come ingrediente

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nei prodotti lattiero-caseari prevede l’utilizzo in etichetta delle indicazioni relative al Paese di mungitura e il Paese di condizionamento o di trasformazione, e cioè dove è stato condizionato o trasformato il latticino. Per facilitare adempimenti e comunicazioni, qualora il latte usato come ingrediente nei prodotti lattiero-caseari sia stato munto, condizionato o trasformato nello stesso Paese, l’indicazione di origine può essere assolta indicando il nome del Paese in cui i diversi processi hanno avuto luogo. Si resta comunque sempre nell’ambito statale, senza scendere ulteriormente in dettagli sulle zone esatte di provenienza. Cosa che invece molti produttori avrebbero probabilmente gradito, per differenziarsi ulteriormente dai concorrenti, anche interni. Il decreto in questione avrà ovviamente una valenza solo nazionale e prevede una fase sperimentale dal 10 gennaio 2017 al 31 marzo 2019. Sul suo contenuto si è inoltre espresso il MISE in ben due circolari esplicative che riportano alcuni importanti chiarimenti. Tra questi, il fatto che sono esclusi i prodotti sfusi, imballati nei luoghi di vendita su richiesta del consumatore o preimballati per la vendita diretta. Sono altresì esclusi i prodotti B2B, (ferma restando la previsione di fornire sufficienti informazioni agli operatori) e inoltre la norma non si applica ai prodotti dell’allegato 1 di altri Stati, sia venduti al consumatore tal quale sia prodotti intermedi che ingredienti. Rimane il problema di come risalire alle informazioni del Paese di mungitura del latte contenuto negli ingredienti, qualora le disposizioni della tracciabilità del Reg. UE 178/2002

non lo consentano. È quindi molto probabile che la soluzione sarà quella di limitare l’obbligo al latte utilizzato tal quale, dal soggetto e che questa strada venga intrapresa anche per i formaggi fusi, affettati e grattugiati. L’apertura non è però solo su latte e carni Le richieste si erano fatte sempre più pressanti anche per la pasta. La dicitura sarà anche in questo caso: “Paese di coltivazione del grano” e “Paese di macinazione del grano”, con l’indicazione del nome del Paese UE o non UE e ancora: UE e/o non UE, anche nel caso in cui non si abbiano miscele di grano. Ci sarà inoltre l’ulteriore possibilità di aggiungere alle indicazioni di origine, anche la dicitura “con prevalenza…” più il nome del Paese nel quale è stato coltivato almeno il 50% del grano duro che compone il prodotto trasformato. Il decreto prevede altresì la possibilità di indicazione mediante punzonatura, stampigliatura o altro segno su un elenco riportato in etichetta e la dicitura deve essere riportata con un carattere minimo di 2 millimetri. La sperimentazione si attuerà sino al 31 dicembre 2019, ma i pastifici avranno la possibilità di smaltire la merce sino ad esaurimento scorte dei prodotti immessi sul mercato ed etichettati, decorsi 180 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. La nuova disposizione è relativa unicamente alla pasta secca e, per ora, esclude quella fresca. Anche se la direzione appare ormai presa e anche per le altre tipologie di prodotto, sarà probabilmente solo una questione di tempo. L’orientamento europeo è infatti ormai

L’introduzione di nuovi obblighi si tramuterà in costi esorbitanti e complicazioni delle formalità per le imprese. Costi che ricadranno sui consumatori. Tuttavia, alcuni scandali alimentari e la presa di posizione di certi Paesi sono state tante e tali che non appare più possibile procrastinare ulteriormente

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Anche per la pasta sono previste in etichetta diciture quali “Paese di coltivazione del grano” e “Paese di macinazione del grano” con l’indicazione del nome del Paese UE o non UE e ancora: UE e/o non UE, anche nel caso in cui non si abbiano miscele di grano (photo © Sergey Ryzhov – Fotolia). quello di fornire al consumatore l’indicazione d’origine della materia prima, sebbene la Commissione si sia mostrata sinora piuttosto cauta. L’introduzione di nuovi obblighi si tramuterà infatti in costi esorbitanti e complicazioni delle formalità all’interno delle imprese. Costi che, ovviamente, ricadranno sui consumatori finali. Tuttavia, le pressioni degli ultimi anni, alcuni scandali alimentari e la presa di posizione di certi Paesi membri, Italia compresa, sono state tante e tali che non appare più possibile procrastinare ulteriormente. Il diritto del consumatore di conoscere la provenienza, le caratteristiche e gli ingredienti esatti di ciò che ha nel piatto è cosa sacrosanta. Il timore è però che questo elemento — che in tanti sono certi spianerà la strada dei mercati locali ed internazionali per l’Italia — potrebbe invece rivelarsi non solo una grande delusione ma, addirittura, un problema. Chi crede che la

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scelta d’acquisto sia sempre orientata sul prodotto locale potrebbe rimanere deluso nello scoprire che gli elementi che fanno la differenza sono invece diversi e che ognuno ha un proprio peso. Potremmo in quell’occasione anche scoprire che queste nuove regole sono fortemente volute anche da altri Stati e da tutti con la stessa idea di porre una sorta di barriera alle produzioni estere, per meglio veicolare quelle locali. I Francesi, per esempio, non sono meno decisi degli Italiani. Ne è prova il progetto d’Oltralpe, in perfetta linea con quello europeo, che impone l’origine obbligatoria sia per il latte venduto tal quale sia per latte e carni utilizzati come ingredienti di altri prodotti alimentari. I Paesi da indicare, per quanto riguarda il latte, sono sia quello di raccolta, sia quelli di trasformazione e condizionamento (se non coincidono). Anche per l’origine della carne, si dovranno precisare

i Paesi di nascita, allevamento e macellazione,ì (sia essa bovina, suina, avicola, ovina o caprina). L’indicazione dell’origine deve essere riferita al singolo Paese di provenienza, anche se è possibile utilizzare espressioni come UE o extra-UE quando le materie prime risultano avere origini differenziate. L’impatto sull’industria alimentare francese sarà in ogni caso notevole. Ma c’è da scommetterci che ne sentiranno le conseguenze anche molti Stati più o meno vicini. E potremmo ben presto scoprire che la trasparenza che chiediamo a gran voce, allo scopo di potenziare il nostro mercato interno e anche quello internazionale, si potrebbe rivelare un boomerang, soprattutto per le nostre esportazioni in determinati Paesi dove tengono almeno quanto noi a consumare prodotto locale. E sarà qui che si evidenzierà ancor di più il fatto che questa Europa non è unita né coesa. Nemmeno a tavola. Sebastiano Corona

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OSSERVATORIO INTERNAZIONALE

Il bando della Russia sulle carni suine dall’UE è illegale L’Organizzazione Mondiale del Commercio ha dato ragione ben due volte al ricorso dell’Unione Europea contro il provvedimento russo, riaprendo un mercato da 1,4 miliardi di euro l’anno di Roberto Villa

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a diatriba ebbe inizio indicativamente tre anni or sono, nell’aprile 2014, quando l’Unione Europea chiese alla Federazione Russa consultazioni finalizzate ad avere chiarimenti circa alcune misure restrittive intraprese, che impedivano il libero commercio di suini vivi, carni suine e loro derivati di provenienza europea, motivate con la presenza di casi di peste suina africana nel territorio di taluni Paesi Membri (Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia). Non avendo ricevuto sufficiente soddisfazione alle richieste di spiegazioni e perdurando il blocco, l’Unione decise di adire l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, nell’acronimo inglese) per far valere i propri diritti. Nell’ottobre del 2014 venne prontamente costituito un panel di valutazione del caso, identificato con la sigla DS475. Non si tratta certo di uno scontro di poco conto, visto che l’Unione Europea, in precedenza, esportava mediamente 1,4 miliardi di euro all’anno tra carni, derivati e alimenti a base di carne suini: certamente non una quota elevata dell’export complessivo, se rapportata ai 74 miliardi di euro di beni e servizi che l’UE ha esportato verso la Russia nel 2015, ma di certo uno sbocco importante per molti paesi europei grandi esportatori di carni suine fresche come la Danimarca, che ha infatti sofferto dell’improvviso e protratto blocco,

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ma anche di carni trasformate come l’Italia, la quale ha visto chiudersi frontiere che avevano visto un crescente interesse per i prodotti della salumeria made in Italy. Le importazioni totali di carni suine nella Federazione Russa da tutti i Paesi del mondo hanno visto una consistente contrazione nell’ul-

timo quinquennio: dal picco di 1,1 milioni di tonnellate nel 2012 sono infatti scese a 600.000 tonnellate nel 2014, anno dell’entrata in vigore del bando verso l’Unione Europea, fino a meno di 500.000 tonnellate nell’anno 2016. A beneficiare dell’embargo all’Europa è stato soprattutto il Brasile, che in questo

La Commissione ha invitato la Federazione Russa a ritirare con effetto immediato il bando imposto sulle carni suine e sui prodotti a base di carne suina. Qualora Mosca non dovesse dare seguito alla riapertura del mercato, Bruxelles avrebbe titolo per imporre sanzioni economiche pari al valore di mercato delle transazioni che vengono impedite.

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quadriennio ha visto raddoppiare le proprie esportazioni da 170.000 a 340.000 tonnellate, oltre la metà dell’attuale import russo. Nonostante questa difficile situazione con il gigante euro-asiatico, l’Unione Europea ha trovato nuovi sbocchi per le carni suine, il cui commercio con l’estero è passato da 2,2 milioni di tonnellate nel 2014 a 2,5 milioni di tonnellate nel 2016. L’iter e la conclusione vittoriosa I lavori e le schermaglie di posizione si sono protratti per quasi due anni, fino al pronunciamento nell’agosto 2016 da parte del panel individuato dal WTO per dirimere la questione, il quale ha dato ragione piena all’Unione Europea additando come pretestuose le motivazioni sanitarie addotte dalla Federazione Russa per tenere lontane le derrate di origine suina dal proprio mercato interno. L’Unione Europea ha fatto ricorso al WTO su ben sette temi, su sei dei quali il panel si è espresso a favore (rigettato solo il ricorso sulla trasparenza). In particolare, alla Federazione Russa è stata attribuita una interpretazione errata di diversi punti degli accordi sulle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS Agreement), a partire dalle definizioni stesse di “misure sanitarie” ma anche per il comportamento discriminatorio ed arbitrario tra territori nei quali sussistono condizioni uguali o simili: l’Unione Europea è riuscita a dimostrare che nel proprio territorio esistono aree indenni da peste suina africana con la ragionevole certezza che lo rimangano anche nel futuro, persino all’interno dei quattro Stati dove si erano verificati focolai di peste (Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia).

La Commissione europea ha rimarcato in un comunicato stampa che questa è un’importante vittoria delle regole sull’arbitrarietà, con funzione anche di monito verso altri Stati che volessero erigere barriere commerciali millantando fondamenta di natura sanitaria (in foto, vaschette di tagli di suino di un brand russo). Il 23 settembre la Federazione Russa ha deciso di presentare appello contro la decisione, seguito il 28 settembre dal contro-appello da parte dell’Unione Europea. Infine, il pronunciamento finale dell’organo di appello è stato emesso in data 23 febbraio 2017, con la conferma del giudizio precedentemente espresso nell’agosto del 2016, ovvero l’infondatezza di restrizioni all’importazione basate su un asserito rischio di propagazione della malattia, tenuto sotto controllo dall’efficiente sistema di monitoraggio e gestione attuato in tutta l’Unione Europea.

Le importazioni totali di carni suine nella Federazione Russa da tutti i Paesi del mondo hanno visto una consistente contrazione negli ultimi cinque anni. A beneficiare dell’embargo all’Europa è stato il Brasile, che ha visto raddoppiare le proprie esportazioni da 170.000 a 340.000 tonnellate, oltre la metà dell’attuale import russo

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La Commissione europea ha immediatamente rimarcato in un comunicato stampa che si tratta di una importante vittoria delle regole sull’arbitrarietà, con funzione anche di monito verso altri Stati che volessero erigere barriere commerciali millantando fondamenta di natura sanitaria. La vittoria è particolarmente efficace per la difesa del criterio di regionalizzazione dei focolai di infezione prevista dall’articolo 6 degli accordi sulle misure sanitarie e fitosanitarie, criterio molto importante per un’area vasta e diversificata come è l’Unione. La Commissione ha pertanto invitato la Federazione Russa a ritirare con effetto immediato il bando imposto sulle carni suine e sui prodotti a base di carne suina. Qualora Mosca non dovesse dare seguito alla riapertura del mercato, Bruxelles avrebbe titolo per imporre sanzioni economiche pari al valore di mercato delle transazioni che vengono impedite, cioè i citati 1,4 miliardi di euro all’anno. Roberto Villa

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SLALOM

Manovra bis e squilibri macro-economici di Cosimo Sorrentino

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ello scorso numero di questa Rivista abbiamo cercato di fornire un sintetico quadro della situazione riguardante la manovra correttiva da 3,4 miliardi richiesta all’Italia da Bruxelles, al fine di evitare la procedura d’infrazione delle regole del debito. La risposta del nostro Governo a detta richiesta non è certamente piaciuta ai vertici comunitari, i quali ne aspettavano una con impegni dettagliati, mentre sono stati indicati solo i titoli delle imposte sui quali si intende intervenire, né è stato fornito un calendario per le decisioni concrete (apparendo così chiaro che il Governo vuole rinviare tutto). Nella visione comunitaria indicare genericamente misure di controllo

delle spese e “ulteriori miglioramenti della raccolta delle imposte” non è sufficiente a fare chiarezza, e anche se ci fossero delle cifre, sarebbero comunque dall’esito incerto. Tuttavia, la linea della Commissione UE per ora non cambia poiché non è sua intenzione creare rotture con gli Stati (sicuramente non con il nostro), a causa del già fragile contesto politico europeo, soprattutto ora che in diversi paesi comunitari si avvicinano scadenze elettorali. Ricordiamo anche che una certa inclinazione positiva nei confronti dell’Italia può intravedersi nel fatto che sono stati concessi 19 miliardi di euro di flessibilità sul deficit, per gli investimenti e le riforme.

Non dobbiamo però interpretare questa momentanea fase di attesa conciliante della Commissione con troppo ottimismo. Anche se ci è stato implicitamente accordato un maggior lasso di tempo per varare la manovra da 3,4 miliardi (la sola via per evitare la procedura d’infrazione), il giudizio sulla situazione attuale del nostro Paese è chiaro: la spinta riformatrice è in evidente rallentamento, il debito è alto, l’economia ristagna, la produttività è debole, la crescita è alquanto incerta. A maggio, poi, non ci saranno sul tavolo solo la verifica della manovra sul deficit strutturale e la decisione se aprire o meno la procedura di violazione del patto di stabilità; ci

Il commissario europeo per l’euro e la stabilità finanziaria Valdis Dombrovskis (photo © www.cnbc.com).

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sarà anche il tema degli squilibri macro-economici. E per tenere sotto pressione (più psicologica che altro) il nostro Governo, è stata ventilata l’ipotesi di aprire una particolare procedura, tenendo conto degli squilibri persistenti, che possono avere effetti negativi sulla zona euro, essendo l’Italia una economia “di importanza sistemica”. Perché, come ha sostenuto il responsabile dell’area euro, il commissario VALDIS DOMBROVSKIS, poco o nulla è stato fatto per superarli e tutte le opzioni sono aperte. Ciò che comunque maggiormente ci angustia è constatare che la nostra economia è stanca, che la crescita si rivela inadeguata per uscire dalla crisi e che il nostro Paese non riesce a migliorare la sua posizione rispetto a quella degli altri partner dell’Eurozona, anche se sfrutta bene il traino esterno. Secondo alcuni dati forniti dall’Ufficio Studi della Confindustria, anche per il primo trimestre di quest’anno l’aumento del PIL risulta essere “a ritmo lento”, dopo il +0,2% nel quarto trimestre dello scorso anno e un +0,3% nel terzo. Sempre secondo la stessa fonte, industria ed export trainano il PIL, la domanda interna risente dell’instabilità politica, il credito rimane erogato non con le necessità da soddisfare, i sentieri divaricanti dei tassi praticati dalla Federal Reserve americana e quelli della Banca Centrale Europea spingono il dollaro, mentre i tassi sui titoli sovrani iniziano a riflettere tensioni economiche e non. Quanto ai posti di lavoro, finiti gli incentivi alle assunzioni, non si può prevedere un loro aumento. Gli squilibri macro-economici non toccano, poi, solo l’Italia, e la Commissione UE ne ha dato atto quando ha “bacchettato” la Germania con il suo noto surplus delle partite correnti tedesche, che crea problemi non solo all’economia tedesca, ma produce distorsioni significative per tutta la zona euro. Sostiene, infatti, Bruxelles che “detto surplus riflette un eccesso di risparmio e deboli investimenti sia pubblici che privati”. Se si contenesse questo problema, si potrebbero avere effetti positivi sul riequilibrio delle prospettive di crescita nel resto dell’Eurozona, perché una domanda più dinamica in Germania potrebbe aiutare a superare la bassa inflazione, facilitando le necessità di riduzione dell’indebitamento nei paesi ad alto debito. Anche la Francia si trova a competere con bassa crescita della produttività e debito pubblico in aumento, nonché debole competitività, mentre in Portogallo preoccupano l’alta quota di sofferenze bancarie e di debito sia pubblico che privato, in un contesto di elevata disoccupazione e bassa produttività. Appaiono meno intensi gli squilibri spagnoli, poiché alla vulnerabilità di un debito pubblico e privato non esaltante e ad un’alta disoccupazione fa riscontro la forte crescita del PIL, del 3,2% nel 2015-2016 e del 2,3% nel corrente anno. L’Italia, come abbiamo detto, è ancora in una fase “stanca”, mentre l’Europa insiste nella richiesta di ridurre ulteriormente il deficit. I nodi prima o poi vanno sciolti, gli interrogativi esistono e si fanno sempre più angosciosi. Cosimo Sorrentino

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LA CARNE IN RETE

Social di Elena

2. Carni dal mondo in un clic 1. Jamie Oliver e il suo butcher Oltre 20.000 sono stati i “like” alla foto di SANTOS, il super macellaio brasiliano che da 19 anni lavora insieme allo chef inglese Jamie Oliver (www.instagram. com/jamieoliver). Cuoco e maestro delle carni, trovate Santos nel ristorante Barbecoa Piccadilly di Londra, meta indiscussa di carnivori.

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Attraverso il sito web www.carnidalmondo.com, LOMBARDIA CARNI offre una selezione delle carni più pregiate provenienti da Nord e Sud America, Giappone, Australia e Europa. Il progetto dell’azienda bergamasca spazia dal kobe al manzo delle pampas argentine, passando attraverso l’Aberdeen Angus scozzese e a molte altre razze e tagli di indiscussa qualità. La comunicazione è efficace e vincente: si lascia spazio a belle immagini, con poco testo, essenziale, e ad elementi grafici che rendono la navigazione facile e veloce. Nella foto un taglio di Australian beef (photo © carnidalmondo.com).

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meat Benedetti

3. La Pink Valley di OPAS OPAS, l’ORGANIZZAZIONE PRODOTTO ALLEVATORI SUINI è presente sul web alla pagina www.opas-coop.it. Con oltre un milione di suini commercializzati, OPAS si conferma la più grande organizzazione di prodotto in Italia, rappresentando il 12% della produzione suinicola nazionale. Occhio alla sezione delle “News”, che spesso comunica percorsi di formazione professionale per operatori impegnati nel campo dell’allevamento del suino, come ad esempio il corso “Suino pesante italiano unico al mondo” organizzato dalla VIP (Very Italian Pig) University. È ben in evidenza nel sito anche Eat Pink, il marchio registrato a livello europeo che promuove il consumo della carne di maiale rosa e magra.

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4. Goodman, carne bella e buona La catena di ristoranti ad alto tenore proteico GOODMAN, con sede a Londra, rispettivamente a Canary Warf, nella City e nel quartiere di Mayfair, si può visitare anche on-line all’indirizzo www.goodmanrestaurants.com. Le foto sono stupende, la carne è l’indiscussa protagonista nelle celle di maturazione e sui fuochi delle cucine. Bravissimi! Nella foto un taglio di manzo di razza Short Horn presente nei menu di Goodman (photo © goodmanrestaurants.com).

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AZIENDE

All Natural Pork, zero antibiotici massima sicurezza di Elena Benedetti

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ervono poche parole per introdurre DANISH CROWN, il Gruppo globale danese specializzato nell’allevamento e nella produzione di carni suine e bovine, con una posizione di leadership nell’export europeo di suini e una tradizione alle spalle

lunga ben 129 anni. Se nel lontano luglio del 1887 500 allevatori della regione di Horsens unirono le forze per dar vita ad una prima cooperativa di allevamento e lavorazione delle carni, oggi quel gruppo si è trasformato e consolidato in un business che conta 26.000 dipendenti,

circa 8.550 allevatori, 22 milioni di suini (di cui quasi 14 milioni in Danimarca) e 700.000 bovini, 23 stabilimenti di macellazione e lavorazione delle carni suine e 5 per le carni bovine. Numeri da capogiro, per un’organizzazione tanto complessa

I suini allevati senza antibiotici da Danish Crown nascono e crescono in aziende danesi a conduzione famigliare, nelle quali l’attenzione al benessere animale è massima, per garantire una crescita corretta e la minore incidenza di malattie.

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quanto snella che resta ben ancorata ad un modello di produzione di carni di qualità che non possono transigere da una doppia responsabilità. In primo luogo nei confronti degli animali, allevati a ciclo chiuso (come nel caso di tutti i suini che nascono e crescono in Danimarca), tutelati ogni giorno a livello di benessere e salute grazie a mani esperte, professionalità, tecnologia e innovazione. Poi c’è una responsabilità altrettanto importante, quella che Danish Crown ha nei confronti del consumatore, nella tutela della sua salute e del suo di benessere.

La linea di carni suine naturali, provenienti da allevamenti nei quali l’uso degli antibiotici è bandito dalla nascita alla macellazione dell’animale, è oggi uno dei progetti più innovativi del Gruppo danese Danish Crown. La presentazione al mercato italiano avverrà a maggio in occasione dell’evento fieristico Tuttofood di Milano. Per i lettori di Eurocarni un’anticipazione della nuova linea

Danish Crown, it’s all about food È tutta una questione di cibo, cita lo slogan del Gruppo danese leader nella produzione di carni suine e bovine. E di responsabilità, aggiungiamo noi, una responsabilità che garantiscono 8.550 allevatori dal produttore fino al consumatore finale. Questo principio è integrato in ogni fase del processo produttivo e massima è l’attenzione che Danish Crown garantisce in ogni step, dalla mangimistica, ai tempi di trasporto, ridotti al minimo dall’azienda agricola allo stabilimento di macellazione, al processo di lavorazione delle carni, fino al confezionamento e alla logistica. La sicurezza delle carni è garantita a livello assoluto da società di revisione indipendenti che rilasciano le certificazioni che abilitano Danish Crown ad esportare in tutto il mondo.

Lo stabilimento Danish Crown di Horsens.

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Ne abbiamo parlato con PETER SNEDKER e WALTER MINOZZI, rispettivamente managing director e sales manager della divisione Pork di Danish Crown a Chiasso durante la presentazione del progetto

L’obiettivo della nuova linea è rispondere al tema dell’antibioticoresistenza, un problema che sta sempre più sensibilizzando l’opinione pubblica e che riguarda sia la medicina umana che quella veterinaria. Se oggi infatti si sta discutendo parecchio sulla necessità di contrastare l’impiego inappropriato

e irrazionale degli antibiotici da parte dell’uomo e, nel campo della zootecnia, l’uso degli stessi antibiotici negli animali e nell’industria alimentare, c’è Danish Crown che da tempo si è mossa per operare in modo trasparente e sicuro creando una produzione di suini naturali, nati e allevati senza alcuna traccia di antibiotici.

Staff al completo della Pork Division di Danish Crown Chiasso. Da sinistra, Walter Minozzi, Claudia Brambani, Viktor Bekesi, Claus Iburg, Silvia Porta e Peter Snedker.

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Il protocollo Danish Crown per l’allevamento dei suini senza antibiotici Tutti gli allevatori di Danish Crown che allevano suini senza alcun uso di antibiotici devono sottoscrivere e seguire un protocollo denominato Danish Product Standard, certificato ISO/IEC 17065, che definisce una serie di criteri. Ne riportiamo qui di seguito alcuni: • i suinetti vengono cresciuti in aziende agricole che rispettano le buone pratiche dell’allevamento e del benessere animale. Quest’ultimo è monitorato e assicurato da un programma di audit interno; • dalla nascita alla macellazione all’animale non può essere somministrato alcun antibiotico; • dalla nascita alla macellazione all’animale non può essere somministrato alcun tipo di ormone della crescita, inclusi ormoni naturali, ormoni sintetici o altre sostanze promotrici della crescita; • se gli animali richiedono una terapia farmacologia a base di antibiotici essa viene loro somministrata e i suini sono immediatamente rimossi dal programma; • i suini sono alimentati esclusivamente con mangimi vegetali. L’alimentazione con sottoprodotti di origine animale è espressamente vietata. È ammesso l’uso di prodotti a base di latte; • la produzione mangimistica è controllata, autorizzata e approvata dal Ministero dell’Agricoltura danese. Il mangime utilizzato dagli allevatori può essere acquistato solo da aziende autorizzate; • tutti i suini devono avere accesso ad una sufficiente quantità di paglia o altro mangime idoneo alla loro nutrizione; • tutti i suini di peso superiore ai 20 kg (scrofe incluse) devono poter accedere ad ambienti ben areati; • è fatto divieto di usare gabbie di gestazione; • è fatto divieto di usare pavimentazioni a stecche; • l’intero processo di allevamento è sottoposto ad un audit gestito da Baltic Control, ente accreditato a DANAK; • sono ricorrenti audit non preannunciati; • tutti i suini sono trasportati da una società che aderisce e rispetta i Danish Transport Standards; • tutti i suini sono nati, cresciuti e macellati in Danimarca; • tutti i suini sono macellati da Danish Crown secondo le normative del Global Red Meat Standard (certificazione ISO/IEC 17065).

Tutti i suini devono avere sempre disponibilità di paglia o di altri mangimi di arricchimento.

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In foto l’allevatore Henrik Kjær, che insieme ai suoi due fratelli Dan e René gestisce la fattoria di famiglia. Nella fase successiva alla nascita i suinetti sono spostati nella stalla di svezzamento nella quale gli animali sono abituati ad un nuovo clima e nutrimento. L’attenzione al loro benessere e alla loro salute è massima: qualora fosse necessario somministrare antibiotici per far fronte ad una patologia, sarebbero curati ma immediatamente rimossi dal programma. All Natural Pork, davvero zero antibiotici «L’input è partito qualche anno fa dal mercato statunitense, che privilegia sempre più un utilizzo di carni suine provenienti da filiere di allevamento nelle quali non è stato fatto uso di antibiotici. La Danimarca è sempre stata comunque molto parsimoniosa nella somministrazione di antibiotici negli allevamenti. Ad oggi circa il 70% degli animali introdotti nel progetto All Natural Pork giunge a fine ciclo in maniera positiva senza necessità di assunzione di antibiotici; nel proseguio tale risultato non potrà che migliorare, per l’aumento fisiologico di anticorpi che via via i

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suini svilupperanno nell’arco dei 6 mesi circa di vita. Questa è l’unica risposta volta ad ascoltare la voce di un consumatore, oggi sempre più allarmato e sensibile a questi temi, garantendogli inequivocabilmente che il nostro All Natural Pork non assume antibiotici sin dalla sua nascita e non solo dopo lo svezzamento». La carne suina naturale firmata Danish Crown oggi vede coinvolti tre stabilimenti di macellazione del Gruppo: Roenne, Saeby e Blans e, sul mercato italiano, ha iniziato ad arrivare nel maggio del 2015. «Giusto per dare qualche numero, la linea All Natural Pork oggi conta una produzione di 3.000 capi a settimana, che diventeranno 5.000 entro

l’estate, cercando di soddisfare una richiesta sempre crescente, sia italiana che estera, per la produzione e per il pronto consumo». Ciclo chiuso, massima attenzione I suini che rientrano in questo progetto provengono esclusivamente da allevamenti danesi. Essi nascono, vengono allevati e macellati in Danimarca e sono caratterizzati, come peraltro anche i suini convenzionali, da un ciclo chiuso. Questo è un elemento fondamentale nella gestione dell’animale e nella capacità di crescerlo senza ricorrere ad antibiotici per far fronte ad eventuali patologie. L’intero processo è garantito dall’ente di certificazione esterno

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essere biologica con costi di produzione molto più elevati, mentre il suino senza antibiotici è una carne 100% naturale ma con un prezzo assai più ragionevole». Non dimentichiamo che anche il biologico è un segmento in forte crescita: «oggi Danish Crown produce 4.000 capi a settimana, con un mercato in forte espansione e ogni anno la crescita è a doppia cifra». La filosofia di Danish Crown «Tornando al tema della responsabilità, per noi di Danish Crown l’attenzione al consumatore ha lo stesso valore del benessere dell’animale, senza trascurare i nuovi trend di consumo e il futuro dei mercati. Viviamo in un mercato globale all’interno del quale c’è un’attenzione massima verso il prezzo, anche se per noi il focus è tutto sul prodotto, che deve garantire la salubrità e la sicurezza alimentare per il consumatore e, al contempo, una buona vita all’animale». Una filosofia di business che per tante aziende è un obiettivo da perseguire e che per Danish Crown è già realtà, con la presentazione ufficiale agli operatori italiani nel quartiere fieristico milanese di TUTTOFOOD 2017, dall’8 all’11 maggio. Un appuntamento da non perdere! Elena Benedetti

In alto: le scrofe e le scrofette sono allevate in stalle coabitative all’interno delle quali possono muoversi liberamente. Sette giorni prima del parto esse vengono spostate nella sala di gestazione e qui restano fino allo svezzamento. Questa è una buona prassi per garantire il benessere dell’animale e per mantenere i maialini in sicurezza evitando casi di schiacciamento accidentale da parte della scrofa. In basso: tutti i suinetti sono codificati con auricolare a tutela della loro tracciabilità lungo l’intero processo del programma di allevamento. Dalla nascita fino alla macellazione non viene loro somministrato alcun tipo di antibiotico né ormone della crescita né sostanza steroide attraverso il mangime, l’acqua o per iniezione. DANAK, che a sua volta abilita i vari enti che hanno il compito di vigilare su tutta la filiera, dall’allevamento alla macellazione.

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Suino naturale o bio Che differenza c’è tra una carne biologica e la linea All Natural Pork? «Nel biologico tutta la filiera deve

Danish Crown (Switzerland) SA Pork Division Chiasso (CH) Telefono: +41 91 6951840 >> Link: www.danishcrown.dk

Danish Crown sarà presente a Tuttofood 2017, Milano 8-11 maggio Pad. 2, Stand E7-F10

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VION Food Group Waldkraiburg, tecnologia e tanto cuore Alla scoperta dello stabilimento di macellazione e disosso di VION Food Group in Baviera, dedicato al 100% ai bovini locali di razza Simmental. Dotato di tecnologie e impianti all’avanguardia, qui la modernità delle attrezzature si sposa alla tradizione di un prodotto allevato e trasformato con passione di Elena Benedetti

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i può coniugare una complessa strategia di business consona ad un grande Gruppo, terzo in Europa con 11.000 dipendenti e un fatturato di 4,6 miliardi di euro, ad una visione che resta ben salda nel fare le cose con una cura e un’attenzione che rimandano ad una professionalità artigianale? La

risposta è VION Food Group, oggi strutturato in tre divisioni (Beef, Pork e Food Service) con all’attivo 25 stabilimenti tra Germania e Olanda. Nel comparto delle carni bovine il Gruppo mantiene salda la leadership nei due mercati interni, con 6 macelli e 12 impianti di disosso e lavorazione delle carni in Olanda e Germania,

per un totale di 17.400 capi bovini lavorati su base settimanale che equivalgono a 5.000 tonnellate di carne prodotte alla settimana. Numeri importanti, che qui in Baviera attestano un management focalizzato a generare profitto con una struttura produttiva totalmente rinnovata ed efficiente ed un’idea

Nella foto il direttore dello stabilimento VION di Waldkraiburg Klaus Erber seleziona delle mezzene di Simmental per i mercati esteri (photo © VION Food Group). 48

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Tutti i numeri di VION Food Group VION Holding N.V. è produttore leader di carne con all’attivo 25 stabilimenti tra Olanda e Germania, 17 uffici commerciali nel mondo, oltre 11.000 dipendenti, una produzione settimanale di 303.000 capi suini e 17.400 bovini e la leadership di mercato nei mercati interni tedesco e olandese. Nel 2015, VION Food Group ha realizzato un fatturato di 4,6 miliardi di euro, che ha portato il Gruppo ad attestarsi tra le prime 30 aziende mondiali del food. Il Gruppo VION oggi conta un’organizzazione più snella, con tre divisioni: Beef, Pork e Food Service. Ogni divisione ha un management direttivo. >> Link: www.vionfoodgroup.com

di business che porta il focus su un prodotto regionale, la pregiata razza SIMMENTAL, tradizionalmente allevata nella Germania meridionale. Siamo andati a scoprire le novità dell’offerta di manzo bavarese e abbiamo constatato che l’attenzione di VION è concentrata su tre concetti: innanzitutto, la regionalità del prodotto, quindi il legame diretto con un territorio nel quale l’allevamento di vitelloni, scottone e vacche Simmental è radicato nel DNA dei suoi piccoli e medi allevatori per dimensione di stalla. C’è poi la sicurezza alimentare, garantita da uno standard tecnologico avanzato e da numerose certificazioni di qualità.

Non ultimo, il tema della sostenibilità, qui incentrato sul benessere animale, che, per esempio, ha fatto da driver nella definizione degli spazi di sosta del vivo (spazio, luce, percorsi) con l’adozione delle linee guida redatte dalla professoressa statunitense TEMPLE GRANDIN della Colorado State University. Abbiamo incontrato WILLI HABRES, direttore vendite e trade marketing Beef VION Food Group, e ANTON JANSSEN, country manager Italia a Chiasso, insieme al loro staff vendite e marketing, tra cui Rainer Hartmann, sales manager, nell’impianto di VION Waldkraiburg. Col suo direttore KLAUS ERBER, siamo poi andati a

visitare le sale di disosso, le celle di raffreddamento e il confezionamento. VION Waldkraiburg, tecnologia e professionalità per un manzo su misura Lo stabilimento di Waldkraiburg è ubicato strategicamente al centro dell’area a maggiore densità di allevamenti della Baviera. La capacità di macellazione è pari a 6.000 capi/settimana, con un disosso che raggiunge abitualmente le 2.000 tonnellate/settimana e una quota di export che è pari al 31%. La produzione oggi è ripartita tra un 42% di vitelloni, il 23% di scottone e il restante 35% di vacche.

A sinistra Anton Janssen, country manager Italia di VION Chiasso, e il plant manager di VION Waldkraiburg Klaus Erber (photo © Eurocarni). Eurocarni, 4/17

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Le pregiate carni 100% Simmental lavorate a VION Waldkraiburg, confezionate sottovuoto e perfette per le lunghe frollature negli stabilimenti VION Hilden e VION Buchloe (photo © VION Food Group). L’ubicazione dell’impianto, che nell’ultimo anno e mezzo è stato oggetto di un rinnovamento tecnologico costato oltre 20 milioni di euro, è a dir poco strategica, data la vicinanza degli allevamenti che con-

feriscono i capi. I manzi macellati qui provengono da piccole e medie aziende agricole a conduzione famigliare che distano meno di 150 km dallo stabilimento. Va da sé che il breve transito che compie il vivo si

rifletta sul benessere dell’animale e su una migliore qualità della carne. Gli allevatori appartengono tutti a 3 cooperative che, in peso pressoché identico, conferiscono gli animali. La gestione snella e semplificata

Simmental, alle origine di una razza È da sempre una delle razze bovine più pregiate e vocate alla produzione di carne nel mondo, che storicamente con la sua genetica ha contribuito alla creazione di numerose altre razze europee. Apprezzata per la crescita rapida dei vitelli, se ben alimentati, la razza Simmental presenta un rendimento combinato di crescita allo svezzamento e produzione di latte maggiore di qualsiasi altra razza. Questo bovino risponde in pieno ai requisiti dell'animale da carne con una buona stazza, una costituzione robusta, uno sviluppo delle masse muscolari e al conseguente ottenimento di tagli pregiati). La Simmental nasce da un incrocio genetico fra gli animali locali e una razza svedese e di recente ha subito una selezione genetica per favorire la produzione del latte tanto quanto quella della carne. Sono bestie grandi dal manto marrone-rossiccio, testa bianca e ampie pezzature bianche in corrispondenza degli arti. L’origine risale addirittura al V secolo, prima delle contaminazioni scandinave, ma la diffusione è stata inesorabile e la sua variante italiana, che è stata a lungo chiamata Pezzata Rossa, ha avuto inizio in Friuli per poi diffondersi fino al riconoscimento di un’associazione dall’acronimo ANAPRI–Associazione Nazionale Allevatori Razza Pezzata Rossa Italiana (sito ufficiale www.anapri.it). In Baviera la diffusione di questa razza è datata intorno al 1837, in particolare nelle località di Miesbach e Bayreuth. Il primo allevatore fu Max Obermayer di Gmund am Tegernsee che acquistò i bovini nell’Oberland bernese e li trasportò fino a Miesbach percorrendo circa 400 km a piedi. Si narra che per ben 90 volte Max Obermayer fece questo tragitto, creando così il primo allevamento dei bovini Simmental in terra tedesca. Nel giro di pochi anni questa razza attirò le attenzioni di molti allevatori e della nobiltà terriera, tra cui quella di Otto von Bismarck che ordinò diversi bovini Simmental per l suoi allevamenti. Nel 1892 fu fondata l’Associazione degli allevatori bavaresi delle mucche pezzate alpine di Miesbach, l’associazione bavarese più antica, che ancora oggi continua ad Festa tradizionale in Baviera con bovini di razza Simmental (photo © Mumpitz – Fotolia). allevare i bovini Simmental.

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Trasparenza, la risposta di VION Food Group agli attacchi sulla carne Tra le strategie del Gruppo VION ce n’è una che ha un qualcosa di rivoluzionario: la trasparenza. In un’industria che, per tipologia di lavorazione e cultura di business, ha sempre avuto difficoltà a condividere con l’esterno i propri punti di forza soprattutto in materia di tecnologia e professionalità nella lavorazione, la trasparenza è un obiettivo importante. Ai tanti promotori della dieta senza proteine animali che accusano di crudeltà l’industria per il sacrificio degli animali e che fomentano il consumatore con pubblicità e messaggi destabilizzanti — e in Germania sono all’attivo parecchi movimenti veramente agguerriti su tale fronte — il top management di VION Food Group ha preso posizione rispondendo in un solo modo: spalancando le porte di tutti i propri impianti di lavorazione. Cosa significa quindi trasparenza? «Significa che il consumatore può vedere la produzione nel macello, leggere tutti gli audit, che sono pubblicati sul sito web dedicato, anche quelli che registrano qualche problema da sistemare» mi dice Willi Habres. «Alla pubblicità negativa di una parte della stampa e dei gruppi animalisti e vegan che infangano il settore con allarmismi e propaganda anti carne noi abbiamo deciso di rispondere spalancando le nostre porte, condividendo con i consumatori il nostro modo di lavorare e la nostra professionalità. Ci rendiamo conto che questa strategia, che abbiamo iniziato a perseguire da qualche mese, è totalmente contro corrente ma per noi è vincente. E ha già iniziato a dare feedback positivi». >> Link: www.vion-transparenz.de

Il bollo CE che identifica lo stabilimento VION Waldkraiburg è DE BY 10504 EG. L’impianto, che oggi occupa 152 dipendenti a tempo pieno e 357 esterni, gode di numerose certificazioni di qualità, tra cui QS, GQ, IFS, ISP, Bio, l’Indicazione Geografica Protetta IGP e Orgainvent (photo © Eurocarni). Eurocarni, 4/17

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Waldkraiburg si trova a sud-est della Baviera, uno dei sedici Länder della Germania, tra i più importanti nella zootecnia e produzione di carne di qualità. A destra un’immagine aerea dello stabilimento di macellazione e disosso VION Waldkraiburg, che negli ultimi 15 mesi è stato oggetto di un totale riammodernamento tecnologico costato oltre 20 milioni di euro (photo © VION Food Group). dell’approvvigionamento del vivo attraverso queste cooperative favorisce lo sviluppo di programmi di qualità, audit e controlli presso l’allevatore e un approccio decisamente collaborativo tra VION e i propri fornitori bavaresi. Nel corso degli ultimi 5 anni la macellazione dei capi a Waldkraiburg è più che raddoppiata, passando dalle quasi 112.000 unità annue (con una media settimanale di 2.100 capi) alle 232.000 del 2017 (pari a quasi 4.500 capi a settimana). La razza lavorata in questo impianto è 100% Simmental, caratterizzata da carni gustose e marezzate, ideali per lunghe frollature. La regionalità, come abbiamo scritto, è un tema importante per VION Food Group, che in questo modo rinsalda i legami con una razza da carne e da latte tradizionalmente e ampiamente diffusa in questa regione, garantendo al contempo un prodotto omogeneo e qualitativamente elevato, in grado di soddisfare ogni richiesta. Klaus Erber mi accompagna a visitare le celle refrigerate nelle quali sostano le mezzene e i quarti in partenza per le varie destinazioni, tra cui il mercato italiano. «L’Italia richiede carni con una buona copertura di grasso mentre il mercato spagnolo, portoghese e il sud della Francia richiedono animali con una massa grassa molto più accentuata». Nell’impianto ogni pezzatura è 52

tracciata con un chip collocato nel gancio di sospensione e nelle etichette posizionate sulla carne, nelle quali compare anche un QR code, il codice a barre bidimensionale che si può facilmente leggere con uno smartphone o lettore digitale e il cui vantaggio è quello di memorizzare un gran numero di informazioni. Erber ha maturato un’esperienza trentennale all’interno di questo stabilimento e conosce perfettamente gusti e preferenze della clientela sparsa in tutto il mondo. «Ogni mercato ha esigenze diverse, tradizioni culinarie proprie che necessitano di tagli e di un bilanciamento di massa magra e grassa differenti» mi dice Erber, mentre passiamo dalle scottone destinate all’Italia ai quarti per il mercato interno, alle vacche per la penisola iberica. La classificazione avviene per mezzo di un sistema di video imaging, che attraverso delle telecamere mappa la conformazione della carcassa. VION Food Group, non solo suino La quota di fatturato della Divisione Beef del Gruppo VION ammonta complessivamente a 1.700 milioni di euro, con il 72% delle vendite per il mercato interno e il restante 28% destinato all’export. Tra i vari marchi attraverso i quali viene collocata la carne sui diversi mercati Goldbeef è quello dedicato al manzo Premium, che comprende il Dry

Aged, le frollature Dry e Wet, il manzo 100% Simmental e 100% Heifer. Nel prossimo numero di EUROCARNI approfondiremo l’ampia offerta del Beef di VION Food Group. Il mercato interno delle carni Nel 2016 i consumi di carne in Germania hanno subito una lieve flessione dell’1,2%, ma se l’avicolo ha attestato un incremento dell’1,7% e il suino un calo del 3,6%, il bovino è in controtendenza dato che nell’ultimo anno è aumentato del 2,4%, a testimonianza della fidelizzazione del consumatore tedesco che non vuole rinunciare alle bistecche, al barbecue del fine settimana e ai pratici hamburger. Un dato singolare: in Germania gli acquisti di carne macinata nel 2016, che rappresentano il 23% del manzo venduto, hanno registrato un +5,9%, un incremento percentuale identico anche per le bistecche con osso. Elena Benedetti VION Food Group presenterà tutte le novità Beef & Pork al mercato italiano a Tuttofood 2017, Milano 8-11 maggio Pad. 2, Stand B25 – C28.

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MARKETING

Allevato secondo natura: il manzo irlandese racconta una storia di libertà

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a un lato la crisi dei consumi di carne, con un crollo del 13% negli ultimi 5 anni, dall’altro la richiesta di prodotti di qualità, certificati e sicuri. Da una parte un allontanamento progressivo dalla carne rossa, con una perdita di oltre il 18% a volume in un lustro per il manzo e il vitello, dall’altro l’attenzione crescente verso alimenti più sostenibili, tracciabili, lavorati secondo tradizione e circa 8 consumatori su 10 consci dell’importanza del benessere animale. Tendenze che non possono più essere ridotte a mode passeggere, ma sono da qualificare come fenomeni strutturali, che vedono un consumatore sempre più informato

e consapevole e una GDO che deve rispondere con scelte e soluzioni adeguate. Sono solo alcuni dei dati che BORD BIA – IRISH FOOD BOARD, l’ente governativo per lo sviluppo e la promozione dei prodotti alimentari, delle bevande e dell’orticoltura irlandese, ha preso in esame per condurre la recente strategia di riposizionamento del manzo irlandese sul mercato italiano. BORD BIA, grazie alle caratteristiche della carne di manzo irlandese e ad una strategia di comunicazione mirata, è entusiasta di collaborare con il mondo del trade italiano per rispondere ai bisogni dei consumatori e far crescere, insieme, il potenziale della carne rossa sul mercato.

Rivoluzione naturale Quando si parla d’Irlanda si parla di un Paese con una superficie agricola di circa 5 milioni di ettari, di cui l’81% costituito da pascolo. In questo territorio, che gode dell’influenza mitigante della corrente del Golfo e di abbondanti precipitazioni, la stagione di crescita vegetale ha una durata maggiore rispetto alla gran parte degli altri Paesi europei: solo così si spiegano i pascoli lussureggianti, elemento cardine dell’agricoltura e dell’allevamento bovino, e non solo, in Irlanda. Un’area verdeggiante sterminata che ospita 122.000 aziende agricole di piccole e medie dimensioni, in cui la persona e la fiducia reciproca

Una media di 10 mesi all’anno di pascolo, una tecnica di allevamento naturale e l’80% dell’alimentazione a erba. Con queste premesse Bord Bia presenta il nuovo posizionamento della carne di manzo irlandese in Italia: un prodotto dalla qualità premium e certificata, che si distingue anche per la sostenibilità (photo © www.irishbeef.it).

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nelle relazioni sono ancora valori importanti: l’allevamento bovino è parte della storia e del paesaggio irlandese da oltre 5.000 anni ed ha contribuito a modellare anche il tessuto politico, sociale e culturale del paese. Una tradizione che ha permesso di perfezionare le tecniche e selezionare le migliori razze per la produzione di carne. Per 10 mesi l’anno il bestiame è libero di vivere all’aria aperta, nutrendosi di erba fresca ricca di nutrienti e trifoglio: il particolare clima e una filosofia d’allevamento rispettosa dei ritmi di crescita della vegetazione e degli animali, infatti, fanno sì che l’alimentazione sia costituita per oltre l’80% da erba. I bovini irlandesi sono inoltre allevati senza l’impiego di ormoni, come previsto dalla normativa europea,

e limitando l’uso di antibiotici solo a quanto necessario. Una vera rivoluzione quella dell’allevamento bovino irlandese, se la si guarda con gli occhi dell’osservatore esterno. Perché se in Irlanda si è sempre fatto così, la rivoluzione altro non è che un processo portato avanti dagli allevatori e dalle istituzioni, dalle associazioni e da BORD BIA per migliorare ogni giorno tecniche di allevamento, sostenibilità e qualità del prodotto, nel rispetto dell’animale e delle sue libertà. Caratteristiche che si ritrovano sul banco frigo e nel banco del supermercato: una carne dal gusto caratteristico e dal colore rosso vivo, con un ridotto contenuto e una migliore distribuzione dei grassi, che la rendono tenera e versatile in cucina. A garanzia della qualità

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del prodotto e del rispetto di questi requisiti, BORD BIA è in possesso del Bord Bia Quality Assurance Scheme, programma che monitora anche l’intera tracciabilità della filiera. Una comunicazione distintiva e multicanale BORD BIA ha studiato una strategia di comunicazione che si rivolge a molteplici target e si dispiega su molteplici canali digitali e tradizionali. Uno degli obiettivi principali, oltre a quello di rafforzare la brand awareness, è quello di contribuire a creare una cultura della carne di manzo premium nel consumatore italiano. «Siamo sicuri di aver trovato un concetto che rappresenta al 100% il valore straordinario della carne di manzo irlandese» spiega NICOLAS RANNINGER, direttore di BORD BIA in Italia «Per questo riteniamo sia importante lavorare in due direzioni: da un lato consolidare la relazione con i retailer e l’HO.RE.CA., forti di analisi del mercato e delle tendenze attuali, insieme ad un prodotto straordinario, dall’altro parlando al consumatore in modo diretto, trasparente e sincero. Abbiamo pianificato diverse attività e altri progetti sono ancora in cantiere, con novità sul fronte della Meat Academy, il programma di formazione portato avanti da BORD BIA, che per lo Chefs’ Irish Beef Club, sempre pronto ad accogliere nuovi chef italiani amanti della carne irlandese».

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BENESSERE ANIMALE

Box singoli per vitelli, effetti deleteri sul comportamento Come tutte le specie sociali, quella bovina ha bisogno di un contatto precoce e duraturo con i conspecifici. L’impossibilità di vivere in un ambiente sociale complesso provoca un aumento dello stress e difficoltà ad adeguarsi alla routine di allevamento di Giulia Mauri

C

onfrontando i risultati di numerosissime e recenti indagini, i ricercatori dell’Animal Welfare Program dell’Università canadese della British Columbia, Faculty of Land and Food Systems, J.H.C. COSTA, M.A.G. VON KEYSERLINGK e D.M. WEARY ipotizzano

che la stabulazione in box singolo dei vitelli per i primi due mesi di età non porti alcun vantaggio né agli animali né all’azienda zootecnica. Nel 2016 hanno pubblicato sulla rivista JOURNAL OF DAIRY SCIENCE l’articolo “Invited review: effects of group housing of dairy calves on behaviour,

cognition, performance and health”, nel quale smontano sistematicamente le motivazioni solitamente addotte per continuare a praticare questo sistema di gestione ed evidenziano invece gli svantaggi che ne derivano. La pratica è ampiamente diffusa in Italia e in Europa perché consentita

Gli autori dello studio in esame sono arrivati alla conclusione che l’allevamento in box singolo per i vitelli ha effetti deleteri sullo sviluppo del soggetto. Questa pratica è oggi ampiamente diffusa in Italia e in Europa.

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I benefici del social housing rispetto al box singolo si possono individuare sia nelle risposte comportamentali, sia in parametri fisiologici quali la liberazione di cortisolo (l’ormone dello stress), l’accrescimento ponderale, la produzione lattea, lo stato immunitario. Fra le risposte comportamentali, è possibile notare cambiamenti nella reattività all’ambiente che li circonda, nella risposta di fuga e di paura di fronte all’uomo, nella scarsa propensione ad assaggiare alimenti nuovi, a entrare in contatto con conspecifici. dalle attuali normative di tutela del benessere animale. Però… Però ci sono pochi dubbi riguardo al fatto che l’isolamento stretto nei confronti dei conspecifici vissuto dai vitelli di due mesi di età possa essere definito “isolamento sociale”. Non esiste un’unica definizione per il termine “isolamento sociale”: secondo alcuni può essere definito tale solo il completo isolamento per periodi estesi, mentre per altri autori sono sufficienti due ore al giorno durante la seconda settimana di vita. Infatti, nel 1977 GOTTMAN definì questa situazione come “un’assenza o una bassa frequenza di interazioni fra pari durante un periodo esteso di tempo”; intesa in questi termini, la stabulazione in box singolo nei primi due mesi di vita rientra senza dubbio nella definizione di “isolamento sociale”. Ed è possibile che questo isolamento comporti importanti effetti deleteri sullo sviluppo cognitivo

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del vitello, proprio come accade in altre specie. L’isolamento sociale ha effetti per tutta la vita Nei bambini, l’isolamento o la deprivazione sociale hanno gravi conseguenze comportamentali per tutta la vita del soggetto, compresa la fase adulta. Si riscontrano anche evidenze di effetti a lungo termine quali alterazioni neuroendocrine, neurologiche e immunologiche. L’isolamento è inteso sia come separazione dalla madre, sia come mancanza di interazione fra conspecifici in età precoce. Sono numerose anche le ricerche degli effetti dell’isolamento sociale condotte sugli animali, soprattutto primati, topi, ratti e suini. Anche in queste specie, soggetti isolati socialmente da giovanissimi manifestano alterazioni del comportamento in fase adulta, quali incapacità di espletare le cure

materne, aumento dell’aggressività, bassa posizione sociale all’interno del gruppo. Nei macachi, la separazione dalla madre provoca la manifestazione di comportamenti sociali scorretti e indesiderati in età adulta, quali ad esempio iperattività e aumento di sensibilità allo stress. Mentre la separazione parziale o totale dalla madre in topi, ratti e suini provoca alterazioni comportamentali che si conservano nel lungo periodo, con modificazioni delle reazioni emotive, delle funzioni cognitive, delle risposte fisiologiche nel loro insieme, comprese le risposte allo stress. Ormai è completamente assodato che l’esperienza sociale fornita dai rapporti con la madre e con i conspecifici in età infantile sia indispensabile perché i soggetti appartenenti a specie sociali abbiano uno sviluppo normale. In sostanza, le ricerche su diverse specie — anche zootecniche — dimostrano che l’isolamento sociale è associato a

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comportamenti anormali e problemi di sviluppo; «di conseguenza, è ragionevole prevedere che simili effetti esistano anche nella specie bovina», hanno affermato i ricercatori. Il problema non è da poco: infatti si sa che i bovini stressati sono meno produttivi. Il bisogno di socialità nei vitelli Quando sono stabulati separati dalla vacca, ad appena due giorni di vita i vitelli cercano già di interagire con i conspecifici, qualora questo sia possibile (DUVE e JENSEN, 2012). Sebbene si sia visto che i vitelli allevati in gruppo fin dalla nascita e per le prime otto settimane di vita trascorrano solo il 2% del loro tempo in contatto sociale (e proprio questo misero 2% ha giustificato finora la possibilità di mantenere i vitelli isolati nei primi due mesi di vita), si è anche potuto osservare come i vitelli siano fortemente motivati a creare un contatto con i loro coetanei. Ad esempio, due vitelli separati da una barriera interagiscono per quanto sia loro reso possibile dall’ostacolo e si impegnano per cercare di superare la barriera e raggiungere così la possibilità di un contatto completo con l’altro vitello (HOLM et al., 2002). D’altronde, vi è la prova che i vitelli siano perfettamente in grado di creare fin dalla tenera età un legame sociale: i giovani vitelli allevati in gruppo dalla nascita, durante i choice test, mostrano una spiccata preferenza per i vitelli del loro gruppo; se posti di fronte alla scelta fra avvicinarsi a un vitello sconosciuto o ad uno del gruppo, optano per il secondo. Ma non è tutto: i legami sociali creatisi fra vitelli durano a lungo e si possono individuare anche a distanza di molto tempo. Ricchezza dell’ambiente sociale e capacità di risposta Gli articoli che affrontano la relazione fra ambiente sociale in cui un animale è cresciuto e suoi comportamenti sono numerosi e tutti indicano che, rispetto a quelli allevati in box singolo, i vitelli allevati con social housing sono meno timorosi e manifestano un compor-

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tamento dominante sui compagni quando, nelle fasi successive della vita, vengono rimescolati in nuovi gruppi. Analizzando più approfonditamente i risultati dei numerosissimi studi considerati, come hanno fatto gli autori della review pubblicata sul JOURNAL OF DAIRY SCIENCE, emerge che vi sono più fattori che influenzano lo sviluppo del comportamento sociale: l’età del primo contatto con conspecifici e la qualità di questo primo contatto. Con qualità del primo contatto, infatti, si può distinguere fra animali che hanno potuto beneficiare di un contatto solo visivo oppure solo uditivo e vitelli che invece hanno avuto la possibilità di entrare completamente in contatto con gli altri vitelli perché allevati nello stesso recinto. Questi ultimi soggetti creavano un legame più solido con i compagni rispetto agli altri vitelli. Gli animali isolati o con la possibilità di avere solo minimi contatti manifestavano più timore. Per quanto riguarda l’età, gli studi confrontavano i risultati di vitelli appena nati, oppure di 3 settimane di vita, senza registrare grandi differenze. Dunque, gli autori concludono che è importante fornire un contatto sociale completo (fisico, e non solo uditivo o visivo) con gli altri vitelli fin dalla più tenera età. La mitigazione sociale sui fattori di stress Con supporto sociale si intende l’insieme degli effetti benefici dati dalla presenza di un conspecifico, senza tenere conto del fatto che l’animale sia sottoposto o meno a test. Con mitigazione sociale si intende la capacità che hanno i compagni sociali di ridurre gli effetti degli stimoli e delle situazioni stressanti durante un test. La mitigazione sociale è stata dimostrata esistere negli umani, nei ratti, nei porcellini d’India, nei suini e in altri animali da reddito. Si sa che nei bovini la mitigazione sociale consente di ammorbidire le reazioni comportamentali in caso di separazione sociale. Ad esempio, si ritiene che quanto più il vitello muggisca in un nuovo contesto, tanto più sia stressato da questa

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La prematura separazione dalla madre provoca effetti deleteri anche in specie precoci come quella ovina: per esempio, l’allattamento artificiale negli agnelli è stato associato ad effetti negativi sul comportamento. Non solo: gli agnelli manifestano una risposta endocrina e immunitaria diversa rispetto a quella data dagli agnelli allevati dalla madre. novità. FAEREVIK et al. (2006) hanno notato che un vitello posto in un nuovo recinto muggisce meno se è in compagnia di un altro vitello che conosce, di più se anche il suo compagno è uno sconosciuto. Ma gli autori dell’articolo hanno individuato studi in cui la mitigazione sociale è efficace anche in risposta a situazioni stressanti di natura non sociale. Ad esempio al momento dello svezzamento: di fronte allo stress del cambio di alimentazione muggiscono con più veemenza i vitelli

allevati in box singolo. Gli animali da reddito, comprese le bovine da latte, sono frequentemente esposti a cambiamenti, quali il cambio di dieta, lo spostamento di recinto, la riorganizzazione dei gruppi di animali e le modifiche nei contatti con l’uomo (si pensi alla fecondazione, alla diagnosi di gravidanza e alla mungitura). Dunque, la capacità di affrontare le situazioni nuove e i cambiamenti in generale senza subire un eccessivo stress è una qualità rilevante per gli animali da reddito,

un parametro zootecnico con effetti concreti sulla vita dell’allevamento. Gli animali allevati in box singolo mostrano una maggiore reattività alle novità presenti nell’ambiente rispetto a quelli in grado di intessere relazioni sociali fin dalla tenera età. Ad esempio, rispetto a quelli meglio socializzati, i soggetti isolati si spaventano di più di fronte allo stesso stimolo e sviluppano comportamenti orali autodiretti, ovvero le temute stereotipie, manifestazioni comportamentali di un grande disagio. Per contro, contatti sociali precoci riducono i parametri comportamentali e fisiologici legati alla reazione a novità presenti nell’ambiente. I vitelli che hanno goduto del contatto sociale mostrano ridotte reazioni alla costrizione indotta dalle operazioni di allevamento, giocano di più al momento del pasto di latte e ottengono maggiori successi nelle competizioni con gli altri bovini nel periodo post-svezzamento. Presentano anche una minore reattività della corticale del surrene allo stress. I vitelli allevati in coppie o in piccolo gruppi mostrano minore frequenza cardiaca quando vengono posti in un recinto insieme a un vitello sconosciuto; inoltre, se vengono posti in questa situazione dopo il pasto, si mostrano più propensi ad avvicinare il vitello e meno timorosi. Infine, e non è affatto da poco, i

Effetti dell’isolamento sociale in suini e ovini In relazione alla mole di ricerche sull’isolamento sociale nei classici animali da laboratorio, quelle condotte sugli animali da reddito non sono numerose, ma i risultati sono sempre in linea con quelli ottenuti negli studi su ratti e topi. Ad esempio, suinetti svezzati precocemente mostrano di abituarsi con maggiore lentezza a un nuovo ambiente e utilizzano più spesso la risposta di fuga. Inoltre interagiscono meno frequentemente con gli altri suinetti e spendono meno tempo ad alimentarsi rispetto ai suinetti coetanei svezzati ad età più matura. Sempre nei suini, l’isolamento sociale incrementa la secrezione di ormone cortisolo in risposta allo stress: dunque allo stesso stimolo stressante, i suini socialmente deprivati rispondono con maggiori sintomi di stress. La prematura separazione dalla madre provoca effetti deleteri anche in specie precoci come quella ovina: per esempio, l’allattamento artificiale negli agnelli è stato associato ad effetti negativi sul comportamento. Non solo: gli agnelli manifestano una risposta endocrina e immunitaria diversa rispetto a quella data dagli agnelli allevati dalla madre. Confrontando il comportamento di agnelli cresciuti in un ambiente sociale complesso con quello di agnelli separati precocemente dalla madre si sono registrate numerose differenze. Gli agnelli che non hanno potuto rimanere con la madre tanto tempo quanto gli altri vocalizzano meno, sono più restii al movimento e nei test in campo presentano innalzamenti di cortisolo superiori.

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vitelli allevati in gruppo mostrano minor neofobia nei confronti di un alimento nuovo. Il legame fra isolamento e capacità di apprendimento In varie specie l’isolamento sociale nel primo periodo di vita compromette la capacità di apprendere. Questa abilità e la flessibilità del comportamento vengono spesso testate con i test di reversal learning o test “di inversione”. Uno studio di GAILLARD et al. del 2014 confronta le capacità di vitelli allevati in coppia oppure da soli: i vitelli del box singolo sbagliano di più nella fase di apprendimento a come svolgere il test, perché “hanno una flessibilità di comportamento compromessa”, ovvero non sono in grado di formulare risposte nuove, e quindi perseverano nei loro errori. In uno studio successivo, la maggior parte dei vitelli allevati in box singolo dimostra di non essere in grado di apprendere il compito da svolgere nemmeno raddoppiando le prove necessarie ai vitelli socializzati. I risultati non sono apparsi come una sorpresa per gli autori: anche in altre specie si sa che i soggetti isolati non apprendono velocemente quanto gli altri. Perché l’isolamento comporta un deficit cognitivo, associato a sviluppo e plasticità cerebrali ridotti. In realtà, la complessità dell’ambiente sociale in cui devono vivere i vitelli giovanissimi per riuscire a trarne beneficio non è elevata. Infatti, per MEAGHER et al. (2015) non c’è una grande differenza nei risultati del test fra i vitelli allevati in un ambiente sociale complesso, in cui hanno contatti con la propria madre, altre vacche e coetanei, e i vitelli che più semplicemente vengono allevati a coppie. Gli autori concludono che, analogamente ad altre specie, anche i vitelli allevati in isolamento presentano deficienze nelle esperienze sociali, difficoltà nel fronteggiare le situazioni nuove e scarse abilità di apprendere. Tutto ciò può ridurre l’abilità dell’animale ad affrontare i cambiamenti ambientali tipicamente presenti nell’allevamento.

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Conseguenze di lunga durata La comunità scientifica ritiene ampiamente che la capacità di adottare un comportamento flessibile dipenda dall’esposizione a un ambiente complesso e vario nelle prima fasi di vita. Ecco perché sarebbe opportuno affrontare in futuro studi che definiscano con maggior precisione la durata del periodo critico per quanto riguarda la capacità sociale, in modo da riuscire a evitare gli effetti deleteri sulla flessibilità del comportamento e sulla capacità di apprendere comportamenti nuovi. Gli autori si domandano anche se sarebbe possibile mitigare gli effetti dell’isolamento sociale dai conspecifici esponendo i vitelli a un maggior contatto con la natura, con l’uomo o fornendo loro giochi. Gli effetti deleteri dell’isolamento sociale dalla nascita fino allo svezzamento pare persistano a lungo. Già nel 1989 LE NEINDRE aveva rilevato che vitelle allevate insieme a una vacca-balia dimostravano, una volta adulte, comportamenti materni più pronunciati e durante test di isolamento condotti anni dopo erano più motivate a muoversi ed esplorare il recinto. Dunque provavano meno timore di fronte a una novità. Recentemente WAGNER (2012) ha rilevato che vitelle allevate con la propria madre vivono meglio l’inserimento nel gruppo delle manze in lattazione, il che gli ha fatto ipotizzare che il social housing durante il primo periodo di vita dei vitelli possa accrescere abilità sociali utili nelle successive fasi di vita. In conclusione, gli autori affermano che l’allevamento in box singolo per i vitelli ha effetti deleteri sullo sviluppo del soggetto. Auspicano che il sistema di stabulazione adottato per gli animali dalla nascita allo svezzamento riesca ad andare incontro ai loro bisogni in termini sia di temperatura ambientale, sia di esigenze fisiche, ma anche di esigenze psicologiche e comportamentali. E, in ultima istanza, il comune ricorso al box singolo (consentito dalla normativa europea) viola almeno gli ultimi due criteri. Giulia Mauri


ASSOCIAZIONI

AproZoo, grazie presidente! Un allevatore e un cooperatore convinto, che in un periodo di sempre maggiori contrasti ha saputo tenere assieme produttori di espressione sindacale diverse: Enrico Pasquali lascia la guida della cooperativa, che gli rende omaggio

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e si va a vedere il classico “Chi siamo” sul sito www.aprozoo.it, si legge: “AproZoo viene costituita nel 1983 a Cremona, nel cuore allevatoriale della Lombardia per volontà di un piccolo gruppo di allevatori, con lo scopo principale di commercializzare direttamente il bestiame proveniente dalle stalle degli associati”. A molti anni di distanza si può dire che questa volontà si è rivelata vincente. Grazie ad un’attenta gestione economica nel rispetto dei principi cooperativi e ad un’efficiente organizzazione commerciale, la struttura si è affermata sul territorio garantendo un servizio molto apprezzato dagli allevatori. AproZoo rappresenta trasversalmente tutto il panorama allevatoriale della provincia di Cremona e di un’ampia area limitrofa, senza distinzione alcuna di appartenenza sindacale né di dimensione aziendale, con lo scopo principale di mettere al centro dell’attenzione la “persona allevatore” con le sue esigenze e i suoi problemi. Evidentemente c’era spazio, in una zona, quella cremonese, dove la produzione di latte è al centro del settore primario locale, per una struttura che valorizzasse i vitelli baliotti e soprattutto le cosiddette “vacche a fine carriera”. Una definizione, quest’ultima, che deriva da una visione “lattocentrica” che non esaurisce una destinazione ancora economicamente importante del capo che esce dalla stalla: la macellazione per trarne carne. E così, dopo oltre trent’anni, AproZoo è andata crescendo, senza troppi clamori, arrivando oggi a commercializzare oltre 16.000 capi bovini all’anno,

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raggiungendo un fatturato che sfiora i 6 milioni di euro e dando lavoro a 10 dipendenti. Tutto ciò è ovviamente frutto di una squadra di persone, ma molto lo si deve a chi questa cooperativa l’ha guidata negli ultimi 25 anni: il presidente ENRICO PASQUALI. Un allevatore e un cooperatore convinto, che in un periodo di sempre maggiori contrasti ha saputo tenere assieme produttori di espressione sindacale, oltre che dimensioni e strutture aziendali, diverse. La sua forza è stata quella di lasciar fuori dalla cooperativa ogni aspetto inutilmente “politico” e di indirizzare tutti gli sforzi verso l’obiettivo comune, mettendo in primo piano l’allevatore, le sue esigenze e la sua difficile attività. Da un paio di anni, la cooperativa ha voluto aprirsi all’esterno e, sempre grazie alla determinazione unita alla ponderazione di Pasquali e dell’intero consiglio, è iniziata la pubblicazione di io allevo, un mensile di informazione dedicato ai soci; oltre allo sbarco sul web con un sito tutto nuovo. Sempre in quest’ottica di espansione economica e di allargamento degli orizzonti, consiglio e presidente hanno voluto attivare un progetto innovativo: creare un marchio per la carne tipica del cremonese. Anche in questo caso la tenacia di Enrico Pasquali è stata premiata: da pochissimo AproZoo ha registrato il marchio “CQC Carne Qualità Cremona”. Tra tutte le stalle dei soci sono stati selezionati gli animali migliori, quelli che per caratteristiche si distinguono dalla solita linea latte. Questi capi vengono ingrassati per produrre carne commercializzata attraverso punti

Enrico Pasquali. vendita a Cremona, e soprattutto per il mezzo di una rete di ristoratori cremonesi. Per la carne CQC, AproZoo ha elaborato un disciplinare produttivo che parte dalla massima attenzione al benessere animale e arriva al divieto assoluto di utilizzare prodotti che ne accelerino la crescita; rispettando i tempi della natura e utilizzando alimenti sani, genuini e provenienti dal territorio. Ne esce una sorta di patto con il consumatore, che può avere carne di qualità davvero a chilometro zero. Ora, al termine del ventiseiesimo esercizio consecutivo, con un utile di bilancio da ripartire tra i soci, Enrico Pasquali lascia a 71 anni la guida della cooperativa. Questo articolo (scritto a sua insaputa) è un omaggio che AproZoo ha voluto fargli, per ringraziare la persona prima ancora che il presidente. >> Link: www.aprozoo.it

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SOSTENIBILITÀ

Elogio e futuro dei ruminanti I ruminanti sono spesso ingiustamente criminalizzati di sottrarre cibo all’uomo e di inquinare, dimenticando come sono allevati dalle diverse culture umane e che per molte di esse sono determinanti per la sussistenza di Giovanni Ballarini

A

d Aisha, una donna del Niger, paese di povertà e fame — come racconta MARTIN CAPARRÒS nel libro “La fame” (Einaudi, 2016) — viene chiesto cosa desidererebbe avere, e questa risponde: “Una vacca. Anzi due vacche: con una ci sfameremmo noi, con

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l’altra produrrei cose da vendere e non avrei fame mai più”. Una risposta a prima vista stupefacente perché spesso le vacche, come altri ruminanti, sono accusate di essere animali inquinanti, con produzioni di carne e latte tra le meno efficienti. Chi ha ragione? La donna nigeriana

o gli ambientalisti ed ecologisti dei paesi industrializzati che nell’allevamento bovino vedono una delle cause della fame del mondo? Ruminanti animali mondiali I ruminanti sono tra le specie più numerose (circa centosettanta)

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Coltivatore in un campo di riso a Guangxi, in Cina. La flora microbiologica del rumine deriva dall’ambiente, soprattutto da quella presente nello strato vivo del terreno, l’humus, che l’animale assume attraverso le erbe e i foraggi (photo © Delphotostock). sulle circa cinquemila specie di mammiferi e sono diffusi in ogni ambiente. Diverse specie di ruminanti di grande e piccola taglia sono state addomesticate e adottate da tutte le grandi culture antiche, soprattutto dalle popolazioni più povere, divenendo determinanti per la loro sussistenza. Animali che ruminano sono le renne delle tundre del più freddo e desolato settentrione, così come i cammelli e i dromedari dei deserti assolati e aridi, le pecore e le capre dei magri pascoli alpini, le bufale delle pianure acquitrinose e delle risaie asiatiche, i bovini da lavoro del Vecchio Mondo, i lama, alpaca, vigogna e guanaco degli alti pianori delle Ande del Nuovo Mondo e i bisonti, che davano cibo agli indiani delle pianure americane. Tutti questi ruminanti sono divenuti la condizione indispensabile della sopravvivenza umana anche in ambienti estremi. Non è un caso che, quando si vollero sterminare gli indiani d’America, BUFFALO BILL lo fece distruggendo il loro patrimonio

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di bisonti, impropriamente denominati “bufali”. In tutto il mondo i bovini domestici sono un milione e trecentomila, due miliardi e settecentomila gli ovini e caprini, senza contare i bufali, i camelidi e le renne. Circa un quarto della superficie terrestre è occupato, direttamente o indirettamente, da bovini che producono latte e carne, con una superficie che riguarda per il 43% l’America, per il 17% l’Europa occidentale e per il 18% la Russia. Una nutrizione particolare Il motivo del singolare successo dei ruminanti risiede nel fatto che questi animali possono nutrirsi di quello che l’uomo non può mangiare, quindi non sono competitivi ma complementari alla società umana. Distinguendo tra alimentazione (ciò che è mangiato) e nutrizione (ciò che è assorbito e usato come nutrimento), bisogna precisare che gli animali che ruminano non si nutrono di ciò che mangiano, ma di ciò che è prodotto dalle fermen-

tazioni microbiche che si compiono nei loro prestomaci, dove, in un ambiente anaerobio, vive una straordinaria popolazione di batteri, miceti e protozoi che elaborano e trasformano quanto mangiato dall’animale. L’alimento ingerito dal ruminante, per la maggior parte costituto da cellulosa, amido, sostanze pectiche, emicellulosa, disaccaridi e zuccheri semplici, azoto inorganico (urea e acido urico), atmosferico — in modo analogo a quanto avviene nei suoli, soprattutto in quelli nei quali crescono le leguminose — e minerali, nel complesso reticolo-ruminale subisce complesse fermentazioni che portano alla produzione di acidi grassi volatili ricchi di energia e di proteine. Ad esempio, nel rumine di un grosso ruminante si produce giornalmente quasi un chilo di proteina batterica e protozoaria di buona qualità, oltre a molecole strategiche, come le vitamine B, assimilate come nutrimento dall’animale, direttamente o previa digestione intestinale.

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Villaggio Himba vicino all’Etosha National Park in Namibia, in Africa (photo © ah_fotobox). Dalle fermentazioni pregastriche dei ruminanti si originano anche gas, soprattutto anidride carbonica, metano e idrogeno molecolare, che sono eruttati. Per questo, in un giorno, un bovino di grande taglia può arrivare a produrne seicento e anche mille litri. Inoltre si producono deiezioni, che costituiscono un ottimo concime, e ciò contribuisce a spiegare il successo di questi animali che, se ben condotti, sono capaci di migliorare anche i

Il motivo del singolare successo dei ruminanti risiede nel fatto che questi animali possono nutrirsi di quello che l’uomo non può mangiare; quindi non sono competitivi, ma complementari, alla società umana

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pascoli arricchendoli di azoto. Le fermentazioni sono operate da tre gruppi di microrganismi (batteri, protozoi e muffe) e, a metà del secolo XX, hanno permesso al premio Nobel finlandese ARTTURI VIRTANEN di mantenere tre generazioni di mucche, con la produzione di una decina di litri di latte, alimentandole esclusivamente con la carta di elenchi telefonici, urea e sali minerali. Efficienza alimentare Una critica spesso rivolta ai ruminanti è che hanno una scarsa capacità di trasformazione alimentare, che viene espressa come ICA (Indice di Conversione Alimentare). In parole povere si dice che, se oggi, per produrre un chilo di carne, un pollo ha bisogno di circa due chilogrammi di mangime e un maiale di circa tre chilogrammi, un bovino ne richiede ben di più, da cinque fino a dieci chilogrammi. Il motivo di questa scarsa efficienza dei ruminanti sta nelle fermentazioni ruminali, ma è un’efficienza solo apparentemente

bassa, perché non si tiene conto della qualità dell’alimento ingerito e soprattutto del suo grado di competizione con l’alimentazione umana. Nelle condizioni in cui operava il premio Nobel Virtanen, ad esempio, dove si può ritenere vi fosse un ICA di circa dieci, la scarsa efficienza veniva ampiamente compensata dalla creazione di nuovo cibo per l’uomo, che non si può certo nutrire di carta e urea! Successo ambientale Un altro elemento del successo dei ruminanti risiede nel loro differente modo di alimentarsi, che permette un completo utilizzo del territorio. Nei climi temperati i grossi ruminanti (bovini per primi) si nutrono falciando con la lingua le erbe delle praterie o dei pascoli senza arrivare raso-terra; poi arrivano le pecore che brucano quanto ancora spunta dal terreno, mentre le capre si alimentano con le foglie e i virgulti trascurati dai precedenti animali. Nei climi freddi le renne mangiano

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Alpaca del Lago Titicaca (photo © izzog). prevalentemente i licheni, foglie e funghi, anche velenosi per altri animali e per l’uomo, mentre nei climi caldi e aridi i camelidi si alimentano di arbusti secchi, piante coriacee e salate, immangiabili per altri animali. Complementari sono le produzioni dei ruminanti: i bovini danno carne e latte (un tempo fornivano prevalentemente lavoro), le pecore danno soprattutto lana ma poco latte, mentre le capre producono più latte e meno carne. Allo stesso modo le bufale offrono lavoro nelle risaie e producono poco latte, i camelidi servono per i trasporti e danno latte, mentre i ruminanti andini sono soprattutto animali da soma e forniscono lana di pregio. Per tutte queste caratteristiche i Romani giudicavano l’allevamento dei ruminanti al pascolo, attraverso il quale gli animali assumevano il cibo, il sistema più redditizio di utilizzo di un territorio, ben più dell’agricoltura. È MARCO TULLIO CICERONE che riferisce come CATONE IL

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VECCHIO, quando gli fu chiesto quale fosse il miglior modo di amministrare i beni familiari, rispondesse “bene pascere”, ponendo solo in quarta e ultima posizione di redditività l’arare, cioè coltivare la terra. Riciclatori alimentari Nel mondo i sistemi di alimentazione dei ruminanti sono molto diversi. Per i bovini, se in America meridionale prevale un’alimentazione al pascolo, in quella settentrionale, come in parte dell’Europa, prevale un’alimentazione intensiva con l’uso di cereali (soprattutto mais) e leguminose (in prevalenza soia), quindi competitiva con la nutrizione umana. Indubbiamente — e tutta la loro storia lo dimostra — quello dei ruminanti domestici (e tra essi i bovini) è un allevamento sostenibile se gli animali sono alimentati con quanto non utilizzabile dall’uomo, ma cessa di essere tale quando, in diversa misura, sono alimentati con cereali o leguminose che l’uomo può usare per la sua nutrizione. Un

fenomeno analogo all’uso dei cereali per la produzione dell’alcol che diviene benzina verde, o della soia il cui olio è trasformato in biodiesel. Sullo stesso piano, in conseguenza di periodi di grandi disponibilità alimentari, sono da considerare le tecniche per trasformare (almeno in parte) i ruminanti in “non ruminanti”, come l’anormale prolungamento della vita dei vitelli con un’alimentazione non ruminale, o le alimentazioni dei ruminanti con cibi trattati in modo da superare le fermentazioni ruminali (alimenti by-pass). Alimentare un ruminante con quanto può essere usato come nutrimento umano, se non un controsenso, è almeno uno spreco che già oggi, ma soprattutto nel futuro, dovrà essere limitato, se non abolito, mantenendo i ruminanti con un’alimentazione fermentativa che permetta il riuso o il riciclo di alimenti non utilizzabili per l’uomo, di cui le vacche di Virtanen sono un bell’esempio.

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Sostenibilità ambientale La sostenibilità ambientale degli allevamenti di ruminanti va correlata alle condizioni ambientali, non dimenticando la capacità che questi animali hanno di migliorare le caratteristiche dei terreni e le loro capacità trofiche. È tuttavia ovvio che queste proprietà, utili in terreni poveri, se applicate a terreni già di per sé ricchi di acque, rendono inevitabile una loro eutrofizzazione, troppo sbrigativamente definita inquinamento, ma dovuta solo a un’intensificazione e concentrazione degli allevamenti non adatti al territorio. Altri errori di valutazione e comunicazione, non di rado chiaramente strumentali, si compiono

per esempio quando si dice che per produrre un chilo di carne bovina si “consumano” tot litri d’acqua. Basta considerare la pioggia che cade e irriga la prateria: che vi siano o no bovini al pascolo è assolutamente ininfluente su un ipotizzato “consumo” d’acqua! Anche quando si afferma che i bovini inquinano l’aria producendo gas serra, non si dice che, se sul terreno non vi fossero questi animali, i vegetali che arrivano a fine ciclo produrrebbero spontaneamente gas analoghi, così come le termiti che degradano le cellulose! Tutte accuse, queste, che non riguardano tanto i ruminanti o i bovini in sé, quanto il modo in cui la nostra civiltà industriale e tecnologica impiega questi animali.

Futuro Attualmente siamo in possesso di molte, preziose conoscenze sui ruminanti; abbiamo però dimenticato importanti norme riguardanti un loro impiego, ben note nel passato, raccolte e conservate nelle tradizioni, ancora oggi presenti in molte popolazioni che ingiustamente riteniamo primitive. Una saggia unione delle moderne conoscenze con i saperi tradizionali permette di concludere che i ruminanti hanno convissuto con la nostra specie fin dalla scoperta dell’agricoltura e dell’allevamento e continueranno a farlo anche nel futuro. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

Agnello di Sardegna IGP: boom di certificazioni nel 2016 Il trend di crescita si conferma positivo: gli agnelli sardi certificati con il marchio Igp fanno un ulteriore balzo in avanti nell’anno appena trascorso, aumentando di 105.000 rispetto al 2015 (+16%) e raggiungendo quota 755.000. Numeri importanti, che consentono da una parte di tutelare il lavoro dei pastori e, dall’altra, i consumatori, che possono scegliere consapevolmente il prodotto grazie ad un’etichetta trasparente che permettere di riconoscere un agnello sardo nato, allevato e macellato in Sardegna da pecore di razza sarda come da disciplinare di produzione del Consorzio di tutela dell’Agnello di Sardegna IGP da uno di origine sconosciuta. I dati arrivano dagli organismi di controllo AGRIS (fino a novembre) e INEQ (da novembre a dicembre) che hanno reso noti i capi certificati. «La crescita degli agnelli marchiati Igp di Sardegna è una notizia positiva e dobbiamo puntare alla certificazione del 100% degli agnelli nati da pecore di razza sarda» ha commentato il presidente del CONTAS Battista Cualbu. «Sicuramente non siamo soddisfatti del prezzo con il quale viene pagato il pastore. Per questo come Consorzio siamo impegnati in una serie di azioni mirate a conoscere meglio il mercato. Avremo anche un agente vigilatore in pianta stabile. Per quanto riguarda la comunicazione e la promozione di prodotto, invece, parteciperemo, per la prima volta nella storia del Consorzio, ad una fiera nel mese di maggio a Milano: Tuttofood arriviamo!». L’agnello di Sardegna IGP è allevato in totale libertà, a diretto contatto con il sole, il vento e l’aria pulita. Si alimenta col latte materno nel tipo “da latte” e con gli alimenti naturali e delle essenze spontanee peculiari dei pascoli sardi. La natura della Sardegna con il suo clima la sua purezza garantisce in primo luogo la genuinità e la qualità del prodotto. Non conosce sofisticazioni, manipolazioni non subisce stress o forzature alimentari. (Fonte: www.sardegnaoggi.it)

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Passione per la carne per tradizione.


MACELLERIE D’ITALIA

Bareato: la carne si fa in famiglia di Gian Omar Bison

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a carne si fa in famiglia. Uno slogan al quale non sfuggono neanche i BAREATO, macellai e norcini di lunga tradizione e probabilmente di altrettanto lunga prospettiva, considerato il recente ingresso della quarta generazione. SANTE BAREATO, macellaio e mediatore, dalla piccola Porto Menai di Mira (VE), a cavallo della seconda guerra mondiale, partiva per macellare buoi e maiali nelle case dei contadini, porzionarne le carni e “far su” gli insaccati. «Siamo partiti da lì — ribadisce LUCA BAREATO, oggi unico titolare con la cognata MARIA PIA TONELLO — e lì vogliamo restare. Cambiano normative, regolamenti, bestie e consumatori, mode e gusti, ma per noi la famiglia e la passione per questo lavoro saranno sempre

l’asse portante della nostra attività; della qualità che vogliamo certificare al cliente». Parliamo di un incrocio tra un fiume, il “Taglio Nuovissimo”, canale artificiale derivazione del Naviglio Brenta, e una strada, via Stradona che unisce Sambruson a Piazza Vecchia. A due passi dall’idrovia Padova-Venezia, storica incompiuta tra le grandi opere pubbliche viabilistiche del Belpaese. E di un caseggiato piccolo e poco abitato che offriva un fornaio, un fruttivendolo, una macelleria e poco altro (oggi è rimasto il fornaio). «È bastato così per molti anni — ricorda Luca — nei quali mio padre GIUSEPPE, figlio di Sante, con mia madre GIOVANNINA, ha costruito la vecchia macelleria e le celle nelle quali io e i miei fratelli

MARINO e PAOLO siamo stati impiegati fin da bambini». Tutto bene, si lavora molto e si incassa il giusto per molti anni. Quanto basta per mandare avanti la famiglia, poi allargatasi nel tempo con le nuore e i figli. E si narrano storie di fatica e dedizione che ancora oggi nonna Giovannina racconta ai nipoti e che finiscono quasi tutte allo stesso modo: impegno e sacrificio fino a notte fonda per poi riunirsi in cucinotto stanchi e affamati a mangiare gli spaghetti con la pasta della salsiccia. «Tutto bene fino alla fine degli anni Novanta» ricorda Luca. «Già la carne iniziava ad essere soggetta periodicamente ad attacchi sulla stampa di natura sanitaria o sulla valenza nutrizionale. A volte, secondo noi, eccessivi.

Luca Bareato.

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Cotechini, sopresse, ossocolli, pancette: gli insaccati vengono realizzati con la carne di maiali provenienti da allevamenti di fiducia. Ma con l’avvento di “mucca pazza” c’è stato un tracollo di consumi che ci ha spinti a prendere nel 2000 decisioni importanti: chiudere a Porto Menai e aprire a Piazza Vecchia, frazione più dinamica e abitata dove potenziare salumificio e gastronomia». A Piazza Vecchia la macelleria dei Bareato lavora ancora e, anzi, con l’apertura pochi anni fa del laboratorio nuovo, raggiungendo una produzione importante di salumi e insaccati, lavora anche di più. Inoltre, è all’interno di un minimarket, Punto Risparmio, sempre da loro gestito nel quale si trovano generi alimentari diversi, compresi latte e derivati e un po’ di frutta e verdura, e non solo. Non bastasse, da otto anni si sono aggiunte le botteghe interne alle Cantine sociali della Riviera del Brenta a Dolo (VE) e di Noale (VE) nelle quali, grazie a un connubio stretto con Lattebusche, si occupano di gestire la fornitura, oltre che di carne e insaccati, anche di latte e formaggi, in quello che chiamano

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Spaccio del Contadino. «Quello che fino ad oggi non abbiamo ancora pienamente valorizzato è la parte di cucina dei nostri prodotti. Ma su questo abbiamo dei progetti che contiamo di far venire a maturazione quanto prima, complice GIANMARIA, mio figlio, che da poco si è diplomato all’istituto alberghiero; è cuoco e lavora con noi. Così come resta un progetto l’apertura, un giorno, di una ristomacelleria che ci permetterebbe, sempre con l’aiuto di Gianmaria, di chiudere il cerchio. Ma i passi vanno cadenzati, fatti piano, in rajon dea gamba. Non è nostra intenzione caricarci di lavoro e quindi di costi da inseguire. Un po’ alla volta, lasciando il giusto spazio alla vivibilità e alla famiglia, che per noi resta la cosa più importante. È giusto essere ambiziosi, ma non avidi e ingordi». Il bovino fa la parte del leone tra le carni vendute e pesa per un buon cinquanta per cento. Si pregiano di scegliere le bestie direttamente dai contadini che visitano e con i quali lavorano da anni. «E questo per

noi — sottolinea Luca — significa qualità e sicurezza che vogliamo garantire al cliente. Lavoriamo solo femmine, Scottone e Sorane, di razza francese, che è quella che gli allevatori ristallano di più. Se abbiamo bisogno di integrare ci rivolgiamo ai grossisti del territorio. E sempre dai nostri contadini di fiducia per i maiali. Sono la nostra forza e anche il nostro futuro, considerato che la norcineria è un’arte oramai per pochi. Io personalmente impasto salami e insaccati con solo sale e pepe. L’anno scorso ne abbiamo lavorati 232 quintali. Facciamo tutto, dai cotechini alla sopressa, agli ossocolli, pancetta, ecc… E una cosa che prepariamo, credo, solo noi: l’imperiale. Una pancetta di trenta chili dal sapore inconfondibile». Gian Omar Bison Bareato Carni Piazza Vecchia 1 30034 Mira (VE) Telefono: 041 5676441 Web: www.bareatocarni.com

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MEAT BLOGGER

Semplici consigli da seguire senza fare grandi investimenti

Come rilanciare la propria macelleria? Ce lo dice Lorenzo Rizzieri di Andrea Laganga

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ontinua il viaggio alla scoperta del “macellaio in cerca di riscatto” di @MaremmacheCiccia. Ci siamo lasciati lo scorso mese ipotizzando un rilancio di questa professione attraverso l’utilizzo del “fuoco”. Abbiamo analizzato le nuove tendenze nelle macellerie che si sono avvicinate al mondo dei cibi “cotti”, offrendo un’ampia selezione di piatti pronti take away per i clienti oggi sempre in cerca di pietanze già pronte di buona qualità, trasformandosi così in gastromacellerie. Abbiamo toccato con mano i vantaggi che derivano dall’offrire piatti espressi; vantaggi che però comportano trasformazioni importanti del proprio esercizio, quindi investimenti economici legati all’acquisto di nuove attrezzature e ristrutturazioni interne, e, eventualmente, l’aggiunta di nuove figure professionali per lo svolgimento delle mansioni di cucina. Viene perciò da chiedersi: questo investimento sarà la strada giusta per il rilancio della nostra attività, di per sé già tanto impegnativa? Questa è la domanda che abbiamo posto a LORENZO RIZZIERI, giovane macellaio, classe 1974, ma con un’esperienza nel mondo dell’alimentare superiore alla norma. Da sempre porta avanti la propria filosofia lavorativa nella macelleria di famiglia, coniugando l’innovazione ai principi della tradizione, con un occhio attento alla qualità. Qualità che si identifica nell’eticità e sostenibilità dei prodotti scelti e

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seguiti personalmente dalla stalla (e non solo) fino alla tavola, e nella loro lavorazione artigianale, che avviene senza l’utilizzo di sostanze chimiche. Con questi presupposti l’esperienza di Rizzieri può certamente contribuire ad aggiungere un tassello importante a quelli già messi insieme nel nostro viaggio nel mondo della macelleria. Lo abbiamo raggiunto nella sua macelleria ferrarese, dove è facile perdersi tra etichette di prodotti ricercati e profumi di salumi artigianali genuini. Qui è dove, insieme alla sua famiglia e alla sua squadra, riesce a compiere il “miracolo della genuinità”.

Chi è il macellaio per Rizzieri? «È una figura di riferimento che nel tempo si è un po’ smarrita. Il supermercato, dagli anni Settanta, ha fatto sì che tanti abbiano perso di vista la propria identità di macellaio tradizionale, inseguendo le mode e tentando di fare concorrenza attraverso il prezzo. Politica, questa, che ha sicuramente svilito il prodotto. Oggi assistiamo ad una ripresa del nostro mestiere e della nostra professionalità; ci sono corsi e nuove opportunità per chi vuol crescere. Naturalmente, non si può pensare di mantenere la bottega degli anni ‘80-‘90. Il macellaio di oggi è una

Lorenzo Rizzieri.

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UNA STORIA DI CARNE Noi del Consorzio Carni Piemonte la produciamo nei nostri allevamenti. PiĂš di 120 allevatori si sono consorziati sin dal 2001. Oggi attraverso il nostro Macello Piemonte Nord , siamo in grado di fornire agli operatori del settore un prodotto sano, controllato e di origine certa.

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figura professionale evoluta, che non si spaventa alla domanda di un taglio strano per il BBQ; anzi, si informa e si adopera per crescere e migliorare. Il macellaio moderno mette la sua passione nella ricerca della materia prima che poi vende ai suoi clienti. Non dimentichiamoci che vendiamo in primis un prodotto che serve a nutrire; abbiamo pertanto la responsabilità di cercare e dare al cliente il meglio che il mercato ci mette a disposizione». Tradizione o innovazione? «Entrambe. Come ho detto prima, non si può pensare di gestire una bottega come negli anni ‘80-‘90. I tempi sono cambiati, la società è cambiata, i modi di mangiare e di consumare sono cambiati. Non si può rimanere indietro. È d’obbligo mantenere la tradizione, le visite in stalla, il contatto con l’allevatore, che rimarranno sempre le fondamenta del nostro lavoro e il DNA della macelleria. Innovazione sì, ma senza esasperazione. Dobbiamo preparare “pronto-cuoci” gradevoli alla vista, buoni, veloci e fruibili. Questa è la ricetta vincente per un mondo che va di corsa. La cosa che raccomando sempre prima di mettere in vendita un nuovo prodotto è quella di cuocerlo e poi assaggiarlo, perché a volte combinazioni bellissime in testa risultano grandi fallimenti al palato dopo la cottura». In che direzione va il nostro futuro? «Siamo destinati ad un lavoro sempre più specializzato, nelle varie sfaccettature. Ci sarà chi otterrà competenza specifica sui “prontocuoci”, chi sugli allevamenti, chi sul fare corsi, sui salumi, indirizzandosi su ciò che lo appassiona di più». In cucina le chiamano brigate; a noi piace chiamarla squadra. Quanto è importante lavorare in una solida squadra, nella quale ognuno ha il suo compito? «Hai detto bene Andrea. La squadra ha un ruolo fondamentale. Abbiamo la responsabilità di insegnare e insegnare è un lavoro di grande difficoltà. Trasmettere il

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proprio modo di pensare e le proprie idee non è semplice. Stimolare i ragazzi, farli crescere e, poco a poco, metterli a volte anche al timone della bottega non è semplice. Il gruppo è fondamentale anche per un titolare che vuole crescere. Per mantenersi aggiornati spesso si è costretti ad allontanarsi da casa e, se il gruppo è forte, puoi permetterti di spostarti con tranquillità. La mia squadra, che amo chiamare famiglia, è un gruppo ben amalgamato e di grande professionalità, che dimostra di amare il proprio lavoro e di voler crescere giorno dopo giorno. Non è poco: tocca a noi per primi alimentare il fuoco della passione quotidianamente». È vincente per te la formula del “macellaio gastronomo”? «Per quanto mi riguarda, e in base alla mia esperienza, è un elemento in più. Dipende infatti da tanti fattori: zona, tipo di clientela, capacità. Ritengo sia un servizio aggiuntivo per il cliente, ma non è sicuramente la soluzione per rilanciare un locale. Bisogna fare attenzione a non dimenticare cosa siamo. A volte vedo situazioni che mi lasciano perplesso: colleghi che, attratti dalla tendenza oggi alquanto inflazionata della cucina, cercano di assomigliare a questo o quello chef del momento; ma la cucina di macelleria è una cucina di tradizione, di cultura dei tagli, alcuni dei quali, spesso, gli chef nemmeno sanno che esistono». Consigli per rilanciare la professione? «Su questo argomento ho fatto anche un video. Di consigli ce ne sono tanti. Dalla mia esperienza diretta, e non proveniente quindi da consulenti o esperti esterni ma da persona che le ha provate sulla propria pelle e che è rimasto anche scottato da qualche insuccesso, con le conseguenti cicatrici, ne propongo tre. Il primo è quello di tornare a lavorare con le aziende agricole, con gli allevatori, che sono la nostra più grande risorsa e dai quali possiamo imparare tanto. Il secondo è quello di “comunicare” con il cliente, senza mostrare fretta nel servirlo (che può

dare un’idea di trascuratezza); è importante accompagnarlo in una sorta di “percorso carneo”, spiegandogli provenienze, i lavori fatti in stalla… Infine, il terzo: uscire dalla propria bottega, appoggiandosi a clienti ristoratori, proprietari o gestori di locali, bar, trattorie, ecc… Comunicare il proprio lavoro, anche facendo assaggiare la propria carne e spiegando come si è arrivati a quel risultato di qualità». In un mondo in cui la comunicazione vola alla velocità della luce, quanto è importante l’uso dei social e del web? «Oggi la comunicazione è importantissima; lo è sempre stata, ma mai come in questo periodo. Tutto si è spostato sui cellulari, gli smartphone. Lo vediamo soprattutto con le nuove generazioni, che oramai comunicano solo in questo modo. Quindi il mio consiglio è utilizzare sempre di più il web e investire una parte del fatturato in questo senso. Oggi ha un grande impatto e dà visibilità. Ma attenzione: bisogna fare valutazioni preliminari, stabilire i progetti, inquadrarli bene, perché si tratta di un’arma a doppio taglio». Abbiamo l’abitudine di concludere i nostri articoli lasciando ai nostri lettori una frase da portarsi con sé… «Non ho frasi, ma parole; in particolare una, amore. L’amore è quella cosa che ti spinge a fare sempre di più senza cedere mai; ti fa andare in stalla, studiare e creare nuovi prodotti, buoni, salutari. È una spinta in direzione del “meglio”. D’altronde, se ci pensate, quando ami qualcosa o qualcuno cerchi e fai solo il meglio». Andrea Laganga Macellaio e blogger www.maremmacheciccia.com

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NUTRIZIONE

Dimmi cosa mangi e ti dirò che olio scegliere 8 Italiani su 10 non sanno abbinare l’olio d’oliva al cibo. Ogni pietanza, invece, vuole il suo olio, che deve possedere criteri ben precisi al fine di esaltarne le caratteristiche. Informarsi è la prima regola

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e un tempo era il vino a dover essere studiato da enologi e giudicato dai sommelier in base alle caratteristiche organolettiche, oggi è l’olio extravergine di oliva a richiedere un’accurata selezione, al fine di esaltarne tutte

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le sue proprietà. Ma gli Italiani lo conoscono veramente? “L’oro verde del Mediterraneo” ha un ruolo definito nella nostra cultura culinaria, eppure accade che, soprattutto a casa, non venga utilizzato nel modo giusto.

Una cultura antica, oggi internazionale Dalla Sicilia alla Puglia all’Umbria, l’Italia è da sempre uno dei massimi produttori d’olio extravergine di oliva. Secondo la mitologia, fu Atena a piantare il primo ulivo sulla Terra,

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L’olio d’oliva è considerato da molti chef un vero e proprio ingrediente e gli si presta gran attenzione (photo © www.denysproduction.com). albero che per millenni avrebbe dato con i suoi frutti un succo adatto alla preparazione di cibi, alla cura del corpo e alla guarigione delle malattie. «Nella cultura culinaria italiana l’olio extravergine di oliva è molto importante, perché esalta i sapori e completa tutti i nostri piatti» afferma MARINA SOLINAS, assaggiatrice professionista di una delle più importanti organizzazioni di settore. «Può essere utilizzato sia in cottura, perché non copre i sapori, ma soprattutto a crudo, perché esalta le verdure come l’insalata, ma anche la zuppa di legumi, la carne e il pesce grigliati. L’utilizzo a crudo alla fine di una cottura serve per esaltare il piatto ed è importantissimo utilizzare l’olio giusto. In cottura non deve mai essere utilizzato ad altissime temperature, per non raggiungere il punto di fumo. È una regola generale. Lo studio e la cultura dell’olio extravergine di oliva sono molto importanti e non devono essere trascurati. Dagli Stati Uniti al Canada fino a Cile, Taiwan e Giappone ogni

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anno le organizzazioni finalizzate alla formazione di assaggiatori ricevono tantissime persone che arrivano da tutto il mondo per studiare le caratteristiche di questo prodotto. Possiamo dire che la cultura dell’olio è diventata internazionale». Quali sono gli errori più comuni che commettono gli Italiani con questo prodotto? Utilizzare sempre lo stesso tipo di olio e pensare che l’olio amaro sia di cattiva qualità: è quanto emerge da uno studio condotto da Casa Coricelli, l’osservatorio sulle tendenze nel mondo dell’olio e della cucina dell’omonima azienda umbra, condotto mediante la metodologia WOA (Web Opinion Analysis) su circa 2.500 Italiani e su panel di 80 esperti tra cui chef e assaggiatori professionisti d’olio, attraverso un monitoraggio on-line sui principali social network, blog, forum e community dedicate al settore per capire che rapporto hanno gli Italiani con l’olio. L’errore più comune commesso

dai nostri connazionali è appunto quello di utilizzare sempre lo stesso tipo d’olio (82%). In cottura per saltare le patate, a crudo sull’insalata, sulla carne rossa o sul pollame: utilizzare l’olio sbagliato rischia di rovinare un prodotto di qualità se usato in cottura e rischia di essere sprecato se leggero e abbinato a gusti forti. Un altro grave errore degli Italiani è pensare che un olio amaro sia cattivo (76%), perché ritenuto sgradevole al palato. Al contrario, l’olio extravergine amaro è indice di qualità e personalità. Pensare che l’olio extravergine di oliva non faccia bene, perché troppo grasso (65%) è un altro degli errori più comuni. L’olio infatti è un grasso allo stato puro, per cui non esistono oli leggeri e oli pesanti nel senso calorico del termine: ogni olio sviluppa 900 Kcal per 100 grammi di prodotto. Ma l’olio di oliva, rispetto ad un olio di semi ad esempio, oltre ad essere nutriente, è salutare e naturale. Viene spremuto meccanicamente e, quando esce dal percorso estrattivo,

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Nella conservazione dell’olio d’oliva il problema principale è l’irrancidimento, dovuto alle reazioni di degradazione ossidativa. Per questo motivo si sono affermate le bottiglie in vetro scuro, perché capaci di schermare in parte gli effetti negativi della luce (photo © Dario – Fotolia). è “vivo”, praticamente un succo di frutta. Il suo effetto sul nostro corpo è totalmente benefico. Gli Italiani conoscono effettivamente l’olio di oliva? Il 78% degli Italiani non sa distinguere tra le varie tipologie di olio extravergine di oliva disponibili sul mercato. Se non fosse per l’etichetta, che molti non guardano, le differenze che caratterizzano un olio rispetto all’altro non verrebbero percepite da quasi nessuno. Ben il 65% pensa che l’olio extravergine venga ottenuto da una semplice spremitura, mentre la maggior parte subisce dei processi attenti e accurati non solo di filtrazione, ma soprattutto di combinazione tra varie tipologie di extravergine al fine di creare la “ricetta” scelta. Infine, il 48% degli Italiani non conosce l’effetto negativo della luce e del calore sull’olio. Per questo molte volte lo tengono a breve distanza dal piano cottura, rovinando in parte il prodotto.

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I trucchi per conservarlo bene Per il 78% degli esperti l’aspetto più importante è il contenitore, che deve essere in vetro scuro. Nella conservazione dell’olio d’oliva il problema principale è l’irrancidimento, dovuto alle reazioni di degradazione ossidativa. Per questo motivo si sono affermate le bottiglie in vetro scuro, perché capaci di schermare in parte gli effetti negativi della luce. Al secondo posto, per mantenere inalterata la qualità del prodotto, è fondamentale tenerlo alla larga da fonti di luce (75%), perché accelera le reazioni di degradazione ossidativa e, allo stesso tempo, da fonti di calore (72%). L’olio extravergine d’oliva va conservato in luoghi freschi e asciutti, in ambienti con escursioni termiche non eccessive (con temperatura compresa tra i 15 e i 20 °C). In questa situazione la qualità del prodotto resta integra. Un amplificatore dei sapori «L’olio ha un ruolo fondamentale in

cucina — afferma CHIARA CORICELLI, direttore commerciale dell’azienda olearia Pietro Coricelli — un ruolo non da condimento, ma da ingrediente. È un amplificatore di sapori: non inserire il giusto extravergine all’interno di una ricetta può andare a pregiudicare il risultato di gusto della ricetta stessa. Oggi l’Italiano medio inizia ad evolversi e vuole sperimentare, ma senza una buona cultura legata al prodotto rischia di neutralizzare i sapori di un piatto. L’olio non filtrato, robusto, cosiddetto “contadino”, è buonissimo, ma utilizzato in cottura è sprecato. Per noi l’importante è offrire un pacchetto prodotti utile per qualsiasi esigenza. Come il vino, anche l’olio di oliva ha tante tipologie. Dobbiamo aumentare la cultura di prodotto, perché se nel vino è andata avanti anni luce, nell’olio fa ancora fatica». «L’olio extravergine di oliva è un vero e proprio ingrediente» conferma DANIEL CANZIAN, chef del

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ristorante Daniel di Milano e executive chef del Marchesino nel 2008. «Non è più un semplice elemento di “contorno”, usato per insaporire o ungere: è la base sulla quale si fonda la cucina mediterranea e per questo i cuochi come me, molto attenti a valorizzare le componenti di ogni piatto, non ne possono certo fare a meno. Le principali caratteristiche sono enfatizzate dal loro utilizzo: un olio extravergine d’oliva si può usare per rosolare, soffriggere, ma serve anche per donare spessore; un olio extravergine fruttato serve per dare il tocco finale a una preparazione: penso, ad esempio, a un pesce crudo oppure a un pomodoro. Una ricetta che consiglio per esaltare le proprietà dell’olio è con spaghetti integrali, cacio, pepe e pistacchi. È un piatto semplice, gustoso e sano, perfettamente equilibrato: l’uso dell’olio extravergine di oliva ne intensifica l’effetto salutare, oltre a legare tutti gli ingredienti».

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Come valorizzare alcuni aspetti dell’olio extravergine di oliva in cucina: qualche consiglio Extravergine fruttato leggero, dolce È un olio equilibrato, come ad esempio l’olio ligure, fruttato, ma dolce. Si può abbinare a qualsiasi tipo di pesce dal sapore delicato. Extravergine fruttato medio Se andiamo sulla carne bianca andiamo su un medio fruttato, non qualcosa di troppo amaro, però utilizziamo un olio a metà di questa scala. Si può usare anche sul pesce, ma magari più saporito come salmone, cernia, oppure del formaggio come le caciotte. Può essere legato anche ai dolci, come la cioccolata fondente. Extravergine fruttato intenso, amaro Se saliamo ancora con il fruttato possiamo pensare ad una zuppa di legumi o a della carne rossa grigliata. La fiorentina si abbina perfettamente con un olio pugliese. Se utilizziamo un tipico olio ligure

il suo sapore si spegne: sarebbe uno spreco. Se invece utilizziamo un olio più fruttato e più amaro, che non è mai da considerarsi un difetto, anzi è molto più salubre, allora va bene sulle carni rosse. Extravergine fruttato aromatico Ideale per i primi piatti: si tratta di un olio particolare, tipo l’olio siciliano, con un fruttato aromatico e mediamente tendente all’amaro. Quello più dolce sarebbe sprecato perché non si sentirebbe. Se ci sono le verdure nel piatto serve qualcosa di più aromatico, con più profumo che possa valorizzarle. Fonte: ANAPOO Associazione Nazionale Assaggiatori Professionisti Olio di Oliva www.anapoo.it Nota A pagina, 78 l’olio d’oliva è un amplificatore di sapori, se usato bene esalta e valorizza le caratteristiche di una pietanza (photo © Mara Zemgaliete – Fotolia).

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Lo strutto, lasciapassare per il gusto Oggi è nuovamente sdoganato da uno studio che lo mostra più sano di altri grassi e dalle cuoche moderne, che sanno quali straordinarie qualità possa mostrare nella preparazione dei cibi, tanto salati quanto dolci di Sebastiano Corona

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a qualche tempo a questa parte gira sul web un divertentissimo video in cui un uomo, sul punto di addentare i cibi più diversi, viene continuamente redarguito da una voce fuori campo che via via gli comunica che il prodotto che ha nel piatto è nocivo.

Così, mentre scorrono i minuti e si susseguono i tentativi di “nutrirsi”, il malcapitato, condizionato da questa o quella ricerca, è costretto ad abbandonare la tavola digiuno, perché qualunque cosa provi a mangiare, secondo le più svariate teorie, farebbe male. Il video è

forse un’esagerazione, ma rende molto bene ciò che ormai è insito nel nostro quotidiano: veniamo continuamente tirati per la giacchetta per seguire quel regime alimentare o quell’altro e sempre con argomentazioni valide e supportate da dati scientifici.

Lo strutto si ottiene dalla fusione dei grassi presenti nel tessuto adiposo del maiale. In passato veniva comunemente utilizzato per friggere, negli impasti, nella panificazione o come semplice condimento (photo © Joanna Wnuk – Fotolia).

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Scopri il Sapore... ...Scopri la Genuinità!

COPPIELLO GIOVANNI Tel. 049 725 596 Fax 049 893 0525 www.coppiello.it - info@coppiello.it

Fidatevi del Vostro Gusto e scoprirete la differenza. La bresaola e gli sfilacci di carne di cavallo di Giovanni Coppiello sono tutto il meglio e il buono che potete far provare ai vostri sensi. Scoprirete così un piatto unico dai pregi infiniti: ottimo antipasto, intingolo per condire paste bucate, oppure prelibato secondo. Nella foto una delle nostre Ricette Consigliate : Sfilaccetti di Cavallo con Julienne di Verdure. Esecuzione: bollire per qualche minuto le verdure tagliate julienne, guarnire il piatto e condire con un emulsione di olio d oliva e sale di sedano. Ingredienti per 4 persone 200 gr. di Sfilaccetti, 2 Carote, 6 Cucchiai di Olio d Oliva, 2 Zucchine, 200 gr. Cappuccio Bianco,

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20 gr. di Sale al Sedano.

Bresaola di Equino

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Sfilacci di Tacchino

Sfilacci di Manzo

Sfilacci di Equino


I ciccioli frolli si ottengono dalla cottura e fusione a fuoco vivace, in capaci vasche di acciaio, del grasso di copertura (lardo, pancette) del suino. Sono una specialità emiliano-romagnola (photo © Comugnero Silvana – Fotolia). Succede quindi con puntualità svizzera che vengano demonizzati a turno dei prodotti che fino a poco tempo prima godevano di ottima reputazione e, viceversa, che si riabilitino in cucina e al supermercato sostanze che per anni erano state vituperate e messe alla pubblica gogna. È questo ad esempio il caso dello strutto, un grasso che ha contribuito a scrivere le più belle pagine della storia della cultura gastronomica di molti Paesi europei e che per molti anni sembrava essere stato bandito dalla cucina per una serie innumerevole di motivi.

Lo strutto ha origine animale e, in tempo di veganesimo e vegetarianesimo, non può avere il favore dei laboratori produttivi e delle dispense. In più, per decenni le sue qualità sono state svilite a favore degli oli vegetali, considerati più leggeri, meno grassi e meno impattanti per la nostra salute. È stato praticamente detto tutto e il contrario di tutto fino ad un recente studio della Montfort University di Leicester, che ha fatto rapidamente il giro del mondo, che ha dimostrato che in fase di cottura — e più precisamente nella frittura — lo strutto si mostra decisamente

A questo grasso dal colore bianco intenso si devono bontà come il pasticciotto leccese, il gnocco fritto e la piadina romagnola. Prodotti meravigliosi, figli della più alta espressione culinaria delle nostre regioni, che non potrebbero essere così gustosi se tra gli ingredienti utilizzati non vi fosse il tanto vituperato strutto

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meno nocivo di alcuni oli vegetali che invece diventerebbero — al di sopra di una certa temperatura — straordinariamente dannosi, al punto da essere cancerogeni. Se ci accingiamo a friggere, faremmo quindi molto meglio a scegliere il burro e, meglio ancora, lo strutto, soprattutto grazie al suo elevatissimo punto di fumo, che raggiunge anche i 250 gradi. Non è nostra intenzione avviare una discussione su argomenti così delicati e che, di volta in volta, vengono messi in discussione da prestigiosi studi di università di fama internazionale. Certo è che il punto di equilibrio si trova nel consumare ogni cosa con moderazione e nel condurre uno stile di vita, nel suo complesso, sano. La morale in questo caso è però anche un’altra: finalmente cibi come lo strutto, da tempo demonizzati e schivati dal consumatore, possono essere finalmente riabilitati, almeno nel loro impiego in piccole quantità.

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Un posto d’onore nella cucina del passato Che un tempo lo strutto avesse un ruolo di assoluto rilievo nella cucina e nella dispensa della nostra nonna non è infatti solo un vago ricordo che alberga nelle menti degli amanti della buona tavola. La prova provata è il fatto che tuttora compaia come ingrediente indispensabile nelle ricette di prodotti tradizionali tra i più apprezzati nel Belpaese. Questo grasso, particolarmente utilizzato nel Centro Sud, ma molto gradito anche nel Settentrione, era un tempo indispensabile nella preparazione dei salumi. Difficilmente, inoltre, il palato rimaneva deluso da una frittura con lo strutto, che si trattasse di cibi salati o di dolci. Tuttora questo grasso animale compare in disciplinari di prodotti pregiati come la coppia ferrarese o i culurgionis d’Ogliastra IGP o in dolci come le seadas sarde, le sfogliatelle napoletane e i cannoli siciliani, che allo strutto devono la consistenza e la friabilità. E la lista non finisce qui. A questo grasso dal colore bianco intenso si devono anche bontà come il pasticciotto leccese, il gnocco fritto e la piadina romagnola. Prodotti meravigliosi, figli della più alta espressione culinaria delle nostre regioni, che non potrebbero essere così gustosi se tra gli ingredienti utilizzati non vi fosse il tanto vituperato strutto. Il suo impiego rende più gustoso ogni piatto e ha inoltre la capacità di conferire una straordinaria friabilità a frolle, pasta sfoglia, taralli, biscotti, ciambelle, pizza e persino il pane. Insomma, la moderazione nell’utilizzo è d’obbligo, ma il ritorno alle vecchie ricette della nonna, senza variazioni sul tema, non farà pentire nessuno per il risultato ottenuto. Storia a tradizione si intrecciano indissolubilmente Ma la riabilitazione dello strutto nelle dispense non è solo un ritorno al gusto. Diviene anche un omaggio alla tradizione e alla storia. Un tempo non c’era angolo d’Italia in cui, a scadenza, non si uccidesse il maiale. Lo si faceva a turno con i vicini, vuoi per motivi legati alla conservazione

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dei cibi, vuoi per darsi una mano reciprocamente e scambiarsi quei tagli da consumare subito. Quando questo rito aveva luogo — perché di rito vero e proprio si trattava — la preparazione dello strutto era una fase topica. Poiché del maiale non si buttava via niente, il grasso veniva diviso in due diverse tipologie. Il primo, quello sottocutaneo e normalmente comprensivo di cotenna, era destinato al consumo diretto, dopo salagione e stagionatura, diventando lardo da servire a fette, la classica pancetta o il guanciale. Il resto veniva invece tagliato a pezzetti e mischiato ad altri ritagli di risulta, per essere poi cotto a fuoco lento per alcune ore. Una volta fatta evaporare la poca acqua contenuta, il grasso rilasciava lo strutto, man mano rimosso e deposto in contenitori adatti alla sua conservazione (che dopo il raffreddamento doveva comunque avvenire sempre ad una bassa temperatura). La parte rimanente, invece, composta dai pezzetti oramai ridotti a piccole palline di color ambra più o meno intenso, aveva un altro destino. Mischiati a spezie o aromi, a seconda della tradizione locale, i ciccioli — questo il loro nome più diffuso — erano e sono tuttora un gustosissimo piatto da consumare da solo o come ingrediente per torte salate, pane speciale “ingrassato”, frittate… Cibi molto noti sono fatti con i ciccioli: dalla polenta alla farinella al migliaccio campano, dalla chisola al gustosissimo pani cun gerba sardo. E ancora: la cicciolata di Parma e la spianata modenese, solo per citarne alcuni. Insomma, i ciccioli erano e sono a tutt’oggi utilizzati universalmente da Nord a Sud, da Est ad Ovest. Vengono serviti in mille modi, a seconda delle usanze locali. Sono naturalmente ipercalorici e vanno pertanto consumati con moderazione, ma sono anche la prova che le nostre nonne sapevano cosa fosse il gusto. Pertanto, seppur con attenzione, strutto e ciccioli possono ritornare in cucina, con orgoglio e passando dalla porta principale. Sebastiano Corona


PRODOTTI TIPICI

La pitina della Val Tramontina Prodotto tipico friulano e presidio Slow Food, la pitina è un insaccato fatto con carne di pecora, montone o capra tritata finemente e compattata a forma di polpetta. Oggi sono rimasti pochi produttori, tra i quali Filippo Bier, dell’omonima macelleria di Meduno di Massimiliano Rella

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a fantasia gastronomica dei nostri avi ci ha lasciato una straordinaria varietà di prodotti. Da ingredienti semplici, dalla necessità di non sprecare tutto ciò che si poteva utilizzare, dall’abilità di farne qualcosa di buono è derivato un patrimonio di specialità e ricette che ci sorprende. La pitina della Val Tramontina è, tra queste eccellenze, un insaccato della tradizione friula-

na fatto con carne di pecora, montone o capra. Oggi raramente, ma in passato era preparato anche con carne di capriolo, camoscio o altra selvaggina di montagna, utilizzata per cibi adatti alla conservazione, provvidenziale riserva nei periodi in cui mancavano cibi freschi. Così come quando una pecora o una capra si feriva senza poterla curare oppure moriva improvvisamente,

per esempio di parto, si recuperava la carne dell’animale. Invece che consumare subito tutta la carne, nelle famiglie contadine delle valli a nord di Pordenone si diffuse la consuetudine di farne delle grandi polpette affumicate da conservare. È così che nasce la pitina. Nella vallata delle Prealpi carniche attraversata dal fiume Meduna sembra che questo insaccato con la

La pitina della Val Tramontina della Macelleria Bier.

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sua particolare tecnica di preparazione fosse conosciuto nella prima metà dell’800. La carne era tritata finemente nella pestadora, un ceppo di legno incavato come un comodo recipiente, poi impastata con sale, pepe nero, vino, aglio ed erbe aromatiche di montagna e compattata a forma di polpette. Queste ancora oggi sono avvolte da un sottile strato di farina di mais e affumicate circa due giorni al fogher, sotto la cappa o sulla mensola del camino, esposte al fumo odoroso di legni di faggio, nocciolo e ciliegio. A differenza di altri prodotti della norcineria, la carne macinata non era insaccata in budelli né in altri involucri, così come il procedimento non richiedeva particolari attrezzature ma si poteva eseguire anche in montagna e lontano dalla malga. La carne asciugata al fuoco spesso veniva appesa in un locale fresco e ventilato adatto alla stagionatura, il camarin, che favoriva una più lunga conservazione. In questo caso potevano formarsi delle lievi muffe nobili, dovute alla stagionatura naturale, poi eliminate spazzolando la pitina prima del consumo. Oggi questa tipicità del Friuli Venezia Giulia, produzione di nicchia della Val Tramontina e della Val Cellina, è un presidio Slow Food. La ricetta è stata tramandata con piccole variazioni. La lavorazione si concentra nei mesi da settembre a giugno, escludendo i mesi estivi trascorsi da ovini e caprini all’alpeggio. La carne è disossata e pulita di grasso, tendini e, per ottenere un prodotto dal gusto più delicato, vengono aggiunti alla polpa magra, che corrisponde a circa il 70%, lardo e pancetta di maiale per la parte restante. Pochi i produttori che perpetuano questa tradizione. Uno è FILIPPO BIER, il responsabile dei presidi Slow Food del Friuli Venezia Giulia, che produce la pitina da 25 anni con lavorazione artigianale. La sua macelleria, fondata dal bisnonno nel 1875, oggi anche rosticceria, si trova a Meduno, i laboratori con gli affumicatoi a Cavasso Nuovo. «La pitina della Val Tramontina si fa con la carne di animali anziani di 3-6 anni perché più asciutta» ci dice Bier. «Que-

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Il produttore Filippo Bier, responsabile dei presidi Slow Food del Friuli Venezia Giulia. sto prodotto tradizionale è nato proprio per valorizzare anche gli esemplari adulti meno appetibili». La pitina è una risorsa in cucina e in tavola. Fresca, dopo 30 giorni di stagionatura, può essere mangiata cotta, affettata e appena scottata in aceto, oppure rosolata leggermente in burro e cipolla e servita con la polenta. È ottima anche con un minestrone di patate o cotta in latte di vacca appena munto. La ricetta più antica la vede cotta in brodo di polenta e aromatizzata con ginepro e rosmarino. Dopo 60

giorni di stagionatura è un gustoso insaccato da mangiare a fette con il pane o presentato su saporiti taglieri in abbinamento a qualche ottimo calice di vino friulano. Massimiliano Rella Macelleria Bier Via Roma 1 – 33092 Meduno (PN) Telefono: 0427 86189 E-mail: fibier@mac.com Web: www.macbier.it – www.pitina.eu Nota Photo © Massimiliano Rella.

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SAPORI DAL MONDO

Carne a volontĂ nella splendida Praga di Nunzia Manicardi

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Gulasch, stufato di manzo servito con un misto verdure (photo © kichigin19 – Fotolia).

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La cucina ceca, in particolare quella boema, è essenzialmente a base di carne ed è strettamente imparentata con quella della Germania meridionale e quella austriaca, dalle quali si distingue per la maggiore presenza di sale e di aromi. I nomi delle preparazioni sono davvero difficili per noi da pronunciare, perciò seguite gli odori e troverete arrosti e spezzatini indimenticabili!

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raga, com’è noto, è una città magnifica sotto ogni punto di vista: urbanistico, architettonico, artistico, ambientale, culturale… Ed è anche estremamente vivibile perché il traffico automobilistico è pressoché inesistente dato che c’è una rete tranviaria formidabile che copre città e periferia incessantemente, sia di giorno che di notte, liberando strade e piazze dall’odiosa ferraglia. Praga offre anche a noi Italiani il vantaggio eccezionale di una gastronomia ottima a prezzi ancora molto contenuti. In sintesi: si mangia molto e bene spendendo poco. Del bere poi non è neanche il caso di parlare, dato che il pivo, l’eccellente birra di cui la Repubblica Ceca è il paese primo consumatore al mondo e tra i primi produttori, costa meno dell’acqua minerale: mezzo litro quaranta centesimi e, ripetiamo, di eccellente qualità! Viene servita in boccali larghi, fresca ma non fredda, e con abbondante schiuma (famose in tutto il mondo sono la Budweiser Budvar e la Pilsner Urquell, ma di birra ceca esiste una

varietà quasi infinita!). C’è anche il vino, prodotto in queste regioni fin dall’antichità, e, per finire il pasto, un bicchierino di Becherovka, il celebre liquore digestivo dalle venti e più erbe. Le specialità ceche Per sedersi a tavola non c’è dunque che l’imbarazzo della scelta, dato che sono moltissimi (direi la totalità) i ristoranti Czech Specials, che offrono cioè i piatti tradizionali a tutte le ore del giorno e spesso anche fino a tarda notte. La città, soprattutto d’estate, offre anche un altro “benefit” da noi ormai scomparso: quello della sua sicurezza sociale. Sedetevi quindi a tavola tranquillamente e ricordatevi di aggiungere, alla fine del pasto, quella che per noi è la “mancia al cameriere”: per loro è il “costo del servizio”, che viene conteggiato a parte e in questo modo. Corrisponde al 10% del totale (ma, volendo, potete naturalmente dare anche di più). Con un piatto unico di carne accompagnato da abbondanti contorni e un boccalone di birra si spendono, servizio incluso, al

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Prosciutto di Praga. È un prosciutto di maiale affumicato, reso più o meno saporito dal tempo di esposizione al trattamento di affumicatura (photo © animaflora2016). massimo 7-8 euro; 10 se proprio si vuole esagerare… Una volta seduti, davanti alla lista delle specialità ceche troverete alcuni nomi assolutamente illeggibili/impronunziabili per noi, accompagnati, per fortuna, dalla traduzione in inglese del nome degli ingredienti. Spesso c’è anche la fotografia del piatto pronto. Ancora meglio, anche se il galateo non lo consentirebbe, potreste gettare un’occhiata alle tavole degli altri clienti. Vedrete che non solo i turisti stranieri ma anche i commensali locali amano mangiare i cibi nazionali e

che i menu non sono “imbastarditi” come i nostri, dove spesso trovi di tutto e di più ma in realtà niente di autentico e originale. A Praga, e ancora di più nel resto della Repubblica Ceca, si mangia ceco. Quindi affidatevi alla vostra lista, e alla vostra vista, con la sicurezza che non solo che gusterete un ottimo piatto, ma che farete un’esperienza culturale oltre che gastronomica. Tra l’altro, qui le sofisticazioni e le adulterazioni sono rare, direi addirittura inesistenti. Si mangia come si mangiava una volta, cioè genuino.

A Praga, e ancora di più nel resto della Repubblica Ceca, si mangia ceco. Quindi affidatevi alla vostra lista e alla vostra vista, con la sicurezza che gusterete un ottimo piatto e farete un’esperienza culturale oltre che gastronomica. Tra l’altro, qui le sofisticazioni e le adulterazioni sono rare, direi inesistenti. Si mangia come si mangiava una volta, genuino

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Soprattutto carne La cucina ceca, in particolare quella regionale boema, è a base di carne ed è strettamente imparentata con quella della Germania meridionale e quella austriaca, dalle quali si distingue per la maggiore presenza di sale e di aromi come l’aglio. Altri odori molto usati sono il cumino dei prati, la maggiorana, l’aneto, il papavero, il pimento. Come contorno ai piatti di carne con salse vengono serviti i tipici knedlíky. Sono gnocchi di pane, simili ai canederli trentini e talvolta arricchiti da svariati odori, serviti interi (sotto forma di grosse palle) oppure tagliati a larghe fette: in questo caso sono chiamati più comunemente dumplings, all’inglese. Sono preparati con farina e contengono cubetti di pane raffermo abbrustolito. L’impasto viene lavorato a mano, a forma di pannelli allungati, che vengono poi cotti in abbondante acqua bollente salata e infine tagliati a fette oppure preparati dando loro la forma rotonda (in tal caso, però,

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Street food a Praga. Molto comuni sono le salsicce alla griglia, anche con carne di pollo, e i würstel bolliti (photo © Natasha Breen – Fotolia). hanno un altro nome). Gli arrosti prediligono invece condimenti a base di purè di patate. Le insalate sono per lo più di patate: si va dalle più semplici, condite solo con acqua (a volte anche un po’ zuccherata) e aceto, a quelle più ricche, ossia le tipiche insalate di patate con maionese, uova sode, dadini di salumi, carote, cipolle e piselli. Una via di mezzo è quella condita con aceto, cipolle, pezzetti di mela e/o pancetta, ma le varianti regionali sono numerosissime. Anche i dolci sono molto vari e genuini. Tra gli ingredienti più usati spiccano i semi di papavero e la mousse di prugne (powidl). Molto usate le pesche, le albicocche e le mele, queste ultime per gli squisiti strudel. Con i mirtilli si preparano degli gnocchetti. La portata principale (hlavní chod) consiste solitamente in un piatto di carne (maso) accompagnato da uno o più contorni (příloha), solitamente patate bollite, gnocchetti, riso, crauti o altre verdure,

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e da una salsa (omácka) che si sposa bene con il pane (chléb, pečivo). La portata principale è preceduta spesso da una zuppa calda. I tipi di carne più comuni sono il manzo (hovězí), il maiale (vepřové), il pollo (kuře) e l’agnello (jehněčí). Tutti i tipi di carne più diffusi, in pratica. Tipica è anche l’anatra, servita arrosto (pečená kachna). Questi piatti di carne sono sostanzialmente spezzatini e arrosti. Sono molto nutrienti, piuttosto ricchi di calorie e grassi, e prediligono salse e condimenti particolari seppure semplici. Il risultato è che sono considerati pesanti, benché io li abbia trovati sempre digeribili al massimo grado. C’è da dire che un tempo non si mangiavano tutti i giorni o anche due volte al giorno, come facciamo adesso quando siamo in visita turistica; quindi l’impatto era molto, ma molto più tenue. Mangiarli troppo di frequente li rende, per il nostro palato, anche un po’ troppo simili, per via delle spezie che a volte, più che piccanti,

risultano un po’ dolciastre e finiscono per stancare. Ma, ripeto, questo è l’effetto del modo di mangiare attuale, spesso eccessivo. Zuppe e piatti a base di carne Le zuppe (polévka) principali sono: • la zuppa di pollo (kuřecí polévka s nudlemi); • la zuppa di manzo con gnocchetti di fegato (hovězí polévka s játrovými knedlíčky); • la zuppa di patate (bramborová polévka o bramboračka); • la zuppa d’aglio (česneková polévka o česnečka); • la zuppa d’aneto fatta con latte acido (koprová polévka o koprovka). I piatti di carne più diffusi a Praga sono: • il gulasch, naturalmente nella versione ceca che non è così piccante come quella ungherese. È sostanzialmente uno stufato di manzo servito con un misto di verdure, il tutto accompagnato da un piatto di canederli. Viene

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proposto anche all’interno di una grande “scodella” di pane abbrustolito, ripiena fino all’orlo di questo straordinario “spezzatino” caldo e penetrante ma mai troppo invasivo; il vepřoknedlozelo, considerato il caposaldo della cucina ceca, il vero e proprio piatto nazionale a base di carne di maiale arrosto servita con canederli e crauti. Le tre parole (vepřo-knedlo-zelo) significano proprio “(arrosto di) maiale, gnocchi, crauti”. La carne, aromatizzata con aglio, insaporisce gli altri componenti del piatto, dove dominano i sapori della pancetta e del Kümmel; lo svíčková na smetaně è lombo o filetto di manzo arrostito in casseruola e servito con salsa agrodolce alla panna, solitamente ricoperto di mirtilli; la pečená kachna è l’anatra arrosto, abitualmente accompagnata da gnocchetti di pancetta affumicata e crauti rossi, oppure da cavolo rosso al vino con mele e pan di zenzero; l’uzené è maiale affumicato; la vepřovy řízek è la cotoletta di maiale impanata e fritta; le utopence sono le salsicce in salamoia, di solito accompagnate da cipolline sottaceto.

I formaggi Se proprio si teme di morire di fame (cosa impossibile dato che le porzioni sono abbondantissime), o se si vuole approfondire per pura curiosità la conoscenza delle specialità locali, ci si può dedicare anche ai formaggi, a loro volta piuttosto interessanti. Troviamo: • i smaženy sýr, bastoncini di formaggio dolce fritto, accompagnati da patatine fritte e salsa tartara; • il pivní sýr, formaggio marinato nella birra che si mangia spalmato sul pane nero cosparso di cipolle tritate; • i syrečky (o olomoucké tvarůžky), piccoli formaggi caprini caratterizzati da un aroma pungente, che si accompagnano con birra, pane e cipolle.

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Street food Se invece di sedervi a tavola, preferite mangiare in piedi, avete lo stesso un’amplissima scelta. Lo street food è molto amato anche qui, segno di modernità ma anche di sopravvivenza di antiche abitudini. Partiamo da quello che è un simbolo nazionale conosciuto in tutto il mondo: • il prosciutto di Praga: è un prosciutto di maiale affumicato, reso più o meno saporito dal tempo di esposizione al trattamento di affumicatura. Viene servito, naturalmente, anche al ristorante, ma è più gustoso, secondo me, se mangiato per strada, dove è servito tra due fette di pane scuro; • le salsicce (klobasy e parky), rispettivamente, salsicce alla griglia e würstel bolliti, serviti sempre con senape (hořčice). Le trovate dappertutto, nei tanti chioschetti lungo le strade di Praga, dove ci si può servire liberamente di senape (di varie gradazioni di intensità), maionese, ketchup, cipolla affettata e crauti. Dolci Se volete chiudere in bellezza potete, sempre passeggiando per la meravigliosa città (non c’è un palazzo, perfino spingendosi verso le zone di periferia, che non sia degno di stupefatta ammirazione!), godervi il trdlo, dolce tipico diffusissimo ovunque. Si tratta di una spirale di pasta dolce, cotta su brace ardente attorno ad un’apposita struttura di legno. Ne risulta un cilindro croccante, dorato all’esterno, che racchiude un cuore soffice e vellutato. Viene arricchito con zucchero e cannella, cacao, vaniglia o altre spezie a richiesta. Nella forma chiusa viene riempito di gelato. Con il trdlo in mano (e in bocca) la passeggiata praghese diventerà davvero indimenticabile. Nunzia Manicardi Nota A pagina 90, la splendida Piazza della città Vecchia, Staroměstské náměstí, a Praga. Sorse nel XII secolo ed è stata testimone di molti e importanti eventi storici (photo © Tilio & Paolo – Fotolia).


FIERE

Meat-Tech 2018: la parola alle aziende L’industria delle carni si ritrova a Milano alla seconda edizione della fiera specializzata in tecnologie e soluzioni innovative per la lavorazione, il confezionamento e la distribuzione delle carni: una visione completa dell’intera filiera

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rande partecipazione alla prima riunione del comitato d’indirizzo strategico di Meat-Tech 2018, la manifestazione, targata IPACK-IMA in programma dal 29 maggio al 1 giugno 2018 a Fiera Milano. Presenti aziende di primissimo piano provenienti dai settori di riferimento della mostra: produttori di tecnologie per il processing e packaging, di ingredienti, attrezzature, materiali per l’industria delle carni, associazioni di

riferimento e produttori di salumi e carne fresca. Obiettivo del comitato: realizzare una manifestazione che risponda alle esigenze della filiera della trasformazione, lavorazione e commercializzazione delle carni e dei prodotti ittici. Il gruppo di lavoro si è insediato lo scorso 15 febbraio e ha condiviso le linee strategiche della mostra, che mira a consolidarsi come unico punto di riferimento nazionale e a vocazione internazionale per il settore. Grazie

anche alla contemporaneità con le altre manifestazioni dell’Innovation Alliance, gli operatori potranno beneficiare di un’ampia offerta di soluzioni tecnologiche per produzione, materiali, imballaggi, ingredienti, prodotti complementari, sistemi di packaging secondario, etichettatura e logistica, in mostra nei 140.000 m2 distribuiti in 18 padiglioni del quartiere fieristico. I membri del comitato hanno inoltre condiviso azioni e Paesi su cui concentrare la

Meat-Tech è la fiera targata IPACK-IMA, frutto della strategia e della esperienza di un grande player fieristico quale Fiera Milano e dell’Unione Costruttori Italiani Macchine Automatiche per il Confezionamento e l’Imballaggio.

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Meat-Tech aderisce a “The Innovation Alliance” Dal 29 maggio al 1 giugno 2018, a Fiera Milano, IPACK-IMA, Meat-Tech, Plast, Print4all e Intralogistica Italia, per la prima volta insieme, metteranno a disposizione degli operatori di tutti i settori industriali una vetrina delle eccellenze tecnologiche italiane e internazionali di differenti mondi produttivi, unite da una forte logica di filiera. In un solo contesto un’offerta completa, che va dal processing al packaging, dalla lavorazione della plastica alla stampa industriale, commerciale e della personalizzazione grafica di imballaggi ed etichette, fino alla movimentazione e allo stoccaggio delle merci.

Segaossa industriale

Meat-Tech è promossa da: ASS.I.CA., Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi, e ANIMA AssoFoodTec (Associazione Italiana Costruttori Macchine, Impianti, Attrezzature per la Produzione, la Lavorazione e la Conservazione Alimentare) con le diverse realtà associative aderenti: COMACA, Costruttori Italiani Macchine per la Lavorazione delle Carni; i Costruttori Affettatrici, Tritacarne ed Affini; l’Unione Costruttori Impianti Frigoriferi.

promozione della manifestazione: 43 le fiere a cui Meat-Tech e IPACKIMA parteciperanno, 120 riviste e portali oggetto della campagna di comunicazione, 300 associazioni internazionali partner, intensa attività sui social media, rete di vendita e promozione diretta in 40

Paesi del mondo. Avviata anche la progettazione di eventi e nuove sezioni espositive capaci di catalizzare l’attenzione degli operatori, come l’importante tematica della catena del freddo e quella delle attrezzature innovative, di indubbio interesse per industria e GD.

Disimpilatori vaschette

Il 26 maggio torna la Giornata della Suinicoltura Biosicurezza e salute animale, le nuove frontiere della prevenzione in suinicoltura. Con questo titolo torna la Giornata della Suinicoltura organizzata da Expo Consulting Srl, società di Bologna che gestisce e sviluppa format convegnistici innovativi offrendo servizi per fiere, eventi e l’internazionalizzazione delle imprese. Dopo il successo ottenuto il 30 novembre 2016, in occasione della prima edizione della Giornata della Suinicoltura, è confermato il 26 maggio prossimo un nuovo appuntamento, che si terrà presso l’hotel Garda di Montichiari (BS). Il programma prevede gli interventi degli esperti più illustri, che in questa occasione parleranno di biosicurezza, virologia, benessere animale, con un occhio sempre rivolto a cosa accade all’estero, in quei Paesi europei dove la suinicoltura rappresenta una delle voci più importanti dell’economia agrozootecnica. Non mancherà una case history con l’intervento di un allevatore che nella recente realizzazione dei suoi siti produttivi ha adottato i più moderni e innovativi sistemi di allevamento, in un’ottica di razionalizzazione e sostenibilità aziendale. >> Link: www.giornatadellasuinicoltura.it

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25030 POMPIANO (BS) Tel. +39 030 9460903 info@colombinisrl.it www.colombinisrl.it


Dalle prescrizioni religiose alle opportunità di mercato Alla prossima edizione di Tuttofood (Milano, 8–11 maggio) grazie alla presenza di un logo che identificherà gli espositori di prodotti certificati, i visitatori potranno costruirsi un proprio “percorso kosher” attraverso i diversi settori

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ssere osservanti anche a tavola. In una società multietnica, dove crescono i fedeli di confessioni che prevedono diversi tipi di prescrizioni alimentari, è un’esigenza sempre più sentita. E che permette di coniugare l’etica con il business, rappresentando una nicchia di mercato in costante aumento. È il caso dei cibi kosher, come vengono definiti gli alimenti conformi ai dettami della religione ebraica. Si calcola che oggi i fedeli dell’ebraismo siano circa 14 milioni in tutto il mondo e almeno 45.000 in Italia. Benché non tra le più numerose, la comunità ebraica italiana è la più antica dell’Europa occidentale — risale infatti alla presenza degli ebrei nella Roma imperiale — e ha contribuito a plasmare l’identità del nostro Paese fino dai tempi della Venezia dei Dogi o della Corte estense di Ferrara. Ampliando lo sguardo all’estero, il target si accresce in maniera considerevole: l’American Jewish Committee calcola ad esempio che rispetti le regole kosher un sesto dei circa 5,3 milioni di ebrei che vivono negli USA (la più grande comunità fuori da Israele), quasi 900.000 consumatori. Ma in realtà il mercato è molto più ampio, come spiega il Rabbino MOSHE SAADOUN, che segue per l’Italia le certificazioni di Services International Kosher Supervision, presente anche a Tuttofood 2017. «La certificazione kosher viene concessa solo dopo ispezioni molto severe da parte di rabbini specializzati e implica una particolare attenzione tanto agli ingredienti

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quanto ai metodi di lavorazione. In linea di massima la certificazione è tanto più difficile da ottenere quanto più numerosi sono gli ingredienti di un prodotto: il kosher si riallaccia dunque anche al tema della “etichetta corta”, prodotti semplici con ingredienti genuini». Su molti mercati la certificazione viene quindi percepita come una sorta di “bollino di qualità anche dai non ebrei”. «Si stima che solo in America del Nord siano almeno 70-80 milioni i consumatori che acquistano abitualmente prodotti kosher come garanzia di qualità – prosegue il Rabbino Saadoun — per questo la nostra presenza in fiera sarà all’insegna della certificazione anche come modo per incrementare il fatturato. L’Italia, assieme alla Germania, è il Paese che mostra più interesse anche per il suo forte orientamento all’export: infatti sono oltre 500 le aziende italiane che abbiamo già certificato. Il made in Italy agroalimentare è molto apprezzato nei mercati più sensibili al kosher e possedere la certificazione rappresenta senz’altro un vantaggio competitivo. In Israele, un mercato molto dinamico, il 90% della popolazione preferisce prodotti kosher. Qui la certificazione è regolata per legge e la nostra organizzazione può fornire supporto per ottenerla». Ma cosa significa esattamente kosher? Letteralmente, il termine si traduce con “permesso, appropriato, corretto” e indica le norme che stabiliscono quali cibi siano leciti e

in che modo vadano preparati. Alcuni animali, come il maiale — ma anche crostacei e molluschi — non sono permessi tout court; la carne in generale non può essere mischiata con il latte e sono prescritte precise regole di macellazione rituale. Inoltre, anche per i vegetali, le norme possono riguardare le modalità di raccolta e preparazione. Si tratta di regole piuttosto complesse e, oggi, in particolare per i prodotti lavorati, i consumatori che desiderano rispettarle preferiscono in genere affidarsi ad una certificazione.

>> Link: www.tuttofood.it

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THE INTERNATIONAL B2B EXHIBITION DEDICATED TO FOOD& BEVERAGE FIERA MILANO - ITALY - MAY 8 -11 2017


TECNOLOGIE

Factory ERP® del gruppo CSB-System

Le modernissime best practices delle aziende leader del settore russo della carne

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gni anno il gruppo CSBSystem organizza i Meat Business Days, ovvero un seminario internazionale che consente l’accesso e la visita a realtà aziendali all’avanguardia nel settore della carne. L’aspetto che accomuna queste aziende è l’aver implementato il Factory Erp® del gruppo CSB-System, azienda leader nella fornitura di soluzioni gestionali per il settore alimentare ed in particolar modo della carne, per una migliore gestione ed una massima trasparenza dei processi aziendali. Quest’anno i Meat Busi-

ness Days si terranno dal 29 maggio al 1o giugno in Russia. Perché sono state scelte proprio delle aziende russe? Semplicemente, perché il settore russo della carne negli ultimi anni ha subito una straordinaria modernizzazione. Sono sorti nuovi stabilimenti che grazie alla loro efficienza, digitalizzazione e dimensioni hanno messo in ombra molti altri Paesi e questo seminario rappresenta un’opportunità unica per conoscere da vicino le ricette del loro successo. Gli esperti del gruppo

CSB-System assieme ai responsabili di progetto delle singole aziende accompagneranno i partecipanti dei Meat Business Days nella visita delle seguenti aziende: CHERKIZOVO, A G R O P R O M K O M P L E K TA C I YA e ZARECHNOE, rispettivamente negli stabilimenti di Kursk, Mosca e Voronež. CSB-System in 5 stabilimenti del Gruppo Cherkizovo Si inizierà con lo stabilimento di Kursk del gruppo C HERKIZOVO . Questo gruppo rappresenta la più grande azienda agroalimentare rus-

Fase di confezionamento sottovuoto nello stabilimento di Kursk del gruppo Cherkizovo.

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sa quotata in borsa. Fa parte delle tre aziende russe leader nei settori carne avicola, carne suina e prodotti a base di carne, senza tralasciare che è anche il più grande produttore di mangime del paese. Il gruppo CHERKIZOVO include 8 allevamenti di pollame con ciclo produttivo completo per una capacità totale di circa 550.000 tonnellate l'anno (peso vivo), 15 moderni allevamenti di suini con una capacità totale di 200.000 tonnellate l'anno (peso vivo), 6 stabilimenti di lavorazione carne con una capacità totale di 190.000 tonnellate l'anno e per finire, 9 stabilimenti per la produzione di mangimi. Nel 2015 il gruppo ha prodotto oltre 825.000 tonnellate di prodotti a base di carne, raggiungendo un fatturato di 77 miliardi di rubli (circa 1,25 mld di euro). Settori d’impiego e punti e punti di forza dell’utilizzo del CSB-System • Impiego del Factory Erp® in 5 stabilimenti produttivi del gruppo; • gestione centralizzata di tutti i processi aziendali; • gestione entrata merci e magazzino; • preparazione ordini mobile con KIT-Logistic di CSB-System; • gestione del sezionamento; • completa gestione e controllo dei complessi processi di produzione di salumi e specialità gastronomiche. Gestionale CSB-System completo per il Gruppo AgroPromkomplektaciya Il Gruppo aziendale AgroPromkomplektaciya, fondato nel 1988, è uno dei gruppi agricolo-industriali leader nella Federazione Russa. Il gruppo, integrato verticalmente con un ciclo produttivo collegato, è specializzato nell'allevamento di suini e nella produzione di latte, nonché nella lavorazione e distribuzione dei prodotti e mostra già da anni uno sviluppo estremamente dinamico. Oggi nelle 55 unità strutturali vengono impiegati circa 7.000 dipendenti. Nello stabilimento di Mosca, seconda meta di questo seminario, sono impiegate 1.200

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In alto: vista dall’alto dello stabilimento AgroPromkomplektaciya di Mosca. In basso: bovini di razza Black angus del Gruppo Zarechnoe nella regione di Voronež. persone e vengono prodotte ogni anno 185.000 tonnellate di carne suina con sezionamento di 150 suini all’ora. Oltre ad un complesso energetico per la produzione di energia elettrica e termica, lo stabilimento presenta moderni impianti di depurazione. Settori d’impiego e punti di forza dell’utilizzo del CSB-System • Gestione di tutti i processi produttivi e degli impianti di produzione; • elaborazione e sezionamento robotizzati delle carcasse; • automatizzazione e tecnica ro-

botica nell'intralogistica; • Factory Erp ® per la gestione completa di specifici processi di settore; • soluzioni EBS e EDI di CSBSystem; • possibilità di calcolare i costi di produzione in modo operativo e analizzare tutti gli importanti indici finanziari. CSB-System per il ciclo produttivo completo del Gruppo Zarechnoe Il Gruppo Zarechnoe è composto da più aziende agrarie che svolgono attività diverse ma complementari e sono tra loro integrate in modo

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I Meat Business Days rappresentano un’ottima opportunità per sperimentare di persona, nella pratica, le più moderne tecnologie del gruppo CSB-System. Partecipare è molto semplice: basta cliccare su www.csb.com e andare alla sezione “Eventi”. Qui è possibile scaricare l’agenda dei Meat Business Days ed iscriversi. verticale. L’azienda è leader nel mercato russo della carne bovina di alta qualità e realizza un ciclo produttivo completo, che comprende: coltivazione di piante, 8 aziende di allevamento di bovini Black angus, allevamento di mucche da latte, ingrasso e lavorazione della carne. La terza e ultima visita prevista da questo seminario internazionale riguarderà il moderno stabilimento produttivo nella regione di Voronež, che opera nel rispetto di tutti gli standard russi, americani ed europei. Le linee produttive sono ultramoderne. Settori d’impiego e punti e punti di forza dell’utilizzo del CSB-System • Rintracciabilità di tutti i prodotti inclusa la garanzia di provenienza; • gestione di tutti i processi logistici; • processi produttivi automatizzati; • magazzini robotizzati; • macellazione rituale.

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Come partecipare ai Meat Business Days Partecipare ai Meat Business Days è molto semplice. È sufficiente cliccare su www.csb.com e andare alla sezione degli “Eventi”. Qui è possibile scaricare l’agenda dei Meat Business Days ed iscriversi. La quota di partecipazione è adeguata all’opportunità offerta e copre i costi organizzativi nonché coffee break, pranzo e cena durante la manifestazione, inclusi i trasferimenti in bus alle aziende da visitare. A chi è indirizzato il seminario Il gruppo CSB-System consiglia vivamente la partecipazione a questo seminario a tutti coloro che vogliono: • vedere le Best Practices delle più moderne aziende russe del settore carne; • sperimentare di persona, nella pratica, le più moderne tecnologie del gruppo CSB-System; • gettare uno sguardo sul mercato russo e sul suo grande potenziale

di crescita; • ascoltare relazioni di esperti del settore; • incontrare operatori del settore altamente motivati e scambiare esperienze a livello internazionale. Iscrivetevi già oggi. Saremo lieti di incontrarvi.

Referente Italia: • Dott. A. Muehlberger CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (VR) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: info.it@csb.com Web: www.csb.com

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EasyGrip

il guanto che non lascia la presa.

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EasyGrip™ permette un utilizzo di forza muscolare pari a circa la metà rispetto all’uso di un guanto normale. EasyGrip™ grazie alle sue placchette antiscivolo permette di afferrare saldamente e con meno sforzo ogni tipo di carne. EasyGrip™ è stato ideato dai tecnici degli stabilimenti Amadori, dove viene utilizzato con successo.

EasyGrip™ è un sistema brevettato IntPat.

EasyGrip™ è una soluzione efficace che può portare miglioramenti concreti e tangibili per i lavoratori del settore della trasformazione alimentare.

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EasyGrip™ è realizzato in collaborazione con la prof.ssa Daniela Colombini presidente e direttore della associazione Scientifica EPM IES (INTERNATIONAL ERGONOMICS SCHOOL OF POSTURE AND MOVEMENT) - MILANO

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Le piccole, incredibili cubettatrici di Holac

Lazzari Equipment: Cubixx si conferma regina del mercato

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pesso sulle riviste di settore, così come sui giornaletti trimestrali delle Case produttrici di macchinari, ma anche alle più importanti fiere, si tende a parlare e presentare solamente le attrezzature top di gamma, elencandone robustezza, versatilità e capacità produttiva ai massimi livelli, tralasciando ingiustamente di accennare alle più economiche macchine di accesso alla gamma. Se ci si focalizza solo sui primati numerici: sicuramente le grosse macchine, capaci di produrre svariate tonnellate/ora, impressiona-

no maggiormente l’interlocutore, ma, come Golia vinse Davide, anche le piccole macchine possono stupire. HOLAC, al contrario di altre Case, costruisce tutte le proprie attrezzature con la stessa filosofia, dalla più piccola alla più performante. Questa idea si traduce con il nome di Cubixx: la cubettatrice più potente, più pesante, più robusta di ogni concorrente similare sul mercato. Il vantaggio principale è che con una Holac Cubixx si può produrre qualsiasi misura di taglio esattamente con gli stessi risultati delle grosse Holac

industriali. Tante grandi aziende nostre clienti hanno in stabilimento anche una Holac Cubixx, utile per fare prove su nuovi prodotti senza disturbare le linee industriali. Tanto non c’è differenza nel risultato finale: se riesce bene sulla Cubixx, riesce bene anche in linea! La grande qualità si vede sin dal telaio di base: una robusta scocca costruita interamente in acciaio inox ad alto spessore tagliato al laser, estremamente pulita nella linea e studiata per non lasciare interstizi dove potrebbe annidarsi del prodotto (si veda l’immagine in

La cubettatrice Holac Cubixx 100, più potente, più pesante e più robusta di ogni similare sul mercato. Nel riquadro in basso a sinistra, il telaio che evidenzia la robustezza della Holac Cubixx 100.

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Uno degli stampi della Holac Cubixx: in questo caso è quello per cubettare lo spezzatino. basso, tanto chiara quanto esplicativa). Ogni componente, dallo spintore al coltello rotante, è costruito con gli stessi materiali e la stessa filosofia delle versioni industriali: alle fiere, quando mostriamo queste piccole meravigliose Cubixx, ci piace fare soppesare gli stampi di taglio all’interlocutore invitandolo a fare altrettanto con la concorrenza. Non c’è paragone! Nell’acquisto, sia pure di una piccola macchina, l’obiettivo più importante da tenere presente è che la macchina deve farci guadagnare con le sue prestazioni, non farci risparmiare al momento di comperarla: la dimostrazione di quanto affermiamo è il numero di tali macchine vendute in questi anni, ormai oltre le milletrecento! Il motore elettrico che muove il coltello rotante, gli stampi di taglio e la pompa idraulica hanno di base una potenza di 2,6 kW, mentre l’impianto idraulico riproduce in piccolo la stessa configurazione delle Holac industriali. Tutte le parti che compongono la Cubixx sono smontabili a mano senza alcun attrezzo: in cinque minuti la macchina è completamente aperta e pronta al lavaggio che, manco a dirlo, può avvenire con lancia ad alta pressione. Di serie Cubixx è fornita di ruote bloccabili, per essere facilmente spostata da un

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reparto all’altro, oppure per essere riposta dove non intralci quando non serve il suo lavoro. I comandi sono touch screen (con caricato lo stesso programma delle macchine industriali, ma cominciamo a ripeterci troppo…) e permettono la stessa incredibile versatilità di taglio. Cubixx può infatti utilizzare coltelli rotanti a 1, 2, 3 o 4 ali taglienti, dischi a 4 lame per affettare, dischi rapè di varia misura, e gli stampi di taglio possono essere forniti con lamette da 0,5 a 2,5 mm di spessore, con profilo liscio, a seghetto stretto o a denti larghi, per ogni possibile applicazione. Inoltre, può montare l’attrezzatura adatta al taglio di ogni formaggio (stampi elettroerosi ricavati dal pieno), per qualsiasi formato. Che la vostra esigenza sia tagliare prosciutto cotto, pancetta, speck, carne salada o lardo a stick, cubetti e francobolli, affettare a rondelle salame cacciatore, salsiccia piccante o würstel, tagliare a listarelle o petali ogni tipo di formaggio, ridurre a rapè la mozzarella per pizze, cubettare salmone o tonno per tartare di pesce, affettare il polipo per insalate di mare, sgrossare a grossi cubi la carne per la preparazione di salami o salsicce, cubettare lardelli per mortadella e salame, o semplicemente produrre un magnifico spezzatino di manzo, Holac Cubixx è la macchina giusta per voi che avete tanta fantasia e diverse esigenze produttive, ma con un budget limitato dalle modeste quantità settimanali di produzione. La piccola Holac che lavora come le grandi Holac: incredibile ma vero!

Lazzari Equipment & Packaging Via Volta, 12 C 37026 Settimo di Pescantina (VR) Tel.: 045 8350877 – Fax: 045 8350872 E-mail: info@lazzariequipment.com Web: www.lazzariequipment.com


Sealed Air Food Care supporta le aziende con i servizi CogniPRO™

Internet of Things e Big data: una miniera di dati utili o un eccesso di informazioni?

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razie alle tecnologie avanzate e a una maggiore connettività, le apparecchiature e le fabbriche diventano sempre più intelligenti. Pertanto, le aziende hanno a disposizione una quantità enorme di dati sulla produzione. Allo stesso tempo, però, le risorse necessarie a gestire tutte queste informazioni possono essere insufficienti o inadeguate, complicando i processi aziendali anziché snellirli. In che modo le aziende possono fare tesoro di questa importante quantità di informazioni e dati per trarre dei vantaggi significativi nei processi produttivi, così da ottenere un impatto reale sulla redditività? Secondo quanto riportato in “Voice of the Enterprise: IoT Organisational Dynamics”, pubblicato dagli analisti di 451 RESEARCH1, nel 2017 il 90% delle aziende globali investirà nell’Internet of Things (IoT). Il 71% sfrutta già i sistemi di dati IoT e prevede un aumento delle spese del 33% nei prossimi mesi. L’ottimizzazione dei processi e il miglioramento dei prodotti sono i vantaggi più attesi,

rispettivamente, dal 68% e dal 42% dalle aziende. Nel settore alimentare, l’inarrestabile progresso tecnologico, la nascita di piccole realtà aziendali e i big data rappresentano una spinta verso nuovi livelli di innovazione e redditività. A fronte di tali mutamenti, SEALED AIR FOOD CARE sta trasformando il business del packaging in un’attività professionale di conoscenza avanzata, grazie al lancio della gamma di servizi CogniPRO™. I servizi CogniPRO offrono tutto il supporto necessario alle aziende del settore alimentare, fornendo soluzioni olistiche in grado di semplificare il raggiungimento degli obiettivi aziendali mediante prestazioni ottimizzate. «I servizi CogniPRO di Sealed Air Food Care nascono dall’integrazione di tecnologie all’avanguardia, analisi sofisticate dei dati e informazioni fruibili, per intervenire direttamente sulla redditività e mantenere i clienti in posizioni commerciali sempre innovative» spiega JOSEPH FIONDELLA, Sealed Air Food Care executive director of Sys-

Nel settore alimentare, l’inarrestabile progresso tecnologico, la nascita di piccole realtà aziendali e i big data rappresentano una spinta verso nuovi livelli di innovazione e redditività. A fronte di tali mutamenti, Sealed Air Food Care, con il lancio della gamma di servizi CogniPRO™, offre alle aziende del settore alimentare soluzioni olistiche in grado di semplificare il raggiungimento degli obiettivi aziendali mediante prestazioni ottimizzate

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Joseph Fiondella, Sealed Air Food Care executive director of Systems & Integration. tems & Integration. «Attualmente, le aziende di trasformazione alimentare traggono molto vantaggio dall’utilizzo di sistemi e materiali Cryovac® per il confezionamento sottovuoto. La nuova gamma di servizi CogniPRO può semplificare e potenziare le loro prestazioni per garantire miglioramenti su tutti i livelli operativi. Questo è il grande vantaggio dell’implementazione del modo di pensare legato ai big data e dell’impiego delle tecnologie di Internet of Things (IoT), come stanno sperimentando le aziende più lungimiranti del settore alimentare. Questa strategia commerciale deve essere adottata subito per non rischiare di rimanere legati a procedure non competitive». I servizi CogniPRO aiutano le aziende a rendere più efficace la

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Dove passa Cubixx 100L lascia il segno...

Piccola nel formato ma di GRANDI prestazioni La tipica robustezza holac unita all’incredibile versatilità rende Cubixx 100L unica nel suo segmento. Può montare tutti gli strumenti di taglio delle cubettatrici industriali, permette quindi la produzione di carni sia fresche che cotte in strisce cubi o francobolli, salumi come salame o würstel a fettine, che sia pesce frutta o formaggio. Cubixx 100L permette qualsiasi tipo di lavorazione abbiate in mente.

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Big data è il termine usato per descrivere una raccolta di dati così estesa in termini di volume, velocità e varietà da richiedere tecnologie e metodi analitici specifici per l’estrazione di valore. Il progressivo aumento della dimensione dei dataset è legato alla necessità di analisi su un unico insieme di dati, con l’obiettivo di estrarre informazioni aggiuntive rispetto a quelle che si potrebbero ottenere analizzando piccole serie, con la stessa quantità totale di dati. Ad esempio, l’analisi per sondare gli “umori” dei mercati e del commercio, e quindi del trend complessivo della società e del fiume di informazioni che viaggiano e transitano attraverso internet (fonte: wikipedia.org).

Grazie a Sealed Air i produttori potranno utilizzare le loro informazioni in tempo reale come valore aggiunto per portare avanti interventi strategici e ottenere così vantaggi competitivi

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gestione dei progetti e ad ottenere un ritorno sull’investimento migliore. Grazie al monitoraggio e all’analisi predittiva dei dati, le sfide correlate all’operatività e alle risorse possono essere evitate, consentendo ai processi di rispettare sempre le scadenze e i limiti di budget previsti. Inoltre, operazioni più efficienti consentono di ottenere un consumo energetico più basso e una produzione di scarti ridotta, potenziando le credenziali di sostenibilità delle aziende. Fiondella ha sottolineato che «fra pochi anni, il monitoraggio delle apparecchiature e l’analisi dei big data saranno competenze normali

per i produttori alimentari. Sealed Air desidera fornire supporto alle aziende nell’implementazione della tecnologia delle apparecchiature più avanzata per raccogliere, analizzare e ottimizzare i dati. In questo modo, i produttori potranno utilizzare le loro informazioni in tempo reale come valore aggiuntivo per portare avanti interventi strategici e ottenere vantaggi competitivi». Nota 1. 451research.com/reportlong?icid=4040; www.computerweekly.com/news/450410267/ Three-quarters-of-enterprises-collecting-IoT-data-says-451-Research

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LA PAGINA SCIENTIFICA

La certificazione medicoveterinaria: considerazioni sulle ultime disposizioni di Emanuele Guidi

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uesto lavoro nasce dalla riflessione quale operatore della sanità pubblica in merito agli atti medici che quotidianamente siamo chiamati ad ottemperare: le certificazioni. Il motivo è la recente pubblicazione delle Linee guida operative di certificazione per l’esportazione di animali e prodotti verso i Paesi Terzi da parte delle autorità competenti, emanata congiuntamente dalle DGISAN, la Direzione generale per l’Igiene e la Sicurezza degli alimenti e la nutrizione e la Direzione generale della Sanità animale e dei farmaci

veterinari in data 5 dicembre 2016. In tale documento è ben definito lo scopo e il campo di applicazione (simile ad una vera e propria procedura) in cui si applica la certificazione. Nelle definizioni, riprese diligentemente dalla normativa specifica di settore, si introduce il concetto, non ben definito precedentemente, di filiera di certificazione, inteso come insieme delle certificazioni relative all’animale o prodotto, ognuna delle quali rilasciate sulla base di quanto attestato nelle precedenti propedeutiche all’emissione del certificato

ufficiale per l’esportazione (es. attestazioni sanitarie del macello, del laboratorio di sezionamento e certificazione ultima dello stabilimento di produzione ai fini dell’esportazione di prodotti a base di carne in Giappone o in USA). Nella sezione dei modelli di certificazione viene espressamente evidenziato che sono reperibili sui siti: TRACES, attualmente richiesto anche per esportazioni carni fresche in Hong Kong (TRAde Control and Export System; webgate.ec.europa. eu/sanco/traces), o Ministero della Salute (www.salute.gov.it).

Per la sua importanza nell’ambito della sanità pubblica e animale, il certificato rilasciato dal veterinario deve essere in primis “chiaro e affidabile”.

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Il medico veterinario deve assumersi la piena responsabilità delle prescrizioni farmacologiche effettuate, assicurandosi dello stato di salute del paziente animale destinatario della prescrizione stessa. I dieci principi della certificazione Attraverso il certificato il medico veterinario fa una “dichiarazione formale”. Per la sua importanza nell’ambito della sanità pubblica e animale, il certificato deve essere “chiaro e affidabile”. A distanza di 15 anni dall’emanazione del primo decalogo, la FVE (Federazione dei Veterinari Europei) ha stilato i nuovi dieci principi da seguire nella stesura di una certificazione veterinaria, trasmettendo alle organizzazioni nazionali aderenti il documento “FVE: 10 principles of veterinary certification”. Adottato il 22 novembre scorso, su proposta dello Statutory Body Work-

ing Group, il documento contiene dieci regole di buona pratica per il medico veterinario nel suo ruolo di professionista legalmente abilitato all’esercizio indipendente, etico e improntato alla responsabilità individuale. Eccolo di seguito: 1. I medici veterinari devono certificare solo su questioni che rientrano nell’ambito delle loro conoscenze, che possono essere verificate e attestate personalmente o da un altro veterinario che abbia personale e diretta conoscenza delle circostanze in oggetto e che sia autorizzato a fornire il certificato. 2. I medici veterinari non devono

A distanza di 15 anni dall’emanazione del primo decalogo, la Federazione dei Veterinari Europei ha stilato i nuovi dieci principi da seguire nella stesura di una certificazione veterinaria. Il documento contiene regole di buona pratica per il veterinario nel suo ruolo di professionista legalmente abilitato all’esercizio indipendente, etico e improntato alla responsabilità individuale

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rilasciare un certificato che possa sollevare dubbi di conflitto di interesse. I medici veterinari non devono permettere pressioni di tipo commerciale, finanziario, o comunque idonee a compromettere la loro imparzialità. I certificati vanno scritti con termini semplici e facili da comprendere. I certificati non devono contenere parole o frasi che si prestano a più di una interpretazione. Un buon certificato ha due caratteristiche: 1) è redatto su un solo foglio e, qualora sia necessario utilizzare più di una pagina, deve essere prodotto in modo che le due o più pagine necessarie siano parti di un tutto integrato, unico e indivisibile; 2) è rilasciato con numerazione univoca e una copia deve essere trattenuta dall’emittente o dall’ente/ditta/istituzione di appartenenza. I medici veterinari devono firmare solo i certificati scritti in

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OIE: International Health Code Capitolo 1.2.2. Procedure di certificazione Articolo 1.2.2.1. Protezione dell’integrità professionale del veterinario certificatore La certificazione dovrebbe essere basata su standard etici il più possibile alti; tra questi il più importante è che l’integrità professionale del veterinario certificatore deve essere rispettata e salvaguardata. È essenziale che non vengano incluse nella certificazione ulteriori materie specifiche che non possono essere accuratamente e onestamente sottoscritte da un veterinario. Ad esempio, non si dovrebbe certificare un’area come indenne da malattie non denunciabili della cui occorrenza il veterinario che sottoscrive il certificato non sia necessariamente informato. Parimenti, non è accettabile richiedere certificazioni per eventi che avranno luogo dopo la firma del documento, qualora questi eventi non siano sotto il diretto controllo e la supervisione del veterinario che sottoscrive. La certificazione di indenne da malattie basata sulla mera assenza di sintomi clinici e sull’anamnesi dell’allevamento è di limitato valore. Ciò vale anche nel caso di malattie per le quali non vi siano test diagnostici specifici, ovvero nel caso in cui la validità del test come ausilio diagnostico sia limitata. Le Linee guida di cui all’articolo 1.2.1.1. sono mirate non solo ad informare il veterinario certificatore, ma anche a salvaguardarne l’integrità professionale. Articolo 1.2.2.2. Predisposizione di certificati veterinari internazionali I certificati dovrebbero essere redatti in conformità ai seguenti principi: 1. dovrebbero essere prestampati, possibilmente su di un unico foglio di carta, numerati in serie ed emessi dall’Amministrazione veterinaria su carta intestata ufficiale e, se possibile, stampati utilizzando tecniche che prevengano la falsificazione. Le procedure di certificazione elettronica dovrebbero includere standard di sicurezza equivalenti; 2. dovrebbero essere scritti in termini che siano il più possibile semplici, non ambigui e facilmente comprensibili, senza perdere tuttavia il proprio significato legale; 3. quando richiesto, dovrebbero essere scritti nella lingua del Paese importatore. In tali circostanze essi

una lingua che sono in grado di comprendere. 8. I certificati devono chiaramente identificare i soggetti della certificazione. 9. I medici veterinari devono firmare solo certificati in originale. È possi-

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dovrebbero essere redatti anche nella lingua del veterinario certificatore; dovrebbero richiedere l’identificazione appropriata dei singoli animali e prodotti animali, tranne nel caso in cui ciò sia impraticabile (ad esempio i pulcini di un giorno); non dovrebbero richiedere al veterinario di certificare materie che non rientrino nell’ambito delle proprie conoscenze o che egli stesso non possa accertare e verificare; se opportuno, dovrebbero essere accompagnati, quando presentati al veterinario certificatore, da Linee guida con l’indicazione dell’ambito di indagine da fare, degli esami e test da effettuare prima di firmare il certificato; il loro testo non dovrebbe essere modificato, fatte salve eventuali cancellature che devono essere firmate e timbrate dal veterinario certificatore. La firma e il timbro devono essere in un colore diverso da quello della stampa; sono ammessi solo certificati originali.

Articolo 1.2.2.3. Veterinari certificatori I veterinari certificatori dovrebbero: 1. essere autorizzati, dall’amministrazione veterinaria del Paese di esportazione, a sottoscrivere certificati veterinari internazionali; 2. firmare certificati solo nel momento opportuno; in particolare, essi non dovrebbero sottoscrivere certificati in bianco o incompleti, o certificati relativi ad animali o prodotti di origine animale che non hanno ispezionato o che non hanno superato il loro controllo; 3. assicurarsi, prima di firmare, che i certificati siano stati completati in toto e correttamente, e che non vi sia una parte di essi lasciata in bianco; nel caso un certificato venga sottoscritto sulla base di documentazione di supporto, il veterinario certificatore dovrebbe essere in possesso di tale documentazione prima di firmare; 4. non avere interessi finanziari, diversi dal compenso per il servizio reso, negli animali o prodotti di origine animale oggetto di certificazione. >> Link: www.oie.int

bile il rilascio di un duplicato (marcato come tale) quando richiesto da disposizioni ufficiali o di legge. 10. All’atto della firma, i medici veterinari devono assicurarsi che il certificato soddisfi i seguenti requisiti:

a) la firma sia leggibile; b) il certificato non rechi solo la firma ma anche — a chiare lettere — il nominativo, la qualifica, l’indirizzo e (quando è il caso) il timbro ufficiale o d’esercizio;

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FVE: i dodici principi di certificazione 1. Al veterinario dovrebbe essere richiesto di certificare solo quelle materie che sono di sua diretta conoscenza, che possono essere accertate da lui personalmente o che sono oggetto di una certificazione di supporto da parte di un altro veterinario, purché quest’ultimo abbia effettivamente conoscenza personale delle materie in questione e sia autorizzato a produrre tale documento di supporto. Materie che non rientrino nell’ambito delle conoscenze del veterinario, e che non siano oggetto di un certificato di supporto, ma siano note ad altre persone, quali agricoltori, allevatori o conducenti di automezzi, dovrebbero essere oggetto di dichiarazione esclusivamente da parte di queste persone. 2. Né al veterinario, né alle altre persone di cui al punto 1 non dovrebbe essere richiesto di sottoscrivere documenti relativi a materie non verificabili dal firmatario. 3. I veterinari non dovrebbero emettere certificati che possano sollevare questioni circa un possibile conflitto di interessi, ad esempio in relazione ad animali di loro proprietà. 4. Tutti i certificati dovrebbero essere scritti in termini il più possibile semplici e facilmente comprensibili. 5. I certificati non dovrebbero utilizzare parole o frasi che possano dare adito a più di una interpretazione. 6. I certificati dovrebbero essere: a. predisposti in un unico foglio di carta o, nel caso in cui siano necessarie più pagine, in forma tale che le due o più pagine costituiscano parte indivisibile di un insieme integrato; a. dotati di un unico numero identificativo, con appositi registri conservati dall’Autorità emettente con indicazione delle persone a cui sono stati forniti i certificati con quei numeri particolari. 7. I certificati dovrebbero essere scritti nella lingua del veterinario che li sottoscrive ed essere accompagnati da una traduzione ufficiale del certificato nella lingua del Paese di destinazione finale. 8. I certificati dovrebbero identificare individualmente i singoli animali tranne nei casi in cui ciò sia impraticabile, ad esempio nei pulcini di un giorno. 9. I certificati non dovrebbero richiedere al veterinario di certificare la conformità alla normativa CE o di un Paese Terzo, a meno che le disposizioni di legge non

c) la data del certificato deve coincidere con la data di firma ed emissione e (quando è il caso) con la scadenza di validità; d) nessuna parte del certificato deve avere spazi in bianco

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siano specificate chiaramente sul certificato stesso o gli siano state fornite dall’Autorità emettente. 10. Quando opportuno, l’Autorità emettente dovrebbe fornire al veterinario certificatore Linee guida con l’indicazione dell’ambito di indagine da fare, degli esami che deve svolgere, o per chiarire ogni dettaglio del certificato che può richiedere ulteriori interpretazioni. 11. I certificati dovrebbero sempre essere emessi e presentati in originale; fotocopie non sono accettabili. Stante che: a. una copia del certificato (chiaramente identificata come “copia”) dovrebbe sempre essere fornita all’Autorità da coloro cui sono stati emessi i certificati (vedi il punto 6); b. nel caso in cui, per ogni buona e sufficientemente motivata ragione (es. il danneggiamento del certificato durante il transito), sia autorizzato e fornito dall’Autorità competente un duplicato, questo deve essere chiaramente identificato come duplicato prima della emissione. 12. Quando sottoscrive un certificato, un veterinario deve assicurarsi: a. di sottoscrivere e completare ogni parte da compilare in un inchiostro che non sia facilmente scambiabile per fotocopia (es. diverso dal nero); b. che il certificato non contenga cancellature o alterazioni diverse da quelle che sono espressamente dichiarate ammissibili sul certificato stesso, oppure sia soggetto a modifiche purché siglate e timbrate da un veterinario; c. che il certificato porti non solo la sua firma, ma anche, a chiare lettere, il nome, la qualifica, l’indirizzo e, quando opportuno, il suo timbro ufficiale o di studio; d. il certificato porti la data nella quale è stato sottoscritto ed emesso e (se del caso) il periodo di validità del certificato stesso; e. nessuna parte del certificato sia lasciata in bianco in modo tale che possa essere successivamente completata da persone diverse dal veterinario. (FVE/doc/14/061, adopted on 22 November 2014) >> Link: www.fve.org

che possano essere successivamente completati da persone diverse dal medico veterinario; e) sul certificato non devono esserci cancellature o alterazioni diverse da quelle appor-

tate e timbrate dal veterinario certificatore. Si riportano nei box gli estratti delle Linee guida dell’OIE (Organizzazione mondiale della Sanità animale) e della FVE. Emanuele Guidi

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Agricoltura ecosostenibile ed ecocompatibile con i droni di Alfonso Piscopo

I

n un mondo sempre più globalizzato, un uso razionale delle risorse disponibili è indispensabile per salvaguardare il nostro pianeta. Ridurre l’impatto ambientale è un’assunzione di responsabilità a cui ogni singolo settore produttivo deve porre rimedio, facendosi carico di attuare strategie e interventi mirati, che tengano conto delle effettive esigenze naturali del terri-

torio. In settori trainanti della nostra economia come l’agricoltura e la zootecnia un uso attento dell’acqua, lo sfruttamento razionale del suolo, il ridimensionamento dei carburanti, il riciclo dei rifiuti, l’uso gestionale dei farmaci, l’uso prudente di fertilizzanti e pesticidi, costituiscono la sfida strategica futura, che consentirà di massimizzare la resa agricola e la qualità delle produzioni

attraverso nuovi sistemi tecnologici e strumenti all’avanguardia, a basso impatto ambientale. L’impiego di nuovi strumenti tecnologici in campo agronomico dovrà tener conto delle effettive esigenze colturali e delle caratteristiche fisico-biochimiche del suolo, così da arrecare minori danni possibili all’ecosistema. L’agricoltura di precisione (Precision Farming) rappresenta il

«Se c’è un settore in cui i droni stanno passando rapidamente dalla fase di sviluppo tecnologico a quelle applicativa e commerciale è l’agricoltura di precisione» ha dichiarato recentemente il presidente di Roma Drone Conference Luciano Castro. «Questo settore, infatti, si sta rivelando di grande interesse in Italia, in particolare per la relativa semplicità dell’utilizzo dei droni in aree agricole considerate “non critiche” perché disabitate e prive di infrastrutture» (photo © Lockheed Martin).

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L’agricoltura di precisione è una strategia gestionale dell’agricoltura che si avvale di moderne strumentazioni ed è mirata all’esecuzione di interventi agronomici tenendo conto delle effettive esigenze colturali e delle caratteristiche biochimiche e fisiche del suolo. nuovo modello gestionale agricolo che si attuerà in un futuro non molto lontano. Già se ne parla nei paesi dell’Eurozona, che dovranno prendere coscienza dei nuovi venti di cambiamento per la difesa dell’ambiente. Sarà cura dei governanti europei accelerare la marcia in campo agronomico, con nuove risorse tecnologiche ed economiche, tanto più che il settore è stato oggetto di attacchi mediatici eccessivi. Droni e Precision Farming Ma cosa si intende esattamente per Precision Farming o Precision agricul-

ture (PA)? Più semplicisticamente potremmo definirla come la diffusione dell’innovazione tecnologica e gestionale dell’impresa agricola, che oggi più che mai deve essere competitiva, e per esserlo deve prefiggersi i seguenti obiettivi: • una maggiore/migliore produzione dei prodotti; • un minore impiego di risorse disponibili; • una riduzione dei costi di produzione. L’agricoltore “tecnologico” deve fare spazio a figure nuove e specialistiche, con competenze nella

gestione delle attività produttive, trasformative e valorizzative del territorio; deve mirare al rispetto degli equilibri ambientali e idrogeologici e alla realizzazione di processi produttivi ecosostenibili, vegetali e animali; deve applicare i risultati delle ricerche più avanzate per la qualità delle produzioni sotto il profilo fisico-chimico-igienicoorganolettico; deve attivare processi tecnologici e biotecnologici per ottenere risultati che puntino alla qualità e all’economicità e per gestire inoltre il corretto smaltimento e/o riutilizzazione dei reflui e dei residui. Il primo incipit che ha preso corpo a livello europeo (Direttiva Europea n. 128/2009) riguarda l’implementazione di un uso sostenibile dei prodotti fitosanitari. In tale contesto, per ridurre l’impatto ambientale, gli agricoltori devono dotarsi di strumenti e mezzi tecnologici di precisione per una corretta gestione di una coltura specifica, di una malattia o di una infestazione. Il MIT di Boston ha inserito l’utilizzo dei droni in agricoltura tra le novità strategiche e tecnologiche del Precision Farming. Questo sistema tecnologico introduce un modello nuovo di agricoltura che, concepito in una visione globale, consentirà la massimizzazione della resa agricola e la riduzione dell’impatto ambientale. I droni sono velivoli che viaggiano senza pilota e sono dotati di un computer di bordo. I droni agricoli

Un aeromobile a pilotaggio remoto o APR, comunemente noto come drone, è un velivolo caratterizzato dall’assenza del pilota umano a bordo. Il suo volo è controllato dal computer a bordo del velivolo, sotto il controllo remoto di un navigatore o pilota, sul terreno o in un altro veicolo. L’inclusione del termine aeromobile sottolinea che, indipendentemente dalla posizione del pilota e/o dell’equipaggio di volo, le operazioni devono rispettare le stesse regole e le procedure degli aerei con pilota ed equipaggio di volo a bordo. Il loro utilizzo è ormai consolidato per usi militari e crescente anche per applicazioni civili, ad esempio in operazioni di prevenzione e intervento in emergenza incendi, per usi di sicurezza non militari, per sorveglianza di oleodotti, con finalità di tele-rilevamento e ricerca, ecc… Questi velivoli sono regolamentati per il nostro paese dall’ENAC (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile); quindi i possessori di droni devono avere dei requisiti specifici, compresa la formazione degli operatori prevista dall’articolo 743 del Codice della Navigazione. All’art. 20, il regolamento ENAC (Reg. 16-07-2015), prevede che un pilota di APR debba essere in possesso di appropriato riconoscimento di competenza, in corso di validità. Il pilota è responsabile della condotta in sicurezza del volo. Chiunque soggetto, superata la maggiore età, al quale sia stata riconosciuta un’adeguata idoneità psicofisica, può ottenere l’abilitazione a condurre un APR, ovviamente se in possesso delle conoscenze aeronautiche di base (fonte: it.wikipedia.org).

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sono programmati per eseguire voli e rilievi in grado di raccogliere tutte le informazioni di una coltura, di una pianta, di monitorarne lo stato di salute e/o l’insorgenza di eventuali malattie. Mediante tele-rilevazioni, sono in grado di raccogliere dati e informazioni sulla quantità di fertilizzanti o pesticidi necessari, al fine di limitare interventi a pioggia. I dati vengono raccolti e distribuiti tramite sensori, stazioni meteo e satelliti, setacciando i terreni e fotografando le colture, con estrapolazione di informazioni in funzione del clima, dell’umidità, delle componenti minerali del suolo. Le informazioni acquisite dal pilota automatico vengono trasferite a un software a terra che a sua volta fornisce una mappatura completa del terreno ispezionato. Nonostante gli sforzi di impiego di agrotecniche sostenibili, come l’agricoltura biologica, lo zero tillage, l’IPM (Integrated Pest Management), si è ancora lontani da un’agricoltura di precisione a zero impatto ambientale, che tenga conto oltretutto dell’aumento della resa del cibo e del risparmio delle risorse disponibili e/o utilizzabili. La nuova strategia di impiego dei droni in agricoltura, in affiancamento al lavoro dell’agricoltore, sarà di grande aiuto per quest’ultimo. Questi mini apparecchi consentiranno di rilevare la crescita delle piante, l’umidità del suolo, la componente di azoto presente sul campo, oppure permetteranno di selezionare gli insetti che sono in grado di prevenire le malattie. Moderne tecnologie sono già in uso in agricoltura, con la guida dei mezzi agricoli telecomandati; se a questi si assoceranno i droni, si avrà presto un’agricoltura “metrologica” (metrologia = scienza che studia la misura) che consentirà di misurare e catturare dati per ottenere coltivazioni sempre migliori e sostenibili dal punto di vista ecologico. L’agricoltura di “precisione” made in Italy Anche da noi, soprattutto al Nord Italia, hanno preso corpo progetti simili e i primi droni già sorvola-

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no le nostre terre, con attività di monitoraggio dei campi e di spargimento di concimi e fitofarmaci. Ad esempio, in un’azienda agricola del Mantovano, in affiancamento ai mezzi agricoli tradizionali, è stato inserito un drone su una coltivazione di mais di circa 200 ettari. Il nuovo arrivato sorvola a bassa quota i campi con scopi specifici, utilizzato soprattutto nella lotta biologica ai parassiti. Sostituendosi alla manodopera e alle macchine agricole, con un lavoro di precisione, a basso impatto ambientale, in pochissimo tempo, sparge microcapsule di cellulosa contenenti le uova di Trichogramma brassicae, che funge da antagonista della piralide del mais, un lepidottero killer in grado di distruggere anche il 30% del raccolto. Il drone, radiocomandato, dotato di autopilota e GPS, ospita un kit spargitore che scarica autonomamente il contenuto lungo il percorso di volo, con un peso al decollo di 5,5 kg e un’autonomia di 18 minuti di volo per ogni carico. Il velivolo è stato rifornito di 185.000 uova di Trichogramma b. che, sparse nel terreno, hanno distrutto la quasi totalità di piralide che aveva infestato la coltura di mais. Se l’APR si presta bene a innovare le colture agricole (agrumeti, vigneti, ortaggi, ecc…), la sua attività non è da meno in campo zootecnico. Le nuove tecnologie in zootecnia possono essere utilizzate negli allevamenti di bestiame estensivi, per controllare e movimentare gli animali al pascolo. Nell’allevamento al coperto, dove l’accesso ai droni è meno accessibile, la tecnologia è affiancata da strumentazioni ugualmente sofisticate, per tenere sotto controllo le mucche. Una sorta di grande fratello, che scruta i loro movimenti: ad esempio, un podometro applicato alle zampe può rilevare i passi delle mucche, i tempi di alzata e sdraiata, il tempo di fecondazione. Dott. Alfonso Piscopo Dirigente Veterinario Azienda Sanitaria Provinciale Agrigento Veterinario del Servizio Sanitario Nazionale

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STATISTICHE

Produzione del pollame ancora in crescita nel 2017

S

econdo quanto emerso dalla riunione del Gruppo Dialogo Civile di DG AGRI-POLLAME E UOVA del 16-17 febbraio 2017, dopo tre anni di crescita consecutiva, la produzione di carne di pollame a livello europeo crescerà ancora del 4% nel 2017. Oltre il 70% della produzione europea è concentrata in 6 Paesi, e tra questi la Polonia — che è il maggior produttore con il 15% di quota ed oltre 2 milioni di tonnellate di carne di pollame prodotta nel 2015 — è quello in cui si avrà il maggior incremento di produzione. Anche Spagna ed Italia hanno presentato per il 2017 una prospettiva di lieve crescita rispetto al 2016. Il prezzo medio europeo per il broiler 65% (oggi a 176,20 €/100 kg) è superiore del 10% rispetto a quello USA (169,90 €/100 kg) e del 42% rispetto a quello brasiliano (100,90 €/100 kg). L’attuale livello di prezzo medio europeo per il pollo è in linea con il medio del 2016, seppur ancora inferiore del 10% rispetto alla media degli ultimi 5 anni.

122

Principali produttori europei di carne avicola (.000 ton) Paese

Produzione

Polonia

2.011

Francia

1.718

Regno Unito

1.689

Germania

1.511

Spagna

1.443

Italia

1.295

Altri

4.037

Fonte: Eurostat.

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Il trend di importazione totale è stato del +2,8% nel 2016. L’Europa continuerà nel 2017 ad importare carne di pollame soprattutto da Brasile e Tailandia mantenendo le nuove maggiori quote di import da Ucraina e Cile. Il trend generale delle esportazioni nel 2016 è stato del +8%; questo andamento, però, da inizio 2017 è messo in crisi dai focolai di influenza aviaria in tutta Europa, che stanno facendo alzare i blocchi all’importazione da parte di numerosi Paesi. Fino ad ora i volumi di export erano quasi doppi rispetto a quelli di import. Per quanto riguarda le uova, la previsione 2017 è di un leggero aumento (+1,4%) della produzione, recupero che solo in parte compenserà la flessione del –1.8% del 2016 sull’anno precedente. Gli incrementi principali si prevedono in Italia, Regno Unito e Polonia. I prezzi medi europei del 2017 sono in linea con il 2016, i quali erano del 11% inferiori alla media degli ultimi 5 anni. Le importazioni sono in calo del 14% nel 2016, ma in forte crescita l’importazione dall’Ucraina per le quantità e nel 2016 anche dagli USA, soprattutto in valore. Gli USA hanno sovrapproduzione dopo il crollo dovuto alla ripresa dall’influenza aviaria del 2015. Le esportazioni di uova sono invece in calo (–12% nel 2016) soprattutto verso il Giappone (–37%). Il 56% degli allevamenti è in gabbie arricchite; il 14% a terra, il 26% voliera e il 4% biologico. La maggior concentrazione di galline a terra all’aperto è nel Regno Unito, inducendo così forti preoccupazioni per le misure di biosicurezza contro i rischi di contatto con volatili selvatici per l’influenza aviaria. La Cina è il principale importatore di ovo-prodotti dall’Europa con un trend di crescita. Le prospettive di mercato di importazione sono in sviluppo nei Paesi MENA (Medio Oriente e Nord Africa, ai quali a volte si aggiungono Paesi limitrofi). (Fonte: Ismea) Nota A pag. 122, allevamento di polli all’aperto (photo © teamfoto – Fotolia).

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STORIA E CULTURA

Naturalmente carnivorani L’archeozoologia e l’antropologia testimoniano che la nostra specie mangiava le più diverse carni. Un comportamento oggi messo in discussione da movimenti culturali di Giovanni Ballarini

L

a recente pubblicazione di una nota precisa e interessante del prof. DARIO CIANCI dell’Università di Bari (Georgofili INFO, 30 novembre 2016, Il consumo della carne nella storia) puntualizza le numerose dimostrazioni che la nostra specie si è sempre alimentata di carni e che queste hanno avuto un indispensabile ruolo nel nostro sviluppo. Anche per questo motivo la carne è e rimane una parte importante nell’alimentazione umana, tant’è che l’uomo, ogni volta che ne ha la possibilità, ne aumenta i consumi, come sta avvenendo ad esempio attualmente in Cina. Che l’umanità sia una “specie culturale”

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spiega però anche come si siano sviluppati e ancora persistano, con diverse giustificazioni, movimenti di pensiero, che, preoccupati del benessere degli animali — che tuttavia deve essere esaminato, studiato e, soprattutto, valutato per quello che è, non per quello che sentimentalmente ci si immagina — vogliono far rinunciare all’uomo questa sua naturale propensione (l’essere “naturalmente onnivoro”), in un non facile equilibrio tra natura e cultura. Pur non sottovalutando i presupposti culturali ed etici di queste correnti, non si possono dimenticare e, soprattutto, eliminare le nostre esigenze biologiche,

partendo dal presupposto che il consumo di carne ha avuto un ruolo di primo piano nello sviluppo del cervello umano. Carnivorani da sempre Gli archeologi, studiando i rapporti tra gli isotopi del carbonio e dell’azoto nel collagene delle ossa e della dentina e nell’idrossiapatite dello smalto dentale, hanno dimostrato che gli ominidi che ci hanno preceduto, e dai quali abbiamo ereditato bisogni alimentari e comportamenti, per milioni di anni hanno avuto un’alimentazione quanto mai varia comprendente carne dei più diversi tipi. In modo particolare la nostra

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specie di Homo sapiens sapiens o uomo di Cro Magnon, nelle ultime fasi del Paleolitico (30.000÷10.000 anni prima dell’era corrente), ha aumentato la sua dipendenza alimentare dalla carne ottenuta soprattutto da selvaggina, accompagnata da frutti o radici del proprio ambiente di vita. Un’alimentazione carnea era molto più spinta nel nostro “cugino” Homo sapiens o uomo di Neanderthal (circa 24.000 anni prima dell’era corrente) la cui dieta comprendeva il 90% di carne (RICHARDS, 2002). Per l’uomo raccoglitore gli alimenti di origine animale erano rappresentati da uova, molluschi, piccoli animali e dai resti della caccia esercitata dai

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grandi carnivori. Con l’invenzione degli strumenti di cattura, caccia e pesca furono le uniche forme di approvvigionamento di carni e altri alimenti d’origine animale fino al Neolitico. La rivoluzione agricola, la domesticazione e l’allevamento, iniziati tra i 10.000 e i 13.000 anni a.C., apportarono un radicale cambiamento nell’alimentazione umana. Nel 9.000 a.C., che segna il passaggio da Mesolitico a Neolitico, si cominciarono a introdurre i primi prodotti agricoli. L’allevamento, inoltre, passò a poco a poco dal nomadismo alla transumanza, allo stanziale brado, fino ad arrivare

all’odierno intensivo e all’intensivo senza terra, con espansione delle specie a ciclo rapido e miglior rendimento nella trasformazione degli alimenti (suini, polli, oche, ecc…). Carnivorani per nutrire il cervello Le moderne ricerche stanno dimostrando che gli alimenti di origine animale sono stati fondamentali per l’evoluzione del cervello degli ominidi, come lo sono ancora oggi nello sviluppo dei bambini. Alcuni studiosi affermano che molti primati e gli ominidi dai quali discendiamo si sono evoluti da erbivori a onnivori, conservando la funzione intestinale per la fermentazione della cellulosa

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che avviene nel grosso intestino che ancora oggi ci caratterizza. Altri ricercatori ritengono che i nostri antenati per milioni di anni siano stati principalmente carnivorani e che mangiassero più carne di quanta se ne consumi oggi. Era una carne povera di acidi grassi saturi e ricca di acidi grassi polinsaturi (PUFA), come quella delle odierne razze autoctone allevate allo stato brado. Un’alimentazione ricca di acidi grassi polinsaturi a catena lunga, presenti soprattutto nelle carni, avrebbe svolto un ruolo fondamentale nell’evoluzione umana contribuendo a un rapido sviluppo del cervello degli ominidi che, dai circa 600 centimetri cubi del genere Australopithecus, attraverso l’Homo erectus (~1,8 milioni di anni fa) e l’Homo abilis (~2 milioni di anni fa), raggiunse i 1.350 dell’Homo sapiens sapiens. L’alimentazione dell’Homo erectus sembrerebbe essere stata più ricca di carne in confronto a quella degli Australopitechi, come dimostrano gli strumenti con bordi taglienti utilizzati per lacerare la pelle degli animali (ARJAMAA e VUORISALO, 2010; MATASSINO et al., 2010). Lo studio della storia alimentare dell’uomo e dei pre-umani dimostra che, per un periodo di almeno due milioni di anni, durante il quale ha agito la selezione naturale, i nostri antenati hanno mangiato quantitativi crescenti di carne, con conseguente adattamento della genetica a questo tipo di alimentazione. Inoltre, diverse linee di ricerca e di indagini indicano come la carne magra sia stata la maggior fonte di energia negli umani fino alla scoperta dell’agricoltura. Si tratta di indagini che spaziano dagli studi isotopici dei fossili umani, morfolo-

gia dell’apparato digerente, encefalizzazione e fabbisogno energetico degli umani, teorie sulla raccolta del cibo, resistenza insulinica e studi sulle società di cacciatori e raccoglitori. Carnismo e ambiente Sono fuori dubbio i rapporti tra ambiente e alimentazione. La nostra specie ha sempre legato le proprie esigenze nutrizionali e le abitudini alimentari alle disponibilità dell’ambiente e del sistema naturale del quale è sempre stata parte integrante, che si trattasse di cibi di origine vegetale o animale, subendo anche i condizionamenti climatici. Diverse sono infatti le necessità nutrizionali e metaboliche delle popolazioni umane, a seconda delle latitudini in cui vivono: sub-sahariani, sahariani e nord-africani, europei mediterranei, centro-europei, scandinavi, lapponi,… Nella cultura mediterranea antica il ruolo della carne era molto importante, anche se i Greci (che accettavano il pesce) la consideravano un alimento poco nobile, tanto che gli atleti che gareggiavano a Olimpia si nutrivano di leguminose più che di carne. Sempre nel mondo greco antico, i seguaci di Pitagora non mangiavano carne, ma neppure fave. Nell’antico Egitto invece si mangiavano carni di maiale, bovino, ovino, e di volatili, oche, anatre, piccioni. I Romani mangiavano ogni tipo di carne, curando l’allevamento dei maiali come gli Etruschi. Nei secoli successivi, fino alla metà del XX secolo, il consumo di carne era considerato uno status symbol, privilegio dei ricchi; ai più poveri venivano lasciate le frattaglie e solo nei giorni di festa i più fortunati potevano disporre di carne

di piccoli animali: maiale, pecora, capra, pollame. Carne buona da mangiare Ogni cultura ha la sua carne o le sue carni. Per la nostra specie e quelle che l’hanno preceduta la carne per eccellenza era quella degli animali selvatici, che ha la caratteristica di essere molto magra. Ad esempio, ancora oggi le carni di cervo e daino hanno un contenuto di grassi pari all’0,8-1,2%. Inoltre, venivano cotte al fuoco vivo, un metodo che riduce ulteriormente i grassi, i quali sono stati associati alla carne soltanto quando l’uomo ha cominciato a utilizzare i tegami, inventando intingoli vari. Nel soddisfacimento della fame di carne, all’interno della cultura culinaria occidentale, la carne bovina ha un ruolo di primo piano. Anzi il bovino, assieme ad altri grandi ruminanti, in molte culture è in testa alle specie animali che l’uomo ha desiderato e desidera mangiare. Lo testimonia ad esempio il fatto che la sua testa è stata scelta come simbolo per identificare la prima lettera dell’alfabeto: aleph, da cui alfa, è il termine che identificava l’animale. Va comunque detto che, anche se la carne bovina è molto richiesta dalla nostra cultura, questo non significa che i concetti di “tipo” e “qualità” ad essa legati siano rimasti immutati nel tempo. Anzi, possiamo dire che oggi le richieste dei consumatori si sono modificate perché influenzate da nuovi stili di vita associati a condizioni di tipo gastronomico, culinario, salutistico e nutrizionale nel senso più ampio del termine. L’attuale richiesta di carne magra è stata oggetto di un’analisi

Tabella 1 – Caratteristiche alimentari delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori (Cordain L., Miller J.B., Eaton S.B., Mann N. et al., 2000) Società studiate

Alimenti animali Quantità %

Totale società

Energia %

Alimenti vegetali Quantità %

45-65

Energia % 35-55

73% delle società studiate

> 50

56-65

< 50

35-44

14% delle società studiate

< 50

54-35

> 50

56-65

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Carne rossa (photo © karepa - Fotolia).

Ippocrate di Coo raccomandava: “fa che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo”, dando consigli sull’uso delle carni: di capra ai saltatori, di toro a chi praticava la corsa, di maiale a lottatori e gladiatori. Rhazès, nel IX secolo, esortava: “quando potete guarire con la dieta, non prescrivete altri rimedi”

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in chiave evoluzionista da parte di Neil MANN1 e sull’argomento si è raggiunta l’evidenza scientifica che la carne di per sé e nell’ambito dello stile di vita dei paesi occidentali non costituisce un fattore di rischio sanitario, in particolare per le malattie cardiovascolari. Viceversa, esiste un rischio per un eccessivo uso alimentare di grassi, in particolare di quelli saturi, spesso associati alla carne degli animali prodotti dai moderni sistemi d’allevamento. Le ricerche di Mann dimostrano che diete con elevate quantità di carne rossa magra possono diminuire i livelli ematici di colesterolo, apportano significative quantità di acidi grassi della serie Omega-3 e sono una buona fonte di ferro, zinco e di vitamina B12. Carnismo e cultura Alcune religioni e taluni filosofi danno suggerimenti sugli alimenti e sull’alimentazione e sia la Bibbia che il Corano hanno precetti che escludono alcune carni o parti di queste, per esempio il sangue. La

medicina indiana ayurveda afferma, come FEUERBACH nel 1800, che l’uomo è ciò che mangia, perché il cibo influisce sul corpo e sulla mente modificandone il carattere. Oggi si tende invece a rovesciare questo concetto, intendendo che l’uomo si identifica con quello che mangia o esclude dalla sua alimentazione; così il cinese è tale in quanto mangia il cane e l’europeo perché non se ne ciba. IPPOCRATE DI COO (460÷370 a.C.) raccomandava: “fa che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo”, e dava consigli sull’uso delle carni: carni di capra ai saltatori, di toro a chi praticava la corsa, di maiale a lottatori e gladiatori. Rhazès, nel IX secolo, esortava: “quando potete guarire con la dieta, non prescrivete altri rimedi”. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma Nota 1. MANN N. (2000), Dietary lean red meat and human evolution, European Journal of Nutrition, Vol. 39, Issue 2, 71–79 pp.

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Sarebbero stati i Milanesi ad inventare la cotoletta L’origine della cotoletta è stata a lungo contesa, ma ora la verità sembrerebbe emergere grazie a un documento del 1134 esposto nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano di Nunzia Manicardi

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ra una disputa, quella tra Milanesi e Viennesi a proposito delle origini della cotoletta, che durava ormai da moltissimo tempo, ma adesso, a quanto pare, è stata risolta a favore dei Milanesi. I Viennesi sicuramente non accetteranno tale conclusione, tuttavia essa sembra essere comprovata da documenti storici pubblicati dallo storico ROMANO BRACALINI. Nel suo volume L’Italia prima dell’Unità (1815-1860),

al capitolo “Usi e costumi a tavola”, egli pubblica un documento risalente al 1134, e già citato da PIETRO VERRI nella sua Storia di Milano, che riporta la cronaca di un pranzo solenne di nove portate in cui, alla terza portata, comparivano lombos cum panitio, cioè “lombata di vitello impanata”. La cotoletta, quindi. I documenti citati dal Verri sono esposti al pubblico, dal dicembre 2013, nei locali adiacenti alla Ba-

silica di Sant’Ambrogio a Milano. La contesa risaliva, come già detto, a parecchio tempo fa, addirittura al periodo del maresciallo RADETZKY, che fu dapprima comandante militare e poi governatore austriaco del Lombardo-Veneto nella prima metà del 1800 e per oltre vent’anni. Si disputava se la cotoletta alla milanese fosse una versione della cotoletta viennese (Wiener-Schnitzel) appresa osservando l’operato dei

Cotoletta alla milanese. A differenza della cotoletta viennese, quella alla milanese è caratterizzata dalla presenza dell’osso ed è preparata con carne di vitello anziché di maiale (photo © vpardi – Fotolia).

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Lombata o carré di vitello, uovo e pangrattato: gli ingredienti per la cotoletta alla milanese (photo © www.aifb.it). cuochi dei reggimenti occupanti o se, al contrario, quest’ultima non fosse una variante della prima, introdotta in patria da Radetzky (che, va subito osservato, rimase a Milano fino al congedo all’età di ormai novant’anni, dopo di che continuò a risiedere alla Villa Reale della città lombarda. C’è anche da dire, però, che egli aveva sposato una STRASSOLDO, nobile friulana, i cui parenti andava a visitare durante i viaggi Milano-Vienna. E, a quanto ancora si narra, egli aveva ordinato al suo cuoco di imparare dai cuochi degli Strassoldo come cucinare la fettina impanata che poi si faceva confezionare a Vienna e a Milano con leggere varianti di contorno). È ovvio che tale contesa aveva anche e soprattutto carattere patriottico. Se così non fosse stato, essa non avrebbe neanche motivo di esistere, in quanto le due cotolette si differenziano parecchio pur avendo in comune una caratteristica fondamentale: quella di essere, ognuna di loro, il simbolo gastronomico della propria città (insieme, nel caso di Milano, al risotto e al panettone).

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La cotoletta alla milanese è costituita da una fetta di carne di vitello: carne con l’osso, poiché è tagliata nella lombata o nel carré. Viene poi passata nell’uovo (non salato! altrimenti poi l’impanatura si stacca), impanata (con pangrattato oppure con mollica di pane bianco, raffermo ma non vecchio) e fritta nel burro (meglio se chiarificato, cioè senza né caseina né acqua), che alla fine vi viene versato sopra. Per tenere “dieteticamente” più leggera la preparazione, è ormai invalso l’uso di sostituire il burro versato a fine cottura con il succo di fettine di limone che accompagnano il piatto stesso. L’osso della costoletta, detto anche manico, viene di solito ricoperto con carta stagnola per poterlo afferrare e spolpare senza sporcarsi le dita. Anch’esso, al momento della preparazione, deve essere accuratamente ricoperto di uovo e pangrattato. Con riferimento al tipo di taglio (“costa”) la cotoletta può indifferentemente essere chiamata anche costoletta. Gli esperti sostengono che solamente le prime sei costolette siano adatte all’impanatura, avendo la

giusta quantità di polpa e grasso che conferisce loro la corretta tenerezza per affrontare la cottura senza essere precedentemente battute a lungo (cosa, quest’ultima, che sarebbe sempre da evitare). Nella versione più tradizionale la cotoletta è piuttosto alta (almeno 3 cm) e, naturalmente, con l’osso, vicino al quale la carne, sempre morbida, deve acquistare un bel colore rosato. Negli ultimi anni si è diffusa una versione più sottile e senza osso in cui la carne viene battuta fino ad essere resa quasi trasparente per evidenziare ancora di più la golosa impanatura, assecondando i gusti di un pubblico poco competente (in quanto la carne in questo modo perde praticamente il sapore) ma molto godereccio (poiché la ricopertura risulta spessa e assai croccante). In quest’ultimo caso la cotoletta extra-large viene anche chiamata, per l’evidente somiglianza, orecchia d’elefante (in dialetto oreggia d’elefant). Un’ultima versione, preparata soprattutto nella stagione estiva, prevede di servire la cotoletta “extralarge” fredda, coperta da pomodori

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Venticinque anni di esperienza al servizio di un brand giovane e ambizioso: questo è Mr Cotoletta. Dalla trattoria Alla Colonna di Verona, dal 1979 punto di riferimento per gli amanti della cotoletta, deriva un minuzioso perfezionamento e un’inedita rivisitazione della ricetta tradizionale. La voglia di condividere il proprio know-how al di là dei confini regionali porta nel 2012 alla nascita di Mr Cotoletta, catena di negozi in franchising che si pone l’obiettivo di “portare nelle case la tradizione della vera cotoletta e le sue possibili riletture, senza compromessi qualitativi e mantenendo un processo artigianale”. Leggere, croccanti e asciutte, le cotolette di Mr Cotoletta vengono preparate al momento dell’ordinazione in laboratori dotati delle migliori attrezzature da uno staff altamente formato. Grande attenzione viene riservata alla scelta degli ingredienti, dalle carni fresche, allevate e macellate in Italia, al pane e pangrattato prodotti artigianalmente, alle uova fresche da filiera controllata, ecc… >> Link: www.mrcotoletta.it

A destra: la cotoletta italiana con pomodori, mozzarella fresca ciliegina e basilico di Mr Cotoletta (photo © www.fcmedia.it).

tagliati in pezzi sottili e rucola. Inutile dire che è da sconsigliare, in quanto i pomodori annullano la croccantezza dell’impanatura. La cotoletta alla viennese viene invece infarinata prima di essere passata nell’uovo, e questa è sicuramente la differenza maggiore. Poi la fettina di carne è sottile fin dall’origine, mentre quella alla milanese sarebbe, come abbiamo già visto, piuttosto alta. Inoltre, è senza osso, mentre quella tipica milanese ce l’ha. La frittura della viennese è nello strutto e non nel burro e per la carne si predilige il maiale pur non escludendo la noce di vitello, mentre quella milanese è esclusivamente di vitello. All’occhio queste differenze si notano pochissimo, anzi, ormai si sono annullate, ma in realtà all’assaggio — soprattutto dei palati più attenti — si sentono eccome. La Wiener-Schintzel viene tradizionalmente servita con lattuga e insalata di patate. Pratica comune è anche aggiungere al piatto una fetta di limone, da spremere

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sull’impanatura. La versione con la carne di maiale è più correttamente conosciuta con il nome di Schnitzel Wiener Art in Germania, oppure Wiener Schnitzel vom Schwein in Austria. Come ricorda GIOVANNI FANCELLO in un proprio articolo, esiste anche — a favore della primogenitura della milanese — una lettera del maresciallo Radetzky, indirizzata al suo aiutante di campo, conte ATTEMS, nella quale, tra l’altro, invia descrizioni precise sulla cotoletta milanese parlandone come di una scoperta. La preparazione, ricorda sempre Fancello, ha comunque storia antica perché, essendoci fra le prescrizioni dei medici medievali l’assunzione dell’oro quale antidoto alle malattie di cuore, diverse portate dell’epoca erano, anche se soltanto per pochi eletti, rivestite con polvere d’oro puro. Poi la volontà di estendere socialmente l’uso spinse i milanesi a sostituire la costosissima impanatura con il pane grattugiato, che dorava in frittura.

MAESTRO MARTINO DA COMO, nel suo manoscritto del 1492, detta precise indicazioni sul metodo dell’impanatura dei lombos cum panitio: “Poi mittila ordinatamente nel speto, et ponila al foco, et dagl’ilo nel principio ad ascio ad ascio, perché sia bello et bono arrosto se deve cocere pian piano; et quando ti pare che sia presso che cotto, piglia un pane bianco, et grattugialo menuto, et con esso pane mescola tanto sale sopra lo arrosto in modo che ne vada in ogni loco; poi dalli una buona calda de foco, facendolo voltar presto; et in questo modo haverai el tuo arrosto, bello, et colorito. De poi mandalo in tabula; quanto più presto, è meglio”. Perciò, anche se poi a dominare politicamente e fisicamente sarebbero stati gli Austriaci, e pure sul territorio italiano, l’antichità di questi documenti e delle fonti sottostanti dimostra ancora una volta quanto sia, al contrario, vasto il patrimonio che il mondo della gastronomia deve al nostro Paese. Nunzia Manicardi

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LIBRI

Il piacere della tavola Un cammino esperienziale in sessanta tappe per indagare, conoscere e, soprattutto, imparare ad apprezzare i piaceri della tavola e della gastronomia

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re sono gli aforismi del più celebre gastronomo di tutti i tempi, JEAN ANTHELME BRILLATSAVARIN, che celebrano il piacere della tavola. Il primo afferma che questo piacere è di tutte le età, di tutte le condizioni sociali, di tutti i paesi e di tutti i giorni, può associarsi a tutti gli altri piaceri e resta ultimo a consolarci della loro perdita. Il secondo aforisma dice che il piacere di mangiare è il solo che, preso modestamente, non è seguito da stanchezza. Infine il terzo, forse il più celebre, dichiara che la scoperta di un nuovo manicaretto fa per la felicità del genere umano più della scoperta di una stella. Affermazioni pienamente condivisibili e che oggi devono essere completate da approfondimenti, perfezionamenti e ammodernamenti, perché il mangiare e soprattutto l’idea che abbiamo di

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questa essenziale funzione cambiano con le società e i tempi. In questa linea si pone una recente pubblicazione di GIOVANNI BALLARINI intitolata Il piacere della tavola, con la prefazione di GIACOMO RIZZOLATTI (Diabasis, Parma, 2016). Entrambi sono professori presso l’Università di Parma, il primo da diversi decenni antropologo alimentare e il secondo neuro-scienziato e celebre scopritore dei “neuroni specchio”. Un’associazione a prima vista strana, ma tale non è, considerando che il piacere è una funzione soprattutto cerebrale. Se sono i sensi che percepiscono, è il cervello che li elabora, anche in base alla memoria, trasformandoli in senso di disgusto, gusto e piacere. Tre sono le pulsioni umane che si collegano al cibo affrontate da

Giovanni Ballarini: paura, piacere e potere, che si riflettono anche nell’alimentazione, in tutte le sue espressioni. La paura del cibo e il cibo come potere sono strettamente legati al piacere del cibo, in tutte le sue manifestazioni; per questo deve essere esaminato e conosciuto. Il piacere del cibo, un vizio contro il quale si scagliavano le religioni, oggi sostituite dalle scienze mediche più miopi e tecnologicamente restrittive, è una dimensione che raccoglie un’infinita varietà di elementi, costitutivi di un’umanità che, unica tra tutte le specie, ha inventato la cucina portandola ai livelli di una gastronomia che, in quanto arte, deve dare piacere. Conoscere i piaceri dei cibi e della cucina, con le sue regole e miti, è riportare la cucina e la gastronomia

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ai loro ruoli costitutivi di una Civiltà della tavola. L’alimentazione è un atto sociale oggi messo in crisi dall’industrializzazione alimentare, dal progressivo decadimento di rapporti della società urbana con l’ambiente dal quale originano i cibi, dalla progressiva ignoranza, anche simbolica, dell’alimentazione quale elemento d’identificazione personale e sociale, ma soprattutto dall’aver perso molte delle dimensioni del piacere dei cibi, della cucina e della tavola. Molti sono i piaceri del cibo ricordati nel libro di Giovanni Ballarini. Mangiare non è tanto un atto agricolo (WENDELL BERRY) quanto un gesto ecologico, politico e soprattutto sociale, e i piaceri del cibo sono aumentati dalla conoscenza (MICHAEL POLLAN) dei suoi mille significati, ognuno dei quali diventa occasione di piacere. In proposito se ne ricordano i principali. Il cibo è nutrimento e se è equilibrato, buono, sano, lo saremo anche noi. Può essere buono “per noi”, goloso e gustoso, e buono “per l’ambiente”, biologico. Il cibo è tradizione e nei piatti tipici e tradizionali si conserva una parte della cultura di un popolo, di una regione, e si tramandano antichi saperi. Il cibo è amicizia e la sua offerta è il primo

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gesto di simpatia, se non familiarità, in ogni parte del mondo, e diviene gioia quando lo si condivide con le persone che abbiamo vicino. Il cibo è ritrovarsi e per una famiglia, sempre più spesso “allargata”, il momento del pranzo e quello della cena sono l’occasione per riunirsi. A tavola, insieme con le pietanze, si incontrano, si consumano e si eliminano, con gesti conviviali, i piccoli impacci, le ruvide cortesie, gli sbalzi di nervosismo, le storie degli invitati. Il cibo è festa e non si può pensare a nessuna occasione di festeggiamento, in tutti i luoghi, all’aperto e a casa, senza una tavola curata, più o meno ricca a seconda del numero e del tipo di portate, comunque immaginate e preparate con soddisfazione e gioia. Il cibo è socialità e approfondimento di rapporti collettivi, e quando, per motivi di lavoro, ci si ritrova attorno a una tavola, si è più franchi, schietti, è più facile comunicare e lasciarsi andare. Il cibo è piacere, è uno dei godimenti della vita: un piatto fumante, con i suoi profumi allettanti, soddisfa il nostro appetito e ci appaga. Il cibo è un rito quasi liturgico. L’attenzione nel preparare la tavola, la cura nel cucinare i piatti preferiti sono momenti preziosi da ritagliarsi come antidoto alla odierna frenesia

GIOVANNI BALLARINI Il piacere della tavola Diabasis, Parma, Collana: I sensi, 2016 – pp. 222 – € 18,00 e da pensare come gesti per prendersi cura di sé. Il cibo è una coccola, dal vol-au-vent dell’antipasto al cioccolato e cognac del dopo-pasto. Il cibo è un atto sensuale, il miglior preliminare all’intimità, con tutti gli “ingredienti” giusti: l’atmosfera, i sapori, i gesti e… l’amore. Nota Photo © Rawpixel.com – Fotolia.

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La qualità si fa strada Questo libro mira a far emergere le potenzialità di un settore, quello dello street food, che intreccia la propria identità a quella dei luoghi, delle città, del made in Italy

È

disponibile in formato cartaceo e iBook il nuovo libro sul marketing digitale dello street food italiano scritto da MAURO ROSATI e MIHAELA GAVRILA con la prefazione di ALBERTO MATTIACCI, professore ordinario di Economia e Gestione delle Imprese alla Sapienza di Roma nonché presidente Società Italiana Marketing, edito dalla FONDAZIONE QUALIVITA. La qualità si fa strada. Street food – Nuova gastronomia e marketing digitale, propone indicazioni sulle strategie di marketing digitale e alcune linee guida concrete sulla comunicazione on-line veicolata dai social media. Il volume ripercorre l’evoluzione del settore, partendo dal suo debutto nei mainstream media, fino alla sua declinazione secondo le nuove re-

gole dei media digitali, dando vita al primo manuale di marketing digitale, pensato per gli operatori della gastronomia di strada. La narrazione offre una fotografia del panorama nazionale attraverso numeri, prodotti e storytelling mass mediatico affrontando molti temi specifici. Tra questi il marketing digitale con indicazioni per una strategia efficace con ampio spazio alla comunicazione social attraverso analisi e linee guida per i social network come chiave di successo on-line. Un focus è dedicato all’elemento distintivo dello street food made in Italy: la materia prima di qualità, in particolare ai prodotti agroalimentari certificati DOP e IGP. Chiudono il racconto le storie di successo made in Italy: attraverso il racconto e l’analisi dei

migliori street chef e delle best practice nazionali che hanno cavalcato con successo l’onda del marketing e della comunicazione digitale di settore. Per Alberto Mattiacci, «questo libro è un viaggio culturale e sensoriale che svolge un pioneristico scouting della qualità agroalimentare nazionale. Da anni è in corso una trasformazione nel food: sono cambiati il lessico, il “palato”, la geografia e la sua morfologia economica, ed è arrivata la rete, con la globalizzazione tecnologica. Noi cerchiamo regole e modelli che, analizzando le best practice, cercano di capire se funzioneranno nel futuro. Resta la certezza che il panorama dell’alimentare odierno appare del tutto irriconoscibile, agli occhi di un ipotetico osservatore del passato».

Lo street food in Italia è sinonimo di prodotto di qualità: molti sono quelli certificati Dop e Igp (photo © 8 magdal3na – Fotolia).

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Secondo CARLO ALBERTO PRAprofessore di Economia e Gestione delle Imprese, Università Roma Tre, «rinnovata passione per gli aspetti esperienziali e identitari del cibo; rilancio delle metropoli come luoghi di contaminazione creativa; auto-imprenditorialità (anche come risposta alla crisi); maggiore consapevolezza del valore della diversità biologica e culturale: sono questi i quattro trend che fanno dello street food quel piccolo “rinascimento” alimentare che ci accompagnerà per i prossimi decenni». «Abbiamo cercato di guardare il fenomeno del cibo di strada al di là degli aspetti puramente gastronomici, allargando la nostra ricerca al settore del marketing e a quello della qualità con l’obiettivo di tracciare una prima ricognizione sullo sviluppo di questa nascente attività economica» dichiara uno

TESI ,

MAURO ROSATI – MIHAELA GAVRILA La qualità si fa strada – Street food Nuova gastronomia e marketing digitale Edizioni Qualivita 197 pp. – € 20,00

degli autori, Mauro Rosati. «Business family, sostenibilità, storytelling, creatività, tradizione e socializzazione sono alcune delle parole chiave riconducibili a questo clamoroso boom di attività street food nel nostro Paese». «C’è un’Italia che cambia e che a fronte delle difficoltà reagisce con la creatività — conclude Mihaela Gavrila — non a caso questo libro mira a far emergere le potenzialità di un settore come quello dello street food, che intreccia la propria identità a quella dei luoghi, delle città, del made in Italy. I casi di successo riportati e la mappa delle opportunità fornita dal libro dimostrano che le tecnologie digitali costituiscono alleati strategici per amplificare la voce di soggetti come i locali di street food, altrimenti destinati a rimanere invisibili o comunque meno noti dei loro competitor della ristorazione tradizionale».

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dall’antica cura norcina italiana che nasce la nuova Guida I Salumi d’Italia 2017 de L’ESPRESSO, perché nessun altro Paese al mondo può vantare la varietà e la qualità dei salumi che le nostre regioni offrono. I salumi sono stati valutati sulla base di degustazioni sensoriali realizzate da degustatori esperti e appassionati. Le valutazioni espresse si sono tradotte in voti con il simbolo del tradizionale “spillo” d’osso di cavallo: da tre “spilli” per i “salumi gradevoli e di buona esecuzione” a cinque per le “eccellenze”. «Una guida che rende giustizia ad un ambito, quello della salumeria, che ha natali antichissimi e nobili, per troppo tempo banalizzato e svilito da produzioni di bassa lega e da campagne che puntavano a standardizzare e a omologare, e da cui la ristorazione non si è ancora del tutto sdoganata», ha commentato dal suo blog il giornalista enogastronomico

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LUCA BONACINI. «Godetevi questa guida come un viaggio, portatela con voi in valigia o in treno, lasciatevi inebriare da quei profumi di buono, e da quell’acquolina che sprigionano le immagini e i testi, e fatene un vademecum a questa Italia da scoprire, fatta di luoghi straordinari e di piccolissimi e solitari produttori, che tengono alta la bandiera della qualità e dell’unicità. Una guida dove convivono produttori medi, che lavorano bene e raggiungono i cinque continenti, e piccolissimi, che orgogliosamente resistono; grandi classici e outsider, che punteggiano il testo della Salumi 2017, condensato del mandato esplorativo di più di 20 degustatori professionali: tecnici alimentari, sommelier professionisti, chef stellati e giornalisti enogastronomici, provenienti dalla regione di riferimento dei prodotti, impiegati in lunghi e accurati tasting».

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