Autunno
la pioggia e le foglie a pianta, unico segno del regno vegetale in un ambiente freddo e innaturale, era per Marcovaldo, in ogni istante, un pensiero fisso e dominante.
L
Pensò che era ingiusto lasciarla rinchiusa e, finito l’orario, se la portò a casa: attraversò la città sotto la pioggia dirotta con quella pianta dietro di lui in motoretta.
Stava in un vaso all’ingresso della ditta e si ergeva, da quello, esile e dritta: era una pianta a forma di pianta e a guardarla sembrava quasi finta.
Ora che non stava più in un seminterrato e il tenore di vita era migliorato, nella mansarda, col davanzale sul tetto, per la pianta c’era un posto perfetto.
Con l’amore e la cura che si dà a un bambino, Marcovaldo la innaffiava ogni mattino e assolvendo a questa sua incombenza notava in essa nuovi segni di sofferenza.
Quando aprì la porta col vaso tra le braccia, i figli lo accolsero col sorriso in faccia “L’albero di Natale!” urlarono emozionati e Marcovaldo e la pianta furono circondati.
Sgomberava dalle foglie cadute il pavimento, provando in cuore un senso di tormento: in quell’arbusto che ingialliva allampanato vedeva un fratello come lui sfortunato.
Marcovaldo disse che non era certo il tempo, dell’albero di Natale non era il momento, mentre Domitilla, in modo meno esultante, si lamentava dello spazio insufficiente.
Nelle giornate di pioggia fitta e silenziosa, lasciando da parte ogni altra cosa, correva alla pianta e la portava all’esterno prendendola in braccio con istinto materno.
Marcovaldo rassicurò la moglie preoccupata dicendo che la pianta l’avrebbe sistemata sul davanzale per prendere aria e pioggia da quando il sole tramonta a quando albeggia.
La pianta si espandeva a più non posso nel sentir l’acqua scorrerle addosso e prendeva più forza e più colore o così appariva a Marcovaldo per amore.
Prima che la pianta entrasse nella sua vita, considerava la pioggia nemica agguerrita: ora tendeva l’orecchio a quel suono come se fosse il più grande e bel dono.
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