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cap.6 • Il racconto delle Termopili

Capitolo 6

Il racconto delle Termopili

«Noi Greci» iniziò Nikolaos versando del latte di capra appena munto, «siamo conosciuti per aver fondato città bellissime e indipendenti, veri e propri stati, orgogliose della libertà conquistata e ricche di templi e sculture dalle forme perfette».

«Le pòleis, le città-Stato» lo interruppe Lorenzo.

«Proprio così. Purtroppo però, esse hanno spesso combattuto tra di loro, scatenando guerre sanguinose. Tuttavia, ogni volta che un pericolo esterno ha minacciato la Grecia, siamo riusciti a superare le rivalità e abbiamo affrontato il nemico uniti».

«Come fate, voi iloti, schiavi degli spartani, a sentirvi legati a loro, che vi sfruttano e umiliano?» chiese Adriano.

«Abbiamo le stesse origini, parliamo la stessa lingua, crediamo negli stessi dèi. E anche se non dimentichiamo mai la nostra condizione di sottomessi, quando si tratta di difendere la Grecia ci sentiamo Greci» affermò l’uomo stringendo i pugni.

«Come in occasione delle Guerre persiane» suggerì Lorenzo addentando un altro fico.

«Proprio così. Quando l’esercito del grande Re Dario occupò le nostre città dell’Asia Minore spingendosi nel cuore della Grecia, le città greche si unirono e, insieme, lo sconfissero nella battaglia di Maratona».

«Quella di Filippide!» esclamò Camilla.

«Esatto. Al termine di quella celebre battaglia, Filippide fu incaricato dal capo dell’esercito greco di avvertire gli ateniesi del successo ottenuto. Il giovane militare corse la distanza che separava Maratona da Atene, migliaia e migliaia di piedi, senza fermarsi mai».

«Più di 42 chilometri! Una distanza enorme per un uomo!» esclamò Lorenzo, il ragazzo più pigro della scuola.

«Già, e dopo aver gridato l’annuncio del trionfo ai suoi concittadini, Filippide cadde a terra morto». «Che storia commovente…» sospirò la ragazza.

«Passarono gli anni» continuò il suo racconto Nikolaos, «i Greci dimenticarono la loro alleanza. I Persiani, al contrario, non scordarono quella umiliazione. Così il Re Serse, figlio di Dario, mise insieme, per vendicare la sconfitta del padre, la più grande armata che il mondo avesse mai visto.

Ancora una volta, anche se con difficoltà, le città greche raggiunsero un accordo e decisero di affrontare unite il nemico. Ma occorrevano informazioni precise sulla potenza militare persiana. Allora pensarono di inviare delle spie.

Una missione quasi impossibile che richiedeva coraggio, prudenza e conoscenza delle terre dove i Persiani stavano organizzando la loro armata. Per questo scelsero due uomini di grande valore ed esperienza: un ateniese e uno spartano, il padre del mio attuale padrone, che mi volle con sé. Così, in una notte sbarcammo a Efeso, in Asia Minore».

Lorenzo ascoltava con attenzione, senza però rinunciare a una fetta di pane d’orzo e miele.

«Ci allontanammo subito da Efeso per non farci scoprire» continuò l’uomo, «e risalimmo il corso di un fiume per raggiungere un’altra città di nome Sardi. Lì ci accorgemmo che, stranamente, nonostante la vegetazione non mostrasse segni di siccità, il livello del fiume era notevolmente al di sotto dell’argine naturale.

Non ci crederete, ragazzi, ma tutta l’acqua che mancava era servita per dissetare l’immenso esercito persiano. Presto, infatti, da un’altura avvistammo l’armata di Serse.

Era una distesa sterminata di uomini provenienti da mezzo mondo: soldati chiari di pelle e soldati scuri, fanti e arcieri persiani, ma anche truppe africane in groppa a cammelli ed enormi animali mostruosi dalle grandi orecchie e con una specie di coda tra gli occhi. La terra tremava al marciare di questa marea umana» disse l’uomo preso dal suo racconto.

«Hai visto anche il Re Serse?» domandò Camilla, che non aveva mai smesso di prendere appunti.

«Sì, e mi colpì subito la sua lunga barba intrecciata. Era seduto su un trono sorretto da cento schiavi e circondato dalla sua guardia personale: i diecimila immortali!»

«Gli immortali!» esclamarono i ragazzi.

«Era un corpo di fanteria di diecimila uomini. Quando qualcuno di questi veniva ucciso o ferito gravemente, era subito sostituito. Così, risultavano sempre in diecimila, dando l’impressione di essere immortali. Comunque... noi avevamo visto abbastanza, e il mio padrone decise che era arrivata l’ora di tornare in patria passando per l’Ellesponto. Ora vi faccio vedere dove si trova» disse iniziando a disegnare con un bastoncino sul terreno.

«Ecco, ragazzi, questa è l’Asia Minore e questa è la Grecia. Qui c’è il mar Egeo, qui il mare di Marmara e questo è l’Ellesponto.

«Proprio qui» riprese l’uomo, «vidi uno spettacolo impressionante: settecento navi erano state messe fianco contro fianco per creare un ponte che univa le due sponde dello stretto, permettendo all’esercito persiano di passare da una parte all’altra.

Non fu facile trovare un pescatore disposto a farci attraversare lo stretto. Erano tutti terrorizzati dai Persiani. Ma alla fine ci riuscimmo e avanzammo verso sud, prima in Macedonia, e poi in Tessaglia».

«Deve essere stata una marcia molto faticosa…» rifletté Adriano.

«Faticosa e soprattutto pericolosa, ragazzo mio. Il rischio di essere catturati ci tormentava di giorno e ci toglieva il sonno di notte. Solo dopo settimane di cammino rivedemmo l’amata Grecia» sospirò Nikolaos, bevendo un sorso di latte.

«E poi? Continui, la prego…» disse Camilla.

«Proprio quando pensavo di aver raggiunto la salvezza» affermò l’uomo con lo sguardo di chi non ha dimenticato la paura «vissi l’avventura più tragica, ma anche più esaltante, della mia vita. Alle Termopili incontrammo Leonida».

«Leonida!» ripeté con ammirazione Lorenzo.

«Sì, proprio lui. Leonida con i suoi Trecento

guerrieri. Ericleo, il mio padrone, gli raccontò subito quello che avevamo visto con i nostri occhi, e cioè l’immensa potenza militare persiana, e gli chiese perché con lui non ci fossero il resto dell’esercito spartano e almeno una parte di quello ateniese».

«Già. Perché Leonida era stato lasciato solo con i suoi trecento spartiàti a combattere contro l’armata più numerosa della storia?» domandò Adriano.

«Perché a Sparta» rispose l’uomo «si stavano svolgendo i festeggiamenti in onore di Apollo, che proibivano di dichiarare guerra, mentre gli ateniesi erano fermi con le loro navi a capo Artemisio. Comunque, i Greci non erano solo trecento. C’erano anche Arcadi, Corinzi, Cretesi… forse un esercito di sei, settemila uomini. Sempre una nullità rispetto ai 300.000 soldati di Serse».

«È vero che i Persiani si vantavano di poter oscurare il cielo con le loro frecce?» chiese Camilla.

«Certo. E qualcuno rispose: meglio, così combatteremo all’ombra».

«Che coraggio, ragazzi!» esclamò Camilla.

«La pianura sotto di noi era diventata un unico grande accampamento. I Trecento si preparavano

alla battaglia facendo ginnastica e pettinandosi i lunghi capelli. Per quattro giorni non accadde nulla, poi il quinto giorno Serse mobilitò le sue truppe».

«Perché non attaccò subito?» chiese Adriano.

«Perché desiderava la nostra resa. Voleva umiliarci. Il re dei Persiani, infatti, mandò un messaggero a intimarci di arrenderci. Il rifiuto del grande

Leonida fu sprezzante. Così ebbe inizio l’inferno.

Migliaia di soldati nemici si scagliarono contro la falange spartana, un muro di scudi e lance, agile e potente. L’impatto fu tremendo. La forza d’urto dell’esercito persiano fece arretrare i Trecento, che furono trascinati verso la gola delle Termopili. Sembrò che tutto potesse finire in quel momento. Poi, però, iniziò la riscossa.

La falange si mosse come un unico organismo, come una gigantesca macchina da guerra. Loro erano tanti, ma disordinati e molto meno preparati. Furono quindi respinti e infine costretti alla ritirata. Di lì a poco ci fu un nuovo attacco. Questa volta Serse mandò avanti i suoi diecimila immortali.

Erano sì, più addestrati degli altri soldati persiani, ma non abbastanza. Così anche loro furono respinti dai guerrieri di Leonida e prima di sera gli immortali vennero sterminati».

«Anche lei ha preso parte alla battaglia?» domandò Camilla.

«Certo. Il mio padrone Ericleo, pur essendo un soldato valoroso, non aveva più l’età per combattere a fianco di Leonida. Così ci destinarono alla testa delle truppe greche che seguivano i Trecento. La seconda giornata di battaglia iniziò bene per noi. Ondata dopo ondata l’esercito più potente e

numeroso del mondo si infranse sugli scudi della falange. La sera risultammo di nuovo vincitori, ma la stanchezza e la convinzione di non poter resistere ancora a lungo iniziarono a farsi sentire.

Poi un soldato annunciò la fine. Un pastore di nome Efialte aveva mostrato a Serse un passo di montagna che aggirava le Termopili. Presto i Persiani ci avrebbero accerchiati. Allora Leonida invitò tutti a nutrirsi abbondantemente, perché la sera, disse, avremmo sicuramente raggiunto l’Ade».

«L’Ade, il regno dei morti!» esclamarono impauriti i quattro ragazzi.

«Sapendo che tutto era perduto la furia raddoppiò, e sembrò che potesse verificarsi il miracolo di una nostra vittoria.

Ma presto arrivarono gli arcieri che Serse aveva mandato per circondarci. Una nuvola di frecce si abbatté sui nostri soldati. Leonida cadde. E poi caddero a uno a uno tutti gli altri spartani che ci precedevano e che disperatamente, con una rabbia e un coraggio mai visti, avevano difeso fino all’ultimo il loro re.

Anche io venni ferito da una spada persiana. Mi colpì qui, dove c’è questa cicatrice. Svenni, destinato a morte sicura. Ma, per volontà di Zeus,

un oplon, il grande scudo degli Opliti, i soldati spartani, mi coprì nascondendomi al nemico.

Mi risvegliai dopo più di un giorno, quando i Persiani avevano già abbandonato il campo di battaglia. Così, nonostante la ferita, riuscii a fuggire lontano. Ero affamato, debole e disperato. Quando ormai avevo perso ogni speranza di farcela, incontrai un contadino, di nome Alexis, che si prese cura di me e mi salvò la vita. Per questo motivo anche lui si chiama così» disse guardando il figlio. Poi lo abbracciò forte, concludendo con questa tenerezza il racconto della sua terribile avventura.

«Ma come finì la guerra?» chiese Camilla.

«A questa domanda» intervenne Lorenzo, «posso risponderti io. Superate le Termopili, i Persiani giunsero facilmente ad Atene e la distrussero. Per fortuna gli ateniesi avevano già abbandonato la loro città rifugiandosi sull’isola di Salamina, protetta dalla loro flotta. Proprio lì di fronte, in uno stretto spazio di mare, le navi persiane, pesanti e poco agili, nonostante fossero tantissime, vennero affondate da quelle meno numerose, ma molto più agili, degli ateniesi. Così i Greci, uniti, sconfissero il nemico!»

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