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La pioggia e le foglie

La pianta, unico segno del regno vegetale in un ambiente freddo e innaturale, era per Marcovaldo, in ogni istante, un pensiero fisso e dominante. Stava in un vaso all’ingresso della ditta e si ergeva, da quello, esile e dritta: era una pianta a forma di pianta e a guardarla sembrava quasi finta. Con l’amore e la cura che si dà a un bambino, Marcovaldo la innaffiava ogni mattino e assolvendo a questa sua incombenza notava in essa nuovi segni di sofferenza. Sgomberava dalle foglie cadute il pavimento, provando in cuore un senso di tormento: in quell’arbusto che ingialliva allampanato vedeva un fratello come lui sfortunato.

Nelle giornate di pioggia fitta e silenziosa, lasciando da parte ogni altra cosa, correva alla pianta e la portava all’esterno prendendola in braccio con istinto materno. La pianta si espandeva a più non posso nel sentir l’acqua scorrerle addosso e prendeva più forza e più colore o così appariva a Marcovaldo per amore. Pensò che era ingiusto lasciarla rinchiusa e, finito l’orario, se la portò a casa: attraversò la città sotto la pioggia dirotta con quella pianta dietro di lui in motoretta. Ora che non stava più in un seminterrato e il tenore di vita era migliorato, nella mansarda, col davanzale sul tetto, per la pianta c’era un posto perfetto. Quando aprì la porta col vaso tra le braccia, i figli lo accolsero col sorriso in faccia “L’albero di Natale!” urlarono emozionati e Marcovaldo e la pianta furono circondati. Marcovaldo disse che non era certo il tempo, dell’albero di Natale non era il momento, mentre Domitilla, in modo meno esultante, si lamentava dello spazio insufficiente. Marcovaldo rassicurò la moglie preoccupata dicendo che la pianta l’avrebbe sistemata sul davanzale per prendere aria e pioggia da quando il sole tramonta a quando albeggia. Prima che la pianta entrasse nella sua vita, considerava la pioggia nemica agguerrita: ora tendeva l’orecchio a quel suono come se fosse il più grande e bel dono.

La pianta crebbe in maniera smisurata: si era infoltita, allungata e allargata. Scese le scale col vaso stretto al petto e col ciclomotore in ditta andò diretto.

Pensò di sistemarla di nuovo nel cortile dato che la pioggia cadeva ancor sottile e chiamò Viligelmo, capo magazziniere, perché quel miracolo potesse anche lui vedere. Era sabato e l’indomani era vacanza; così Marcovaldo, senza alcuna titubanza, decise di riportar la pianta a casa perché si prevedeva una domenica piovosa. Giacché pioveva, prima di rincasare, pensò di stare un po’ a gironzolare sotto la pioggia, con la pianta eretta sul portapacchi della sua motoretta. Il lunedì entrò in ditta senza la pianta e Viligelmo gli pose una domanda: alquanto minaccioso e preoccupato, gli chiese se qualcosa avesse dimenticato. Marcovaldo lo condusse fuori dalla ditta e gli mostrò la pianta enorme e dritta: era ormai un albero alto quanto due piani, sembrava uno di quei baobab africani. Il capo allora andò su tutte le furie e lo sommerse di rimproveri e ingiurie: per le sue azioni superficiali e contorte, adesso la pianta non passava più dalle porte. Marcovaldo propose una soluzione: cambiarla con una di minore dimensione. Così, col furgoncino che si era procurato, al vivaio quel “baobab” avrebbe trasportato. Però gira e gira non ebbe il cuore di separarsi dal suo grande amore: da nessuno, in tutta la sua vita, aveva avuto quella generosità infinita. Ma, dopo quello sforzo di crescita irruente, la pianta, sfinita, si spogliava lentamente. Le foglie gialle volavano al vento, sospese a mezz’aria: dieci, cinquanta, cento. L’ultima foglia gialla, sulla pianta nuda, lo riportava alla sua solita realtà triste e cruda. E poi volò anch’essa diventando arancione, rossa, violetta, azzurra e sparì dalla visione. A tutti noi a volte cadono le foglie e c’è qualcuno, spesso, che le raccoglie, per cura, amore o con altro intento, ma poi ricrescono, non è mai un fallimento.

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