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Marcovaldo al supermarket
Durante il giorno tutta la popolazione era presa dalla smania di produzione, poi, come scattasse un interruttore, smetteva di produrre e tutti giù a consumare. Alle sei della sera il fiume di consumatori, finito di lavorare, si riversava fuori e un’interminabile fila avanzava agitata ognuno mosso da altrui gomitata. Una di queste sere di consumo ad oltranza, Marcovaldo portò in giro moglie e figliolanza, ma, siccome non aveva un solo quattrino, non poteva comprare nemmeno un salamino. Però era lo stesso piacevole e divertente vedere fare spese tutta quella gente: decise quindi di portarli al supermercato, un luogo che lo aveva sempre affascinato. Ognuno lì spingeva contento il suo carrello, riempiendolo fino all’orlo di questo e quello: anche Marcovaldo volle provar l’ebrezza, e così prese un carrello con naturalezza. Pure Domitilla e i suoi quattro bambini si misero a spingere quei grandi cestini, e uno dietro l’altro, come in processione, se la spassavano in questo luogo di attrazione. Tra i banchi stipati di prodotti alimentari facevano percorsi lineari e circolari, indicando formaggi, biscotti e cioccolate, come riconoscessero persone tanto amate. Se hai il carrello vuoto e gli altri sono pieni, ti prende un’invidia che non ti trattieni; allora Marcovaldo, con gesto incontrollato, prese una scatola dopo essersi allontanato. Lontano dalla vista della sua famiglia, si lasciò andare e si unì a quel piglia piglia, per riempire anche lui il suo carrello e godere un po’ di quel momento bello. Il sugo, gli spaghetti e i ditali, poi avrebbe rimesso tutto negli scaffali: fingendo di essere come tutte quelle persone, avrebbe provato gratis quella sensazione. Guai se i bambini lo avessero scoperto! Perciò Marcovaldo avanzava circospetto; e, con il carrello colmo di mercanzia, arrivò a un tratto dove finiva la corsia.
Si ritrovò da solo col carrello straripante in una situazione a dir poco sconfortante: con tutti questi giri finì dritto alla cassa, così iniziò a correre a testa bassa.
Vide Domitilla proprio in quel momento che spingeva un carrello pieno da spavento e coi carrelli carichi come bastimenti, arrivarono a uno a uno pure i figli contenti. Gli altoparlanti intimavano ai consumatori di affrettarsi alla cassa e recarsi fuori: il supermercato era in chiusura e Marcovaldo stava morendo di paura. Era il momento di disfarsi di quel carico, seppure con tantissimo rammarico: riposero a casaccio la mercanzia, a volte pure nel carrello di chi andava via. Privarsi di tutto senza averlo assaporato era un dolore che non può esser sopportato: perciò lasciavano un barattolo di maionese e ne prendevano uno di pesto alla genovese. Così facendo i carrelli erano sempre pieni ed era un continuo, interminabile andirivieni, un salire e scendere per le scale rotanti: sembravano bestie in gabbia scalpitanti. Ad un tratto, oltrepassarono un’apertura e si trovarono su un’altissima impalcatura: sotto s’apriva la città di luci sfavillante e con quel peso la struttura era traballante. Dal buio avanzò un’ombra gigantesca con un’enorme bocca a dir poco animalesca che sporgeva da un lungo collo di metallo: era una gru, su un robusto piedistallo. Si calò su di loro e si fermò alla loro altezza e a Marcovaldo sembrò l’unica salvezza, rovesciare dentro quelle fauci di metallo tutta la merce che era dentro il suo carrello.
Fecero lo stesso Domitilla e i bambini e la gru ingoiò in un lampo i loro bottini; tirò indietro la testa e si girò dall’altra parte: sotto era tutto un gioco di luminose scritte. Insegne multicolori a intermittenza sono l’invito a comprare in abbondanza: ma a chi come Marcovaldo non ha denaro rendono lo stare al mondo ancor più amaro.